Era la notte del 14 maggio 1976 quando lei sparì. Aveva
soltanto 23 anni. Assieme al marito, faceva volontariato in una «villa
miseria» dell’immensa periferia di Buenos Aires. Per i militari al potere
un atto intollerabile di sovversione comunista. Prima di chiudere
tragicamente la sua breve vita, Maria Marta fece in tempo a partorire un
bimbo, che… La storia qui raccontata non è diversa da quella di altre 30
mila persone, scomparse nei sette anni di una dittatura per definire la
quale qualsiasi aggettivo sarebbe troppo benevolo.
Buenos
Aires. «Quel giorno cambiò completamente la nostra vita. Mio marito, che
era un diplomatico, chiese di lavorare in patria. Io divenni una delle
madri di Piazza di Maggio».
Marta
Ocampo de Vasquez è una signora di una certa età, elegante e dai modi
garbati. Vive in un appartamento arredato con notevole gusto alla Recoleta,
un quartiere signorile di Buenos Aires. Famiglia di diplomatici, la
signora Marta proviene da un ambiente sociale importante, ma in questo
caso l’appartenza non cambia la sostanza. Una sostanza che è il dolore
inconsolabile di una madre.
IL SEQUESTRO
«Lei era
l’unica femmina in una famiglia di 6 figli. In casa era come una
principessa: carina, gentile, molto femminile. Sì, era proprio
eccezionale, Maria Marta.
Quando
scomparve, mio marito ed io, assieme al più giovane dei nostri figli,
vivevamo a Città del Messico. Arrivò una telefonata di un altro figlio:
“Mamma, hanno portato via Maria Marta”.
La
sequestrarono le forze di sicurezza della marina nel 1976, il 14 maggio,
insieme a suo marito Cesar Amadeo, medico veterinario di 26 anni.
Arrivarono
alle tre del mattino a casa sua, qui a Buenos Aires. Si fecero aprire la
porta dal portiere e poi lo fecero allontanare. Ma lui si nascose dietro
una scala e osservò tutta la scena.
Salirono
all’appartamento. In casa non trovarono niente di compromettente, ma li
portarono via egualmente. Legati e forse incappucciati…».
Perché li
portarono via?
«Per i
militari tutti coloro che si comportavano fuori dei loro schemi, erano…
comunisti. Maria e Cesar facevano un lavoro di volontariato sociale in una
“villa miseria”, un luogo simile a una favela brasiliana. Si erano
conosciuti in quell’ambito. La loro vita era di lavorare con i poveri. E
in particolare con i bambini, perché mia figlia era psicopedagoga. So
anche che, per aiutare le persone più bisognose, usavano i loro soldi.
Mia figlia
e suo marito seguivano gli ideali peronisti; entrambi erano della gioventù
peronista… Non credo che Maria fosse comunista. So invece che era molto
cattolica, come quasi tutti i suoi amici. Loro, comunque, erano soliti
ripetere: il primo comunista è stato Gesù…».
Sua figlia
e tutti gli altri sapevano di rischiare?
«No, penso
di no. Anch’io qualche volta andai in quella bidonville per fare la
maestra di scuola. Credo che nessuno di noi potesse immaginare che i
militari avrebbero reagito così, con massacri, torture, genocidi…».
A quei
tempi si sapeva già cosa stavano facendo?
«Io lo
seppi dopo, ma comunque non immaginavo che Maria non sarebbe più tornata.
Per 8 anni ho atteso che lei bussasse alla porta. I primi anni non volevo
muovermi dalla casa perché pensavo: se ritorna, non mi trova… Poi, era
il 1984, feci un’intervista con una troupe televisiva italiana che mi
chiedeva se stavo ancora attendendo mia figlia. Io risposi di sì. Ma in
seguito, con il passare del tempo, con le informazioni che a mano a mano
venivo a sapere, iniziai a rendermi conto che non era così. Però mai ho
abbandonato la lotta per cercare la verità e ottenere giustizia. Al
contrario, credo di aver lavorato ogni giorno di più».
«Dopo che
ebbero portato via mia figlia e mio genero, dall’aprile del 1977 cominciai
a frequentare “las Madres de Plaza de Mayo”. Sono ormai 25 anni che
partecipo a quella simbolica marcia attorno alla piramide di Piazza di
Maggio: ogni giovedì c’è qualcuna di noi.
