DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Lasciamo il pessimismo
per tempi migliori»

Se questo mondo non può andare avanti così, esiste un’alternativa credibile?
Sono seri i movimenti di contestazione che si stanno diffondendo a Nord
come a Sud? Meglio continuare sulla strada segnata dai leaders dell’economia
mondiale riuniti nel «World Economic Forum» di Davos? O raccogliere le sfide
e le alternative proposte dai rappresentanti della società civile raccolta
nel «World Social Forum» di Porto Alegre?
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Houtart, sacerdote, già «collega» di Carol Wojtyla e amico di Helder Camara.

Porto Alegre. Belga, classe
1925, primo di 14 figli,
François Houtart è direttore
del «Centro Tricontinentale» di
Lauvain (Lovanio), in Belgio. Il
centro accoglie ricercatori provenienti
da tre continenti: America
Latina, Africa ed Asia. Si fanno ricerche
nei campi della sociologia,
della cultura e della religione.
Quella delle grandi collaborazioni
inteazionali è una caratteristica
di Houtart, che è anche segretario
del «Forum mondiale delle alternative» e membro del comitato
organizzatore del Forum di Porto
Alegre.
Lo incontriamo in una delle
grandi sale della «Pontificia università
cattolica» (Puc), mentre, seduto
in prima fila, è in attesa dell’inizio
di una conferenza.
Professor Houtart, siamo venuti
da tutto il mondo per capire
se «un altro mondo è possibile».
Ma, sia sincero, in questi tempi
parlare di alternative è realistico?
«L’alternativa esiste ed è concreta.
Il problema è che, oggi come oggi,
non c’è la volontà politica per attuarla.
D’altra parte, le 60.000 persone
giunte da tutto il mondo per
questo secondo Forum di Porto
Alegre sono a dimostrare che la voglia
di cambiamento c’è ed è forte».
Nella coloratissima e festosa sfilata
per le vie di Porto Alegre i manifestanti
scandivano slogan contro
le istituzioni inteazionali:
Fondo monetario (Fmi), Banca
mondiale, Area di libero commercio
delle Americhe (Alca), Organizzazione
mondiale del commercio
(Wto). Anche alla luce della
recente riunione di Doha, quale
aspetto di quest’ultima le sembra
più deplorevole?
«Penso alla proprietà intellettuale,
difesa con i denti dalle industrie
farmaceutiche. Un mio fratello lavora
nel campo farmaceutico. È un
esperto internazionale di processi
di fabbricazione. Non ha idee socialiste,
tutt’altro. Alcune volte è
stato mandato a Cuba e mi ha detto:
“Cuba è molto più efficiente
nella ricerca scientifica di un paese
capitalista. Hanno 40 laboratori e,
quando uno di essi scopre una cosa
nuova, immediatamente lo comunica
agli altri. Allora si fa una
riunione per capire quale laboratorio
è più efficiente per continuare
l’investigazione. Nel mondo capitalista
la prima cosa che si fa è
chiedere il brevetto per fare denaro.
La privatizzazione della ricerca
scientifica serve a giustificare il
profitto di pochi. L’alternativa è
che la ricerca scientifica sia un settore
di competenza pubblica, sostenuto
con soldi pubblici. Per il
vantaggio della collettività e non a
servizio delle multinazionali…».
Ma le industrie si giustificano dicendo
che se non c’è la proprietà
dei brevetti, si frena la ricerca…
«Mi viene in mente l’inventore
dei “raggi X” (Wilhelm Conrad
Röntgen, 1845-1923, premio Nobel
per la fisica nel 1901, ndr), che
si rifiutò di brevettare la sua scoperta perché la considerava un bene
comune da dividere tra tutti».
Professore, qualcuno sostiene
che con il vertice di Genova (luglio
2001) e di Doha (novembre 2001)
si sono fatti passi in avanti nel
campo delle politiche sanitarie. È
vero?
«Affatto. Gli unici progressi sono
avvenuti per puro caso. Dapprima,
per lo scandalo del Sudafrica,
poi a seguito della vicenda dell’antrace,
quando il governo degli
Stati Uniti è intervenuto sulla Bayer
per costringerla a vendere l’antibiotico
a metà del suo prezzo».
Io continuo a chiamarla professore,
ma lei è anche un sacerdote…
«Non c’è dubbio al riguardo. Sono
– risponde con un sorriso – amico
di papa Wojtyla da oltre 30 anni.
L’ho conosciuto da giovane,
quando studiavo in seminario a Roma.
Egli veniva a trascorrere le sue
