VENTO GIALLO nel dramma israelo-palestinese

Medio Oriente, Israele,
Palestina, Gerusalemme…
Al solo evocarli il cuore
si riempie di tristezza. Violenza,
devastazione, odio impoveriscono
l’umanità. Come si è potuto
arrivare a questo punto?
E, al di là della facile retorica,
quali strumenti abbiamo
per comprendere la situazione?
Le idee dello scrittore israeliano
DAVID GROSSMAN.

Nel marzo 1987 uscì in Israele Vento
giallo, il sofferto ed onesto reportage
dello scrittore israeliano David
Grossman, che raccontava situazioni ed
umori nella West Bank. L’allora capo del
governo d’Israele, Ytzkhak Shamir, lo
definì «una trovata giornalistica e nulla
più».
Nove mesi dopo, dicembre 1987, tra la
sorpresa degli israeliani e degli stessi palestinesi
(non di Grossman), iniziò l’intifada
palestinese. Nella prefazione all’edizione
italiana (marzo 1988)
Grossman ammoniva: «La lunga dominazione
nei Territori ha danneggiato
Israele, oltre a far torto ai palestinesi,
però il considerare l’atteggiamento israeliano
come fondamentalmente errato e quello
palestinese come del tutto giusto è anche questa
una faciloneria bugiarda».
Già all’età di 10 anni David Grossman, nato
nel 1954 a Gerusalemme, conduceva una
trasmissione per ragazzi a Israel Radio.
Perfezionata la sua vocazione di comunicatore
radiofonico con lo studio del teatro e della
filosofia, Grossman diventa famoso nel mondo
per i romanzi per bambini ed adulti, tradotti
in 17 lingue.
In Italia si è fatto conoscere con il suo originale lavoro Vedi alla voce: amore,
in cui il piccolo protagonista Momik
crede che la «belva nazista» sia un
animale vero. Nel 1997 ha vinto il superpremio
Grinzane Cavour con il
romanzo Ci sono bambini a zig zag.
Con onestà Grossman si definisce
«un artista del rinvio»,
perché «per anni non sono
andato a compiere visite nei Territori
e nemmeno nella Città Vecchia di
Gerusalemme. Non l’ho fatto anche
perché sentivo quanto mi odiavano
gli abitanti di quei posti e, soprattutto,
perché mi rivolta sapere che esistono
tra esseri umani rapporti di
ineguaglianza».
Forse, però, questo continuo rinvio
ha permesso che radici profonde
crescessero nell’anima dello scrittore
israeliano, che a 33 anni con Vento giallo, frutto di un
rigoroso lavoro di ricerca condotto da un poeta con metodo
e determinazione, ha scritto un libro profetico, scevro
da ogni ipocrisia e sconcertante per la sua attualità
dopo 15 anni. Scrive, infatti, Grossman: «Quando mi
sono accinto in questo viaggio ho deciso di non incontrarmi
con uomini politici e personalità ufficiali, né tra
gli ebrei né tra gli arabi. Volevo incontrarmi solo con
quelli che sono i veri attori, che recitano loro stessi davvero
in questa tragedia, con quelli che pagano di persona
il prezzo delle loro azioni e dei loro insuccessi, del
loro coraggio e della loro codardia, della loro corruzione
e della loro nobiltà».
Lo scrittore ci presenta i protagonisti della «tragedia
» in una serie di «ritratti d’autore» che ci spalancano
orizzonti davvero inaspettati. Nel campo profughi
di Deheisha (dal bambino di 5 anni alla donna di 80)
«tutti loro sono qui… ma tutti loro sono anche laggiù.
Vale a dire che si trovano lì da noi, che sono in quella
che oggi è Israele». Più di due milioni di profughi «si
inebriano di sogni», che in molti casi si trasformano in
odio spietato.
I versi del poeta Radijah Shehadah di Ramallah, ispirati
dall’olivo, dipingono questa metamorfosi «e in quello
stesso momento l’olivo mi ha rapito/e al suo posto c’è
un vuoto in cui confluiscono dolore e ira». Grossman
vede sui volti dei profughi rassegnazione e odio, fomentati
dalle brutali irruzioni nottue dei soldati israeliani
per scoprire «terroristi» ed imprigionare sospetti.
La scuola dell’odio inizia nei fatiscenti asili infantili
dei campi profughi, si nutre con la vita negli stessi campi
e nella disumana ed umiliante attesa ai posti di blocco;
si perfeziona, infine, all’università. L’università di
Betlemme, ad esempio, è animata da studenti seri ed interessati
che dichiarano «l’occupazione militare ci opprime
», mentre «su un grande asse è inchiodata una
grande carta della Palestina, colorata in rosso, con la
scritta “La Palestina a Noi!”».
Persino nel villaggio di Wadi Aguku gli abitanti,
strappati dalla loro terra nel 1948 e fatti ritornare nel
1972, ricordano: «La vita nel campo profughi è dura, là
si deve sempre chinare la testa, aspettando la botta che
non mancherà di colpirti. Dopo qualche anno uno non
ha più nulla se non la paura e la miseria. Spera solo di
morire». Ed è Abu Karb, 85 anni, «la storia ambulante
del paese», a suggerire a Grossman il titolo del libro ricordando:
«Dalla porta dell’inferno verrà questo vento
(perché dalla porta del paradiso spira solo un vento fresco)
e sarà quel vento che gli arabi del posto chiamano
Riah Azpar, vento giallo che viene dall’Est, un vento tremendamente
caldo, un vento che a volte… incendia tutta
la nostra terra, e allora tutti scappano a rifugiarsi nelle
grotte e nelle cavee; ma, anche lì dentro, il vento
raggiunge quelli che vuole raggiungere e cioè i malvagi