Nei primi
momenti, volevo arrendermi. Invece le altre donne mi fecero coraggio.
Ancora di più quando si scoprì che non ero soltanto mamma, ma anche
nonna…».
IL FURTO DEI
BAMBINI
«Seppi
che, quando sparì, mia figlia era incinta e che, mentre era rinchiusa all’Esma
(«Escuela de mecánica de la armada», la scuola di meccanica della marina,
uno dei 365 centri clandestini di detenzione), partorì un figlio. Lo
scoprii per caso, dopo alcuni anni, quando incontrai sull’autobus una sua
amica psicologa. Poi ebbi la conferma dalle rivelazioni di un militare
pentito».
Bimbi
rubati dagli stessi aguzzini dei genitori! Non c’è fine all’orrore…
«Sì, è
questo che fecero. L’altro ieri mi hanno chiesto se li vendevano. Non
credo. Avevano una lista di famiglie che volevano avere un bambino.
Potevano essere militari o loro amici.
Se le
vittime avevano dei bambini, i militari li abbandonavano o li lasciavano
ai vicini. Se invece le donne erano incinte al momento del sequestro,
facevano nascere il bambino nel centro di detenzione».
E poi?
«Il
bambino stava con la mamma al massimo quattro giorni. Poi le dicevano che
lo avrebbero dato alla sua famiglia, invece…».
Che
fine facevano le mamme?
«La
fine degli altri: un viaggio in aereo. Arrivati sopra il mare o sul Rio de
la Plata, le persone venivano buttate giù. Vive o, nei casi più fortunati,
dopo una iniezione di Pentotal».
E
quante persone hanno subito questa sorte?
«Non lo
sappiamo… Migliaia, perché ora si sa che anche l’esercito ha fatto lo
stesso. Ma il corpo peggiore era quello della marina».
NONNA E NIPOTE
E suo
nipote?
«Mio
nipote oggi ha 25 anni».
Sa
dov’è, cosa fa?
«Iniziai
a cercarlo assieme a mio marito. Qualche anno fa individuammo un ragazzo
che sembrava corrispondere alle caratteristiche di mio nipote».
E dopo,
che è successo? Che si fa in una situazione tanto delicata?
«Finora
non siamo riusciti a convincerlo a farsi le analisi per vedere se
veramente è lui. Prima c’era il papà che ostacolava la cosa, adesso è lui
che non ne vuole sapere. È una situazione difficile, molto dura che fa
male sia a noi che a lui. Ma io vorrei morire sapendo che mio nipote
conosce la verità. Vorrei potergli spiegare chi era la sua vera madre, mia
figlia».
Ma,
secondo voi, lui sa di essere stato adottato?
«Adesso
lo sa. Però non vuole sapere chi sono stati i suoi veri genitori. Ho
potuto parlare direttamente con lui, senza che lui conoscesse chi ero
veramente. Ho avuto questa occasione e l’ho sfruttata».
E come
si è presentata?
«Con il
mio nome. All’inizio lui non ha capito. Abbiamo parlato un po’. Poi mi
sono presentata meglio, ma lui non ha voluto proseguire la conversazione».
Quindi,
lui considera i genitori adottivi come i suoi veri genitori…
«Sì,
perché sono quelli che gli hanno dato amore, educazione e tutto quello che
ha».
Sono
dei militari?
«No,
spero proprio che non lo siano. Sarebbe un dolore ancora più grande. Io
non posso dimenticare quello che i militari hanno fatto. Per me il dolore
è lo stesso del primo giorno, quando Maria Marta sparì».
I suoi
nipoti conoscono la storia di Maria Marta e di suo figlio?
«La
conoscono. Un giorno li ho convocati qui da me, tutti e 13. E ho
raccontato ogni cosa».
LA
VIOLENZA
DELL’IMPUNITÀ
«Sotto
il presidente Alfonsin si fece un processo molto grande a tutti i militari.
Poi però il governo decise che era giunto il momento di chiudere con il
passato e varò la legge “de punto final”, che però non accontentava
abbastanza la casta militare. Si inventò allora la legge “de obediencia
debida”, secondo la quale tutti avevano obbedito a ordini superiori e,
dunque, non erano punibili. Soltanto gli alti gradi furono giudicati e
condannati».
