Guerriglieri senza scrupoli e squadroni della
morte, entrambi considerati anche terroristi.
Narcotrafficanti, corrotti, impuniti, profughi,
disoccupati… E soprattutto tanti morti
ammazzati. Di fronte alla violenza, il governo
è troppo debole? E la chiesa poco profetica?
Ho dovuto lasciare la Colombia
per motivi di salute. Potrei
parlare di questa mia
ultima esperienza, dura e improvvisa.
Oggi, come non mai, mi sento
nelle mani di Dio… Se detto queste
considerazioni sul paese è anche per
«distrarmi», per non crogiolarmi eccessivamente
nei miei guai. Ma non
sono «distrazioni» allegre.
Ndr: Padre Claudio Brualdi allude
alla propria maculopatia, che improvvisamente
l’ha reso quasi cieco.
All’origine della malattia c’è il diabete,
ma anche l’intenso stress cui il
missionario è stato sottoposto in Colombia.
Superiore dei missionari della
Consolata nel paese, padre Claudio
si è dovuto dimettere dal servizio.
IL DISTACCO DELLA GENTE
È arduo presentare la Colombia.
La nazione sta attraversando una situazione
assai complessa: forse è all’apice
del dissesto. Fino a ieri, parlando
della Colombia, si pensava al
narcotraffico come al problema numero
uno. Il narcotraffico esiste, ed
è una questione scottante, ma con
l’aggravante di altre.
Ciò che preoccupa maggiormente
non sono solo i problemi, ma che
si stenti ad intravvedee la soluzione,
una speranza per il futuro. Si aspetta
che le cose cambino, ed invece
la matassa si aggroviglia sempre
di più. Il governo è inetto da molto
tempo: non è capace di compiere
riforme serie. Ogni quattro anni si
vota: i nuovi governanti promettono
mare e monti, ma tutto rimane
come prima. La gente ha perso la fiducia.
Alle ultime elezioni del 1998 votarono
10 milioni di persone, cioè
meno del 40%. Esiste un distacco
dalla politica: forse per questo il governo
non è in grado di attuare le
riforme giuste. In parlamento, poi,
siedono personaggi che pensano di
più ai loro interessi che ad un cambio
positivo nel paese.
L’esercito nazionale non sembra
all’altezza per fronteggiare la guerriglia:
una guerriglia di estrema sinistra,
che dura quasi da 50 anni,
oggi divenuta più aggressiva. Spiccano
due movimenti guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia) e Eln (Esercito di liberazione
nazionale). Le Farc contano
15-20 mila uomini e l’Eln 6-8 mila.
Da 7-8 anni è all’opera un’altra
forza, paramilitare di estrema destra,
fonte di guai pari (se non superiori)
a quelli causati dai guerriglieri.
I paramilitari sono cresciuti molto
in poco tempo: se, in 50 anni, la
guerriglia ha raccolto 25 mila armati,
i paramilitari in 7-8 anni sono diventati
15 mila.
Come è sorta la terza forza eversiva?
Data l’incapacità dello stato di
tutelare gli interessi dei grandi ricchi
(fra cui i «baroni della droga»),
questi (con il sostegno di alcuni generali)
si difendono da sé, assoldando
squadracce armate. Il nome è eloquente:
Autodifese unite di Colombia
(Auc).
Farc, Eln e Auc sono stati dichiarati
gruppi terroristici. Sono tre forze
che contribuiscono a fare della
Colombia, forse, la nazione più violenta
del mondo. Ormai da tempo
nel paese si contano, in media, ogni
anno 25-30 mila morti ammazzati.
Sono circa 30 i gruppi terroristici
nel mondo, e tre di questi operano
in Colombia. Pertanto uno dei
bersagli possibili dell’amministrazione
di George W. Bush (che vuole
sradicare il terrorismo dal pianeta)
potrebbe essere anche la Colombia.
Tuttavia il «caso Colombia»
è particolare, in quanto lo stato non
appoggia i movimenti terroristici.
ALCUNI NODI CRUCIALI
Le guerriglie sono ormai divenute
«storia». Sono forti non solo per
il numero dei loro membri, dotati di
armi potenti, ma anche perché possono
imporre condizioni allo stato
di diritto.
Negli ultimi quattro-cinque anni
si è manifestata una forma straordinaria
di guerriglia, che ha attaccato
i piccoli centri della nazione: nessuno
è rimasto indenne. I mezzi usati
sono rudimentali: cilindri di gas esplosivo,
imbottiti di chiodi e vari
oggetti contundenti, che scoppiano
contro persone e cose… Non sono
«bombe intelligenti»!
Gli ordigni esplodono presso le
sedi di polizia, nel cuore del paese,
vicino alle chiese. Per cui le bombe
fanno scempio pure degli edifici sacri
(cfr. Missioni Consolata, giugno
2000). Una conseguenza del terrore
è l’esodo dalle campagne verso i
centri urbani, anche perché dal
campo la popolazione non trae più
mezzi sufficienti per vivere. E le città
diventano megalopoli, circondate
da misere favelas. Ogni anno a Bogotà
arrivano circa 300 mila individui,
si dice… Nel paese si contano 2-
3 milioni di sfollati interni: devono
lasciare tutto per sfuggire alla violenza;
ma, approdati altrove, non
trovano lavoro. La disoccupazione
è al 21%.
Né si dimentichi il narcotraffico.
I cartelli di Medellín e Cali sono spariti.
Però ci sono gli eredi. E le guerriglie
controllano le coltivazioni di
coca e i ricchi traffici di cocaina.
Un altro problema gravissimo è la
corruzione politica, con fiumi di denaro.
E tutto resta impunito. Impuniti
anche i reati contro i diritti umani,
che riguardano spesso i paramilitari.
