FINALMENTE IL DIO CHE ASPETTAVAMO
Kipengere, Matembwe, Kisinga: missioni
della diocesi di Njombe.
Qui opera da 33 anni
padre Camillo Calliari,
missionario della Consolata
trentino.
Sorretto dalla gente
e da numerosi amici italiani,
impegnato in significative
iniziative di promozione umana.
Il suo modello? Gesù di Nazaret.
Che… faceva e insegnava
(cfr. At 1, 1).
Lavoro nella parrocchia di Kipengere
da 14 anni. La missione,
fondata nel 1933, è una
delle prime del Tanzania. Numerosi
sono stati i missionari della
Consolata che vi hanno trasfuso le
loro migliori energie, annunciando
la parola di Dio. Prima ho operato
anche a Kisinga e Matembwe.
SI ACCENDE LA STUFA
Kipengere è una missione ad alta
quota: le montagne toccano i 2.200
metri e fa freddo quasi tutto l’anno.
Una bella stufa trentina rimane accesa
giorno e notte, riscaldando la
casa dei missionari.
Dato il clima (così poco «africano
»), con i giovani abbiamo montato
una piccola industria per produrre
stufe a legna. Ne abbiamo già
sfoate 200 e vanno a ruba. Sono
come le stufe italiane di qualche decennio
fa (cucine): di metallo, con
pietre refrattarie al calore e una piastra
per cuocere il cibo.
La stufa è richiesta da molte donne,
che forse l’hanno vista in casa di
un’amica; cominciano a risparmiare
qualche scellino, finché riescono
a comprarsela. I vantaggi sono numerosi:
mentre il focolare tradizionale
(costituito da tre pietre) è fuori
della casa per il fumo e la cenere
abbondante che produce, la stufa è
nell’abitazione stessa; produce poco
fumo, riscalda l’ambiente e le vivande
si cuociono bene e con meno
legna.
La stufa ha avuto un notevole
successo, tanto che non riusciamo
a soddisfare tutte le richieste.
LA VOCAZIONE DELL’ACQUA
Gesù andava incontro alle persone
e alle loro necessità: lo chiamavano
se il servo era ammalato o se il
figlio era morto, ecc. Egli interveniva
in modo efficace, senza rifiutarsi
a nessuno.
Questa deve essere anche la no-
stra missione: di fronte a chi si trova
nel bisogno, occorre affrontare il
problema e cercare di aiutarlo concretamente.
Appena arrivato in Tanzania, nel
1969 sono stato destinato a Kisinga,
una missione oggi retta dal clero africano.
Non c’era ancora la chiesa,
ma nelle camere dei padri c’era l’acqua
corrente. Una bella comodità, e
pensavo che anche la gente l’avesse.
Ma così non era: la popolazione doveva
andare ad attingere acqua in
fondo alla valle. Il piccolo acquedotto
era stato costruito solo per la
missione. Prolungarlo avrebbe comportato
una spesa impossibile da sostenere.
Erano anche anni molto difficili
per l’economia.
Tuttavia mi assalì una specie di rimorso.
Mi dicevo: «Perché non si
possono unire in sinergia governo,
popolazione, missionari e i loro benefattori
per realizzare un acquedotto
che porti beneficio a tutti?».
Così è nata in me la vocazione degli
acquedotti. A Matembwe, dove
ho lavorato successivamente, ne ho
costruiti quattro. Essendo il territorio
collinoso, bisognava far giungere
l’acqua dalla valle al paese abitato,
posto in alto. Abbiamo fabbricato
grandi ruote idrauliche (simili
a quelle dei mulini) per raccogliere
l’acqua e poi le pompe la spingevano
su. È quanto ho fatto anche a Kipengere.
L’acqua è vita. Senz’acqua proliferano
le malattie (specie il colera,
che qui è endemico). Le donne poi,
come schiave, sono costrette a scendere
e salire continuamente la collina
per rifoirsi d’acqua… Abbiamo
portato l’acqua a 7 dei nostri 13
villaggi, servendo una popolazione
di 16 mila persone. Con l’acqua, c’è
la possibilità di fare mattoni e, quindi,
di costruire la casa in muratura,
un uso che si sta diffondendo.
Quando l’acqua è arrivata nelle
case, abbiamo goduto nel vedere la
gioia delle donne. Prima passavo
nel villaggio e mi salutavano semplicemente;
ma, dopo l’acqua, è tutto
un sorriso. I bambini mi corrono
dietro, mi chiamano per nome, mi
accolgono. Sono felici.
