PICCOLE (O FORSE) GRANDI STORIE

Il vasto mondo dell’immigrazione,
oltre ai problemi di sopravvivenza, inserimento, lavoro
e integrazione, nasconde tra le sue pieghe anche
sommesse vicende di affetti.
Che, solo a volte (magari per caso),
riescono ad emergere. E toccano il cuore.

I NONNI DI ALDI

Sulle Langhe, intorno ad Alba, avevo
lasciato una fitta nebbia; ad
Alessandria, già in pianura, mi aveva
accolto invece un sole splendente:
strano, per un giorno di novembre.
Il sole entrava a illuminare anche
lo scompartimento di seconda
classe dell’intercity Asti-Bari, in cui
mi ero accomodata.
Mi colpì subito il vestito, interamente
nero, di una donna anziana
che occupava uno dei sedili accanto
al finestrino. Di fronte a lei, un
uomo; di lui notai la pesante giacca
di lana e una cravatta nera che, frusta
com’era, doveva aver visto molti…
lutti. Due nonni, come dicevano
i capelli quasi interamente bianchi
e i visi solcati dai segni della vita.
Parlavano tra di loro a bassa voce,
con dolcezza; lei più a lungo; lui
attento, in ascolto, rispondeva con
frasi più brevi; lei aveva tra le mani
un fazzoletto pronto per essere portato
agli occhi, che entrambi avevano
rossi di lacrime versate…
Avete mai colto il bello nel suono
di ogni lingua? Non riuscivo a decifrare
una parola di quella conversazione,
ma il fluire delle parole mi
incantava ugualmente. E poi c’era
dell’altro: non era un semplice parlare,
ma un sentimento, uno scambio
di qualcosa che, purtroppo, mi
sfuggiva. Di sicuro era una lingua
slava. Forse erano polacchi, che andavano
a Loreto a sciogliere un voto
alla Madonna o a chiedere una
grazia.
Mi perdonino i fratelli europei orientali.
Però a me, neolatina, le lingue
slave sembrano quasi tutte uguali,
mentre sono così diverse!
Non saprei dire perché, ma quando
sono di fronte a degli stranieri,
mi scatta dentro un qualcosa che io
chiamo «sindrome della padrona di
casa»: cioè un vivo desiderio di accogliere,
ma anche una volontà di
sapere, conoscere. Così, con discrezione,
cercai il dialogo.
Non erano polacchi. Venivano
dall’Albània (come essi dicono), e
non Albanìa (come diciamo noi). Avrei
dovuto capirlo subito: i capelli,
prima di diventare bianchi, erano
stati neri, non biondi; le loro stature
erano basse, i lineamenti sottili
e delicati come sono spesso quelli
degli albanesi. Il loro italiano era di
pochissime parole; ma riuscirono a
dirmi che venivano da Asti e andavano
a Bari, da dove avrebbero preso il traghetto per Durazzo. Da lì una
corriera li avrebbe portati a casa,
in un villaggio tra le montagne. Un
viaggio di 36 ore!
«Avete qualche figlio ad Asti? Lavora?
Sta bene?…». Qui ogni difficoltà
di lingua scomparve. Non saprei
dire come, ma in un soffio riuscirono
a farmi partecipe del loro
pianto e lutto. Sì, avevano un figlio
ad Asti, con un buon lavoro e una
bella famiglia: una brava moglie, anche
lei albanese e due ragazzi, Fatima
di 17 anni e Aldi 12.
L’estate scorsa i ragazzi, in attesa
che ricominciasse la scuola, avevano
trovato anch’essi un lavoretto.
Ma una mattina, Aldi andando in
bicicletta verso la pasticceria in cui
aiutava, fu investito da un’auto e ucciso.
Eccolo Aldi nella foto che la nonna
mi porgeva: un viso sorridente di
adolescente, che rinnovava negli occhi
e nel sorriso quello così stanco
del nonno. Prima di riporla nuovamente
nella busta bianca, la donna
baciò a lungo l’immagine del ragazzo.
Essi, i nonni, solo dopo quattro
mesi avevano potuto andare a piangere,
con quelli che restavano, sulla
tomba di Aldi. Ora, ancora in lacrime,
tornavano in Albania con
quel lutto così grande che non li avrebbe
lasciati mai più.
– Ritoerete in Italia?
– No Italia!
Lo dissero pacatamente, senza risentimento.
Poi non ci furono più
parole tra di noi. Soltanto, prima
ch’io scendessi alla stazione di Ancona,
un forte e lungo abbraccio. Il
dolore, tutti i dolori, ma soprattutto
quello per la perdita di una vita
giovane, non ha confini di nazionalità
e non ha bisogno di parole.
Parliamo tanto di immigrati, ma
ci sfugge il carico di sofferenze che,
in mille modi, l’immigrazione comporta.
Una morte, lontano dal proprio
paese e dai propri cari, è un dolore
infinitamente grande. Quante
famiglie immigrate attraversano l’esperienza
della morte?
Nel pianto dei nonni di Aldi c’era
anche questo: il rimpianto di una
tomba lontana; l’impossibilità di
parole e gesti verso i propri cari, anch’essi
carichi di lutto e dolore.
Si potrebbe cominciare anche da
qui per sentirci uguali: dall’esperienza
del dolore che, ahimé, non
manca nella vita di nessuno, sotto
qualsiasi cielo ci sia dato di vivere.