vacanze di natale e pasqua in Belgio,
mentre io lo visitavo spesso in
Polonia, a Cracovia soprattutto. In
seguito, ci ritrovammo al Concilio
Vaticano II in una commissione
preparatoria per la “Gaudium et
Spes”, della quale io ero il segretario.
Dopo la sua elezione a papa, io
non l’ho più visto…».
Le sue idee, i suoi studi le hanno
creato qualche problema con i vertici
ecclesiastici?
«Sì, ma il fatto di essere sociologo
mi ha aiutato a non rompere.
Comunque, i miei problemi non
sono iniziati con il pontificato di
Giovanni Paolo II. Già durante la
conferenza di Medellin, dove ero
stato invitato dalla Conferenza latinoamericana,
sono stato fatto oggetto
di veto da parte della Santa
Sede. Identicamente c’è stato un
veto per la mia nomina alla testa
dell’“Istituto missiologico” dell’Università
di Münster, in Germania».
D’altra parte, lei ha insegnato
lungamente presso l’Università di
Lovanio, una delle più antiche e
prestigiose università cattoliche
del mondo…
«Verissimo. Ho insegnato a Lovanio
per oltre 30 anni, dal 1958 al
1990. Ad onor del vero, anche lì ho
avuto un paio di richiami…
Tutto ciò non mi ha impedito di
avere rapporti normali con l’episcopato
belga e gli organi centrali
della chiesa. Io affermo la mia appartenenza
alla chiesa cattolica».
Da dove nasce il suo amore per
l’America Latina?
«Da 15 anni di lavoro con quei
paesi e poi dalla stretta amicizia che
mi ha legato a monsignor Helder
Camara. Comunque, non mi sono
interessato soltanto di America Latina.
Ho lavorato anche in Asia, soprattutto
in Sri Lanka e Vietnam».
Lei è uno dei principali organizzatori
del «Forum sociale mondiale
» di Porto Alegre. Rispetto ad esso
le opinioni sono discordanti.
Qualcuno lo disprezza, altri sorridono
con sufficienza, altri ancora
sparano insulti contro i partecipanti,
definendoli illusi o addirittura
pericolosi, nemici dei poveri
e del progresso…
«A me pare che Porto Alegre abbia
prodotto un effetto fondamentale
sul piano internazionale. Vale
a dire un cambiamento di prospettiva,
in base al quale all’idea dominante
che non ci sono alternative al
cammino del capitalismo oggi si
contrappone l’idea che “un altro
mondo è possibile”, perché esistono
delle alternative credibili.
Per sintetizzare, possiamo dire
che il “Forum Social Mundial” di
Porto Alegre rappresenta il punto
di vista della società civile dal basso,
mentre il “World Economic
Forum” di Davos (quest’anno spostato
a New York) porta avanti le
istanze dall’alto.
Attualmente la responsabilità
principale del Forum di Porto Alegre
è sulle spalle di movimenti latinoamericani
ed europei. Ma stiamo
lavorando per coinvolgere di
più il mondo africano, asiatico ed
arabo. Per questo è probabile che,
dopo la prossima edizione (ancora
a Porto Alegre), il Forum sarà ospitato
altrove, forse in India».
Gli obiettori (anche tra i lettori
che scrivono alla nostra rivista) affermano
che tutti questi movimenti
contrari alla globalizzazione
sono, per la loro stessa natura,
contro la società nella quale vivono.
Per dirla in maniera popolare,
sarebbero «persone che sputano
nel piatto nel quale mangiano».
Che rispondere, professor Houtart?
«Il grande vantaggio di Porto
Alegre è di riunire movimenti e organizzazioni,
che non hanno l’obbligo
di essere d’accordo su un testo
unico. D’altra parte, è vero che
a Porto Alegre si riuniscono tutti i
soggetti che hanno preso posizione
contro il neo-liberismo e il capitalismo,
e a favore di una ricerca di
alternative.
Accanto a tutto ciò ci sono anche
molti pericoli: una certa dominazione
delle Organizzazioni non governative
(Ong) sui movimenti sociali,
una folklorizzazione dei movimenti
di resistenza contro la
mondializzazione della filosofia capitalista,
una repressione sempre
più forte (soprattutto dopo l’11
settembre) da parte dei poteri dominanti,
con una criminalizzazione
delle resistenze e delle lotte sociali,
e una militarizzazione delle società».
Professore, a sentire queste sue
considerazioni, non mi pare si possa
essere molto ottimisti per il futuro…
«Guardi, voglio risponderle con
le parole di Edoardo Galeano: “Lasciamo
il pessimismo per tempi migliori”».

