ARROTONDANDO, ma per difetto

Erano i
giorni tragici dell’esodo dal Rwanda, luglio 1994. Ricordo una donna con
un cesto in testa, un fagotto sotto il braccio destro e sul sinistro un
bimbo di pochi mesi, che tentava di succhiare qualche goccia di latte dal
seno vuoto. Accanto, un bambino di tre anni sorreggeva con la manina il
fagotto della mamma: un po’ di farina, una coperta per proteggere tutti e
tre di notte…

In Etiopia
rivedo quella manina nei piccoli malati di Aids: ogni giorno mi tendono le
mani nel saluto mattutino. Avverto in loro il bisogno di essere
accarezzati, e lo faccio. È bello sentire le loro braccia sul collo. Mi
sento come Gesù, che coccolava i piccoli.

Mi sento
quasi un po’ Dio. Un Dio che prende per mano gli ultimi, ma che non riesce
a cancellare la loro condanna a morte.

Mentre li
stringo con tenerezza, interrogo con lo sguardo la missionaria infermiera:
manca qualcuno? «Lui è morto stanotte» mormora la suora. La frase mi
trafigge come un coltello tagliente.

Ebbene
Tzehaie (che significa «mio sole») non apparirà più in mezzo al gruppetto
giornioso dei compagni, che mi ricevono festanti sul cortile.

Entro in
chiesa (un vecchio container, adibito a cappella) e interpello il mio Dio:
«Mi stai prendendo in giro? Mi fai sentire come se fossi tu stesso ad
accarezzarli, e poi… Sono un giocattolo nelle tue mani?». E risento la
bruciante risposta: «Il rimedio per l’Aids c’è. Ma non è colpa mia se non
viene distribuito a tutti equamente». «È vero, Signore – commento -. Tu
hai fatto tutti gli uomini uguali. Ma è anche vero ciò che si legge ne La
fattoria degli animali di George Orwell: “Tutti gli animali sono uguali,
ma alcuni sono più uguali degli altri”. Siamo stati noi a rendere alcuni
“più uguali” degli altri?».

Inizio la
messa e invito: «Riconosciamo i nostri peccati». Poi guardo i bambini
colpiti da Aids. Nessuno di loro ha peccato, ma stanno pagando per i
peccati altrui. Mi viene in mente il profeta Amos: «Odio le vostre feste,
non gradisco le vostre riunioni, né i vostri doni. Piuttosto, scorra come
acqua la giustizia, come un torrente perenne» (cfr. Am 5, 21-24).

Penso ai
cristiani che vanno in chiesa senza capire che il popolo di Dio è formato
da «poveri in spirito», che sopravvivono anche nella miseria. E, mentre
continuo l’eucaristia, risento l’impotenza di rimediare allo scandalo di
troppi cristiani: orgogliosi di essere figli di Dio, ma fratelli solo a
parole. Mi affido alla preghiera.

p.
Salvador Del Molino


Post scriptum
. Ho appreso che,
nel dicembre scorso, il parlamento italiano ha votato all’unanimità un
aumento mensile di stipendio per gli onorevoli, pari a 1.162 euro
(2.250.000 lire). Così essi percepiscono 4.648 euro di indennità, 3.873 di
diaria, 4.028 per i portaborse (spesso familiari), 774 per spese-viaggio.
Totale: 13.323 euro (arrotondando per difetto), pari a 26 milioni di lire
al mese.

Ma è
proprio vero?… Dopo 35 mesi di parlamento, l’onorevole ha diritto alla
pensione, mentre il cittadino vi accede (se vi accede) dopo 35 anni.
Inoltre per lor signori sono gratis telefono cellulare, cinema e teatro,
viaggi in treno e aereo (nazionali), circolazione su autostrade, piscine,
palestre…

Nemmeno
Bertinotti e Pannella hanno protestato?

E non è
finita, perché pure il ristorante è gratuito. Nel 1999 gli onorevoli hanno
mangiato e bevuto per 2.850 milioni di lire, a spese del popolo.

Cari
amici, ditemi che sono tutte balle. Altrimenti… Buona quaresima!

Salvador Del Molino




PLATI’ (CALABRIA): MISSIONARI DI FRONTE ALLA MALAVITA

COME UNA ROCCAFORTE INESPUGNABILE?


Che ci fanno i padri Luigi ed Enrico in un paese
considerato un covo dell’«ndrangheta»? Ieri, però, è stato preso
l’«imprendibile». Ma la battaglia per la legalità è ancora lunga e
difficile. «Popolo di Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un
futuro di pace per i nostri figli».


Tristemente
famoso

La gente
ci domanda sovente come ci troviamo e che cosa pensiamo di questa «punta
di spillo nel cuore dell’Aspromonte», come Avvenire ha definito il
paesino. Recentemente la «punta di spillo» ha fatto rumore nei notiziari
dei canali ufficiali e privati, nei giornali di grossa e modesta tiratura.

Il
programma televisivo «Terra» di Canale 5, del 16 dicembre scorso, ha
narrato in dettaglio l’arresto del pregiudicato Barbaro Giuseppe,
soprannominato «l’imprendibile». È stato braccato nel suo bunker, la notte
dell’11 dicembre, dalle forze speciali di polizia, coadiuvate dai
carabinieri locali, dopo 11 anni di latitanza, molti dei quali trascorsi
nel confortevolissimo tunnel sotto casa. In questa circostanza, più che in
altre del passato, Platì si è sentito amaramente segnato a dito.


Tristemente celebre nel recente passato per i sequestri di persona, con i
sequestrati tenuti in ostaggio forse nel bunker del superlatitante (dove
sentivano suonare le campane e recitare il rosario nella nostra vicina
chiesa), Platì sta vivendo oggi momenti particolari: timidi, ma
riconoscibili sono i segni di volontà di cambiamento.

Però la
popolazione si sente umiliata. Bisognerebbe fare un po’ di giustizia:
perché è più facile disfare la speranza che edificarla. Secondo il cinese
Lao Tze, è meglio accendere una lanterna che maledire l’oscurità.

Platì è
stato definito pittorescamente una «città a due piani», uno in superficie
e uno sotterraneo: e in parte è vero. È stato paragonato ad una
«roccaforte talebana»: e anche questo è un po’ vero (il bunker era un
marchingegno di elettronica sofisticata: porte scorrevoli, chiusure
antiproiettile, scalini mobili)… Siamo inoltre stati descritti come
«gestori dell’erba», maestri consumati dell’ndrangheta, cittadini
corazzati nell’omertà.

Omertà ce
n’è, ma non al livello che si vuole far credere. La verità è che tanti non
sanno veramente nulla, né si accorgono di nulla. Tra costoro si
annoverano, sovente, gli stessi familiari e le stesse mogli dei
malavitosi. Ne siamo convinti. Osservatori laici ed ecclesiastici della
zona lo confermano.

Il
malaffare è portato avanti da «specialisti», che vivono nel paese a
stretto contatto con i vertici della criminalità (spesso residenti
altrove), vuoi nell’ordine nazionale vuoi in quello internazionale.


Sono caduti
in basso?

La
risposta è semplice: perché siamo missionari. Siamo qui per la profezia
della speranza, per il ministero della consolazione, per illuminare,
purificare e sostenere la religiosità popolare. Siamo qui per temprarci ed
essere maggiormente i missionari dell’«oltre».

O dobbiamo
eternamente discutere, rivedere e programmare la nostra identità a livello
cartaceo, senza buttarci mai nella mischia?

Non siamo
eroi, anche se siamo coscienti che questi primi mesi (per una combinazione
di fatti che sarebbe troppo lungo descrivere) ci hanno portato a vivere al
limite della capacità di pazienza e adattamento. E, benedetto sia il
nostro fondatore, Giuseppe  Allamano, che ci insegna a vivere la missione
insieme! Da soli non ce la faremmo.

Siamo qui
per obbedienza e coerenza. L’ultima conferenza dei missionari della
Consolata in Italia si era fatta promotrice di un’urgenza profetica,
espressa dal X Capitolo generale: è l’ora dell’ad gentes anche per
l’Europa. E la direzione regionale, raccogliendo l’indicazione, ha deciso
così di iniziare una presenza missionaria nella Locride, una zona piena di
sfide ecclesiali e socio-ambientali.

E siamo
caduti a Platì. La nostra destinazione è stata decisa in una corsia
preferenziale, forse per non lasciare adito al pentimento. E abbiamo
trovato un micromondo insospettato: gente che darebbe volentieri
l’ostracismo a chi ha inventato il lavoro e gente che lavora come bestie,
ma con garbo, genialità e (non è poco) con il sorriso sulle labbra:
proprio come chi trova gusto, affetto e gratificazione nel lavoro.

Gente che
mette piede in chiesa soltanto per le «onorate circostanze», insieme con i
rispettivi compari e comari, e gente che viene tutti i giorni a messa,
digiuna due volte la settimana, si prodiga nel silenzio in ogni necessità
(ammalati, anziani, bisognosi).

Gente che
è ingolfata nel malaffare fino al collo e gente che, come dicevamo, pur
vivendo ad un palmo dalle abitazioni dei malavitosi, non sa assolutamente
niente dell’illecito che si orchestra, soprattutto nelle ore delle
tenebre.

Sentiamo
compassione per tanta popolazione, molto dispiaciuta, perché di Platì si
parla esclusivamente nelle circostanze negative. È scontato: da sempre i
poveri fanno notizia solo nelle sciagure, nei «peccati», mentre i «ricchi»
e «color che sanno» si mantengono immacolati nel loro impudico
puritanesimo.

I platesi
ammettono che il loro paesino sta andando alla deriva da qualche decennio
a questa parte… al punto che tanti preferiscono mandare i figli a
studiare nei paesi vicini.

Platì,
alla pari di un centro napoletano, detiene il primato della natalità in
Italia e, forse, anche in Europa. Purtroppo è simile a una madre che
genera generosamente le sue creature, le avvolge di tenerezza
nell’infanzia, le vede allontanarsi da casa nella gioventù per motivi di
studio e lavoro, le vede scompaginarsi ai quattro angoli della terra:
Torino, Milano, New York, Toronto, Sidney… E Platì langue.

Quarant’anni
fa il paese contava 7 mila persone, scese oggi a 3 mila. Platì era un
rinomato centro agricolo, commerciale, artigianale (chi non ha sentito
parlare delle pipe di Platì?); era stimato e invidiato da tutti per la
creatività, laboriosità e ospitalità dei suoi abitanti. Resistono alcune
vestigia: falegnami, veri maestri del legno, e foai che distribuiscono
il fragrante «pane di Platì» ad una ventina di paesi nella provincia di
Reggio Calabria.


Una fiaccolata storica

Come
sacerdoti, data la scarsità di clero in diocesi, oltre Platì, serviamo
altre due modeste parrocchie. E siamo contentissimi della vita un po’
spartana. Ci organizziamo la giornata, prevenendo l’uno le difficoltà
dell’altro per alleggerire i pesi di entrambi. Rinunciamo a ogni
privacy… con un unico camino, che a volte ci rallegra nel tepore, a
volte ci inumidisce gli occhi per il fumo. Uno cucina e l’altro lava i
piatti; uno scopa la casa e l’altro bada alla lavatrice.

Ma non ci
esauriamo nel fare: è essenziale il confronto quotidiano con la parola di
Dio e uno sguardo ai giornali. E predicazioni, confessioni, apostolato
spicciolo. Alla sera siamo così ubriachi di sonno che, recitando il
rosario, il più forte deve svegliare energicamente il più debole, quando
dalla contemplazione dei sacri misteri scivola in braccio al pagano
Morfeo.

Ci
ripromettiamo, quando saremo in tre, di collaborare attivamente con la
diocesi nella missionarietà specifica ad gentes: lo desidera anche il
vescovo, Giancarlo Brigantini. È un trentino di pura razza, ma
visceralmente inculturato nei valori nobili della Locride e della antica e
gloriosa Magna Grecia.

Presieduta
dal vescovo, abbiamo organizzato il 15 dicembre scorso una
processione-fiaccolata per svegliare la coscienza della popolazione
dinanzi al ripetersi del gravissimo fenomeno della sparizione di persone
(7 in 8 anni, di cui 3 da luglio a novembre 2001).

Prima
della fiaccolata, durante la messa, concelebrata dal vescovo e dai
sacerdoti della vicaria, coraggioso e commovente è stato l’intervento di
una mamma. Dal pulpito ha pronunciato parole pesanti, come i macigni
disseminati su queste colline, e brucianti come il fuoco di lupara: parole
che hanno sfidato ogni trincea di omertà.

«Popolo di
Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i
nostri figli. Siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo: uniamoci
per punire i misfatti! Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la
testa con triste rassegnazione. È tempo di far sentire la nostra voce. Un
grido di pace e perdono contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il
paese per quanto è successo nel passato e nel presente».

Anche i
cartelloni, preparati dai giovani e portati dagli adolescenti nella
marcia-fiaccolata, osannavano alla pace, alla responsabilità, alla vita.
Uno fra tutti: «Caino, dov’è tuo fratello?».

Nelle
acque stagnanti un sassolino è stato lanciato. Piccoli circoli d’onda si
propagheranno lenti, ma indefettibili, fino alle più remote profondità
delle coscienze. Ne siamo certi. Confidiamo nel Signore della vita, che
dalle tenebre dell’odio è risorto alla luce, vincitore del male.

 

*I padri Luigi Manco ed Enrico
Redaelli, già missionari della Consolata in Argentina e Mozambico, sono
oggi impegnati nell’animazione missionaria-vocazionale in Italia. Gli
unici in Calabria.


«Restituite
questi giovani»

Sabato a
Platì è salito il vescovo Giancarlo Brigantini che, assieme ad un nutrito
gruppo di sacerdoti, ha concelebrato la messa alla presenza di alcuni
familiari delle persone scomparse e di tanti giovani e ragazzi delle
scuole locali, che hanno raccolto l’invito a non starsene in disparte.

Platì è
salito agli onori della cronaca per fatti poco edificanti: i sequestri di
persona e il traffico di droga, in primo luogo. Il parroco, padre Luigi
Manco, tra il silenzio generale ha elencato i sette nomi e le date della
scomparsa, parlando di «sette ferite aperte nella comunità locale e in
tutta la società».