QUASI TUTTI MIEI FIGLI
Forse il più bel compleanno che
ho festeggiato non è stato uno
dei miei (ormai tanti e… grigi), ma
quello di Victoria.
Victoria Vicky viene dalla Nigeria
ed è una delle mie alunne più assidue
nel corso di lingua italiana per
stranieri. È graziosa e vivacissima;
come quasi tutti i ragazzi africani, è
pronta alla battuta di spirito e alla
risata fragorosa. Parla di sé, ma lo fa
con ritrosia; racconta della sua famiglia
e della vita in Italia quasi per
cenni, per lo più lasciando intuire.
Un pomeriggio annunciò a me e
ai compagni, con tutta la gioia possibile, che aveva ottenuto finalmente
il permesso di soggiorno. Un’altra
volta ci disse che fra una settimana,
il 14 di aprile, sarebbe stato
il suo compleanno. Avrebbe compiuto
20 anni.
Non potevo dimenticarlo: Victoria
è nata nel 1980, esattamente 11
giorni prima di mio figlio Luigi. Così,
quel 14 aprile, comprai un regalino
(troppo piccolo, solo ora me ne
rendo conto), scelsi un biglietto con
una scritta beneaugurante e andai a
scuola.
Quel pomeriggio Victoria era non
solo graziosa, ma anche elegante: sul
capo, una cascata di treccine artificiali
(un po’ bionde) alleggeriva ogni
suo movimento, quasi come in
una piccola coreografia.
Naturalmente incominciammo la
lezione d’italiano, scrivendo a lettere
di scatola sulla lavagna: «Buon
compleanno, Victoria!». E si continuò
sul tema. Ognuno volle dire come
si celebra il compleanno nel suo
paese, con piccole frasi, alcune più
corrette, mentre altre rimandavano
a strutture linguistiche inglesi, spagnole,
arabe, bengalesi, cinesi, russe,
polacche, albanesi.
Quante cose da imparare e condividere!
Zhara in Marocco non festeggia
compleanni, perché questo
non fa parte della tradizione islamica;
in Inghilterra, John finisce la sua
festa in un pub con gli amici; in Persia,
Faime inizia i festeggiamenti una
settimana prima; a Santo Domingo,
Daniel prepara salsa e merenghe
in casa, ma anche all’aperto;
a Lima, in Perù, non è facile per la
madre di Roxana festeggiare i compleanni
dei suoi 15 figli.
A Duala, in Cameroun, la mamma
di Martin prepara cibi tradizionali;
in Bangladesh, la casa di Zaman
e di Nasrim si riempie di tantissimi
fiori… Così, tra frasi scritte,
correzioni, letture ad alta voce ed esercizi,
anche in quel pomeriggio la
nostra lezione si avviava alla fine.
Però, ad un certo punto, Victoria
scomparve. Poi, aiutata da Faime e
Isabel, toò con un grande vassoio
di pasticcini e due bottiglie di spumante.
La lezione si sciolse così nel
più bel compleanno cui io abbia
mai partecipato. L’ambiente della
nostra scuola è povero; l’aula piccola
e disadoa. Ma la festa che abbiamo
vissuto tra quelle pareti resterà
indimenticabile.
Ho sentito che i «miei» 20 ragazzi,
arrivati dalle parti più lontane del
globo, diversi per lingua, religione,
costumi, colore della pelle… si volevano
bene ed erano felici di stare insieme.
Alla ventenne Victoria abbiamo
cantato «buon compleanno» in 10
lingue diverse; ogni canto veniva ascoltato
con curiosità, rispetto ed
interesse, seguito da applausi davvero
giorniosi. Tutti, poi, hanno voluto
essere fotografati con tutti.
Io li guardavo incantata e pensavo:
«Potrebbero essere tutti miei figli!».