Per un’«ecologia
dell’informazione»

Oggi anche l’informazione è una merce. Spesso distribuita in un regime
di monopolio e priva di una qualità essenziale: la veridicità. Ecco cosa propongono
Ignacio Ramonet, direttore de «Le Monde Diplomatique», Roberto Savio, presidente
dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, e lo scrittore spagnolo Manuel Vasquez
Montalban. Che concordano su un punto fondamentale: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra informazione. A meno che non si considerino
le notizie della CNN come l’esempio da imitare.

Porto Alegre. Le borse danzano
pericolosamente su teste e
tastiere. Le pance provano a
ritrarsi per tentare di passare nei
pochi centimetri che separano una
postazione di computer dall’altra.
Ci si muove a fatica nella sala stampa
del Forum. L’hanno sistemata in
posizione strategica (ovvero di
fronte ai grandi saloni delle conferenze),
l’hanno attrezzata con computer
nuovi fiammanti, ma hanno
esagerato a comprimere gli spazi.
O, forse, non hanno previsto che al
secondo appuntamento di Porto
Alegre si sarebbero presentati
3.000 giornalisti da 50 paesi.
Già, l’informazione. Una delle tematiche
a cui gli organizzatori del
Forum hanno lasciato più spazio,
per cercare di rispondere a una serie
di difficili quesiti.
Negli spazi dello splendido campus
della Pontificia università cattolica
(la Puc, sede principale del
Forum) sull’argomento si sono susseguite
conferenze, dibattiti, seminari.
Proviamo allora a riassumere
i termini della discussione attraverso
le tesi sostenute da alcuni dei
principali relatori.

LE NOTIZIE?
BREVI, SEMPLICI, LEGGERE

Si dice: nell’era della globalizzazione,
l’informazione è una merce
come un’altra. Una simile affermazione
corrisponde al vero?
Tutti i relatori hanno concordato
che (purtroppo) questa è una
tendenza ormai consolidata. In un
processo di globalizzazione di tutto
e tutti, anche l’informazione è diventata
una merce che circola secondo
le leggi del mercato: domanda
e offerta.
Le multinazionali della comunicazione
hanno fissato le caratteristiche
del prodotto-informazione.
Come debbono essere, allora, le
notizie? «Brevi, semplici, leggere»
ha spiegato Ignacio Ramonet.
Ciò produce conseguenze rilevanti.
Secondo il giornalista francese,
tutto è ridotto a schemi elementari.
Come si nota nell’informazione
che riguarda il Sud del
mondo. I paesi del Sud sono rappresentati
soltanto a tinte forti. Come
un paradiso quando si parla dei
loro prodotti (il caffè, le banane
ecc.) o delle loro attrattive turistiche.
Come un inferno nelle uniche
occasioni in cui la televisione si occupa
di loro e cioè in concomitanza
con tragedie naturali, guerre civili,
genocidi, colpi di stato.
Questa descrizione caricaturale
confonde le idee, crea stereotipi e,
in ultima analisi, disinforma.
Ma – si obietta – ci sono così tanti
mezzi d’informazione che chiunque
ha la possibilità di scegliere tra
una pluralità di fonti alternative…
Oggi l’informazione si è moltiplicata
(soprattutto grazie alle nuove
tecnologie), ma il fenomeno della
concentrazione proprietaria si è
accentuato.
«La globalizzazione – ha spiegato
Manuel Vasquez Montalban –
non è soltanto economica, ma anche
ideologica. L’idea di base (“ha
valore ciò che produce lucro”) deve
essere diffusa. Ecco, dunque, il
motivo della crescente concentrazione
dei mezzi di comunicazione:
la propagazione del pensiero unico
neoliberale».
Il calcolo è presto fatto: tanti media
in poche mani significano meno
pluralismo e quindi meno diversificazione.
Negli Stati Uniti,
per esempio, 5 grandi consorzi detengono
il controllo dell’informazione.
Non c’è quindi da stupirsi se
i contenuti (e i messaggi) si assomigliano
tutti, proprio come una
qualsiasi merce.