I processi iniziano, ma non
finiscono, perché di solito mancano
le prove di colpevolezza.
QUALE PROCESSO DI PACE?
Bisogna accennare anche del processo
di pacificazione. Il presidente
della repubblica, Andrés Pastrana,
ne ha fatto la bandiera del suo
governo. Non ancora eletto, si incontrò
subito con Manuel Marulanda,
capo delle Farc, sorprendendo
tutti. Qualcuno criticò il gesto.
Pastrana incominciò a governare
il 7 agosto 1998 tra grandi aspettative.
In vista della pacificazione con
la guerriglia, il presidente stabilì una
«zona di distensione», smilitarizzata:
42 mila chilometri quadrati
nel Meta e Caquetà (dove operano
i missionari della Consolata).
Fino al natale 1998 ci furono ostacoli
per iniziare i colloqui tra governo
e Farc: per esempio, a San Vicente
del Caguán, c’era un battaglione
di 1.500 soldati, che secondo
le Farc dovevano essere tutti ritirati;
ima, secondo il governo, almeno
100 dovevano restare per opere di
manutenzione. Alla fine vi fu il ritiro
di tutti i soldati; solo il sindaco
poteva restare. Intanto si organizzò
una guardia civica, composta da
simpatizzanti delle Farc, per controllare
il territorio.
Il 7 febbraio del 1999 Pastrana
subì un grave smacco. Quel giorno
si doveva inaugurare ufficialmente a
San Vicente il processo di pace. Tutto
era pronto, però Maluranda non
si presentò. Il processo tuttavia incominciò,
ma senza risultati concreti.
L’unico aspetto positivo è stato
«un inizio» di dialogo, varie volte sospeso
e ripreso.
Nell’agosto 2000 Pastrana lanciò
anche il «Piano Colombia», ispirato
e finanziato dagli Stati Uniti, con
il quale progettava di sradicare 60
mila ettari di coltivazioni di coca.
Dato il legame tra guerriglia e coca,
il Piano mirava a indebolire le Farc
e i narcotrafficanti, invece di affrontarli
sul campo di battaglia.
Però gli attacchi ai civili sono continuati
fino ad oggi, con numerose
vittime. Il governo, criticato per il
suo atteggiamento arrendevole verso
la guerriglia, ha imposto alle Farc
delle condizioni per continuare il
dialogo, e cioè: rispettare la vita dei
civili e non coinvolgerli in conflitti;
sospendere i sequestri di persona e
abbandonare i blocchi stradali per
estorsioni (la cosiddetta «pesca miracolosa»).
Ma la matassa non si dipana, perché
le Farc (ad esempio) comprendono
72 fronti, e ognuno fa ciò che
vuole. Si pone allora il quesito: nelle
trattative Marulanda chi rappresenta?
La guerriglia, una parte e quale?
«I VESCOVI LAMENTANO…»
Il processo di pacificazione, nato
tra grandi speranze, sta naufragando?
Le critiche verso il presidente
Pastrana sono dure, perché avrebbe
scontentato tutti. Ma anche i governi
precedenti non hanno conseguito
risultati. Pastrana, se è stato
indulgente verso la guerriglia, è stato
pure coraggioso. Gli altri non lo
sono stati altrettanto.
E l’atteggiamento della chiesa? In
questo contesto ho la sensazione che
non stia svolgendo il ruolo che dovrebbe.
La chiesa è presente nel processo
di pace, però non con una posizione
autonoma: infatti la guerriglia
ritiene che il presidente della
Conferenza episcopale al processo
sia quasi una voce del governo.
L’analisi della realtà è buona; però
le belle riflessioni terminano con un
generico «i vescovi lamentano…». È
troppo poco in un clima di violenza
e ingiustizia. La presenza della chiesa
non appare incisiva, profetica.
Si sapeva che il processo di pace
sarebbe stato lungo e tortuoso. Ma
sono già trascorsi tre anni! Quanto
bisogna attendere ancora? C’è chi
ricorda con amarezza il detto latino:
dum Romae consulitur Saguntum espugnatur
(mentre a Roma si discute,
Sagunto viene presa).
In Colombia le vittime
sono già state un esercito.
San Vicente del Caguán, 19 gennaio 2002: il governo e i portavoce delle
Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglano un accordo
per attuare il piano di pace. Sono presenti anche membri della chiesa cattolica
(fra cui Francisco Múnera, missionario della Consolata e vescovo di
San Vicente) e rappresentanti delle Nazioni Unite.
Per uscire dal conflitto, che da 37 anni insanguina il paese, si dovrà seguire
i punti concordati. Le Farc non si oppongono allo sradicamento manuale
delle coltivazioni illegali di coca, pur ribadendo che devono essere
consultate le comunità interessate. I punti principali dell’intesa:
– immediato studio sulle modalità per il «cessate il fuoco»;
– sospensione dei sequestri di persona da parte della guerriglia;
– lotta del governo contro i paramilitari.
Una commissione internazionale verificherà che i punti siano stati rispettati
e aiuterà a superare eventuali ostacoli. La firma dell’accordo concreto
sulla cessazione delle ostilità si dovrà avere entro il 7 aprile 2002.
L’«area di distensione» resterà in vigore fino al 10 aprile.
L’incontro era iniziato male. Infatti il giorno prima era stato assassinato
padre Arias Garcia, 30 anni, impegnato nella sua parrocchia di Florencia
(Caldas) in un negoziato tra guerriglieri e paramilitari locali.
D’altro canto i paramilitari hanno denunciato l’accordo; hanno tacciato
il presidente Pastrana di codardia, accusandolo di «aver concesso tutto
in cambio di niente».
Claudio Brualdi