AUTOGESTIONE DALLA BASE
Al presente la priorità è che l’acqua
sia potabile al 100%. In genere
essa è contaminata alla fonte; quindi
si tratta di costruire opere sussidiarie
(filtri e vasche di decantazione)
per renderla idonea al consumo
umano senza rischi.
La manutenzione degli acquedotti
è in mano della gente. La norma è
che, quando l’opera entra in funzione,
sia consegnata a un comitato che
se ne prende cura. Vi sono volontari
italiani, tecnici specializzati, che
realizzano gli impianti; nello stesso
tempo preparano persone del luogo
per renderle capaci di conservarli e
ripararli.
Non vi sono solo «doni», ma «autofinanziamenti
» dalla base. Per assicurare
l’autofinanziamento, ogni
famiglia paga un tot all’anno; chi ha
un’attività in proprio (un negozio o
bar) paga di più. I soldi vengono depositati
in banca. Così ogni comunità
gestisce il proprio acquedotto.
Questo educa a sentire propria l’opera:
tutti devono essee responsabili.
Ciò avviene quando i progetti si
studiano e realizzano insieme. Allora
la popolazione partecipa con entusiasmo
e i risultati sono ottimi. Ad
esempio: in soli tre giorni si è scavato
un solco (70 x 25 centimetri) di
10 mila metri per depositare i tubi
dell’acquedotto. Tali successi incoraggiano
ad intraprendere altri progetti.
L’unico rammarico è di non poter
fare giungere l’acqua a tutti. Sono
tantissimi coloro che la chiedono.
Ma io non ho la bacchetta magica
per farla sgorgare dove non c’è.
FALEGNAMI
A Kipengere, quando sono arrivato,
c’erano 4 falegnami e 2 muratori,
istruiti da un… catechista: apprendisti
senza pretese. C’era anche
un gruppo giovanile, bene organizzato,
ma con poche prospettive di
lavoro. Proprio dai giovani è partita
la richiesta di fare qualcosa di utile
per la loro vita. È nata l’idea di
una scuola professionale.
Abbiamo organizzato due corsi:
uno di falegnameria per i maschi e
uno di economia domestica per le
femmine. La scuola dura un triennio;
al termine, rilascia un diploma
riconosciuto dallo stato, che consente
di essere assunti in qualsiasi
industria o cornoperativa. Grazie all’aiuto
di alcuni benefattori, ogni
studente ha ricevuto una cassetta di
strumenti per iniziare a lavorare in
proprio.
Non solo: abbiamo pure costituito
una cornoperativa, dove i falegnami
diplomati possono lavorare per
due anni guadagnando abbastanza.
La cornoperativa è gestita dai giovani,
che lavorano su ordinazioni, e il ricavato
viene diviso equamente.
In questo modo, dopo 5 anni, un
giovane esce dalla scuola con un diploma,
una professione, una cassetta
di strumenti e un piccolo gruzzolo
per cominciare un’attività. A volte
lo fanno mettendosi in società,
assistiti dalla cornoperativa madre.
La cornoperativa è nata grazie al sostegno
di un’importante azienda edile
di Trento. Un socio della ditta,
Bruno (ha lavorato pure come volontario
a Kipengere), è deceduto;
in suo ricordo, l’azienda ha offerto
40 milioni di lire alla cornoperativa.
Altri volontari della stessa azienda
hanno donato gli strumenti di lavoro
per gli studenti e sono venuti in
loco per piazzare le macchine e sistemare
il capannone.
SARTE, E NON SOLO
Nella scuola di economia domestica
per le ragazze si insegna di tutto:
taglio e cucito, un po’ d’inglese
e matematica, cucina, orticoltura,
allevamento di bestiame minuto…
Quando la ragazza termina il corso,
è pronta per formare una famiglia.
Anche così nasceranno famiglie più
preparate di fronte alla vita.
L’iniziativa mira soprattutto a chi
non trova lavoro e non ha prospettive.
Non ci sono scuole secondarie;
la gente è povera, vive del lavoro dei
campi e non ha la possibilità di pagare
gli studi dei figli. In tale situazione
la ragazza si rifugia in città
nella speranza di trovare l’eldorado,
ma non trova nulla.