Dal canto
suo monsignor Brigantini ha detto: «Abbiamo pronunciato i nomi perché non
si faccia finta di non vedere. Non serve tacere purtroppo tanti sanno ma
tacciono».


 L’iniziativa è servita a raccogliere attorno al dramma delle famiglie
interessate gran parte della cittadinanza che, con una fiaccola accesa in
mano, ha percorso le vie cittadine alternando il silenzio a momenti di
preghiera…

La
comunità di Platì ha dimostrato di apprezzare il gesto della chiesa,
rimarcando col vescovo il no al male e all’odio, il sì al bene ed alla
misericordia. Prima di terminare la fiaccolata, Brigantini ha detto:
«Fermatevi, restituite questi giovani ai familiari e ricordatevi che Dio
vede anche chi, in un modo o nell’altro, è stato complice di tali
misfatti».

Giovanni
Lucà


(liberamente tratto da «Avvenire», 18 dicembre 2001)

Luigi Manco Enrico Redaelli




ZE’ DOCA (BRASILE): il vescovo Walmir Valle in redazione

LE SFIDE DI UN «PELE’» MANCATO


«La mia casa è la stessa di 13 anni fa, come l’hai vista
tu. Nulla è cambiato. Ultimamente mi sono ritrovato solo. Così ho fatto
anche il portinaio, il cuoco, il lavandaio…». Confidenze di un vescovo
semplice, immerso tuttavia in grandi problemi, data la povertà e
l’isolamento della sua diocesi nel Maranhão.

 

«Benvenuto
nella sala-giornali della redazione della rivista Missioni Consolata! Buon
giorno…».


L’«intruso», un po’ sorpreso, sussulta. Ma si riprende subito e dice
sorridendo: «Ieri c’è stato il sorteggio degli accoppiamenti delle squadre
nazionali di calcio che giocheranno il campionato mondiale in Corea e
Giappone. Sto sfogliando il giornale per conoscere gli avversari del
Brasile».

Secondo
lei, chi vincerà il trofeo?

La palla è
rotonda, dite voi giustamente in italiano…

Forse
abbiamo colto in fallo un… monsignore. È Walmir Valle, vescovo
brasiliano di Zé Doca (Maranhão) e tifoso di foot ball. C’è chi giura che,
se Walmir non si fosse fatto prete, sarebbe diventato un vero campione. A
Torino, dove ha studiato teologia, molti ricordano ancora le sue imprese
calcistiche, degne di Pelé, «il re».

«Sono
passati più di 40 anni da allora – afferma il vescovo scuotendo la testa
-. Oggi…». Oggi è missionario della Consolata e, da 16 anni, anche
vescovo. Recentemente ha costruito una nuova cattedrale.


Una bella
cooperazione

Nel 1998
dom Walmir bussò alla porta dell’organizzazione cattolica tedesca Adveniat,
per ottenere 100 mila reais (circa 162 milioni di lire). Il vescovo aveva
puntato in alto per accontentarsi poi di 30 mila reais. «Non so se ce la
caveremo con tale somma» disse il vescovo ai sacerdoti e fedeli.

Iniziarono
a lavorare, inglobando la vecchia chiesa. Ma subito furono costretti a
demolie una parte, perché volevano allungare la costruzione, passando
dai precedenti 28 metri agli attuali 41. Inoltre sorsero altre difficoltà.
Pertanto del vecchio complesso rimase solo il campanile. Quanto al nuovo
progetto…

«Quanto al
nuovo progetto, siccome bisognava risparmiare soldi, l’ho fatto io stesso
con il muratore capo. Man mano che la costruzione cresceva, apportavamo
delle modifiche secondo le esigenze. Abbiamo lavorato sodo per 15 mesi, e
ce l’abbiamo fatta in tempo per il giubileo del 2000. Oggi la nuova
cattedrale è una meraviglia. Lo dicono tutti. A noi piace soprattutto
perché è opera nostra».

Anche il
comune diede un contributo, rimuovendo le macerie dei muri abbattuti e
foendo la terra per alzare il livello della nuova costruzione di 50
centimetri rispetto a quella vecchia. La gente pagò mille sacchi di
cemento, mentre la Direzione generale dei missionari della Consolata offrì
20 mila reais.

Al termine
la spesa complessiva fu di 90 mila reais, per un’opera che si avvalse
della solidarietà internazionale (Adveniat tedesca e Missionari della
Consolata), dell’apporto dell’autorità locale e del concorso dei fedeli.
Un bell’esempio di cooperazione.

«Proprio
così – conferma il vescovo -. Naturalmente tutto dipendeva dal come si
chiedeva. Non bastava lanciare appelli generici; bisognava impegnarsi di
persona, casa per casa. Io sono abbastanza esplicito e, quando chiedo,
ottengo quasi sempre qualcosa».

La
costruzione della cattedrale è ancor più meritoria, se si tiene conto del
contesto sociale. Nel 1994 il Brasile adottò la nuova moneta real (plurale
reais): una divisa forte, superiore persino al dollaro. Il rapporto con il
«biglietto verde» era di 0,80 a 1. Dopo un periodo di stabilità forzosa e
costosa, nel febbraio 1999 il real fu svalutato del 50% e l’inflazione
riprese a correre. Oggi occorrono 3 reais per 1 dollaro.

Oggi, con
la globalizzazione-privatizzazione, il Brasile dipende dal capitale
estero. Il fenomeno ha aumentato la disoccupazione, specialmente nelle
grandi città di São Paulo, Rio de Janeiro, Porto Alegre… dove operano le
industrie. E pesano i macigni di sempre: la mancata riforma agraria e
l’iniqua distribuzione della ricchezza.


Una diocesi
in chiaroscuro

Nel 1988
eravamo a Zé Doca, ospiti del vescovo Valle. Allora il presule lamentava
la scarsa collaborazione della gente alla vita della diocesi. Oggi si
registra un mutamento in meglio. La costruzione della cattedrale lo
dimostra.

È
d’accordo dom Walmir?

C’è stato
un cambiamento positivo. Tuttavia la partecipazione del popolo è ancora
ridotta. In occasione della costruzione della cattedrale, sono riuscito ad
ottenere la collaborazione di tutti; ma in genere è ancora difficile,
specialmente per la formazione di lidares laici e per il sostentamento dei
sacerdoti.

È arduo
trovare persone che si assumano il servizio di animazione e cornordinamento
delle comunità. «È – commenta il vescovo – la sfida più forte. Abbiamo
offerto ai lidares la possibilità di formarsi: per esempio con la scuola
di teologia pastorale. La scuola si svolge nell’arco di quattro anni
consecutivi con varie lezioni. Vi sono due scuole: una sulla costa e
un’altra all’interno del territorio; si tratta di realtà assai diverse,
non solo per posizione geografica, ma anche per formazione religiosa. La
partecipazione alla scuola è stata pure diversa: 60 persone nel litorale e
25 nell’interno».

Per
risolvere il problema del sostentamento del clero, il vescovo ha invitato
i fedeli di versare alla chiesa «la decima». Ma la proposta è rimasta
quasi lettera morta. Si è cercato di sensibilizzare le comunità con un
libretto, ricco di citazioni bibliche che ricordano ai fedeli «l’obbligo
di mantenere il loro sacerdote». Anche questo ha sortito scarsi risultati.

«A
prescindere dalla povertà reale – precisa il vescovo -, la causa della non
partecipazione della gente ci porta indietro nel tempo, quando i
missionari italiani garantivano tutto il necessario. Così le comunità si
sono abituate a “dipendere”, senza alcun loro apporto. Questa mentalità
resiste ancora. Il problema del sostentamento è grave per lo stesso clero
locale, che proviene da famiglie bisognose».

Dunque,
monsignore, la diocesi non dispone di fondi per venire incontro alle
esigenze dei sacerdoti?

No, perché
non ha denari per tutti.

Mancando
il sostegno della diocesi, i sacerdoti si mantengono con le offerte delle
messe e degli altri sacramenti. E pare che ci stiano riuscendo. «Gli unici
che versano ancora qualcosa per la diocesi – precisa il vescovo – sono i
tre missionari fidei donum di Torino».

La diocesi
di Zé Doca è stata dimenticata anche dai missionari della Consolata?

No. Il
nostro Istituto versa ogni anno 50 mila dollari per la formazione dei
seminaristi.

E proprio
dal seminario sono venute le migliori consolazioni per il vescovo.
All’inizio del suo apostolato a Zé Doca non poteva contare su alcun
sacerdote del luogo. Oggi sono sette, con un discreto numero di studenti
nel seminario maggiore di São Luis.


I tempi sono
cambiati

«C’era una
volta la chiesa brasiliana» afferma oggi qualcuno, non nascondendo la
propria delusione. La chiesa del coraggio, della denuncia delle
ingiustizie sociali, la chiesa dei vescovi Mathias Schmidt, Helder Camara,
Paulo As, Luciano Mendes, Ivo e Aloisio Lorscheider, Aldo Mongiano…
Figure coraggiose, profetiche, oggi defunte o ritirate, mentre i
successori sono diversi.

Dom Walmir,
come giudica l’odiea chiesa brasiliana?

Rispetto a
30-40 anni fa il paese è più democratico. I movimenti di lotta
sociopolitica contro il governo si sono sciolti, perché sono mutate le
situazioni. Oggi i lavoratori, più che con lo stato, devono fare i conti
con la globalizzazione, le transnazionali…

Però il
governo c’entra, perché può schierarsi o da una parte o dall’altra.

E la
chiesa deve schierarsi con i deboli. Credo che lo stia facendo. I profeti
ci sono ancora.

Per
esempio?

In
occasione dei 500 anni della scoperta del Brasile, c’è stata la festa di
Porto Seguro, contestata dagli indios, che hanno ricordato i massacri e le
discriminazioni sofferte nella storia. Circa 2 mila indios si sono diretti
a Porto Seguro per incontrare il presidente Cardoso; ma la polizia li ha
fermati con violenza. Anche i vescovi Masserdotti e Balduino, che erano
con gli indigeni, sono stati arrestati per cinque ore… Allora i profeti
ci sono e si fanno sentire.

Che dire
della sua diocesi?

A Zé Doca
c’è stata la marcia-pellegrinaggio della gioventù, durante la quale
abbiamo pregato, cantato e denunciato i mali che affliggono il paese. Il
tema «Cittadinanza e fede» ci ha consentito di riflettere sui gravi
problemi legati al Movimento dei contadini senza terra.


Politicamente come agite?


Lavoriamo senza tanto rumore. Ma a Zé Doca la comunità, con il parroco in
testa, ha presentato e sostenuto i propri candidati nelle elezioni
comunali.

A quale
partito appartengono?

Al
Partito dei lavoratori (PT). Ma il candidato sindaco, per vincere le
elezioni, si è dovuto alleare con altri partiti…

  Nella
sala-riviste di Missioni Consolata si ode un vociare, che proviene
dall’esterno. Dom Walmir si affaccia alla finestra e vede alcuni ragazzi
che rincorrono un pallone. «Quanto mi piacerebbe giocare con loro!».

 

 Visita
pastorale a São João do Caru

La
parrocchia di Bom Jardim è una delle più estese della diocesi: dista 30
chilometri da Zé Doca, è affidata ai due frati francescani conventuali,
molto giovani, e comprende più di 100 comunità.

Pochi
anni or sono ne è sorta una nuova: la comunità di São João do Caru.
D’accordo con il parroco, avevo deciso di visitarla durante la stagione
delle piogge. São João dista da Bom Jardim, in linea d’aria, circa 90
chilometri ed è raggiungibile solo in barca durante il tempo delle piogge.

 Il
programma prevedeva che mi trovassi alle sette del mattino a Bom Jardim.
Da qui un frate ed io, in camion, avremmo raggiunto il fiume per
proseguire in una canoa a due posti fino a São João. Però il camion (data
la pessima strada) non poteva marciare. Allora prendemmo una moto-taxi. La
distanza era modesta: 12 chilometri. Ma ci impiegammo oltre un’ora, perché
fummo costretti a fermarci una dozzina di volte a causa del fango.

Giunti
al fiume, salimmo in barca: io davanti e il giovane frate dietro, al
volante, vicino al motore. Dopo mezz’ora ci fermammo ad Alto Alegre per il
rifoimento di carburante. Ripartimmo con due ospiti, che ci avevano
chiesto un passaggio: poiché l’imbarcazione era piccola, due persone in
più costituivano un bel rischio. Ma tutto andò bene.


Sennonché, ad un certo punto, udii un tonfo, seguito da un grido del frate
guidatore.

– Cosa
è successo?

– Il
motore è caduto in acqua!

– Cosa?…
E ora? C’è un remo?

– No.

Si
disperava il giovane frate, inesperto, anche perché sapeva che era colpa
sua, non avendo fissato bene il motore sulla barca.

Era
mezzogiorno e fummo costretti ad abbandonarci alla corrente del fiume,
sotto un sole cocente. Non furono bei momenti… Finché il rumore di
un’altra imbarcazione ci sollevò il cuore. Ritornammo a Porto Alegre.

Quanto
al motore, nuovo di zecca, ma caduto nel fiume, potevamo scordarcelo per
sempre.

 

A São
João do Caru ritornammo cinque mesi dopo, via terra questa volta, in
Toyota, messa a disposizione dal sindaco locale. Ma quasi subito l’auto ci
piantò in asso per un guasto meccanico. Un camion, superaffollato, ci
portò a destinazione dopo sei ore di viaggio su una strada… che non
c’era! Erano le 5 del pomeriggio.


L’accoglienza della popolazione fu straordinariamente giorniosa: con tante
foto-ricordo, perché era la prima volta che un vescovo metteva piede in
quel paese… La visita pastorale continuò il mattino successivo con
l’amministrazione delle cresime.

Per il
ritorno c’era ancora il camion, ma in ritardo. Partimmo alle due del
pomeriggio. Percorsi una decima di chilometri, il camion si fermò per
caricare alcuni sacchi di farina. Poi incominciò a piovere come Dio voleva,
e ci impantanammo. Bisognava aspettare che spiovesse. Io, intanto,
camminai per circa tre chilometri, finché il camion mi raggiunse.


Seguirono sette ore di scivolate, sbandate e testacode. Ma, grazie alla
Madonna Consolata, arrivammo a Bom Jardim sani e salvi.