LA STORIA DI BILEN
Èsabato sera. E già penso che lo
scorrere delle ore mi porterà la
solita ansia, che si placherà soltanto
quando sentirò girare per due
volte la chiave nella toppa; quando
cioè i miei due figli, entrambi maggiorenni,
saranno rientrati a casa,
dopo aver celebrato il rito del sabato;
dopo essersi omologati al costume
di questo nostro tempo, per cui
le ore del divertimento e dello stare
insieme debbono necessariamente
essere quelle tarde o tardissime della
notte!
La mia tensione del sabato sera è
condivisa da molte altre madri. A loro
voglio raccontare una storia, per
dire che ci sono altre mamme la cui
ansia non conosce sabati, perché nasce
da una separazione totale, da uno
strappo crudele, che noi madri italiane
non riusciamo nemmeno a
pensare possibile.
Bilen ha l’età di mia figlia, 24 anni.
È una graziosa filippina, delicata
e gentile (come sono spesso le orientali),
che assiste con intelligenza
e discrezione una signora, mia
amica. Bilen è sposata a un suo connazionale,
che stenta a trovare in
talia un posto di lavoro fisso; ha tentato
in Veneto; poi è tornato ad Ancona.
Così è essenziale che Bilen
mantenga la sua occupazione. Non
ci sono problemi per questo: Bilen
è brava ed apprezzata. Ma aspetta
presto un bambino.
È felice e trepidante insieme. Intanto
continua a lavorare presso la
signora, che le vuole bene e ha per
lei tutte le accortezze che avrebbe
una madre, sino al nono mese… E
nasce Marilù, un delizioso batuffolo
dagli occhi a mandorla, un mondo
di tenerezza.
Non vedo più Bilen e la immagino
presa dal suo tenero pargoletto
dalla pelle d’ambra e dai capelli di
ebano. Chiedo notizie di lei. «Bilen
è triste e nervosa» mi rispondono.
Non riesco a spiegarmi: perché Bilen,
così dolce e sempre sorridente,
è triste e nervosa?
Immagino che si tratti di problemi
di lavoro: lei dovrà stare con la
piccola Marilù e il marito sarà ancora
alla ricerca di un’occupazione;
forse dovranno chiedere una mano
a qualcuno dei numerosi filippini di
Ancona. E, per una giovane coppia,
è sicuramente fonte di preoccupazione.
Niente di tutto questo. Bilen e il
marito lavorano entrambi. Allora
sarà una zia o una nonna ad occuparsi
della piccola? In un certo senso
è così: una zia, che tornava nelle
Filippine, ha portato con sé la piccola;
essa ora è in un villaggio presso
Manila, dalla nonna, la madre di
Bilen. È successo dopo quattro mesi
dalla nascita.
La notizia mi veniva data con naturalezza
dalla nuova giovane filippina,
che ha sostituito Bilen presso
la signora mia amica. Io ascoltavo
quasi con raccapriccio, incredula,
in un impotente moto di dolore, solidale
con la giovane madre. Poi ho
ragionato su ciò che avevo giudicato
una barbara legge di clan, un’efferata
crudeltà.
I genitori di Marilù avevano cercato
un asilo nido ad Ancona, ma avrebbero
dovuto pagare una quota
mensile di 260 euro; con tale somma,
che essi inviano nelle Filippine,
vive tutta la famiglia di Bilen: padre,
madre, i sei fratelli… e la stessa Marilù.
Anche questo è immigrazione. La
penuria di risorse vitali, che determina
lo strazio innaturale della separazione
di due creature, fatte per
vivere l’una dell’altra; la povertà che
travolge gli affetti più sacri e li muta
in privazione affettiva e in dolore;
l’incapacità di noi piccoli «ricchi
» e delle nostre istituzioni di sollevare
situazioni limite, come quella
di Bilen e della sua Marilù che chiedevano,
in fondo, soltanto un posto
meno costoso in uno dei nostri asili
nido.
E noi, mamme italiane, ci permettiamo
«il lusso» di stare in ansia
per i nostri sfaccendati figli, che
fanno le ore piccole. Poi, la domenica
mattina, tutti zitti in casa, per
carità: i «giovin signori» riposano!
Gran Dio, ci sarà mai
giustizia per i poveri del
mondo?

(*) Docente di lettere nella scuola
media «Giovanni Pascoli» di
Ancona, RITA VIOZZI MATTEI è impegnata
anche in un gruppo missionario
e insegna italiano ad un
gruppo di immigrati.

Rita Viozzi Mattei

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