La scuola rappresenta una risposta
concreta alle necessità delle ragazze;
la possono frequentare anche
le meno abbienti, perché si richiede
una tassa annuale quasi simbolica.
L’opera si sostiene con l’apporto di
alcuni amici: ad esempio, è venuta
fra noi una docente di una scuola
tecnica di Rovereto; vista la realtà,
essa stessa ha animato i maestri e gli
alunni con una iniziativa di solidarietà
a distanza, gemellandosi con la
nostra scuola.
C’è un elemento non trascurabile:
la scuola ha campi e allevamenti
di bestiame; ciò che si produce è a
favore di tutti.
Quest’anno, d’accordo con gli altri
missionari, ho aperto anche una
casa per accogliere alcuni delle migliaia
di bambini orfani, vittime dell’Aids
dei genitori. In coscienza non
me la sentivo più di lasciarli soli.
Per sostenere la nuova iniziativa,
in Italia sta nascendo una «fondazione
»; chi vi aderisce offre mensilmente
un aiuto in denaro depositandolo
in banca. Pertanto l’orfanotrofio
continuerà, anche quando io
non ci sarò più.
GLI AMICI DELLA MISSIONE
I lettori hanno certamente capito
che, alle mie spalle, vi sono persone
che «spingono», desiderose di fare
del bene: persone che non si accontentano
di un’«offerta una tantum»,
ma che vogliono impegnarsi in modo
continuativo per chi giace nel bisogno.
Basta offrire loro l’opportunità.
Basta saper collaborare.
Allora vale la pena di organizzare
insieme qualcosa di bello, di cristiano.
Io presento progetti seri e
«gli amici della missione» si impegnano
a realizzarli; anzi, incalzano
me, missionario, ad affrettare i tempi.
In questo modo tanti diventano
missionari.
Ho avuto la fortuna di lavorare
con il Cefa (Comitato europeo di
formazione agraria) di Bologna: è
un’organizzazione non governativa
seria, che attua progetti approvati
dal governo, dall’Unione europea,
ecc. Vi sono volontari che, al mattino,
recitano «le lodi» con noi missionari
e, alla sera, «i vespri»: giovani,
coppie e famiglie che lavorarono
in missione entusiasti. Grazie
ad essi, ho conosciuto il mondo del
volontariato: un mondo multiforme
e ricco.
Oltre ai volontari, ci sono i gruppi
spontanei; crescono un po’ dappertutto:
solo in Trentino se ne contano
una settantina. Spesso sono legati
in modo esclusivo ad «un»
missionario; e questo non è sempre
positivo: infatti devono imparare
ad aprirsi anche ad altri missionari,
a tutte le necessità. In ogni caso sono
generosi; l’importante è impegnarli
con progetti validi, che essi
gestiscono nel migliore dei modi.
I progetti, per avere successo e
futuro, devono prima essere sempre
discussi con la gente e il governo locale.
IL VANGELO IN AZIONE
Nell’attività missionaria non basta
annunciare, in qualche maniera,
il vangelo: scuole e opere di sviluppo
sono parte integrante del lavoro
missionario. Si tratta di priorità richieste
dalla stessa chiesa locale.
Oggi, in Tanzania, forse il giovane
missionario non condivide pienamente
questo modo di fare missione.
Certo, i metodi si possono discutere.
Secondo la mia esperienza
di 33 anni, la promozione umana ha
dato e dà frutti positivi. Talora ho
l’impressione che manchi proprio
«il lavoro», così caro al nostro fondatore,
il beato Giuseppe Allamano.
Noi, missionari, dobbiamo seguire
l’esempio di Gesù che predicava,
ma anche faceva; anzi, secondo Gli
atti degli apostoli, «faceva» e… predicava.
La promozione dell’uomo
non è una «cosa sociale»: è carità. È
vangelo in azione.
A Kipengere esistono pure 54 piccole
comunità cristiane, che seguo
tutte anche «spiritualmente». Esco
di casa alle 7,30 del mattino per partecipare
ai loro incontri e, alle 9, indosso
la tuta da lavoro. Con me operano
padre Giovanni Berghi, di
78 anni, e un prete diocesano locale.
Il progetto è di prepararlo ad assumere
la completa responsabilità
della parrocchia.
Kipengere conta anche su 100 ettari
di terra che, coltivati, servono
alle opere dell’intera diocesi. Si producono
ogni anno 2-3 mila quintali
di grano, che la diocesi gestisce secondo
le necessità.