Nella
diocesi di Zé Doca si vivono anche queste avventure.

Francesco Beardi




ARGENTINA: impressioni da un paese nella bufera

UN «MATE» INDIGESTO


Povertà e ricchezza, tristezza e gioia, speranza e paura
del futuro… Un intreccio che colpisce chi visita il «gigante buono»
sudamericano. Ma la miseria può diventare «cattiveria».

Il Boeing
747 della Aerolineas Argentinas mi depone sull’aeroporto Ezeiza di Buenos
Aires. Sono le 7 del mattino e ho l’impressione di atterrare sul mare. Una
coltre di nebbia, infatti, ricopre tutta l’estensione della pista. Non fa
freddo, perché l’inverno non è ancora iniziato. Immenso paese, 35 milioni
di abitanti. Incontro una società nuova, uscita da un lungo periodo di
dittatura e totalitarismo, in marcia verso un ideale di democrazia che
fatica (come ovunque) a stabilizzarsi. La struttura della società è
chiaramente diversificata.

Buenos
Aires, la capitale, è abitata dai «portenos» (immigrati europei e i loro
discendenti) mediamente borghesi, ma essa è anche accerchiata da tante «villas
miseria», vere baraccopoli costruite con lamiere e cartoni. Vi trovano
rifugio i più disgraziati, provenienti da ogni parte, alla ricerca di un
benessere sempre lontano. L’interno, disseminato di aborigeni e creoli, è
completamente differente: nati da questa terra, conservano la loro cultura
tradizionale che fa fatica a coabitare con quella dei «gringos» originari
dell’Europa.


Sentirsi a
casa


 Nell’interno del paese impressiona la povertà. Ma la fierezza di poter
diventare efficaci compagni nella costruzione della nuova società appare
evidente. Le persone, appena vi vedono, sorridono, vi abbracciano, anche
se non vi conoscono.

Rimango
colpito da questa manifestazione di affetto. Si direbbe che ogni sforzo
viene messo in atto per farti sentire a tuo agio, come a casa. Jorje mi
offre immediatamente un recipiente di mate: una bevanda calda, una specie
di tè proveniente dalla provincia di Misiones. Rifiutarla sarebbe un gesto
di scortesia. La si beve insieme, dalla stessa cannuccia, simbolo della
vita condivisa, trasmissione di una filosofia dell’esistenza fondata su
valori duraturi che non devono assolutamente perdersi.

La loro
casa diventa la tua casa e mai, come in Argentina, ho avuto l’impressione
di sentirmi a casa. I bambini che sorridono, i cani che dormono ai tuoi
piedi, le galline che beccano, i genitori che si danno da fare per
servirti. Non esiste formalismo: la gente si manifesta per quello che è, 
del tutto indifferente della povertà o disordine che potrebbe esserci. Ciò
che è importante è che tu possa mangiucchiare qualcosa, riposarti dal
caldo opprimente, assaporare un po’ della loro vita.

Una vita a
dimensione umana, capace di integrare nella relazione che si stabilisce la
bellezza dell’amore, della natura, degli animali, senza  dimenticare di
soddisfare i tuoi bisogni personali. Sì, la semplicità è la loro
ricchezza.

Uscendo da
un lungo periodo di oscurità drammatica, vissuta sotto la dittatura, il
paese si ritrova come un neonato nei confronti della democrazia.

La
mancanza di lavoro, il tasso di disoccupazione (tra i più alti
dell’America Latina), i miseri salari,  l’abbandono delle campagne e
l’immigrazione verso le città, sono i principali problemi. Le difficoltà
della vita quotidiana, dovute alla mancanza di denaro e lavoro, pesano
oltremodo sui «neonati». Quale futuro avrà il giovane che non ha la
possibilità di studiare adeguatamente, che è disoccupato e, sovente, si
lascia trasportare dall’alcornol o dalla droga per dimenticare una
situazione insopportabile? La mancanza di speranza nel futuro può
diventare il cancro di un popolo così buono.

Anche la
famiglia, una volta forte e solida, oggi scoppia. L’autorità dei genitori
è diminuita, la stabilità  è messa a dura prova, la fedeltà coniugale
sovente è diventata un sogno. I bambini che hanno un solo genitore
aumentano e mancano i punti di riferimento per crescere in armonia.
Sposati troppo giovani, sovente prima dei 18 anni, i genitori si accorgono
di aver preso strade che a loro non vanno più bene e se ne vanno.

I
luoghi della miseria

Villa
Pompeya è un quartiere di Merlo, alla periferia di Buenos Aires. I
missionari della Consolata vi lavorano da molto tempo, si occupano della
parrocchia e di numerosi «villaggi della miseria», che nascono come funghi
in questa periferia sempre più grande. Lavorando in équipe con le suore
missionarie della Consolata e con laici impegnati, si cerca di rispondere,
giorno dopo giorno, ai bisogni dei nuovi arrivati, destinati a morire
nella miseria.

La «villa
miseria» si trova in tutte le periferie delle città argentine: un insieme
di catapecchie di legno riciclato o di cartone, senz’acqua né elettricità,
senza servizi igienici. Numerose persone si ammucchiano in piccole camere,
dormendo per terra in una promiscuità impressionante. Le famiglie vere
sono rare.

Si
trovano, piuttosto, delle persone che vivono situazioni particolari: donne
abbandonate dai mariti, banditi che vengono a nascondersi, giovani
sbandati, drogati e alcornolizzati e molti bambini senza genitori. Un
universo che sopravvive senza lavorare, senza istruzione, senza servizi,
senza relazioni, al margine delle grandi città che le ignora e li teme. La
violenza e l’istupidimento si impongono.

Visito
questi luoghi con padre  Ermenegildo Crespi. I sentimenti che si provano
sono indescrivibili: un miscuglio di disgusto, compassione, paura… ma
anche un desiderio di essere loro vicini e amici. Il cuore di queste
persone non è diverso dal nostro e, se non hanno avuto la possibilità di
svilupparsi, restano pur sempre delle persone che Dio ama. La loro storia
inizia lontano. La maggior parte viene dal Nord. Fuggendo dal Chaco e
Formosa, loro terre d’origine, alla ricerca di un lavoro e di un avvenire
migliore, si ritrovano qui più poveri di quanto lo fossero prima, soli,
senza alcun legame con le famiglie che hanno lasciato, incapaci di pagarsi
il biglietto di ritorno verso il paese natale.

In questo
luogo di miseria e delinquenza, non trovano aiuti per           crescere;
sovente, per sopravvivere, iniziano a rubare, si danno alla violenza,
all’alcornol, alla droga per dimenticare. La storia dei Miserabili, persone
sfortunate dal cuore pieno di bontà descritte da Victor Hugo, non è ancora
terminata.

Vedo suor
Annapiera avvicinarsi alle persone come un’amica. Cerca di soddisfare una
quantità infinita di bisogni primari: cibo, abiti, medicinali, bimbi
abbandonati, morti. Ha organizzato una presenza e un lavoro veramente
notevoli in questo quartiere, anche se i soldi non sono mai sufficienti.

Vedo
sfilare tutta una serie di visi, dagli occhi spenti e dai cuori spezzati.
Più che di aiuto materiale (anche se indispensabile), hanno bisogno di
amicizia, comprensione, sostegno morale, parole di conforto. È triste
vivere in solitudine, senza potersi confidare con nessuno, racchiudendo in
se stessi tutte le difficoltà e le ferite.

I
missionari lo sanno bene. Sono là come amici, compagni di strada, dando
segni concreti di umanità e di carità. Qui il vangelo passa attraverso le
azioni  più che la parola e padre Crespi lo conferma: «Troppe atrocità e
violenze, nascondono loro il viso di Dio. È la nostra amicizia che
aspettano: un’amicizia che faccia loro intravvedere di essere amati da Dio
e salvati da Gesù. Un lavoro non facile da compiere.

L’eterna
domanda mi ritorna in mente: perché loro e non io? Non ho risposta, ma so
che, al loro posto, io non farei meglio. Rendono visibile ai miei occhi
una parte di me stesso segreta, nascosta. Sovente si è troppo severi con i
poveri, scaricando facilmente le nostre responsabilità nei loro confronti.
Le parole di sant’Ambrogio “o ricchi, voi donate troppo poco della vostra
ricchezza e siete troppo esigenti verso i poveri!” sono di un’attualità
sconcertante».


 Il rischio
dei «dinosauri»

Il futuro
dell’Argentina è nelle mani dei giovani. Tutti i missionari lo sanno e la
loro formazione è un punto prioritario nel programma di evangelizzazione.

È
impossibile qui presentare, in breve, i tratti che caratterizzano i
giovani argentini. Città e campagne producono modelli diversi, dovuti a
problemi particolari, legati all’ambiente in cui vivono, all’essere senza
radici, alla mancanza di identità che, a volte, li conduce al suicidio. A
San Francisco è nato un istituto diocesano (Ceas) per aiutare i giovani
che nutrono delle aspettative. Quello che li scoraggia maggiormente è la
mancanza di speranza, a causa della situazione economica e sociale.

Attività a
tutti i livelli sono state «inventate» nelle parrocchie per animare i
giovani sbandati. Un po’ ovunque si vedono club, movimenti, gruppi di
spiritualità o sportivi per giovani, ma lo sforzo principale resta quello
della scolarizzazione. A San Francisco e Mendoza, i missionari della
Consolata si sono impegnati nella scuola elementare e superiore. La
serietà e la competenza di questi istituti sono evidenti ai visitatori.

I signori
Miguel Alessi, direttore della scuola «Paolo VI» a San Francisco,
Gabrielle Panero de Romero e Tito Lopez, direttori della scuola secondaria
di Mendoza, mi mostrano la loro programmazione: precisa negli obiettivi e
metodi di lavoro, chiara nell’organigramma degli insegnanti e discipline;
un documento che si propone di portare i giovani ad una formazione
completa, umana e scientifica, capace di avviare ad un lavoro competente,
sorgente di felicità.

Gli sforzi
per integrare nella comunità argentina i numerosi boliviani immigrati sono
notevoli e questo esempio di apertura verso diverse culture è da imitare.

Una
caratteristica di questi istituti è lo spirito di famiglia e
collaborazione che vi regna. Ho l’impressione di essere in una comunità
molto interessata a migliorarsi, convinta d’avere in mano la chiave per
trasformare il futuro dell’Argentina. Ancora una volta si può toccare
direttamente l’efficacia dell’animazione fatta dai padri José Luis Pereira
e Silvio Lorenzini. Questi missionari sono attenti nel trasmettere i
valori del vangelo, convinti che non vi sarà una formazione completa,
senza quella spirituale. Non si devono ripetere gli errori dell’era «jurassica»,
quando i dinosauri avevano una struttura fisica enorme, ma con una massa
cerebrale molto piccola, incapace di controllare e soddisfare le esigenze
somatiche; per cui si estinsero!


Personalità armoniosa e società, scienza e fede illuminata, economia equa
e politica coscienziosa: ecco gli estremi di una formazione modea,
necessaria in Argentina. E sono lieto di sapere che i miei confratelli
missionari vedono nella scuola un luogo privilegiato per plasmare uomini e
donne del futuro.

Adelante,
padres!, sempre avanti! In attesa, domani, di impegnarsi più a fondo,
anche nell’università.

L’ultima
sera del mio soggiorno a Buenos Aires, nella cappella della casa
provinciale, bruciava un cero davanti all’immagine della Consolata. La
fiammella tremolante mi ha spinto a una riflessione, un augurio per questa
gente affascinante:

«Non
temere, Argentina! Le tue mani non cedano, perché il Signore, tuo Dio, è
in mezzo a te. Egli sarà tuo salvatore, esulterà per te di gioia e ti farà
nuova con il suo amore» (Sof 3, 16-17).

 


Il «peso»
diventa… leggero

Il
fallimento socioeconomico argentino è da ascriversi pure allo stesso De la
Rua e al ministro dell’economia Domingo Cavallo, sostenitore della
globalizzazione-privatizzazione delle imprese, che ha creato numerosi
disoccupati.

Nuovo
presidente (il quinto in 20 giorni) è Eduardo Duhalde. Questi ha bloccato
il pagamento dell’enorme debito estero (132 miliardi di dollari) e ha
sospeso la parità tra peso (moneta argentina) e dollaro, con una
svalutazione del 30%. L’inflazione è dietro l’angolo. Le tensioni non sono
finite: La crisi argentina preoccupa anche Stati Uniti, Messico, Cile,
Uruguay, Spagna, Italia.

La
crisi è sociale, ma non solo. «Va tenuto presente – ha detto l’arcivescovo
Estanislao Karlic, presidente della Conferenza episcopale – che
l’Argentina vive una crisi profondamente morale, una crisi che coinvolge
tutti, non solo i leader. Le “mazzette” non le prendono solo i politici,
ma anche altri cittadini».

Jean Paré




MEDICINA INDIGENA: un intreccio misterioso di pratiche

MALATTIA E MORTE,<I GRANDI TABU'


I numeri
magici

Il popolo
africano, senza distinzione alcuna, è fondamentalmente legato alla terra:
non sono tanto gli elaborati sofismi di pensiero a occupare le menti delle
persone quanto i risvolti vitali che la realtà quotidiana può avere nella
loro esistenza. Ogni minerale, ogni pianta, ogni animale racchiude in sé
un potere, una forza capace d’influenzare in bene e, spesso, anche in male
la vita di un individuo.

Da qui una
nozione di medicina, che per noi è ormai indissolubilmente legata al
freddo e preciso concetto di scienza, mentre per l’africano indica un
insieme di norme spirituali e morali, oltreché di rimedi e cure. Non per
niente il personaggio più carismatico del villaggio africano è
l’«operatore magico» o sciamano, che unisce poteri divinatori-spirituali a
quelli curativi-geomantici.

La
medicina è considerata una pratica misteriosa, nella quale rientrano
normalmente la chiaroveggenza, la demonologia, la necromanzia,
parallelamente alla diagnosi, all’eziologia e alla terapia di una certa
malattia. Se dunque dalla e nella terra si manifestano gli spiriti e le
anime dei defunti, fondamentale diventa la conoscenza delle erbe
(fitoterapia) e del loro uso spesso combinato con sostanze di origine
minerale (talco, argilla, sale, ecc.), come pure la conoscenza di sostanze
di origine animale (teste di lucertola, polvere di scorpione, lingua di
serpente, ecc.).