NESSUN MESSAGGIO
È INNOCENTE

«Il problema con i grandi media
– ha precisato Montalban – è “saper
leggere”. In primo luogo, dobbiamo
chiederci chi è il padrone
del mezzo e cosa questi vuole proporci.
Nessun messaggio è innocente!».
La qualità della notizia è diventata
così poco rilevante che le imprese
produttrici tendono a offrire
l’informazione gratuitamente. Ma
dove sta allora il business? «Le imprese
in realtà – ha spiegato Ignacio
Ramonet – non vendono informazioni
ai cittadini, ma questi ultimi
agli inserzionisti».
E la veridicità è ancora ingrediente
fondamentale?
Secondo Ramonet, oggi esiste
una diffusa contaminazione dell’informazione,
tanto grave da riuscire
a trasformare la menzogna in
verità e la verità in menzogna. Per
questa ragione il direttore de Le
Monde Diplomatique propone di
praticare una nuova forma di ecologia:
«l’ecologia dell’informazione
», attuata attraverso appositi osservatori
istituiti in ogni paese.
Esiste la possibilità di avere una
contro-informazione? Per Roberto
Savio, fondatore e presidente
emerito dell’agenzia giornalistica
internazionale IPS, a un’informazione
fondata sulle regole della globalizzazione
(come il profitto e l’efficienza)
è necessario opporre una
informazione basata sui valori dei
cittadini: solidarietà, giustizia,
equità e partecipazione.
È vero che stanno apparendo
mezzi di comunicazione alternativi,
«però – ha confessato Montalban
– è difficile resistere».
Inteet è, oggi, uno strumento
fondamentale per mettere in comunicazione
la società civile, ma va
utilizzato bene.
Perché, dopo aver imparato a difenderci
dall’informazione del sistema,
occorre non cadere nello
stesso errore. «La controinformazione
– ha sottolineato Ignacio Ramonet
– deve essere rigorosa. Altrimenti
non serve alla causa».

ALTRO MONDO,
ALTRA INFORMAZIONE

È stato detto: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra
informazione. Difficile non concordare
con questa affermazione.
Manuel Vasquez Montalban ha
portato l’esempio della CNN in
lingua spagnola (la famosa televisione
statunitense ha anche un canale
in questo idioma). «Il canale
nordamericano – ha avvertito lo
scrittore spagnolo – sta seguendo
sia il Forum di New York che quello
di Porto Alegre. Ma ha un approccio
completamente diverso nei
confronti dei due avvenimenti. Serio
per l’evento statunitense, folcloristico
per quello brasiliano».
Capito come funziona il meccanismo?

Sfogliando s’impara…
A NEW YORK, I SIGNORI DEL NEOLIBERISMO
«Il Forum economico (…) ha riunito nel Waldorf
Astoria di New York capi di governo, industriali,
banchieri e scienziati, in breve, i signori e i cervelli
del neoliberismo, quelli che orientano e dirigono la
finanza e l’economia del nostro mondo globalizzato.
(…) Quest’anno non si sono celebrati i trionfi del
cosiddetto “pensiero unico”, della filosofia e dell’economia
occidentale e liberista. Il capitalismo
non se la passa troppo bene in questo tempo».
Gabriele Ferrari sul quindicinale cattolico
«Testimoni», Bologna, 28 febbraio 2002

MA NON ERANO FINITI?
«Chi sperava in una fine imminente del “popolo di
Seattle”, dopo il disgraziato capitolo di Genova, dovrà
per il momento riporre i suoi sogni nel cassetto.
La lunga kermesse di Porto Alegre (…) ha rassicurato
il movimento sulla sua capacità di superare
le avversità».
Maurizio Salvi su «Rocca», quindicinale edito
da Pro Civitate Christiana (Assisi),
15 febbraio 2002

«QUELLI DI PORTO ALEGRE»
«Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto
Alegre, perché è ormai questo il simbolo. Globale,
mondiale. Certo sono molto più “global” di un sacco
di gente che li ha definiti sbrigativamente “noglobal”.
(…) Oggi, in tutto l’Occidente
ricco, non c’è paese che
possa vantare una vitalità critica,
democratica, così intensa come
questa Italia, dove c’è un’altra
Italia così poco “global” che fa fatica
persino a stare in Europa. (…)
E infine c’è la sterminata galassia
cattolica, che vedo emergere con
una vitalità strabiliante. Un segmento
di società italiana vasto,
dinamico, carico di idealità. Anche
loro in libera uscita, forse definitiva,
rispetto alle rappresentanze
cattoliche istituzionali. (…)
Fino a luglio del 2001 si diceva
che il movimento era incoerente, contraddittorio,
che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la
globalizzazione è in crisi, l’America è ferma, diventa
chiaro che le soluzioni non le ha nessuno».
Giulietto Chiesa sul quotidiano «La Stampa»,
18 gennaio 2002