Almeno
loro…
«Poi
arrivò Menem e fece l’amnistia. Anzi, ne fece due, la seconda nel dicembre
del 1990, come regalo di fine anno…
Per noi
fu un altro colpo molto doloroso: dei criminali, che erano già stati
condannati,venivano messi fuori dal carcere. Questa è la violenza
dell’impunità».
E ora
dove vivono?
«Nelle
loro abitazioni. Si è potuto fare qualcosa soltanto per il “robo de los
bebes”. Il primo a cadere sotto questa norma è stato il generale Videla.
Con lui altri sarebbero andati in prigione, ma sono tutti oltre i 70 anni
e per legge non possono stare in prigione. Quindi, anche questi sono nelle
loro abitazioni».
E
vivono normalmente?
«Quasi,
chiusi nelle loro case. Ogni tanto si vede qualcuno… I genitori di
alcuni ragazzi spariti dicono di averli visti per strada o in macchina.
Allora fanno foto, denunce, manifestazioni di protesta, le cosiddette “escraches”».
A conti
fatti, giustizia non c’è stata…
«No,
per questo penso sia giusto continuare a lottare. Vogliamo sapere perché
portarono via i nostri figli, chi diede l’ordine, chi eseguì tutto questo,
quale fu il destino finale».
Non
rinuncerete al vostro impegno…
«Andremo
in Piazza di Maggio tutti i giovedì, finché non ci sarà detta tutta la
verità e verrà fatta giustizia. Loro dicono che non ci sono prove perché è
stato tutto bruciato, distrutto, ma non è vero.
Finché
potrò, io continuerò a fare la mia lotta a fianco delle madri di Piazza di
Maggio, lavorando per preservare la memoria storica e contro l’impunità
dei genocidi e dei loro complici».
In
questo momento difficile della storia argentina, teme un ritorno del
passato?
«Ammetto
che sono preoccupata per quel che è successo il 20 dicembre. Mi sono
tornati alla mente brutti ricordi. Sono rimasta molto colpita dal
comportamento della polizia. Tutto quell’odio contro la gente, con i
cavalli, le pistole… Speravo di non vedere più queste cose, dopo 25 anni…
Però, rimango fiduciosa nei confronti della democrazia argentina,
nonostante ci sia qualcuno che lavora contro di essa».
L’ULTIMO VOLO
Un’ultima domanda, signora Vasquez. Si sa dov’è finito il cadavere di
Maria Marta?
«In
mare. O nel Rio de la Plata…».
(Fine
1.a puntata – continua)
Argentina:
«Chiuso
per fallimento»
Una
gran parte della popolazione argentina si è sempre sentita come degli «europei
trasferiti in America Latina». La prima volta che fui in Argentina,
qualche anno fa, rimasi impressionato dai prezzi, alti anche rispetto a
quelli di una città europea o nordamericana. Mi spiegarono che era la
conseguenza della parità monetaria tra peso e dollaro. Poi, uscendo da
Buenos Aires, vidi le ricchezze di quel grande paese: le sconfinate
praterie, la terra fertile, il petrolio, le bellezze della natura. Ma,
allo stesso tempo, scoprii che una fetta consistente della popolazione
viveva ai limiti della miseria.
Sono
tornato in Argentina nei primi mesi di quest’anno e ho trovato un paese
prostrato, con file interminabili davanti alle odiatissime banche, una
sfiducia assoluta nella classe politica (di qualsiasi colore), piazze
piene di manifestanti e negozi vuoti di clienti.
Le
cifre del tracollo non hanno bisogno di molti aggettivi. Oggi, su una
popolazione di 36 milioni, 14 milioni di argentini vivono sotto la soglia
della povertà. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 18,3%, mentre
quello di sottoccupazione arriva al 16,3%.
L’Argentina è un paese che alla sua entrata potrebbe esporre un cartello:
«chiuso per fallimento». Sicuramente riaprirà, ma quando e a che prezzo?
Accanto
al problema economico (e di conseguenza sociale), c’è quello di un passato
che non può essere dimenticato, soprattutto da chi ne ha subìto le
conseguenze, lasciando nella mente e nel cuore ferite impossibili da
rimarginare.