L’utilizzo
di erbe, radici e foglie è determinato non solo da osservazioni e scoperte
empiriche sulle loro proprietà curative, ma dal «modo», dal «numero» e da
altri parametri.


Importante, ad esempio, è la magia che riveste il numero. Il numero 1,
numero singolo e fondamentale; il 4, numero sacro che rappresenta i 4
punti cardinali a simboleggiare la totalità del potere curativo. Se ad
esso si aggiungono le due direzioni, alto e basso, ecco che anche il 6
diventa un numero di grande importanza. C’è il 7, rappresentante del ciclo
ebdomadarico del tempo.

Da qui
l’attenzione ad assumere i rimedi e a celebrare i rituali in date
«numericamente» propizie dei calendari solari o dei quarti lunari e, per
le donne, del ciclo mestruale.

Quando,
come, dove

Se la
posologia (l’aspetto che regola la quantità e la modalità di assunzione di
un farmaco) è una questione di occhio o di mano, in cui la quantità degli
ingredienti delle varie pozioni viene misurata in maniera un po’
approssimativa (si va dal pizzico, alla manciata o a «qualche goccia»),
per l’africano ha invece molta importanza la determinazione precisa sul
come e dove le pozioni debbano essere assunte.

Ebbene,
come disporsi con il corpo rispetto al sole o alla luna? Come celebrare il
rito seguendo una precisa successione di gesti e invocazioni. E dove? Nel
centro del villaggio, davanti a tutti, o piuttosto nel fitto della
foresta, da soli o con lo stregone?


Medicina
senza limiti o confini

Il
concetto di medicina per gli africani è, quindi, molto variabile e assai
più ampio di quello inteso da noi. La medicina in Africa non è solo la
sostanza capace di far passare un dolore, una malattia, ma è anche la
pozione che placa gli spiriti cattivi che impediscono a una madre di avere
figli, che portano un marito o una moglie all’adulterio. Medicine sono i
filtri d’amore che fanno conquistare la donna o l’uomo di cui si è
segretamente innamorati; sono anche le offerte di distillati o impiastri
per il feticcio del villaggio, affinché propizi un buon raccolto o
protegga dalle calamità.

Sì, perché
di fatto, in Africa, non esiste una separazione tra le cosiddette «piante
officinali» e quelle normali o alimentari come il mais, il peperoncino o
la patata. Tutto può essere medicina per l’africano, perché egli si sente
al centro tra quel cosmo animato da spiriti e creature, che è aldilà, e
quella natura, benefica o terribile secondo le circostanze, che è la terra
con i suoi elementi viventi o inanimati.

Qualcosa
da imparare?

In una
società come quella occidentale, in cui si eleggono a modello soprattutto
gli aspetti esteriori della vita (bellezza, forza, imponenza), l’Africa
insegna a non perdere il senso interiore e spirituale dell’esistenza
umana, di ogni suo momento: in particolare di quelle fasi critiche, come
la malattia e la morte, con cui tutti ci troviamo a fare i conti.

La
medicina modea si trova ormai ad affrontare con grande disagio la
quotidiana lotta contro la malattia e un frustrante senso di impotenza
verso la morte. Si sta giungendo a un pericoloso bivio: da una parte, c’è
il rischio di eccedere in attenzione verso un modello di freddo e
tecnologico efficientismo e, dall’altra, c’è la chiusura a riccio in una
corazza di superficialità e cinismo di fronte alla malattia e alla morte,
al punto da farle diventare tabù.

In
entrambi i casi il risultato è una spersonalizzazione del rapporto tra
malato e medico ed una estraneazione al coinvolgimento e a quella empatia
che sono gli elementi basilari del rapporto umano.

La scienza
medica e la farmacopea occidentali sono di enorme aiuto nella cura di
tante malattie che affliggono il continente africano e nel superamento di
numerosi pregiudizi che, spesso, ne sono la causa: per esempio certe forme
di mutilazioni neonatali o femminili, le malnutrizioni infantili…

Ma
altrettanto importante è il messaggio di umanità e riappropriamento di
valori umani che l’antica saggezza africana può ancora offrire a noi.

Gianni Martinetto




DI CHI E’ QUESTA TERRA?

Ghadamès, l’«interdetta»


Se si può parlare di mal d’Africa, a maggior ragione si può
definire la passione per il deserto qualcosa di più di una malattia. Ancor
oggi chi viaggia sulle strade asfaltate del sud algerino non può non
restare catturato dal silenzio interrotto solo dal «tobol», il tamburo
della sabbia, il rumore cadenzato prodotto dal contatto del vento con le
dune.
(Eric Saleo)

Perla nera
delle sabbie, città delle sette porte, crocevia carovaniero e mercato di
schiavi: ecco Ghadamès, vero avamposto del deserto. Ancora oggi, con
Timbuktu, Ouadane e Chinquetti, è una delle più belle e misteriose città
del deserto. Al presente quasi sepolta dalla sabbia, mille anni fa era un
importante centro carovaniero, ricco di scambi commerciali (oro, avorio,
pietre preziose) e culturali.

Costruita
in un’oasi di sogno, sotto il livello della strada al riparo dalle sabbie,
appare al visitatore come una città sotterranea dall’affascinante
labirinto di viuzze tortuose e buie, al confine con Tunisia e Algeria. Con
la spedizione di Lucio Coelio Balbo (20-19 a. C.), i romani vi
stabilirono un presidio (Cydamus), di cui sono ancora visibili i resti.

La sua
storia è una catena ininterrotta di invasioni e lacerazioni della propria
identità. Convertita al cristianesimo durante l’impero bizantino, fu
occupata in seguito dalla irruzione musulmana del 667 d. C. Nel 1825
l’esploratore inglese Alexander Gordan Laing fu il primo europeo che la
menzionò dopo secoli di silenzio. Il suo lungo viaggio in Sahara terminò
purtroppo tragicamente a Timbuktu, dove anche gli ultimi appunti di
viaggio furono distrutti dagli aggressori. Anticamente Ghadamès era nota
come «l’interdetta» e ancora oggi sono rarissimi gli occidentali di
passaggio.

È un luogo
insolito: non ha i caratteri di alcuna città libica, tunisina o algerina,
pur essendo un crocevia fra i più frequentati. Viene definita una città
intensamente africana per i colori accesi, i disegni esoterici, le torri,
lo sgargiante artigianato e, soprattutto, per quelle viuzze coperte, più
simili a cunicoli sotterranei. I vicoli di Ghadamès sono stati progettati
da abilissimi architetti, per catturare ogni folata di vento, ogni
squarcio d’ombra e di freschezza.

Oggi,
sull’antica Ghadamès è sceso il silenzio: dagli anni Ottanta i suoi
abitanti si sono trasferiti nella sua periferia, dove il governo libico ha
fatto costruire ambienti più confortevoli per la popolazione. L’UNESCO ha
preso sotto la sua tutela questa perla del deserto; ora, nelle sue vie
silenziose, si odono solo i rumori dei restauratori, piccoli gruppi
impegnati a valorizzare la porta millenaria, che conduce ai giardini di
palme ed orzo, ai quartieri berbero e arabo, all’hamman dove si raccoglie
l’acqua della sorgente.

Avvolte
in lunghi mantelli e veli, solo tre donne sono rimaste stabilmente qui:
madre, figlia e nipote. I loro abiti svolazzanti e il portamento regale
richiamano alla mente un vecchio regno arabo dalle favolose leggende. Chi
sono? Perché vivere come eremiti nel silenzio di case vuote? Solo ad un
turista frettoloso, tuttavia, queste case possono sembrare vuote: chi ci è
vissuto ricorda ancora cicalecci di donne sulla soglia di casa, grida di
bimbi, discorrere di uomini accomunati da un uguale destino.

Ma le case
non sono così mute come sembrano: percorrendo lentamente i tortuosi
viottoli, si scoprono luminose piazzette tra piccole case dai fantastici
decori dipinti dalle donne, la Usaiet el Tutà o mercato degli schiavi, i
terrazzi decorati che circondano orti e giardini, il minareto e la
moschea, i tetti e le merlature. Le palme da datteri sopravvivono ancora
dando frutti e ombra. La vecchia Ghadamès, patrimonio dell’umanità,
sopravvive malgrado l’apparente abbandono urbano.

Nonostante
le nuove e confortevoli costruzioni, la gente continua a vivere, anche di
giorno, nella vecchia città. Un proverbio arabo recita così: «Se la palma
muore, muore anche la città». Per questo e per altri motivi forse più
pratici, le vie strette e buie ma fresche e accoglienti sono ancora
frequentate e i giardini e i palmeti coltivati come un tempo, quasi che da
un giorno all’altro qualcuno venisse a controllae la vitalità.

I lunghi
corridoi coperti, più simili a tunnel scavati nel tufo, con il loro
andamento tortuoso servono a bloccare la sabbia trasportata dal vento. La
luce penetra da alcuni lucernari, e i sedili di pietra sporgenti dai muri
offrono ad ogni ora un fresco isolamento (rifugio, riparo) dalla calura
estea.

Entrando
nelle case si resta affascinati dai colori: muri bianchi decorati
prevalentemente in rosso, porte dipinte di blu, nicchie gialle, verdi,
rosse e ocra. Si salgono scale di pietra per raggiungere la «stanza di
soggiorno». Curiosamente nascosta in una nicchia, superabile solo
strisciando sul pavimento, appare l’alcova, dove per tradizione gli sposi
trascorrono solo la prima notte di nozze. Le stanze superiori e le
terrazze completano l’appartamento. Ovunque trionfa il bianco dei muri,
l’ocra, il giallo, il rosso, il blu. Sono colori caldi, ma non aggressivi,
e così ben armonizzati da lasciare una sensazione rilassante.

Visitare
Ghadamès è inoltrarsi in un passato che è ancora vivo, un mondo magico
dove gli uomini delle sabbie sono stati felici con poco. Lo sono
altrettanto ancora oggi?


Litanie delle
dune

Dune,
grandi dune ondulate come l’acqua del mare,

Dune dalla
fronte calva,

Dune, che
il vento lavora e tormenta senza tregua,

Dune, che
una goccia d’acqua rinfresca una volta ogni cent’anni,

Dune, che
vedete passare le carovane,

Dune
melodiose, che cantate al levare del sole,

Dune dal
buus d’oro e dal buus di neve,

Dune, dai
fianchi sollevati

come
quelli di una donna prossima a partorire,

Dune,
nostro sudario quando il simun soffia e ci travolge,

Dune,
grandi dune del deserto, rendeteci dolce la strada

E fate che
arriviamo alla meta…

Così
salmodiando, essi camminano lungo la strada nella sabbia, l’uno dietro
all’altro, al passo lungo e leggero dei nomadi.

Liliana Pizzoi




NEISU (R.D. Congo): storica assemblea su una questione scottante

<b<CHIRURGIA DI COSTUME


È possibile rimanere fedeli alla propria identità, pur
rinnovando tradizioni non più compatibili con la dignità umana e il
rispetto delle persone? Ci hanno provato i «mangbetu», con un’assemblea
che, certamente, farà storia.

15 maggio
2001: una data che oserei definire «storica» per i miei mangbetu, famosa
etnia nel nord della Repubblica democratica del Congo. È il giorno del
loro grande incontro sul tema: «Si deve ancora pagare il cadavere?».

Nessuno si
stupisca, perché la questione non è così strana come sembra; anche perché,
dopo un interessante dibattito, ne è uscita una risposta che rivoluziona
consuetudini secolari.

Ma
procediamo con ordine.

La
famiglia come è concepita in Europa (papà, mamma, figli) va un po’ stretta
all’Africa. Il bambino deve, fin da piccolo, conoscere molto bene gli zii
matei, perché la vita viene di là. Quando è ormai cresciuto, torna dai
genitori, oppure, se ha raggiunto la maturità, inizia egli stesso una
nuova famiglia.

Solamente
la morte del nipote rompe definitivamente questo strettissimo legame
vitale. Inizia, allora, un cerimoniale, e chi ne fa le spese è la famiglia
ristretta dove il nipote è deceduto.

Perché
avviene questo? Qual è il significato di avvenimenti che si ripetono ad
ogni morte? Gli antropologi parlano di risarcimento o compensazione. È
come se il congiunto (degli zii matei) fosse stato solamente «prestato»
alla famiglia (come sposo, sposa, figlio); la sua morte impoverisce la
famiglia di origine (zii matei) e, quindi, occorre risarcirla, darle un
compenso. E chiamano questa operazione «kofuta ebembe», ossia pagare il
cadavere.

I banoko
partono dal luogo della sepoltura del nipote con capre, polli, maiali,
soldi e vari oggetti (coltelli, pentole, vestiti…). Ma questo crea
l’impoverimento improvviso (a volte totale) della famiglia dove è avvenuto
il decesso. Si scoprono sempre più vere tragedie familiari.

La morte è
così frequente (anche a causa dell’Aids) che è difficile trovare una
famiglia che non abbia vissuto tale problema. Per cui si scopre che i
figli del defunto non vanno a scuola, perché i soldi non ci sono: li hanno
presi i banoko. Uno muore perché non può permettersi l’ospedale: i banoko
hanno portato via tutto. La vedova resta sovente in una situazione
pietosa: le hanno portato via persino gli utensili da cucina e il prezioso
bidone per attingere acqua alla sorgente.

Le
lamentele sui banoko e sul loro intervento alla morte del nipote è un
fatto generalizzato. Tutti piangono. Ma occorre pure dire che tutti sono
banoko e, presto o tardi, arriverà l’occasione di appropriarsi delle cose
alla morte di un nipote. Allora ci si rifarà. Resta tuttavia il fatto che
di questa usanza, anche se seguita da tutti, si farebbe volentieri a meno.

Ma i capi,
gli anziani, i detentori della tradizione sono d’accordo di abolirla? E
come accordarla con il vangelo?

I
partecipanti furono 2.119, così ripartiti: 1.028 uomini, 717 donne e 374
ragazzi. Interessante anche l’atmosfera ecumenica: i lavori furono aperti
dalle parole di padre Simon Tshiani, missionario della Consolata, e dal
pastore protestante Thomas, che ha presentato in lingua mangbetu le
tradizioni della tribù su questo tema scottante. Suggestivo è stato pure
il suo modo di esporre i problemi, intercalati da canti tradizionali, da
lui stesso composti, che invitavano al cambiamento di mentalità.

