GUERRA ALLA PACE in terra santa

Dire
Gerusalemme è dire terra santa, e viceversa. Gerusalemme oggi è, più che
mai, di drammatica attualità: occupa ampi spazi sulla stampa e sul piccolo
schermo, a causa del sanguinoso conflitto israelo-palestinese.


Gerusalemme è sempre stata di attualità, fin da quando Dio la scelse come
luogo di incontro e dialogo con gli uomini. A Gerusalemme «tutti sono
nati… e l’Altissimo la tiene salda» (Sal 87, 4-5). Quel «tutti» contiene
una carica ecumenica di respiro universale. Gerusalemme appare come radice
di armonia e unità fra le genti. Sul libro della storia, curato da Dio,
«tutti» sono gli uomini e i popoli che Egli registra come cittadini di
Gerusalemme.

Il
carattere peculiare di Gerusalemme è l’universalità. E non è un tratto
immaginario, ma reale. Basti ricordare il ritornello ebraico, che ha
sfidato i secoli: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Basti ricordare
l’affetto dei cristiani per la città santa, concretizzato nel
pellegrinaggio… e il fatto che, perfino fra le montagne
dell’Afghanistan, la foto di Gerusalemme è appesa con devozione alle
pareti delle case musulmane.


Gerusalemme, l’universale, fa sì che la comunità mondiale vi si riconosca
in un modo o nell’altro: interessa non solo chi vi trova una specifica
fede religiosa, ma anche chi vede in essa un riferimento a valori umani
fondamentali.

Se Assisi
affascina e coinvolge per la soffusa e penetrante spiritualità,
Gerusalemme seduce e attira per il mistero. Un mistero che perdura tutt’oggi
e che fa pensare al Deus absconditus (Dio nascosto).

Mi ritorna
in mente l’incontro, di qualche anno fa, con una giornalista svedese.
Aveva partecipato ad un congresso di archeologia a Tel Aviv, al termine
del quale effettuò una rapida escursione a Gerusalemme. E capitò che, nel
dedalo di viuzze della città vecchia, la giornalista avesse smarrito la
strada al suo hotel. Io, per caso, passavo di lì; lei mi pregò di
indicarle la via dell’albergo. L’accompagnai fino alla Porta di Damasco.
Cammin facendo, mi confidò che, essendo nata in una famiglia atea, non era
credente. «Però ho letto molto su Gerusalemme – disse -; ora sono qui e
avverto (non so perché) che qualcosa mi attira come una potente calamita.
Dovrei prendere l’aereo questa sera, ma non partirò; c’è qualcosa di
strano qui che mi sollecita a cercare, indagare e approfondire il mistero
di Gerusalemme, che mi tocca l’anima».

Ci
salutammo. Due anni dopo mi scrisse per annunciare che aveva ricevuto il
battesimo.


 Gerusalemme, che secondo un’etimologia popolare sarebbe la «città della
pace», non ha mai conosciuta la tranquillità. Lungo tutta la sua storia
millenaria è stata teatro di lotte, e tuttavia essa rimane la sede della «shalom»;
ma non per coloro che vogliono trovarvi una pace già confezionata, ma per
quanti vogliono costruirla.

La pace è
il risultato di relazioni rispettose fra i popoli, fra le persone;
scaturisce dall’amore tra gli individui, tra le comunità; nasce dalla
conversione, dall’accoglienza delle diversità.

La
tragedia odiea in terra santa grava anche sulla comunità internazionale
e su ogni persona sensibile alla pace… strettamente legata alla
giustizia. Da mesi, nonostante gli innumerevoli tentativi del passato di
approdare ad un serio e risolutivo processo di pace, una spirale di
violenze assurde e apparentemente inarrestabili soffoca la terra dove Dio
e gli uomini si sono incontrati e uniti per sempre.

Mentre
scrivo, la spirale attanaglia particolarmente Betlemme, dove la pace è
nata e annunciata per la prima volta agli «uomini che Dio ama».

Il pastore
protestante Dietrich Bonhoeffer, il martire per la libertà che ha pagato
con l’impiccagione la sua resistenza al nazismo, scriveva che non si
poteva cantare alleluja mentre gli ebrei venivano perseguitati. Così è
stata quest’anno la nostra pasqua, in terra santa, celebrata con il cuore
ferito. Come potevamo, in quei giorni di sangue, cantare alleluja?

Israeliani
e palestinesi sembrano sprofondare sempre di più in un vortice di odio e
vendetta. I ripetuti e accorati appelli che, insieme alle altre chiese
cristiane, abbiamo rivolto ai responsabili del paese e dei governi restano
tuttora inascoltati. Fino a quando? Quanto durerà l’occupazione militare?

Fino a
quando verranno disattese le risoluzioni delle Nazioni Unite?

È
necessario ritornare al rispetto della legalità internazionale. Lo afferma
da sempre Giovanni Paolo II (fra pochi), dimostrando una preveggente
visione della realtà. E il cardinale Martini ha rivelato una grande
preoccupazione nel dire di non comprendere

come
Israele, con la sua politica, persegua sicurezza e pace, «che pure è
sempre nel desiderio di tutto quel popolo».

 La
preghiera può vincere la grande e difficile battaglia per la pace… A
Betlemme, davanti alla basilica della Natività (in questi giorni teatro di
una gravissima situazione), si è sempre celebrato un evento «miracoloso»:
fino ad oggi gli eserciti si sono arrestati al suo cospetto.