ECONOMIA DI RAPINA
«Siamo sicuri, signor ministro, che abbiamo il diritto
di difendere un’economia che non si regge se non
sul furto? (Risponde il) ministro Martino: “(…) Noi
non abbiamo il diritto di difendere le nostre conquiste
economiche e sociali, noi abbiamo il dovere
di farlo (…). I paesi non nascono ricchi, diventano
ricchi. (…) C’è un solo modo per diventare ricchi,
ed è lo sviluppo. È soltanto lo sviluppo che rende
ricchi i paesi. (…) Coloro i quali si oppongono allo
sviluppo, all’apertura dei mercati che sono l’unica
ricetta che conosciamo per produrre ricchezza, colpiscono
soprattutto i poveri, e l’assurdo è che hanno
persino la pretesa di farlo in nome della difesa
dei poveri. (…)”. Un commento? Non è superfluo segnalare
il cinismo delle argomentazioni di questo
discorso (e Martino non è certo il peggiore dei ministri
di questo pericolosissimo governo). La sostanza
del nostro quesito è stata del tutto elusa, ma
indirettamente confermata: abbiamo il diritto di difendere
la nostra economia di rapina? Il governo dice
SÌ, e non smentisce che si tratti di un’economia
di rapina. (…) Lo sviluppo economico è indipendente
dalle scelte dell’etica politica? Questa sarebbe
la questione morale, di cui non si vuole più parlare
(…)».
Da «Tempi di frateità», periodico cattolico
di Grugliasco (Torino), gennaio 2002

«È IL MERCATO, BELLEZZE»
«Fra le tante novità del nostro tempo, anche in Italia,
c’è l’assoluta fiducia nell’economia di mercato.
Quando questa colpisce duro, si ricorda sempre che
lo fa per il nostro bene futuro, avendo essa per scopo
unico, assoluto e indiscutibile lo sviluppo, che a
sua volta non tollera lacci e lacciuoli, di nessun genere.
(…) I lavoratori vogliono conservare le loro
pensioni? Sì, gli dicono Maroni e Tremonti, a patto
che i vostri risparmi contributivi finiscano
nei ‘fondi pensione’ (…). E
se i fondi pensione investono male,
o sono sfortunati, e perdono i vostri
soldi? “È il mercato, bellezze”».
Da «Il nostro tempo»,
settimanale cattolico
di Torino, 20 gennaio 2002

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«I contestatori che vogliono limitare
i poteri del Wto o mandarlo a picco
(…) distruggerebbero la gallina dalle
uova d’oro. Dobbiamo respingere
con decisione queste istanze, ma
anche tenere in considerazione le
preoccupazioni legittime e sincere di chi critica il
modo in cui queste uova vengono utilizzate e distribuite».
George Soros sul quotidiano «La Repubblica»,
9 novembre 2001

«DALLA CONTESTAZIONE ALLA PROPOSTA»
«Sono sempre di più i movimenti e le azioni civili di
cooperazione e solidarietà; i vari forum liberi e alternativi
all’economia, al pensiero e alla politica
neoliberisti, che sono passati dalla semplice contestazione
alla proposta, dall’impotenza alla convocazione
efficace».
Pedro Casaldaliga, vescovo di São Felix
do Araguaia (Brasile), sul quindicinale
«Adista», 14 gennaio 2002