È seguito
un lavoro a gruppi, costituiti dalle diverse «collettività» (entità
amministrative), presieduti ciascuno dal capo tradizionale, dagli
«intellettuali» e dagli agenti pastorali: una vera concertazione a largo
raggio. Dopo un acceso dibattito in assemblea, è stato elaborato e votato
un documento finale, scritto in lingala (una delle lingue nazionali del
Congo) e firmato dai tre capi tradizionali, vincolante per tutti (vedi il
riquadro)… Ho fatto pervenire la documentazione all’amico Stefano
Allovio, grande conoscitore dei mangbetu. In una lettera mi ha risposto:
«Questa operazione di chirurgia sui costumi ancestrali è molto
interessante… Ma terrà?».

È quanto
ci chiediamo tutti, missionari e mangbetu. Finora la risposta è: tiene!

 


Se così stanno le cose

Nodadai:
gli zii del defunto sono chiamati a dare una somma di denaro. È possibile
che, da vivo, il defunto abbia dato frecce o lance agli zii, affinché alla
sua morte, facciano scorrere del sangue (vendetta). Questa si chiama «nongu».
A noi mangbetu giudicare se è un buon testamento.

Amuteno: è
il diritto di sepoltura da attribuire agli zii del defunto. Senza amuteno,
il cadavere rimarrà senza sepoltura, anche se il corpo va in
decomposizione. A noi mangbetu giudicare se questa pratica è buona.

Neposo:
dopo la sepoltura, è obbligatorio dare agli zii da mangiare: maiale o
capra, da uccidere subito, e il necessario in banane, manioca, olio e
tutti i condimenti.

Nekuwe
andreti: significa cercare i parenti remoti del defunto, affinché possano
anch’essi trarre profitto del neposo.

Nemongimbo:
è obbligatorio; per cui si comincia subito a trattare, mettendo da parte
la tristezza. Nemongimbo è una multa esigita dagli zii ed è in stretta
relazione con l’importanza del defunto: molti soldi, parecchie teste
d’animali, banane… senza contare i condimenti. A volte tutti gli animali
del defunto sono consegnati agli zii del defunto; così i figli e la vedova
rimangono senza niente. A noi mangbetu giudicare tale modo di fare.

Nuodutulu:
le donne sposate (sorelle del villaggio) possono ritornare dai loro sposi
solo dopo aver pagato o essersi liberate da questi obblighi; altrimenti le
donne rimangono prigioniere nel villaggio d’origine. Tale usanza può
portare al divorzio o all’adulterio. I bambini sono abbandonati alla loro
sorte. Tocca a noi mangbetu vedere se ciò è buono.

O ubwho:
sono gli obblighi, i lavori forzati o le pene inflitte sia al vedovo che
alla vedova, sia ad un membro prossimo della famiglia, come può esserlo un
cognato del defunto. Ecco alcuni esempi di pene inflitte: non mangiare né
bere senza permesso o pagare una somma di denaro prima di poterlo fare;
non lavarsi e non pettinarsi; obbligo di camminare sul ciglio della strada
o in mezzo all’erba. Lavori forzati, quali costruire una casa, cercare
legna speciale per il fuoco…  A noi mangbetu giudicare se queste
pratiche vanno bene.

Decisioni
finali

1. Noi,
mangbetu, non faremo più pagare per il cadavere, perché questa pratica non
contribuisce allo sviluppo della persona e del paese; perché i soldi che
si ricevono per un cadavere non aiutano l’individuo per molto tempo (Ez
24, 15-16).

Antonello Rossi




ARMENIA: «reportage» da un paese da futuro incerto

L’ESODO DI UN POPOLO SENZA SPERANZA


Quale domani per l’Armenia? È una domanda che sorge
naturale girando per le strade semideserte di Erevan. Il futuro di un
paese dipende dai suoi abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando:
preferiscono spendere il proprio talento ed energia all’estero, piuttosto
che in patria. E poi è difficile vivere spalla a spalla con l’Azerbaigian
e la Georgia.

Il jumbo
che mi portava a Erevan, capitale dell’Armenia, era quasi vuoto: solo una
ventina di passeggeri, spaparanzati negli spaziosi saloni. «Bella idea
utilizzare un aereo così grande per un pugno di viaggiatori!» mi dicevo.

Ma, al
ritorno, mi sono ricreduta sulle capacità commerciali delle linee aeree
armene: lo stesso jumbo, arrivato a Erevan vuoto, ripartiva quasi pieno.
Al check in (che mi aspettavo di fare in tutta tranquillità) c’era una
calca incredibile: gruppi di amici e amiche, famiglie, bambini,
passeggini, pacchi, baci, abbracci, sospiri. Si andava a Francoforte.

Ma per i
più non era quella la destinazione finale. A Francoforte, infatti, c’erano
due impiegati della compagnia che indirizzavano i passeggeri, appena
sbarcati, verso gli aerei in partenza per Los Angeles, Detroit e altre
località americane… La ragazza, seduta accanto a me durante il volo,
andava a Los Angeles. Vi si trasferiva definitivamente per vivere col
marito statunitense, sposato da poco. Un passo importante. Sembrava
tranquilla e sicura della scelta.

D’altra
parte, cosa avrebbe potuto fare a Erevan con la sua laurea in lingue
straniere?


Musei deserti

Così ho
potuto constatare un fenomeno iniziato all’indomani della fine dell’URSS e
dell’apertura delle frontiere: l’Armenia si sta svuotando. Di questo
passo, chi rimarrà a popolare la patria storica degli armeni? La
sonnolenza o aria di sbigottimento colta sul volto dei pochi passanti a
Erevan non era, dunque, come avevo ritenuto, da attribuirsi al carattere
nazionale.

Trovare
lavoro in Armenia è assai difficile. La caduta dell’URSS ha messo in crisi
un’economia che si reggeva solo all’interno di un sistema molto più ampio.
In Armenia, senza risorse naturali, le materie prime giungevano dalle
altre repubbliche dell’Unione, venivano trasformate dalle industrie locali
e il prodotto andava poi ad alimentare l’onnivoro mercato sovietico.

Ora questa
catena si è spezzata. Le fabbriche sono state chiuse una dopo l’altra e la
disoccupazione raggiunge il 50%. Chi può se ne va; chi non può resta e
campa alla meglio. Nelle campagne c’è l’orto a dare una mano. Chi ha un
parente all’estero (in molti, a dire il vero) si fa mandare un po’ di
soldi, che servono a sbarcare il lunario. I più intraprendenti cercano di
farsi assumere dalle poche ditte o ambasciate straniere presenti nel
paese.

Non è
facile neanche per chi ha un lavoro; gli impiegati statali, ad esempio,
sono così male pagati che non fingono nemmeno di mostrare solerzia
nell’eseguire il loro compito.

Il
Matenadaran (la famosa biblioteca-museo dei manoscritti antichi, orgoglio
di Erevan e di tutta l’Armenia) apre alle 10. A quell’ora mi sono
presentata davanti al suo massiccio portone in bronzo e l’ho trovato…
semichiuso. Consapevole dei miei diritti di visitatrice, mi sono
intrufolata dallo stretto pertugio… per essere fermata nell’atrio dal
custode, accorso dalla guardiola dove l’avevo visto sonnecchiare. Non
potevo entrare: l’autobus con il personale addetto alla sorveglianza non
era ancora arrivato. Toccava aspettare.

Sono
ritornata sulla spianata antistante il museo a scrutare il traffico:
inesistente. Dopo una ventina di minuti, ho visto il pulmino, col suo
carico di lavoratori, arrancare per l’erta strada che porta al museo e ho
pensato che ne sarebbe precipitosamente uscita una frotta di impiegati,
ansiosi di recuperare qualche minuto di ritardo. Invece, con grande calma,
fermandosi per scambiare qualche considerazione col guardiano, quattro
signore, già stanche, hanno varcato la soglia del museo.

E perché
si sarebbero dovute affrettare?  Per me, unica visitatrice?

In tutti i
musei mi sono ritrovata sola. Poco male quando si trattava di un piccolo
museo, come quello del pittore Martiros Sarjan, nelle cui modeste sale non
è evidente il senso di vuoto. Diverso, però, è aggirarsi da soli per il
Matenadaran, a cinque piani, nel cuore di Erevan, che ospita il museo
storico e la pinacoteca. Le ampie sale e i soffitti altissimi non fanno
che sottolineare la solitudine. Le vetrate offrono generose viste sulle
vie vicine: un ammasso di catapecchie, alcune in rovina, fra le quali
spicca per contrasto l’Hotel Yerevan, egregiamente ristrutturato e gestito
da una ditta italiana.

Il mio
arrivo in una sala causava sempre un po’ di scompiglio tra le signore
della sorveglianza; prima ancora dei quadri appesi, colpiva i sensi l’aria
pregna dell’odore di pesce in scatola e di nescafè, insieme alle
chiacchiere, loro magro conforto nelle lunghe ore del servizio. Una volta
sono stata raggiunta da una sorvegliante anziana, che, appena siamo
rimaste sole, mi ha chiesto di aiutarla a pagare la bolletta della luce. A
guardarla, non potevo dubitare che si trovasse nella miseria. Le ho dato
il piccolo obolo che mi chiedeva, mentre ascoltavo la sua filippica contro
i governanti corrotti che affamano il paese.


Armeni e
azeri in guerra

In Armenia
corruzione, malgoverno e lotte di potere affliggono il paese e sono causa
di altri mali, che si aggiungono a quelli inflitti dalla natura.

Si vive in
un paese di sassi, che lasciano spazio pure a campi e frutteti; ma il
terreno sembra buono, soprattutto, per far pascolare le pecore e qualche
mucca. Il sottosuolo è povero. Luce e riscaldamento nelle case ci sono,
grazie alla contestatissima centrale nucleare, costruita in epoca
sovietica alla porte di Erevan. Ma in zona sismica. Il sud del paese non
si è ancora completamente ripreso dal terribile terremoto del 1988.

A ciò si
deve aggiungere la guerra iniziata nel 1992 per la conquista del Nagoo
Karabakh, regione che apparteneva all’Azerbaigian, ma a maggioranza
armena. Il conflitto ha avuto pesanti conseguenze umanitarie. Stime non
ufficiali parlano di circa un milione di profughi, tenendo conto sia degli
azeri fuggiti in Azerbaigian, sia degli armeni che ne sono scappati
altrove.

In
territorio azerbaigiano vivevano da secoli diverse comunità armene. La più
consistente, anche se non la più antica, risiedeva a Baku. Ma, prima il
pogrom sovietico contro gli armeni nel 1988 a Sumgait, vicino a Baku, e
poi l’odio e la furia scatenati dalla guerra hanno posto fine alla loro
presenza tra gli azeri.

Dal 1994
le armi tacciono, ma la pace non c’è. I negoziati sono a un punto fermo,
perché l’Azerbaigian non è disposto a cedere una regione che costituisce
il 14% della sua superficie e include Shusha, uno dei maggiori centri
storici e culturali azeri; né gli armeni intendono rinunciare alle proprie
conquiste e a un territorio rivendicato da tempo.

Un accordo
sembrava in vista nel 1999, dopo una serie di incontri tra i due capi di
stato; ma nell’ottobre di quell’anno un’incursione armata nel parlamento
di Erevan, durante la quale vennero uccisi il primo ministro e sette
deputati, seppellì ogni speranza di una rapida soluzione del conflitto.

Tuttavia,
calamità naturali e guerra non bastano a spiegare alcuni aspetti della
vita sociale e politica in Armenia, dove la situazione circa i diritti
civili non è ideale. Come nelle altre repubbliche ex-sovietiche, sono
pesanti le conseguenze del recente passato totalitario.

L’Armenia
è ancora lontana dall’essere autenticamente democratica. La scena politica
è alquanto travagliata: ad ogni nuova elezione gli osservatori rilevano
brogli e irregolarità; l’informazione, sebbene formalmente libera, è
condizionata dal partito al potere; dopo alcuni casi clamorosi di
maltrattamento e arresto di giornalisti, le redazioni praticano una sorta
di autocensura.

La
costituzione garantisce tutti i diritti, ma in pratica spesso non c’è
sufficiente volontà di farli rispettare. La polizia agisce indisturbata e
ricorre a violenze, confidando sull’impunità che le viene di fatto
assicurata; sono normali gli arresti senza regolari ordini da parte della
magistratura. Il potere giudiziario è controllato da quello politico,
nonostante che sulla carta ne sia indipendente.


Il risveglio
della dignità

Sono
diverse le organizzazioni umanitarie presenti in Armenia. Le prime
arrivarono subito dopo il terremoto. Fu un fatto che suscitò scalpore,
perché era la prima volta, dopo decenni di totale chiusura verso gli
stranieri, che si permetteva loro di operare in un territorio sovietico.
Arrivarono anche degli italiani. Tra loro un medico siciliano, Antonio
Montalto, che dal 1994 si è stabilito definitivamente nel paese.

Passata
l’emergenza terremoto, sono emerse altre difficoltà, legate alle gravi
carenze di strutture sociali e sanitarie. C’è chi, come i «Medici senza
frontiere», si occupa dei «bambini difficili». Costoro subiscono violenze
psicologiche e fisiche dagli adulti, vengono mandati ad accattonare o sono
utilizzati da circoli mafiosi; una volta acciuffati dalla polizia, sono
rinchiusi in orfanotrofi simili a carceri.

C’è chi
offre assistenza alle donne vittime di violenze da parte degli sfruttatori
della prostituzione o all’interno delle mura domestiche: un fenomeno,
quest’ultimo, più ampio di quanto non si creda, perché i maltrattamenti in
famiglia vengono raramente denunciati.

Antonio
Montalto ha scelto di occuparsi della ristrutturazione dei
reparti-mateità negli ospedali, ultimamente soprattutto in Karabakh, e
della formazione del personale che vi lavora. La scelta di assistere le
donne in un momento delicato come la mateità non è casuale, né è casuale
il nome che ha voluto dare alla propria organizzazione: Family care.