Il
significato della preghiera per la terra santa (e, ovviamente, per le
persone che vi risiedono) è anche questo: sperare che il miracolo si
compia ancora. Sarebbe un primo e importante passo verso la pace. Ci vuole
fiducia e speranza.

La terra
di Gesù non è forse la terra dei miracoli?

 


Sfogliando s’impara…

 «IO
TROVO VERGOGNOSO»

«Trovo
vergognoso che la stampa scritta (…) si indigni perché a Betlemme i
carri armati israeliani circondano la Chiesa della Natività, che non si
indigni perché nella medesima chiesa duecento terroristi palestinesi ben
foiti di anitra e mumz ni ed esplosivi (tra loro vari capi di Hamas e
Al-Aqsa) siano non sgraditi ospiti dei frati (che poi dai militari dei
carri armati accettano le bottiglie d’acqua minerale e il cestino di
mele). (…)

lo trovo
vergognoso che L’Osservatore Romano cioè il giornale del Papa, un Papa che
non molto tempo fa lasciò nel Muro del Pianto una lettera di scuse per gli
ebrei, accusi di sterminio un popolo sterminato a milioni dai cristiani.
Dagli europei. Trovo vergognoso che ai sopravvissuti di quel popolo (gente
che ha ancora il numero tatuato sul braccio) quel giornale neghi il
diritto di reagire, di difendersi, non farsi sterminare di nuovo.

Trovo
vergognoso che in nome di Gesù Cristo (un ebreo senza il quale oggi
sarebbero tutti disoccupati) i preti delle nostre parrocchie o Centri
Sociali o quel che sono amoreggino con gli assassini di chi a Gerusalemme
non può recarsi a mangiar la pizza o a comprar le uova senza saltare in
aria. Trovo vergognoso che essi stiano dalla parte dei medesimi che
inaugurarono il terrorismo ammazzandoci sugli aerei, negli aeroporti, alle
Olimpiadi, e che oggi si divertono ad ammazzare i giornalisti
occidentali».

Oriana
Fallaci sul settimanale «Panorama»,

12 aprile
2002

  


QUEI CANNONI
PUNTATI

«“Ecco,
noi francescani della Basilica della Natività chiediamo agli ebrei stessi
che facciano qualcosa, che impediscano questa ingiustizia, che dimostrino
che il volto d’Israele non è quello dei cannoni puntati contro un luogo
santo di una città sacra alle tre religoni monoteiste; io non penso che
siano tutti cattivi, al contrario so che dentro il cuore sono buoni e
giusti e so che vogliono il bene di tutti. Chiedo agli ebrei di buona
volontà di aiutarci e di farci uscire fuori da questa situazione”. (…)

Sharon ha
buttato all’aria ogni regola precedente. Tutte le parti coinvolte:
palestinesi, cristiani, le diplomazie occidentali e quella della Santa
Sede hanno avviato trattative mai accolte dall’intransigenza di Sharon.
Hanno nel frattempo persino prodotto un Cd-Rom intitolato “Unholy Asylum”,
asilo assai poco santo, polemizzando con lo spirito umanitario
dell’accoglienza che è storicamente il connotato dei francescani. Quanti
di essi, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno accolto dietro i muri
di pietra dei loro conventi, i disperati ebrei inseguiti dai nazisti? O i
partigiani che i nazisti definivano “terroristi”. Qualcuno, per questa
generosità, ha pagato persino con la morte. (…)

“Noi
francescani non ci fidiamo: se andiamo via, cosa succederà?”, incalza
padre Ibrahim. Appunto, padre, lei ci ha pensato? “Bella domanda. Mi sono
dato una sola risposta: restiamo. L’abbiamo deciso tutti all’unanimità,
dopo una discussione comune”. Le truppe di padre Ibrahim imbracciano il
crocifisso e sfidano i lunghi fucili dei cecchini. Il motorino del
generatore che alimentava le batterie dei francescani ha funzionato per 36
ore e si è fermato ieri. Con la sua energia si tirava su l’acqua dei
pozzi. Se i frati vanno in cucina, alla Casa Nova, l’ostello attiguo al
convento, gli sparano addosso (…)».

Leonardo
Coen sul quotidiano «La Repubblica»,

12 aprile
2002

 


 UNA GUERRA
PER LA VITA O LA MORTE

«Chi
conduce una guerra per la vita o la morte del popolo intero ha il diritto
di ricorrere a tutti i mezzi, compreso quello del terrore suicida delle
donne kamikaze o dei massacri in campi  profughi come Jenin.

Il
guerriero totale coltivato dai vertici dell’Autorità palestinese non è
criticabile in un contesto di guerra finale, così come non lo è lo stato
israeliano che annuncia battaglie di sopravvivenza e che considera la
guerra come una replica della distruzione del Tempio da parte degli
antichi romani. In conflitti di questo genere non si guarda molto ai
risultati politici delle operazioni, né si è responsabili del male – il
più delle volte inane – che si arreca.

Ma la
guerra per la sopravvivenza non si limita solo a cancellare eventuali
responsabilità: essa dissimula anche, distorcendola, l’autentica natura
del conflitto. E vela consapevolmente la verità».

Barbara
Spinelli sul quotidiano «La Stampa»,

padre Marco Malagola

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