In
questa serie di articoli gli argentini incontrati parleranno delle
difficoltà di oggi e di quel passato che è ancora presente. Dai loro
racconti è scaturito il titolo: «le ferite del passato, le lacrime del
presente».
Pa.Mo.
La storia
del movimento
Madri di piazza di maggio
Il 30
aprile 1977, un anno dopo la presa del potere da parte dei militari, un
gruppo di 14 madri (a cui lo stato aveva sequestrato i figli) si riunì per
protestare in Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, sede del governo
nazionale. Le guidava Azucena Villaflor de Devincenti (a sua volta
sequestrata pochi mesi dopo, l’8 dicembre 1977).
Le
donne stavano in gruppo. Di lì a poco la polizia, che controllava la
piazza, avvertì le convenute di disperdersi in quanto erano proibiti gli
assembramenti di 3 o più persone.
Allora
le madri iniziarono a camminare attorno alla Piramide di Maggio, posta al
centro della piazza. Da quel primo gruppo nacque il movimento delle
«Madres de Plaza de Mayo», che raccolse sempre più adesioni in tutto il
paese. Da quel giorno, ogni giovedì, dalle 15.30 alle 16.00, un gruppo di
madri si riunisce in Piazza di Maggio per reclamare verità e giustizia e
per manifestare a favore dei diritti umani, in Argentina e nel mondo.
Nel
gennaio 1986 si costituirono due organizzazioni delle Madri di Piazza di
Maggio: «Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora» e «Asociación Madres de
Plaza de Mayo». Dopo aver affrontato assieme gli anni della dittatura, il
movimento si scisse a causa di alcune profonde diversità. Una parte delle
madri, la maggior parte di quelle che fondarono il movimento (da qui il
nome di «linea fundadora»), considerava necessario un cambio nella
metodologia di lotta in seguito al ritorno di un governo costituzionale.
Inoltre, era contestata l’attitudine autoritaria e il marcato personalismo
della presidente, signora Hebe de Bonafini.
Oggi il
gruppo della Línea Fundadora accetta le esumazioni come prova dei crimini
commessi e «perché nessuno può proibire a una madre di recuperare i resti
di suo figlio». Accetta la legge (n. 24.321) in base alla quale il «detenido-desaparecido»
assume la configurazione legale di «persona assente per sparizione forzata»,
lasciando la «presunzione di morte». Rispetta le madri e le famiglie che
hanno adottato la decisione di accettare l’indennizzo economico pubblico (legge
n. 24.411), riconosciuto dal governo argentino dietro sollecitazione della
«Commissione interamericana per i diritti umani» (Cidh). Con questa legge,
dicono le madri della Línea Fundadora, si riconosce il genocidio e gli
orrori compiuti dal terrorismo di stato.
«Con
Hebe – spiega Marta Vasquez – oggi ci divide quasi tutto: i metodi di
lotta, la maniera di parlare, i modi di fare. Tuttavia, c’è una cosa che
ci terrà unite per sempre: la perdita dei nostri figli. A lei la dittatura
portò via due figli e una nuora. A me una figlia e un genero».
Pa.Mo.
Cronologia essenziale
Dalla nascita del peronismo al tracollo neoliberista
1943-1974: Juan Domingo Perón
Nel
1943 entra sulla scena argentina Juan Domingo Perón, uno sconosciuto
colonnello rientrato dopo un periodo trascorso nell’Italia mussoliniana e
nella Spagna franchista. Come segretario di stato al lavoro riesce a
diventare molto popolare tra i proletari e la classe media. I generali
prima lo costringono alle dimissioni, ma poi sono costretti a richiamarlo
sull’onda delle manifestazioni popolari (famosa è la protesta del 17
ottobre 1945, nota come la manifestazione dei «descamisados», i «senza-camicia»).
Perón è eletto presidente nel 1946 e, dopo una modifica ad hoc della
costituzione, viene rieletto nel 1951. Nel 1955 il generale è spodestato e
costretto alla fuga. Rientra nel 1973 e viene rieletto con il 62% dei voti.
Muore il 1° luglio 1974.