Antonio è
convinto che molti dei problemi nascano dalla mancanza di solidarietà tra
la gente, anche all’interno delle famiglie. Il suo progetto è ambizioso, e
va al di là della semplice offerta di aiuto. «Non sono qui solo per
rispondere a bisogni concreti – mi spiega -. Ho la pretesa di proporre dei
valori. Ad esempio, quando si tratta di far nascere un figlio, i papà se
ne disinteressano; la reputano una questione da donne. Nell’emergenza devi
occuparti della mamma e del bambino, e poi del papà. Noi cerchiamo di fare
le due cose contemporaneamente».

Così,
oltre a formare il personale, equipaggiare i reparti di mateità e
assistere le madri durante il parto, i volontari di Family care incontrano
anche i padri e chiedono loro di partecipare a tutte le fasi della nascita
dei loro figli.

Antonio
presenta il suo lavoro come un tentativo per ridare dignità alla persona.

«Per un
direttore d’ospedale, che occupa questo posto perché messo dai politici,
il paziente è solo un mezzo per ottenere soldi, oppure un onore. Ad una
madre (che può sentirsi dire: “Dammi 50 dollari, altrimenti non ti faccio
nascere il figlio”), noi facciamo capire che a lei teniamo. Le offriamo
una struttura che non risponda solo al bisogno di assistenza medica, ma
che vuole essere accogliente, curata nei particolari. Mettiamo molta
energia per fare dei nostri reparti dei luoghi giorniosi, dove si stia bene.
L’attenzione alla persona e la cura delle cose può contribuire a cambiare
la mentalità, se le porteranno con sé quando ritoeranno a casa. D’altra
parte, è proprio quando ci sentiamo guardati con rispetto che ci
accorgiamo del nostro valore. Bisogna risvegliare nella gente la coscienza
della propria dignità e dei diritti, che hanno perso».

La non
certezza del diritto e il disprezzo da parte di coloro che ricoprono
cariche pubbliche sono una triste realtà quotidiana nelle ex repubbliche
sovietiche. E l’Armenia non fa eccezione.


La gente se
ne va

Fra tanti
guai, l’Armenia deve fare i conti anche con la sua posizione geopolitica,
essendo circondata da musulmani con cui ha sempre avuto rapporti
difficili. Però, attualmente, sono migliori le relazioni con l’Iran degli
ayatollah che con la cristiana Georgia, per una disputa territoriale che
rischia di rendere molto precario il confine tra i due paesi e aggravare
ulteriormente una situazione pesante: l’Armenia vive già in uno stato di
semi-isolamento, con le frontiere turca e azerbaigiana chiuse. L’unico
confine tranquillo è quello iraniano, ma si tratta di pochi chilometri.

Quale
futuro per l’Armenia? È una domanda che sorge naturale girando per le
strade semideserte di Erevan. Il futuro di un paese dipende dai suoi
abitanti. Ma gli armeni se ne stanno andando, preferiscono spendere il
proprio talento ed energia all’estero, piuttosto che in patria.

Come si fa
a non capirli?

La vita di
un uomo è breve e chissà quanto tempo ci vorrà prima che la ruota della
storia compia il suo giro e restituisca al paese pace e prosperità. Chi ha
voglia di bruciare i propri anni a faticare per un risultato che, forse,
vedranno solo le generazioni future?

Eppure
qualcuno continua a sperare e a credere. Simbat, un armeno dolente, come
tanti altri da me incontrati, è convinto che l’Armenia stia solo
attraversando un brutto momento, ineluttabile, ma passeggero. Egli vive a
Teheran (Iran) e vorrebbe tornare in patria: uno dei pochi. Prima, però,
deve trovare lavoro, impresa oltremodo difficile.

Gli
auguriamo con tutto il cuore che ce la faccia. E che il tempo gli dia
ragione.

Scheda paese


Superficie: 29.800 kmq


Popolazione: 3.500.000 (93% armeni)


Capitale: Erevan (1.500.000 ab.)

Goveo:
repubblica presidenziale

Religione:
cristiano-armena (66%), con pochi cattolici

Economia:
in pianura si coltivano cereali, cotone, tabacco, barbabietola da zucchero
e vite; in montagna si alleva bestiame; il sottosuolo contiene rame,
alluminio, oro… Indicatori: reddito annuo pro capite: 460 dollari ($);
inflazione annua: 349%; importazioni: 990 milioni di $; esportazioni: 360
milioni di $; debito estero 800 milioni di $ (dati del 1998)


 L’Armenia, già repubblica federata nell’ambito dell’URSS, divenne
indipendente nel 1991

 


Khomeini in
cattedrale

Fuori
della patria storica, gli armeni hanno sempre dimostrato intraprendenza,
capacità imprenditoriale e creatività, fondando comunità floride da ogni
punto di vista, non ultimo quello culturale e artistico. Ne è una
dimostrazione la loro presenza nell’Impero persiano, che ha lasciato segni
importanti: basti ricordare le bellissime chiese dei santi Taddeo e
Stefano nel nord dell’Iran, autentici capolavori d’arte, o il quartiere
armeno di Nuova Julfa a Isfahan, uno dei maggiori poli turistici.

Numerosa e
prospera ai tempi dell’ultimo scià, la comunità armena in Iran è oggi in
profonda crisi.

La crisi
interessa anche l’Iran. A più di 20 anni dalla rivoluzione di Khomeini, il
paese ha una grande voglia di cambiamento, però frustrata
dall’impossibilità di agire secondo meccanismi democratici. Il potere è in
mano ad una cricca di musulmani ultraconservatori. Parlando con la gente
si ha l’impressione che, se avesse la possibilità, prenderebbe il volo
verso lidi con maggiore libertà. Alcuni lo hanno già fatto e altri sono in
procinto di farlo.

Questo
desiderio è, a maggior ragione, vivo tra gli armeni, il cui esodo
dall’Iran è massiccio. Gioo dopo giorno la comunità armena di Teheran si
assottiglia. Negli uffici della cattedrale sono stata testimone di un
andirivieni di persone con passaporti e moduli per chiedere informazioni
sulle pratiche di espatrio. I più si dirigono verso gli Stati Uniti, altri
in Europa e pochi in Armenia. Erano 300 mila prima della rivoluzione. Ora
si parla di 50-60 mila persone, ma le cifre reali sembrano essere
inferiori: 25 mila al massimo. Gli armeni paiono proprio decisi a porre
fine al loro secolare insediamento in Iran.

Il club
armeno di Teheran è l’unico luogo pubblico dove le donne sono libere di
vestire come credono; per questo le autorità hanno preteso che l’entrata
fosse proibita agli iraniani. Sono stata invitata da due amiche armene:
Aida, divorata dalla nostalgia per la famiglia negli Stati Uniti (mentre
lei non è ancora riuscita ad ottenere il visto), e Charlotte, anch’ella
desiderosa di lasciare il paese, magari per l’Italia, di cui conosce
splendidamente la lingua. Sono loro a farmi entrare in un’ala del club,
attrezzata per i ricevimenti.

Vi si sta
celebrando una festa di nozze e sono curiosa di darci un’occhiata. Quella
che a me sembra una naturale animazione non le rallegra; al contrario, i
loro occhi sembrano diventare ancora più tristi. Aida me lo spiega:
«Stringe il cuore vedere queste sale semivuote. E pensare che un tempo non
si riusciva a far stare tutti gli invitati!».

Ci sono
«circostanze» che valgono solo per i cristiani. Davanti alla legge il
cristiano non è uguale al musulmano: è la costituzione a stabilirlo. Se un
cristiano ha una vertenza con un musulmano, quest’ultimo ha quasi sempre
la meglio; se il primo commette una colpa, va incontro a sanzioni più
gravi rispetto al secondo. Mi è stato riferito il «prezzo del sangue»; la
legge prevede in alcuni casi pene pecuniarie come risarcimento alla
famiglia per l’uccisione di un congiunto; se un armeno uccide un
musulmano, la penale è di 7 mila dollari; ma, se l’uccisore è musulmano,
la penale scende a 300 dollari.

Nelle
assunzioni pubbliche i musulmani sono privilegiati (nelle imprese private
sembra, invece, che gli armeni siano benvisti). Anche nello sport: nella
squadra nazionale non possono giocare calciatori armeni. Ma gli obblighi
di un armeno verso la collettività non sono minori, a cominciare dal
servizio militare. Anche gli armeni sono tenuti a difendere l’Iran e hanno
pagato il loro tributo di morti negli otto anni di guerra contro l’Iraq.

G li
armeni ammettono che nei loro confronti non ci sono state persecuzioni,
nemmeno dopo la rivoluzione islamica di Khomeini; le autorità non hanno
mai impedito loro lo svolgimento del culto. Hanno una presenza politica
riconosciuta, con due loro membri in parlamento; hanno diritto a quote di
studenti nelle università e a scuole proprie.

Ciò che
caratterizza la scuola armena non è l’insegnamento della religione
cristiana (svolto nei locali della chiesa), ma un’ora settimanale di
lingua armena e il fatto che non sia obbligatorio lo studio del corano.
Una volta le scuole armene erano tante. Oggi gli studenti sono sempre di
meno, le scuole chiudono e l’edificio viene rilevato per legge dallo
stato. A Teheran resiste ancora una decina di scuole.

La prima
cosa che si nota, entrando nella cattedrale armena di Teheran, è un grande
ritratto di Khomeini: ufficialmente la comunità armena si attiene con
scrupolo al «protocollo». Non esistono pubblicazioni che ne descrivono la
vita reale, i disagi; vengono stampati giornali e bollettini che informano
sulle attività e iniziative in atto.

La stessa
cautela regna nella comunità di Isfahan. Ho incontrato l’anziano direttore
della biblioteca, il quale mi ha assicurato che gli armeni non hanno alcun
problema, che la gente sta bene e non ha intenzione di andarsene. Poi ho
saputo che due suoi figli vivono a New York.

Mi ci sono
recata una domenica mattina. Vedendo parcheggiati all’ingresso un grosso
pullman e molte auto, ho pensato ad un arrivo speciale di armeni o di
altri cristiani per il giorno festivo. Mi sbagliavo: si trattava di
musulmani. Questo luogo è per la comunità armena il più potente «autoreclame».
Tra i visitatori della cattedrale c’è chi si informa per sapere di più
sulla storia e cultura armena, sui corsi di lingua. In città esiste una
facoltà di armenistica, che sembra essere alquanto popolare, sebbene
nessuno sia riuscito a spiegarmi quali siano le possibilità che si aprono
agli studenti una volta laureati. I ricchi affreschi della cattedrale e
gli straordinari oggetti esposti al museo suscitano sempre interesse.
Recentemente è stata anche aggiunta una teca, che illustra i luoghi del
genocidio perpetrato contro gli armeni dal regime dei Giovani Turchi. Una
delle impiegate del museo mi ha assicurato che non c’è iraniano che non
sappia di quei tristi avvenimenti. La comunità promuove manifestazioni
pubbliche in occasione dell’anniversario del genocidio, tra cui un corteo
per le vie della capitale.

Un paese
musulmano come l’Iran ha dimostrato più sensibilità di noi verso la
tragedia che ha colpito questi nostri fratelli cristiani, vuoi per la
maggiore vicinanza ai luoghi del terribile massacro degli armeni nel 1915,
vuoi perché, proprio in Iran, molti di loro hanno trovato rifugio dalla
persecuzione turca.

L’Italia
per anni si è rifiutata di riconoscere ufficialmente il genocidio, cedendo
alle pesanti pressioni del governo turco; lo ha fatto solo nell’autunno
2000. È per questo che ben pochi tra noi sono a conoscenza del genocidio?
Forse molti ne hanno sentito parlare, per la prima volta, solo grazie alla
recente visita del papa in Armenia.

Però lo
stupore era sincero. La gente non sa che l’armeno ha uno «status» di
cittadino di seconda categoria. Se l’avessi loro rivelato, probabilmente
non ci avrebbero creduto.

Gli armeni
hanno con gli iraniani buoni rapporti nell’ambito del lavoro e della vita
pubblica; ma non intrattengono rapporti di amicizia. Oltre a un’innata
diffidenza, è determinante l’impossibilità di stringere legami di sangue.
Molti giovani, pur vivendo in Iran, sono mentalmente proiettati altrove.
Il mondo che li circonda non li interessa: ne parlano con un certo
disprezzo.

Ma c’è
anche chi intende restare, per principio. C’è chi lotta per vedersi
riconosciuto il diritto di essere cittadino alla pari di altri; c’è chi
non vuole abbandonare una terra, dove gli armeni sono vissuti per tanti
secoli, fondando un notevole patrimonio culturale e artistico. Il futuro
sembra promettere un progressivo miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto l’Iran chiede un ordinamento più liberale e democratico.

Alcuni
cambiamenti sono in atto, altri verranno. Però i tempi per una radicale
trasformazione del paese saranno lunghi e qualche armeno dichiara: «Sta’ a
vedere che, quando arriverà finalmente la libertà, nessuno di noi sarà più
qui a salutarla!».

Biancamaria Balestra




Lettere


Anna, 98
anni…

la vostra
rivista, letta in famiglia da moltissimi anni, è sempre graditissima. La
mamma Anna, di 98 anni, fisicamente invalida, ma lucidissima, vi legge
tutti i mesi e prega…

Ci piace
il vostro dialogo e la vostra apertura: date spazio a tutti con rispetto e
comprensione, ma senza connivenza.

Alberta
Popoli, Parma

Signora
Alberta, chieda a mamma Anna di pregare un po’ anche per noi.


Chi è
imbecille?

sono
nauseato dalla rivista, la quale potrebbe anche essere buona se non fosse
che, da anni, è diventata odiatrice dell’occidente ricco. È ora che la
smettiate di seminare odio e vi decidiate a dire chiaro che i popoli
dell’Africa, indipendenti da molti anni, e del Sudamerica devono
rimboccarsi le maniche e tirarsi fuori dalla melma in cui li costringono i
loro governanti.

Queste
nazioni stavano meglio quando erano colonie «sfruttate». Logicamente,
oltre a rimboccarsi le maniche, devono avere l’aiuto delle nazioni
«ricche» dell’Europa e degli «odiati» Stati Uniti. Pur riconoscendo che
tanti colonizzatori hanno commesso abusi e uccisioni, mi sa indicare lei,
direttore, dove ciò non sia avvenuto, non avvenga e non avverrà?