Un giorno è giunto in missione
un anziano. Osservando
le varie opere in cantiere mi
ha detto: «Baba Camillo, questo è il
Dio che noi aspettavamo…». È un
vecchio di 83 anni, con 4 mogli; a 3
ha dato tutto quello che poteva. È
rimasto con una moglie sola dicendo:
«Ho conosciuto il baba missionario,
che ci ha aiutati; per mezzo
suo ho conosciuto anche Dio. Oggi
Lui mi chiama ad essere cristiano».
È un vecchietto che, alla sua veneranda
età, percorre in
bicicletta 20 chilometri
per partecipare alla messa.
Nel 1986 Giorgio Torelli scrisse un libro su padre Camillo Calliari
BABA CAMILLO
Ho cinque ore di silenzio fino alla
campana del primo e così lento
albeggiare, quando Camillo sortirà di
casa a passi di sentirnero trentino, e
andrà a bersi un caffè nella baracca
dove già spira un fil di fumo azzurro.
Le ragazze della missione sanno
prepararglielo al buio, fra i gatti che
si stirano.
Camillo entrerà in chiesa e si vedranno
le sue manone tuttofare mentre
consacrano il pane. Io ci sarò.
Prima fila: otto benedettine africane,
soavemente nere sopra lo scapolare
immacolato. Seconda fila: quel
po’ di ragazzi che hanno trottato i
chilometri del fango a piedi scalzi e
diranno il Padre nostro in swahili.
Padre si dice «baba». Anche Camillo
è «baba». E poi, nell’ultimo banco, io
col golf stropicciato e gli stivali. Si
vedranno le orme dei piedi bagnati,
la pianta e le dita, sul rosso del pavimento.
Un’ora di restauro perché Camillo
torni ad essere quel che s’è
scelto: agricoltore, meccanico, falegname,
saldatore, elettricista, allevatore,
costruttore di tutto che gli riesca
e, in definitiva, «homo faber in nomine
Domini».
Nessuno più crede che sia lecito
annunciare la parola evangelica senza
metterla in pratica. E mi domando:
di cosa urge l’Africa ignota, quella
di cui non si ragiona mai, gli
sconfinati paesaggi dei poveri che
non avvistano prospettive perché insediati
nelle pieghe inaccessibili di
un continente travagliato?
L’Africa irrisolta brama uomini che
si accollino la sua stessa fame, la
sete, la precarietà del destino, il divenire
della gente, la speranza che non
è mai dissipata, i sogni di avere in fine
quel che milioni d’uomini già posseggono
perché hanno saputo tessere
la propria storia in modo diverso.
Io non abito in questa parte d’Africa
per esaminare col bilancino (tarato
da me stesso) quali siano i meriti e i
demeriti degli africani che possiedono
appena una stuoia, una zappa,
tre pietre per il fuoco e il tetto di paglia
infiltrato dai topi. E neanche Camillo,
come tutti i padri della Consolata,
è qui per questo. Io ci sono per
vedere da vicino Camillo e i suoi. E
Camillo dedica l’imbiancarsi della
barba a chi non ha fortune, non sa,
non s’imbatte nei giorni migliori, resta
impantanato negli anni e ha pur
diritto alla giustizia.
Quale giustizia? Ma quella tessuta
da altri uomini, capaci e avveduti,
che gli dedichino fedeltà e fatiche. È
difficile trovar sonno col girotondo dei
pensieri.
Ed è Montanelli che m’insorge alla
mente, spilungone, la voce cupa e
calibrata, le gambe da trampoliere
sotto la tavola e il pane casereccio
spilluzzicato. Siamo in una trattoria
toscana. È marzo. Tutto s’è risolto a
fagioli e vino in fiasco, fuori è un
giorno piovoso e da soprabito che
volteggia. Il Fenicottero viene al dunque:
«Devi farmi un viaggio. Ti scegli
l’Africa che vuoi e scendi a vedere
quel che io so per certo, con la memoria
e l’intuito: i missionari, vecchio
mio, sono gli unici promotori di sviluppo,
i soli che diano garanzie di
battere fame e pochezza perché ci
mettono anima, competenza e rigore
senza scadenza».
(da Baba Camillo, Istituto geografico
De Agostini, Novara 1986, pp. 23-25)
Camillo Calliari