…il Forum visto dagli altri
«CHE PENA GLI APOSTOLI TERZOMONDISTI»
«Tutti i mezzi d’informazione contrappongono simbolicamente
– anche per la non casuale contemporaneità
– il Forum economico di Manhattan al Forum
“no global” di Porto Alegre. In maniera esplicita
o suggerita o sottintesa le simpatie vanno in
larga prevalenza a Porto Alegre.
Il buonismo – che non costa nulla e piace molto – induce
a parteggiare per gli apostoli terzomondisti
vocianti nelle piazze o in assemblee confusionarie,
anziché per governanti, banchieri e miliardari rinchiusi
nei loro santuari ovattati. (…) I capitalisti e il
capitalismo hanno trovato (…) un sostegno nelle
manifestazioni dei “no global”: così parolaie, inconcludenti
e truffaldine, nonostante la loro ostentata
nobiltà d’intenti, da riabilitare ogni cinismo
dei possidenti. Il disagio ispirato da questa retorica
saltellante della povertà diventa disgusto se ci
si riferisce alla marea di
politici che (…) sanno
quanto squinteate e
fanfarone siano le parole
d’ordine dei “no
global”. (…) Che pena,
per usare un eufemismo
pietoso».
Mario Cervi
sul quotidiano
«Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«UN CAPITALE
E UNA SPERANZA»
«Che “senso” ha, in questo
tempo convulso (…),
il movimento mondiale
che ha tenuto l’ultima sua grande convocazione a
Porto Alegre all’inizio del 2002? Chi voglia guardarlo
con oggettività deve, intanto, prendere atto
di alcuni dati dei quali non è più possibile, dopo tanti
eventi e tante notizie, continuare a dubitare o,
peggio, a negarli. Uno di essi è la ormai assodata
profondità storica del movimento. (…) Un altro elemento
assolutamente caratterizzante è che non siamo
davanti a un movimento soltanto critico (né men
che meno unicamente protestatario) ma, non cessando
di essere tale, esso è anche intensamente
propositivo e costruttivo. (…) Altrettanto brutale,
fino ad essere falsificante, la semplificazione di chi
pretende ridurre tutto ad un insieme di manifestazioni
di strada in reazione ad iniziative ufficiali. (…)
Il senso vero del movimento è di mettere a tema i
problemi della società globale. Da quando (…) la
globalizzazione dell’economia, della politica, della
cultura (…) ha toccato una nuova misura (…), l’intreccio
dei problemi generati da questo nuovo modo
di essere (…) della condizione umana, si è fatto
più aspro e più difficili le condizioni di soddisfazione
degli elementari bisogni di sostentamento materiale,
di crescita umana, di pacifica convivenza.
(…) La riscossa della società (…) si va componendo
appunto attraverso il nuovo movimento globale.
(…) Altro che movimento “no-global”! (…)
Insomma, c’è in queste associazioni, gruppi, movimenti,
reti minori (…) una responsabilità per l’umanità
che spesso manca di essere altrettanto acuta
nelle organizzazioni politiche, nelle istituzioni e
nella cultura ufficiale. Un capitale e una speranza
per il mondo che occorre coltivare con delicatezza
e, vorrei dire, tenerezza».
Umberto Allegretti su «Rocca», quindicinale
edito da Pro Civitate Christiana (Assisi),
1 marzo 2002

«ANCHE PADRE PIO»
«Anche Padre Pio, che aveva il dono dell’ubiquità,
sarebbe entrato in crisi davanti al programma del
secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre
(…). D’altra parte, lo slogan scelto (“Un altro mondo
è in costruzione”)
non lascia dubbi: i noglobal
(…) vogliono rifare
tutto, ma proprio tutto.
(…) I temi messi in
discussione dagli antiliberisti
sono sterminati.
Si va dai “cavalli di battaglia”,
cioè commercio
mondiale, multinazionali
e debito estero, alla
“democratizzazione della
comunicazione”; dall’accesso
alla ricchezza
alla sostenibilità dello
sviluppo; dalla lotta
contro le discriminazioni
fino alla proprietà intellettuale,
etica e politica, diritto alla salute, questioni
ambientali, guerra e terrorismo internazionale.
(…)
I maestri del pensiero no-global tentano di articolare
un’intera visione del mondo anticapitalista. (…)
Ma nonostante la “svolta intellettuale” e le ripetute
assicurazioni di non volere un’altra Genova, resta
la minaccia dei Black Bloc (…) ».
Stefano Filippi sul quotidiano «Il Gioale»,
31 gennaio 2002