Tralascio
l’argomento «crociate», «compiute in nome di Cristo» da criminali
«cattolici». Però mi fanno anche sorridere le continue «scuse» del papa.
C’è mai stata una scusa da parte degli «altri» per gli infiniti massacri
di cattolici? Perché non alzate la voce (avete forse paura?) contro Arabia
Saudita, Sudan, Cina, ecc., nazioni dove è vietata o ostacolata la pratica
religiosa cattolica, quando non perseguitata?

Invece
difendete l’invasione in Italia di milioni di musulmani ed altri, che
foraggiate, pur senza avvedervi (o fate finta!). Così essi prendono sempre
più piede, diffondendo le loro pseudo religioni, che di fede non hanno
nulla, essendo atti di fanatismo.

Quello che
non riesco a capire è che voi, preti, andate anche in missione per
diffondere la fede di Cristo, e intanto difendete gli «invasori», vi
mischiate con loro senza rendervi conto (sarà poi vero?) che, invece di
convertirli, fate sì che moltissimi cattolici abiurino la loro fede per
passare all’altra sponda. Bravi!

Io non
sono un senza-Dio, anzi! Provengo da una famiglia nella quale i genitori
hanno allevato me e sette fratelli nella fede di Cristo più schietta; sono
nipote di un grande prete salesiano; sono fratello di una missionaria in
Burundi, fino a quando i miserabili governanti di tuo (africani, non
europei o statunitensi!) l’hanno cacciata con altre suore e preti; sono
papà di una suora salesiana, da tanti anni in Africa. Pertanto non sono un
mangiapreti.

Sono uno
che ritiene, come diceva Totò, che «ogni limite ha una pazienza»! Non si
possono solo e sempre scrivere accuse pesanti e gratuite, oppure fare di
ogni erba un fascio contro i «potenti» e i «ricchi», imputando loro ogni
responsabilità nelle loro ex colonie. Molti «padroni» africani e
sudamericani, quando non sono disonesti e criminali, sono quanto meno
inetti e, quindi, non meritevoli dei posti che occupano.

Invece di
propagandare (la vostra è spesso propaganda) le religioni di altri popoli,
dovreste diffondere unicamente la nostra religione, la sola e vera
religione! Qualora lei, direttore, contestasse tale affermazione, farebbe
meglio a spretarsi!

Quando mai
gli altri hanno parlato (non dico bene, ma semplicemente parlato) della
fede cattolica? Siamo solo noi gli unici imbecilli, al pari di chi vede
l’erba del vicino più verde della sua? Mi pare che il vangelo non insegni
a «vendersi» o a «leccare» i nostri «concorrenti»!

Aiutare i
popoli è un dovere di noi cattolici (non semplicemente cristiani), ma alla
tassativa condizione di non farci turlupinare o sedurre dalle loro
credenze (non fedi). Vi siete forse fatti preti per imboscarvi e trovare
una comoda sistemazione? Gli unici fratelli (a parte quelli di sangue)
sono i cattolici: tutti gli altri possono essere dei «bisognosi»,
meritevoli di aiuto e basta!

Avrei
ancora tanto da dire (immigrazione di farabutti, sfruttatori, prostitute),
ma smetto ben sapendo che lei, da bravo prete, cestinerà schifato la
presente lettera; oppure, nel migliore dei casi, mi risponderà con
arroganza e disprezzo.

Però
ancora una domanda: perché, nonostante tutte le cattiverie gratuite che
dite a riguardo dei paesi ricchi, accettate (eccome!) le elemosine degli
stessi e non le respingete al mittente? Io credo di saperlo: perché gli
aiuti (fossero anche di satana) sono sempre bene accetti!

Lettera
firmata, Torino

I
missionari non ricevono offerte dai «ricchi», ma da «quelli che sono
poveri davanti a Dio». (Mt 5, 7)… E sorridere di fronte ai mea culpa del
papa non ci pare un bel sorriso.

 

CCP
33.40.51.35

quando
posso, cerco di fare qualche offerta per i vostri interventi nei paesi
bisognosi. Le offerte potrebbero essere maggiori, se ci fosse il numero di
un conto corrente Onlus, in modo da detrarre l’importo dalla dichiarazione
dei redditi, rendendo così la cifra a mia disposizione maggiore.

Alberto
Ramagno M., Roma

Il conto
corrente postale è 33.40.51.35 (per altre informazioni, si veda l’ultima
pagina della rivista). Ringraziamo il signor Alberto e quanti sostengono
l’opera dei missionari.

 


Il circo
della «formula uno»


 Spettabile redazione,

avete
fatto bene a evidenziare le responsabilità della tivù per l’insensata
attenzione ai divi della formula uno. Anch’io ho l’impressione che
giornali e telegiornali esagerino nel dare la prima pagina alla Ferrari.
Anche se le «rosse» non hanno la pole position e a vincere sono MacLaren o
Williams, lo spazio per l’automobilismo è troppo.

Molti
parlano di «circo della formula uno», alludendo alla spettacolarità delle
corse, alla disinvoltura con la quale le principali case automobilistiche
si spostano da un punto all’altro del pianeta, all’efficienza con cui si
risolvono i problemi tecnici.

La parola
«circo» esprime l’incredibile docilità con cui piloti e tifosi ubbidiscono
ai loro ammaestratori (Montezemolo, Ecclestone, Williams, Briatore…).
Sono convinto che, quando M. Schumacher proclama «amo la rossa come mia
moglie» e «alla prima curva non ho parenti», lo fa soprattutto per
tranquillizzare i suoi padroni e non far nascere il sospetto che gli
affetti familiari possano condizionare negativamente il suo rendimento.

Una
conferma del rovesciamento della scala naturale dei valori è arrivata dal
circuito di Lausitzring. Costato 300 miliardi di lire e definito un
«giorniello di sicurezza», su questo circuito, dopo pochi mesi di attività,
è morto Alboreto, mentre Zanardi ha perso le gambe…

Venerdì,
14 settembre 2001, per commemorare le vittime delle Twin Towers e del
Pentagono, sul circuito di Monza c’è stato un minuto di silenzio, e non
tre; domenica 16, non c’è stato nessun rallentamento alla prima curva,
nessun accordo tra le scuderie per ridurre il rischio di collisioni.
Perché? Perché altrimenti Ecclestone si sarebbe arrabbiato.

Francesco
Rondina, Fano (PS)

Il signor
Rondina si riferisce alla nostra risposta ad un lettore (Missioni
Consolata, settembre 2001).


 Accendi il
motore

Da anni
collaboro con i salesiani nella formazione dei giovani, credendo nelle
parole «religione, ragione e amore». Ma consideravo solo i giovani che mi
circondavano fisicamente. Mai mi ero chiesta quali e quanti visi di uomini
e donne, sfruttati, vi fossero dietro le etichette dei prodotti acquistati
o quanto costasse, in termini di vite umane, la benzina.

Parlavo di
solidarietà, impegno e coscienza sociale del «buon cristiano e onesto
cittadino», ma in modo astratto. Poi ho cominciato a capire di esser parte
di una rete di ingiustizia e illegalità, di essere piccola, ma anche
potente da rendere «schiavi» altri esseri umani. Schiavi dei miei bisogni.
E ho cominciato a vedere «incarnato» in alcuni il senso di responsabilità
per chi ci è accanto.

Se ami
l’uomo e credi in lui, ami e credi in tutti. Se decidi di essere
consapevole di te stesso, decidi pure di essere responsabile dei tuoi
fratelli, chiunque e dovunque siano.

Nel mio
«viaggio di terra» ho iniziato a conoscere la bellezza delle persone: è la
capacità di riscatto, il dono di un cuore che non si stanca e di una mente
che può arrivare alle «radici» della terra e alle «cime» del cielo.

Ogni uomo
ha un «motore vitale», non inquinante, anzi rigenerante. Ogni persona
merita rispetto e ascolto: anche quelle che hanno nascosto il loro «motore
vitale» sotto logiche di mercato e profitto; anche quelle che ci vogliono
«comparse» nella vita. Ma chi ne è vittima e schiavo merita di più: merita
che il nostro «motore vitale» generi un movimento di coscienze, di piedi
che marciano, di mani che donano e scrivono e di parole che scuotono. Lo
sento come dovere, per guadagnarmi la «fortuna di essere».

Voi
missionari avete «acceso il motore»… Accendete una lampada e ponetela
sul lampadario, perché chi entra veda la luce (cfr. Lc 8, 16).

Anna
Salzano, Torino

 


Arrivederci Etiopia

Ci sono
tanti bambini senza i genitori (ma alcuni vengono adottati dai nostri
amici italiani). Ci sono ammalati senza ospedale, perché senza soldi; così
la sofferenza li fa morire. Ci sono tanti sfortunati, ma anche fortunati.
Fortunata sono anch’io. Ringrazio Dio di essermi stato vicino e aver avuto
la famiglia a consolarmi.

Ora sto
trascorrendo un bellissimo periodo con una famiglia italiana e voglio
ricordare anche padre Domenico Zordan, che è stato l’inizio della mia
fortuna. Sarei felice se lo avessi vicino, per ringraziarlo con tutto il
cuore.

Etiopia,
non ti dico addio, perché, se Dio vuole, toerò a rivedere la mamma, i
fratelli, gli amici. Arrivederci dunque.


Testimonianza pervenutaci attraverso la famiglia di Ivo Babolin, presso la
quale Zennash, etiope di 18 anni, è ospite per cure mediche.

Padre
Domenico Zordan, missionario della Consolata, è deceduto nel 1997.

 


 LA POLITICA DEL
DISPREZZO NO!

 


Problemi a
valanga

Su
Missioni Consolata di settembre, pagina 11, riportate cosa ha fatto il
vescovo di Kyoto, senza alcun commento. Chi tace acconsente! La cosa è di
una gravità eccezionale: come può un vescovo predicare l’odio politico e
religioso?


L’imperatore del Giappone è pure capo religioso per i suoi seguaci. Dov’è
il dettato di Gesù «date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di
Dio»?

Come si
permette di criticare l’inno nazionale, che celebra l’imperatore come capo
dello stato (e non il popolo), quando anche il papa è capo di stato e, per
di più, assoluto e non democraticamente eletto dal popolo? Un vescovo può
sbagliare, ma un redattore non deve riportare un errore, come se fosse una
cosa bella.

A
pagina 64 dello stesso numero vi è uno dei soliti articoli contro le
multinazionali. Queste sono società di extraterrestri e vogliono
colonizzarci? Nelle multinazionali lavorano migliaia di persone (e molte
azioni sono del Vaticano): costoro sono anch’essi colpevoli, perché
eseguono gli ordini e interessi delle multinazionali?

Mi
sapete spiegare perché una multinazionale deve, a proprie spese,
stipendiare ricercatori, costruire laboratori con attrezzature costose e,
forse, scoprire ogni tanto qualche prodotto che fa bene all’umanità e poi,
sempre a proprie spese, deve darlo a poco prezzo ai poveri? Perché i
governi dei poveri (e non i governi dei «ricchi»), invece di spendere in
armamenti, non spendono nei medicinali delle multinazionali?

Se
l’Iraq avesse fatto controllare tutti i suoi siti industriali dagli
incaricati dell’Onu, non ci sarebbero state sanzioni e, quindi, potrebbe
spendere in medicinali e vitto per il proprio popolo. E il prete che va a
«Porta a Porta» (forse un missionario della Consolata?) non avrebbe da
lamentarsi per i bimbi iracheni che muoiono! La chiesa cattolica perché
non vende le sue proprietà immobiliari (i sacerdoti potrebbero vivere come
Gesù Cristo), per investire il ricavato in medicine per i poveri?

È bello
dire sempre «dovete dare» e mai… «diamo»!…

Sul
numero di ottobre, pagina 69, già il titolo fa ribrezzo. Gli «otto nani
miopi e prepotenti» sono stati eletti democraticamente dai loro popoli e,
quindi, non sono né nani né miopi. Questi titoli vanno bene per Paolo
Moiola e per il direttore che ne autorizza la stampa: l’uno e l’altro, non
eletti democraticamente, dimostrano di essere presuntuosi!

Sono
spiacente anche di verificare come, oggi, si dica che ogni religione è
valida: così pagani, buddisti, indù, maomettani, testimoni di Geova,
mormoni, luterani… saranno premiati come i cattolici, se si comportano
secondo il loro credo. Allora Gesù ha sbagliato a dire di convertire i
popoli e anche i missionari non hanno più scopo di esistere…

Io
faccio la carità perché, conoscendo Cristo, la tua anima si salvi; ma, se
la mia carità serve solo a darti da mangiare e tu rimani buddista o
maomettano, preferisco darla ai veri cristiani-cattolici.

Cesare
Verdi – Riva di Chieri (TO)

 


Del vescovo di Kyoto, Otsuka, si parla in «La chiesa nel mondo», una
rubrica che da sempre riporta fatti senza commenti. Ma la notizia non
accenna ad alcun «odio politico e religioso» da parte del vescovo.


Per rispondere alle altre questioni, l’intera rivista non basterebbe.

  


Marce
di pacifisti


e guerra

 Egregio
direttore, da anni leggo la sua rivista e, in varie occasioni, mi sono
irritato di fronte a posizioni parecchio oltranziste, sostenute dai
redattori nei confronti degli Stati Uniti d’America. Sicuramente non è
tutto oro quel che brilla oltreoceano; ma, quando la critica negativa è
continua, sistematica e totale, mi pare ovvio dedurre che c’è una grave
mancanza di obiettività.


Domenica, 10 novembre, alcuni di loro avranno sicuramente preferito
marciare con gli spaccatori di vetrine (certo, non tutti lo sono). Ma, se
lei ha visto la diretta di «Rai 1», avrà notato un’anziana donna che,
avendo avuto l’ardire di raccogliere da terra e baciare una malridotta
bandiera statunitense, è stata strattonata da alcuni giovani
eroi-marciatori e sicuramente pacifisti, per riprendersi il vessillo e
nuovamente calpestarlo. Sono fatti che non hanno bisogno di alcun commento.

Per
quanto riguarda le varie «etnie» di pacifisti, pongo a lei, che non vedo
mescolato ai «marciatori», la domanda: ritiene che la questione afghana si
sarebbe potuta risolvere (come pare stia accadendo) con marce e striscioni
contro la guerra tout court?