e crudeli operatori del male, e lì, negli anfratti delle rocce,
li uccide tutti a uno a uno. E poi, quando questo vento
sarà passato, tutta la terra sarà coperta di cadaveri».
Lo scrittore israeliano registra con rigore i paradossi
insiti sia nel controllo spietato dei Territori e le azioni
brutali, commesse dai soldati israeliani sui ponti, dove
tra lacrime e strilli di bambini vengono distrutti pure i
giocattoli già controllati, sia l’ottusità nell’appoggiarsi ai
«vastari». È questa una «mafia» araba mediatrice nei villaggi
e nel non controllo di dormitori clandestini e imprese
di pulizia, tanto che «dovunque andranno, gli operai
arabi saranno guardati con sospetto, li frugheranno,
li tormenteranno a ogni momento; però ci sono lunghe
ore, al buio, in cui loro hanno in mano tutte le nostre
chiavi».
Denuncia, inoltre, in quale focolaio d’odio e divisione
si può trasformare «l’associazione clandestina di terrorismo
ebraico», che ha in Ofra una delle sue roccaforti. «Dall’essere Anshé
Emunim, uomini di fede, sono
divenuti Gush Emunim, un blocco
di fede… Perfino l’ebraico che
molti di loro parlano è rozzo e superficiale
e stereotipato. Nelle loro
case quasi non ci sono libri (all’infuori
dei libri di religione) e il
loro coinvolgimento nella vita
culturale è in generale piuttosto
basso».
Sul fronte del mondo arabo
Grossman registra sabotaggi, atti
vandalici e atroci crimini, commessi
dai gruppi terroristici arabi,
contro inermi famiglie ed innocenti
bambini israeliani.
In questo suo «viaggio» faticoso
Grossman ha anche incontrato
persone dal volto
«umano». Muni, «definito da tutti un vero uomo», è nato
nei quartieri ultrabene di Rehavia a Gerusalemme e
«rappresenta l’insediamento sulla terra, la colonizzazione
delle zone aride, il fare del deserto
un giardino… Rappresenta l’onestà
e il sacrificio, la semplicità, e
anche una certa rozzezza di modi
che però nasconde una grande capacità
d’azione».
L’autore ha ottenuto informazioni
attendibili nei villaggi grazie a
Nissim Krispil che, studioso di scienze
naturali e della civiltà materiale
degli arabi palestinesi, «parla arabo
come un indigeno… cerca di aiutare
i suoi amici in difficoltà con il governo militare e compie
tante altre piccole azioni… il cui valore però è immenso
agli occhi degli arabi».
C’è pure l’avvocatessa Leah Zemel, infaticabile nel
difendere i diritti degli arabi, che dimostra «franchezza
e spontaneità nelle relazioni e senso di uguaglianza, senza
nemmeno un’ombra di pietismo; assenza di qualsiasi
senso di inferiorità o di superiorità, e nessun patealismo
molle e remissivo».
Tra gli arabi spiccano la figura di Abu Khatam per la
sua «incrollabile nobiltà d’animo e radici profonde, naturali
e superbe» e Tohar, che ha studiato all’Università
di Gerusalemme e ha due bambini sordomuti cui «parla
con amore, con molta semplicità, senza rancore con
nessuno».
Infine l’autore de «La terza via», l’avvocato Radja
Shahadah, un cristiano discendente da «una delle più
illustri famiglie della nobiltà araba», afferma: «Scrivo.
Mi occupo delle ingiustizie legali commesse dalle autorità
nei riguardi dei palestinesi… Faccio tante cose per
non tacere. Se provo odio? Provo ripugnanza quando
incontro degli scemi che dirigono gli affari qui e là. Non
è odio, è compassione».
Grossman termina questo lavoro importante con una
esortazione profetica ed attualissima: «Già da
vent’anni viviamo in una situazione falsa ed
artificiale, basata su illusioni e sull’incerto
equilibrio tra l’odio e il terrore, in un deserto
di sentimenti e di coscienza, e il tempo che
passa diviene pian piano un’essenza a sé, pesante
e sospesa su di noi come un giallo e
soffocante strato
di polvere… Albert
Camus ha detto
che questo passaggio
obbligato, dalla
parola all’azione
morale, ha un nome. Si chiama
“divenire un essere umano”…
Mi sono chiesto quante
volte, durante gli ultimi 20
anni, sono stato degno di
chiamarmi “essere umano” e
quanti fra i milioni di partecipanti
a questo dramma ne
sono stati e ne sono degni…».

«Uno Stato in una situazione imbarazzante
si reinventa un nuovo vocabolario.
Israele non è il primo stato che fa ciò.
Però coloro per i quali la lingua è qualcosa
d’importante si ribellano nel vedere come
la lingua si va pian piano deteriorando…
Per me la precisione linguistica è simile
ad un’azione di sminamento; le parole
devono essere come bandierine poste su
ogni mina localizzata: non devono
neutralizzare gli esplosivi, ma dare atto
della loro presenza in un certo posto,
dichiarandoli col loro vero esatto nome.
Le parole ingannevoli sono sabbia che
nasconde le mine. Sono sabbia
che ci è buttata negli occhi».
David Grossman,
Il vento giallo, maggio 1987

ROMANZI
DI DAVID GROSSMAN,
PUBBLICATI IN ITALIA DA MONDADORI:
L’uomo che corre, Il sorriso dell’agnello,
Le avventure di Itamar, Vedi alla voce: amore,
Il vento giallo, Il giardino d’infanzia di Riki,
Il libro della grammatica interiore, Ci sono bambini
a zig-zag, Un popolo invisibile, Che tu sia per me
il coltello, Un bambino e il suo papà, Il duello.

Silvana Bottignole

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