«SENI NUDI E BLACK BLOC»
«A guardarlo prevalentemente o esclusivamente dal
punto di vista dello spettacolo, l’“anticonclave” di
Porto Alegre batte largamente il “conclave” di New
York. Vi si incontrano spalla a spalla, o petto a petto,
pensosi uomini di Stato – soprattutto in pensione
– e lesbiche che inalberano il seno nudo come argomento
contro la “globalità”, dai sindacalisti brasiliani
agli anarchici greci, dagli “amici del
consumatore” americani di Ralph Nader ai Black
Bloc».
Alberto Pasolini Zanelli
da Washington per il quotidiano «Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«Io e i compagni»
Ho seguito, a debita distanza, il convegno di Porto
Alegre. I temi trattati sono grosso modo lavoro
minorile, sfruttamento sessuale, assenza di tutele
sindacali, fame e denutrizione, istruzione/ignoranza,
insensibilità alla tutela ambientale, malattie endemiche,
assenza di protezione sanitaria e altri analoghi.
Qual è la differenza tra me e i compagni? Essi immaginano
per ognuno di questi problemi competenti
organismi inteazionali (dell’Onu, della Fao, dei
ministeri…), adeguati aiuti economici e ancora più
stringenti apparati normativi, a garanzia di adeguati
controlli in tutto il pianeta, affinché in ogni angolo
della terra si imponga il buon agire e il buon fare…
Io ragiono diversamente e parto da una domanda:
quanti di quei problemi allignano in Italia, in Europa
e in genere nei paesi ricchi d’Occidente? Qualcosa in
verità alligna anche da noi, ma si tratta di fenomeni
da decenni ridotti a percentuali lusinghiere. Allora
viene la seconda domanda: perché da noi tutto sommato
bene e nei paesi del Terzo mondo tutto sommato
male, anzi malissimo? È ovvia e facile la risposta:
da noi lo sviluppo e livelli capillari della libera
iniziativa economica, cioè del capitalismo, ha prodotto
benessere di massa. Altrove manca del tutto o
non riesce, per i più disparati motivi, ad impiantarsi
stabilmente e utilmente, con ciò favorendo il permanere
di ogni arbitrio ed abuso.
In definitiva penso che lo sforzo a favore dei popoli
del Terzo mondo (sforzo sia nostro che loro) sia quello
di rielaborare/inventare grosso modo gli stessi
meccanismi sociali (economici, politici, culturali) che
a noi hanno giovato molto. Altro che «fermare i motori
», come postula il confuso piagnisterno dei no global!
Si tratta, al contrario, di farli girare molto e nel
migliore dei modi. Lo sviluppo più equilibrato possibile
del capitalismo e del mercato porta in sé l’eliminazione
o, quanto meno, la drastica riduzione dei
problemi elencati all’inizio.
Non è una differenza da poco, cari compagni.
Spero di sbagliarmi, ma se davvero foste tornati dal
Brasile con l’idea di prendere a pretesto le sofferenze
del mondo per gonfiare le burocrazie inteazionali
(un posticino non si nega a nessun militante…),
sappiate che questa pretesa è più oscena del turismo
sessuale.
Luigi Fressoia

«Um outro mundo é possível!»
La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb)
Èstato questo il tema della seconda edizione del
«Forum sociale mondiale» (FSM), svoltosi a Porto
Alegre (Rio Grande do Sul) dal 31 di gennaio al 5 febbraio
2002. Decine di migliaia di persone, venute da
131 paesi, 16 mila delegati, migliaia di Ong, entità,
movimenti sociali, associazioni, chiese, partiti: insomma
un’ampia rappresentazione
nazionale e internazionale
(…). Il FSM è più che
uno spazio aperto al dialogo
e al dibattito. Oltre ad essere
un incontro tra persone ed
idee, culture ed esperienze,
l’evento è un cammino per la
costruzione collettiva di un
modello alternativo di società.
I partecipanti all’unisono, attraverso
conferenze, dibattiti
e seminari, hanno sollevato
critiche contundenti alla globalizzazione
neoliberale, quale
modello accentratore ed
escludente. Nello stesso tempo,
hanno cercato di indicare
le vie per una nuova civiltà:
giusta, solidaria e fratea.
Una civiltà sociale ed ecologicamente sostenibile,
pluralistica, democratica e senza esclusione.
Se il «Forum economico mondiale», a New York, si
è concentrato sull’uso delle ricchezze accumulate,
delle risorse del pianeta e del lavoro umano, a Porto
Alegre il fulcro del dibattito è stata la globalizzazione
della giustizia, della solidarietà
e della pace, in un mondo
ricreato dall’intelligenza
umana. (…)
Seminari, conferenze, dibattiti
hanno fatto di Porto Alegre la
capitale del «pensiero politico
alternativo» contrapposto al
«pensiero unico».
Il FSM, sia nella prima che nella
seconda edizione, ha rappresentato
un vero segno dei tempi.
Segno del quale si può dire
a gran voce e non in termini interrogativi,
ma affermativi: um
outro mundo é possível! («un
altro mondo è possibile!»).
Conferenza episcopale
brasiliana
(Brasilia, 7 febbraio 2002)

«SIAMO
UN MOVIMENTO
DI SOLIDARIETÀ
GLOBALE»