Guido
Laurenti – Isera (TN)

 


No, la questione afghana non si risolve con marce e striscioni. Ma si sta
risolvendo con le bombe?


 

 Povera

«Missioni Consolata»!

 Non di
soldi, ma di articoli. Quando la rivista per mesi (dico mesi) continua a
battere sul G 8 di Genova con articoli alla… Bertinotti, non solo è
povera, ma poverissima. Quando poi l’articolista Pa.Mo. (Missioni
Consolata di ottobre-novembre 2001) afferma di essere stato a New York a
ferragosto, io mi fermo.


Spariamo sul G 8, però andiamo a New York, abbiamo il telefonino, beviamo
coca-cola, mangiamo ai McDonald’s… Non vogliamo il G 8, però prendiamo
tutto ciò che il progresso ci dà e, se possibile, ancora di più.


Piangiamo per gli affamati in Iraq. Ma chi è che li ha portati alla fame,
se non Saddam stesso che investe capitali all’estero e spende a larghe
mani per avvelenare il mondo? Perché dovremmo essere noi a sfamare il suo
popolo? Lo stesso dicasi per Bin Laden e i vari sceicchi!

Caro
Pa.Mo., io non sono andato a New York, non ho il telefonino, non vado al
McDonald’s, non bevo coca-cola… ho solo una vecchia macchina da scrivere.
A Genova buona parte dei danni sono stati provocati dal sostegno dei
pacifisti, tipo Bettazzi (il vescovo Bettazzi, ndr) e compagni. Costoro
avrebbero fatto meglio a pregare. Se l’avessero fatto 10 mila dei 200 mila
presenti a Genova, le cose sarebbero andate diversamente. La preghiera,
dice la Madonna, ferma anche le guerre. Ma è più comoda una scampagnata a
Genova!

Tutte
le pagine del vostro articolo sono un inno alla violenza contro Bush,
Berlusconi e Israele… Voi sì che, con scritti del genere, portate la
guerra e non la pace.


Giovanni Viotto – Torino

 


Forse risulterà strano… Ma il nostro redattore non ha il telefonino, non
beve coca-cola, non mangia ai McDonald’s. A New York non è stato in
vacanza, ma per lavoro.

  



Il cervello all’ammasso

 Recentemente
Missioni Consolata è stata duramente attaccata da alcuni lettori, mentre
altri l’hanno apprezzata. Io apprezzo anche il pizzico di autornironia con
cui il direttore risponde ad offese assurde.

Noto
una grande differenza fra gli accusatori e i sostenitori della rivista: i
primi insultano, ricattano e ostentano scandalo (accusando persino
Missioni Consolata di avere abbattuto le Torri Gemelle); i secondi si
sforzano di capire, propongono e riflettono sui problemi che la rivista
pone.

Se
Missioni Consolata, per esempio, critica una multinazionale con nome e
cognome (perché disbosca in modo selvaggio o inquina), non basta dire: «Ragionate
da comunisti»; bisogna dimostrare che i fatti contestati non sono veri…
Se la rivista attacca la politica estera degli Stati Uniti (perché, ad
esempio, è implicata nella guerra civile del Congo), non basta dire: «Gli
Usa mandano sacchi di farina, mentre i capi africani pensano solo ad
arricchirsi». Il fatto che i presidenti africani siano corrotti scagiona
gli Usa dalla loro responsabilità, specie se corruttori e venditori di
armi? Un male non ne giustifica un altro.

In
Italia mi preoccupa «la politica del disprezzo», forte di una maggioranza
numerica. Mi preoccupa, perché schiavizza milioni di persone, che si
sottraggono al dialogo e riportano sempre la voce del padrone o fanno la
predica. Hanno portato il cervello all’ammasso: lo dimostra il fatto che
qualcuno disdice l’abbonamento alla rivista, rifiutando così il confronto
con una parola diversa dalla propria.

Trovo
poi assurdo che si critichi Missioni Consolata, perché non sarebbe
religiosa e cattolica. La rivista si avvale sempre dei documenti della
chiesa, oltre che del vangelo, e soprattutto invita all’attenzione verso
tutti i poveri in spirito… È invece cattolico don Baget Bozzo, che
critica il digiuno per la pace del 14 dicembre, osservato dal papa e da
tanti altri?

Se «religioso»
significa non scomodare nessuno, dovremmo prendere la bibbia e strappare
le pagine «non religiose». Alla fine ci troveremo, forse, solo con la
copertina.

Ancora
una riflessione. Le lettere a Missioni Consolata sono poche quando la
rivista parla dell’«altro mondo» (i 4 quinti dell’umanità), ma ne arrivano
tante quando parla dei fatti di casa nostra (guerra in Kosovo e
Afghanistan, G 8). Mi viene in mente Giovanni Battista, che diceva:
bisogna che l’interesse per me diminuisca e cresca l’attenzione per
l’altro… Giovanni era proprio una voce nel «deserto».

E
Missioni Consolata anche.

Guido
Brambilla – Milano

 


Tuttavia Giovanni Battista, il più grande di tutti (cfr. Mt 11, 11),
continuava la sua missione, e la gente andava da lui, compresi i farisei…
La nostra rivista, con semplicità, cerca di fare altrettanto… sperando
di non fare la fine del profeta.


A Missioni Consolata sono pervenute numerose lettere anche in altre
occasioni. Ad esempio: l’editoriale di luglio-agosto 1985 «Attenti al
cane» scatenò quasi… una cagnara. La nostra tesi era: vi sono uomini che
trattano i propri simili da cani e i cani da uomini. Comunque, sempre
fatti di «casa nostra».


Caro signor Guido, anche a lei raccomandiamo pacatezza e un pizzico di
autornironia.

 



L’«utile idiota»

 Caro
direttore, mi riferisco al numero di ottobre-novembre della sua rivista.
Ritengo patetico il tentativo di offrire una versione «cattolica» dei
fatti di Genova, senza analizzare quanto è avvenuto: la
strumentalizzazione a fini nazionali (da parte di un abile «politburo»)
delle associazioni cattoliche, che hanno svolto il ruolo dell’«utile
idiota».


L’articolo su «dopo l’11 settembre» mi ha disgustata per il tono e per il
contenuto: a me pare una semplicistica e retorica esibizione dei più
tristi luoghi comuni del terzomondismo; al di là delle buone intenzioni, è
pervaso da spirito manicheo ed integralista, assai vicino al
fondamentalismo islamico.

Non
credo che, con queste sparate verbali, si aiuti la gente a pensare e
capire.


Giuliana Piaia – Montebelluna (TV)

 


La signora ha pensato. Forse non ha capito. Succede anche a noi.

AAVV




16 FEBBRAIO: APPUNTAMENTO CON IL BEATO ALLAMANO

ASPETTANDO LE ROSE


Il 16 febbraio 1926, «dies natalis» del beato Giuseppe
Allamano, fa parte della storia dei missionari e missionarie della
Consolata, e non solo. È però «curioso» notare come il loro Istituto sia
stato fondato da un uomo che sapeva ridimensionarsi, relativizzare,
attendere. Con lui c’era Giacomo Camisassa, l’amico insostituibile.

Padre
Umberto Costa, uno dei primi missionari della Consolata, morto a soli 33
anni, riporta una confidenza del fondatore, il beato Giuseppe Allamano: «È
un poco che non ci vediamo più, perché ho avuto un malessere che mi ha
costretto a star chiuso in camera, eppure il mondo è andato avanti senza
di me, l’Istituto è andato bene senza di me. In questi casi si medita, ed
io ho meditato come non v’è nessuno necessario; quando un’opera è di Dio,
egli la fa procedere senza bisogno di alcuno».

Poche
parole per cogliere dalla sua stessa voce una personalità senza finzione,
temperata all’ombra dei vigneti di Castelnuovo d’Asti, piccolo centro
agricolo, dove religione e onestà si fondevano in una stessa liturgia di
vita e di morte, e i rintocchi dell’Ave Maria scandivano le ore della
fatica e del riposo rincorrendosi su e giù per le colline, lungo i filari
di viti.

A
Castelnuovo Giuseppe Allamano nasce nel 1851 e conclude la vita a Torino
nel 1926 presso il santuario della Consolata, di cui è stato rettore per
46 anni. Il santuario, ampliato e ristrutturato, è uno dei suoi
capolavori.


A tu per tu
con Leone XIII


L’occasione per uscire da Torino gli viene offerta dai festeggiamenti che
tutto il mondo tributa al pontefice Leone XIII (1810-1903) nel 50° della
sua ordinazione sacerdotale, il 1° gennaio 1888. Eletto papa all’età di 68
anni, quasi a conclusione di una vita intensa di lavoro, il pontificato di
Leone XIII non è, come le previsioni l’hanno preconizzato, di transizione,
ma d’incontenibile dinamismo e innovazione.

La chiesa,
per 40 anni condizionata all’interno da una mentalità conservatrice e,
all’esterno, da leggi restrittive fatte eseguire con metodi violenti e
giacobini, si muove ora su un nuovo versante: domina lo spirito di
concordia e dialogo con tutte le realtà che popolano il vasto orizzonte
del cristianesimo.

Ne fanno
fede le tante encicliche che papa Leone, più avanti del suo tempo, scrive
nei suoi 25 anni di pontificato: ad esempio sull’abolizione della
schiavitù (In plurimis, 1888); sull’istituzione di seminari per i
sacerdoti autoctoni e la creazione della gerarchia ecclesiastica locale
(Ad extremas Orientis oras, 1893).

Il papa
scrive pure sulle devozioni care all’Allamano: il Rosario (Supremi
Apostolatus, 1883), San Giuseppe (Quamquam pluries, 1889), la Santa
Famiglia (Novum argumentum, 1890), il Sacro Cuore (Annum Sacrum, 1899). La
questione sociale, che esplode tra poco con la pubblicazione
dell’enciclica Rerum novarum, è uno dei tanti temi passati al vaglio da
Leone XIII.

C’è un
altro argomento al centro del magistero leoniano, «la missione della
chiesa», destinato ad aprire vasti orizzonti sul mondo. È su di esso che
il pensiero dell’Allamano si identifica con quello di papa Pecci: «La
città santa di Dio che è la Chiesa – scrive Leone XIII, – non essendo
circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal
fondatore di “allargare ogni giorno lo spazio della tenda e di stendere i
teli della dimora senza risparmio” (Is 54, 2)».

A Roma l’Allamano
avvicina alcune personalità del mondo missionario (ciò fa supporre che sia
questa la principale ragione del suo viaggio), in particolare il card.
Giovanni Simeoni e mons. Domenico Jacobini, rispettivamente prefetto e
segretario di Propaganda Fide, nonché il cappuccino card. Massaja. A
costoro, presumibilmente, sottopone la prima bozza del Regolamento
dell’Istituto, con lo scopo di «raccogliere giovani sacerdoti aspiranti
alle missioni, prepararli convenientemente e quindi metterli a
disposizione di Propaganda Fide, che li avrebbe inviati nelle missioni
alle dipendenze delle varie Congregazioni già esistenti».

L’Allamano
incontra anche il papa, ma non lascia alcun commento scritto su quell’incontro,
che ha come scopo principale quello di sondare la fattibilità di un
progetto ancora in fase preliminare. L’udienza dura quanto basta per
ricevere una benedizione per il santuario, i sacerdoti del convitto, e una
raccomandazione: «Bene, bene quel santuario… Sì, do una speciale
benedizione. Dite loro che studino molto».

Una
raccomandazione scontata per un uomo che è dichiaratamente contrario a
qualsiasi forma di ignoranza nella chiesa e che ha offerto la sua vita
alla formazione del giovane clero.

Sulla
tabella dei festeggiamenti, oltre alla messa giubilare del papa, è
compreso anche un avvenimento di risonanza mondiale, promosso da
Propaganda Fide con il concorso degli istituti missionari. Si tratta
dell’Esposizione vaticana. È una rassegna dei doni e degli oggetti di
valore inviati dall’Europa cristiana in omaggio al papa, un pastore che
con abilità e tatto è riuscito ad attenuare il dissidio tra lo stato
moderno e la chiesa cattolica, dimostrando che le due realtà erano
diverse, non opposte.


L’Esposizione, inoltre, presenta una grande varietà di manufatti di
carattere etnografico provenienti dalle missioni di Indocina, India,
Giappone, Cina, Corea, Africa.

Sotto
l’aspetto culturale, la mostra si inserisce nel contesto dei canali di
comunicazione sociale, di cui il magistero papale e la missione odiea
fanno largo uso. Si calcola che i visitatori della mostra siano stati 380
mila. Tra essi c’è pure l’Allamano, che prende visione del mondo
missionario e raccoglie immagini e consigli utili per la sua futura opera.

La
permanenza a Roma si conclude il 15 gennaio 1888, con la partecipazione
alla solenne canonizzazione di san Pietro Claver, missionario tra gli
schiavi di Cartagena, in Colombia. Il mercato sul quale si svolge la
compravendita di esseri umani, trasportati dalle coste dell’Africa
occidentale, segna l’inizio di un cammino di dolore e orrore, destinato a
consumarsi nelle piantagioni di tabacco, cotone, canna da zucchero e nelle
miniere aurifere.

Pietro
Claver morì l’8 settembre 1654. L’Allamano gli affiderà la protezione del
nascente istituto.

Uomo
avvezzo a marcare pazientemente i ritmi delle cose e a dare a ciascuna il
suo valore, l’Allamano osserva con occhi disincantati gli avvenimenti.
Egli sa che non gli resta che attendere il momento giusto, senza forzare i
tempi, per non correre il rischio di costruire sulla sabbia.

Conta
sulla collaborazione di una personalità eccezionale, Giacomo Camisassa.
Tra i due corre una affinità di sentimenti, vedute e obiettivi, anche se
non di stile. È determinante il contributo del Camisassa in ogni
realizzazione che porti la firma dell’Allamano.

Insieme
attendono il fiorire delle rose. La pazienza non è forse la virtù dei
forti?

(*)
L’articolista, missionario

della
Consolata in Kenya, è autore

di
numerose pubblicazioni.


Significativa l’ultima opera

sul beato
Giuseppe Allamano:

La mia
vita per la missione,

Emi,
Bologna 2001.

Giovanni Tebaldi