1976 –
1983: gli anni della dittatura militare
Il 24
marzo 1976 assume il potere una giunta militare formata dai comandanti
delle tre armi (esercito, marina, aviazione). Viene nominato presidente il
generale Jorge Rafael Videla, comandante dell’esercito. Sono sette anni di
piombo. La dittatura fa sparire circa 30.000 persone, mentre a migliaia,
intellettuali e liberi professionisti, prendono la via dell’esilio.
1983 –
1989: Raul Alfonsin
Vince
le elezioni Raul Alfonsin. Cedendo alle pressioni delle forze armate,
Alfonsin fa promulgare le leggi «de punto final» (1986) e «de obediencia
debida» (1987) che lasciano senza sanzioni i colpevoli dei reati commessi
durante la dittatura, esclusi gli alti gradi della gerarchia. Sarà Carlos
Menem a completare l’opera con due indulti (nel 1989 e 1990) ad hoc per
tutti i comandanti: Videla, Viola, Massera e altri.
1989 –
1999: Carlos Menem
In 10
anni di governo Carlos Menem applica un ferreo modello neoliberista
privatizzando tutto ciò che si può privatizzare. Dalle casse dello stato
scompaiono buona parte dei miliardi generati dalla vendita dei beni
pubblici.
27
marzo 1991: parte la parità peso-dollaro
Il
ministro Domingo Cavallo fa approvare la «Ley de convertibilidad» (n.
23.928). Secondo questa legge, d’ora in avanti il peso argentino si
cambierà 1 a 1 con il dollaro statunitense. Finisce l’inflazione a 3 cifre,
ma è anche l’inizio della fine per il sistema industriale del paese,
troppo debole per resistere alla concorrenza dei prodotti importati.
Chiudono le industrie, aumenta la disoccupazione.
ottobre
1999: vince Feando De la Rua
Con il
48,5% dei voti, Feando De la Rua vince le elezioni presidenziali,
sconfiggendo Eduardo Duhalde, candidato del Partito giustizialista (peronista).
20
marzo 2001: il ritorno di Cavallo
Schiacciato dai problemi, il presidente De la Rua chiama al capezzale
dell’economia argentina Domingo Cavallo, l’uomo che aveva sviluppato il
modello di Menem.
dicembre
2001: la rivolta popolare
Il 3
dicembre il ministro Cavallo vara il «corralito»: nessuno può ritirare
dalla banca più di 500 pesos/dollari. In pratica, le banche e lo stato
confiscano il denaro di milioni di argentini. È la goccia che fa
traboccare un vaso stracolmo. Avvengono saccheggi e rivolte di piazza
represse con violenza (19-20 dicembre). Il presidente De la Rua si dimette
e fugge in elicottero.
2
gennaio 2002: Eduardo Duhalde
I due
rami del Congresso eleggono presidente Eduardo Duhalde. Dovrebbe rimanere
in carica fino al 10 dicembre 2003. In soli 13 giorni l’Argentina ha avuto
5 presidenti: Feando De la Rua, Ramón Puerta, Adolfo Rodriguez Saá,
Eduardo Camaño e Eduardo Duhalde.
6
gennaio: fine della parità
Il
governo stabilisce un nuovo cambio tra dollaro e peso: 1 dollaro è uguale
a 1,40 pesos.
4
febbraio: la «pesificación
Tutti i
depositi in dollari vengono trasformati, obbligatoriamente, in pesos al
cambio di 1,40. Esempio: chi ha un deposito bancario di 10.000 dollari si
ritroverà con 14.000 pesos. Viene confermato il «corralito». Il dollaro
sarà libero di fluttuare in base alla domanda e all’offerta.
15
aprile: il peso affonda
Un peso
vale 2,99 dollari. Nel giro di 3 mesi la valuta argentina si è svalutata
del 200%.
Pa.Mo.
Cliccando su …
alcuni siti internet
–
www.madres-lineafundadora.org
il sito
delle «Madres de Plaza de Mayo – Linea Fundadora», l’associazione delle
madri che nel 1986 lasciarono il gruppo della signora Bonafini
–
www.madres.org
il sito
della «Asociación Madres de Plaza de Mayo», che fa capo a Hebe de Bonafini
–
www.nuncamas.org
il sito
che riporta i documenti e le conclusioni della «Conadep», la Commissione
nazionale istituita per indagare sulle sparizioni forzate
Paolo Moiola