Di fronte al continuo deterioramento delle
condizioni di vita dei popoli, noi, movimenti
sociali del mondo intero, ci siamo
incontrati in decine di migliaia nel secondo
Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Siamo
qui in gran numero a dispetto dei tentativi di
spezzare la nostra solidarietà. (…)
Siamo diversi (…). L’espressione di questa diversità
è la nostra forza e la base della nostra
unità. Siamo un movimento di solidarietà globale,
unito nella determinazione di lottare contro
la concentrazione della ricchezza, la proliferazione
della povertà e delle ineguaglianze e
la distruzione del pianeta. Stiamo costruendo
alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle.
(…)
Noi vogliamo rafforzare il nostro movimento attraverso
azioni e mobilitazioni comuni per la
giustizia sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà;
per la qualità della vita, l’uguaglianza, la
dignità e la pace. Lottiamo:
– per la democrazia: i popoli hanno il diritto di
conoscere e criticare le decisioni dei loro governi,
specialmente quando riguardano istituzioni
inteazionali (…);
– per l’abolizione del debito estero e la sua riparazione;
– contro le attività speculative, chiedendo l’introduzione
di tasse specifiche, come la Tobin
tax, e l’abolizione dei paradisi fiscali;
– per il diritto all’informazione;
– contro la violenza, la povertà e lo sfruttamento
delle donne;
– contro la guerra e il militarismo, contro le basi
e gli interventi militari stranieri, e la sistematica
escalation di violenza, noi scegliamo di privilegiare
il negoziato e la soluzione non violenta
dei conflitti;
– per una Unione europea democratica e sociale,
basata sui bisogni dei lavoratori e dei popoli,
che includa la necessità della collaborazione
e della solidarietà con i popoli dell’Est e del Sud;
– per i diritti dei giovani, il loro accesso a una
istruzione pubblica, gratuita e socialmente autonoma,
e l’abolizione del servizio militare obbligatorio;
– per l’autodeterminazione dei popoli, soprattutto
dei popoli indigeni. (*)

(*) Stralcio del documento dei movimenti sociali presenti
al Forum di Porto Alegre. Per scelta del Comitato
organizzatore, il Forum non produce un proprio documento
finale.

«INSIEME, PER UN CAMBIAMENTO POSSIBILE»
Proprio qui, nella nostra Europa dei potenti,
possiamo trovare le chiavi per disinnescare i
meccanismi dell’economia neoliberista che,
nel Sud come nel Nord del mondo, opprimono e
uccidono donne, uomini e bambini, ampliando il divario
tra poveri e ricchi, minando alla base le garanzie
dei diritti umani universalmente riconosciuti,
distruggendo l’ambiente con consumi e produzioni
insostenibili, minacciando la stessa
democrazia. Le colpe dei nostri governi sono evidenti.
Di questo ci sentiamo responsabili. Per questo,
a Genova come a Porto Alegre, ci siamo impegnati.
Per un cambiamento possibile, come ci
hanno insegnato le lotte e le resistenze di tanti movimenti
di base del Sud del mondo. Qui e ora. Ma,
dopo Genova, tanti compagni di strada si sono allontanati.
Spaventati dalla violenza
della repressione, ma anche diffidenti
rispetto a meccanismi di rappresentanza
del movimento e di scelta
dei contenuti e delle azioni (…).
(…) saremo insieme, ma solo se saremo
davvero tutti, condividendo uno
stile nonviolento della nostra iniziativa
politica dal quale non vogliamo
prescindere.
Una partecipazione orizzontale,
senza relatori o portavoce non scelti
da tutti, in un confronto aperto (…)
tra tutte le realtà presenti, impegnandoci
ad allargare, a tornare a
quella pluralità che aveva dato forza
e spessore al Genoa social forum.
Insieme con le nostre storie, politiche,
valori, fedi, convinzioni tutte
sullo stesso piano, compagni, compagne,
fratelli e sorelle. Tutti dentro al Forum,
con regole certe e condivise da tutti, perché il vero
Forum resta fuori, nelle strade e nelle piazze,
nelle periferie e nelle stanze del potere, nei campi,
in fabbrica, nelle case e sotto i cartoni, nei luoghi
della preghiera e della disperazione. Ma solo
insieme. (*)
(*) Stralcio dell’appello all’unità del 26 febbraio già sottoscritto,
tra gli altri, da: don Vinicio Albanesi, don Luigi
Ciotti, don Alessandro Santoro, don Tonio Dell’Olio,
don Paolo Tofani, don Beppe Stoppiglia, Rita Borsellino
(Libera), Sabina Siniscalchi (Mani Tese), Marina Ponti
(Tavola della pace), Gianfranco Bologna (WWF), Nicoletta
Dentico (MSF), Michele Sorice (Università La Sapienza),
ecc.ecc.

Paolo Moiola

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