DI CHI E’ QUESTA TERRA?

Ghadamès, l’«interdetta»


Se si può parlare di mal d’Africa, a maggior ragione si può
definire la passione per il deserto qualcosa di più di una malattia. Ancor
oggi chi viaggia sulle strade asfaltate del sud algerino non può non
restare catturato dal silenzio interrotto solo dal «tobol», il tamburo
della sabbia, il rumore cadenzato prodotto dal contatto del vento con le
dune.
(Eric Saleo)

Perla nera
delle sabbie, città delle sette porte, crocevia carovaniero e mercato di
schiavi: ecco Ghadamès, vero avamposto del deserto. Ancora oggi, con
Timbuktu, Ouadane e Chinquetti, è una delle più belle e misteriose città
del deserto. Al presente quasi sepolta dalla sabbia, mille anni fa era un
importante centro carovaniero, ricco di scambi commerciali (oro, avorio,
pietre preziose) e culturali.

Costruita
in un’oasi di sogno, sotto il livello della strada al riparo dalle sabbie,
appare al visitatore come una città sotterranea dall’affascinante
labirinto di viuzze tortuose e buie, al confine con Tunisia e Algeria. Con
la spedizione di Lucio Coelio Balbo (20-19 a. C.), i romani vi
stabilirono un presidio (Cydamus), di cui sono ancora visibili i resti.

La sua
storia è una catena ininterrotta di invasioni e lacerazioni della propria
identità. Convertita al cristianesimo durante l’impero bizantino, fu
occupata in seguito dalla irruzione musulmana del 667 d. C. Nel 1825
l’esploratore inglese Alexander Gordan Laing fu il primo europeo che la
menzionò dopo secoli di silenzio. Il suo lungo viaggio in Sahara terminò
purtroppo tragicamente a Timbuktu, dove anche gli ultimi appunti di
viaggio furono distrutti dagli aggressori. Anticamente Ghadamès era nota
come «l’interdetta» e ancora oggi sono rarissimi gli occidentali di
passaggio.

È un luogo
insolito: non ha i caratteri di alcuna città libica, tunisina o algerina,
pur essendo un crocevia fra i più frequentati. Viene definita una città
intensamente africana per i colori accesi, i disegni esoterici, le torri,
lo sgargiante artigianato e, soprattutto, per quelle viuzze coperte, più
simili a cunicoli sotterranei. I vicoli di Ghadamès sono stati progettati
da abilissimi architetti, per catturare ogni folata di vento, ogni
squarcio d’ombra e di freschezza.

Oggi,
sull’antica Ghadamès è sceso il silenzio: dagli anni Ottanta i suoi
abitanti si sono trasferiti nella sua periferia, dove il governo libico ha
fatto costruire ambienti più confortevoli per la popolazione. L’UNESCO ha
preso sotto la sua tutela questa perla del deserto; ora, nelle sue vie
silenziose, si odono solo i rumori dei restauratori, piccoli gruppi
impegnati a valorizzare la porta millenaria, che conduce ai giardini di
palme ed orzo, ai quartieri berbero e arabo, all’hamman dove si raccoglie
l’acqua della sorgente.

Avvolte
in lunghi mantelli e veli, solo tre donne sono rimaste stabilmente qui:
madre, figlia e nipote. I loro abiti svolazzanti e il portamento regale
richiamano alla mente un vecchio regno arabo dalle favolose leggende. Chi
sono? Perché vivere come eremiti nel silenzio di case vuote? Solo ad un
turista frettoloso, tuttavia, queste case possono sembrare vuote: chi ci è
vissuto ricorda ancora cicalecci di donne sulla soglia di casa, grida di
bimbi, discorrere di uomini accomunati da un uguale destino.

Ma le case
non sono così mute come sembrano: percorrendo lentamente i tortuosi
viottoli, si scoprono luminose piazzette tra piccole case dai fantastici
decori dipinti dalle donne, la Usaiet el Tutà o mercato degli schiavi, i
terrazzi decorati che circondano orti e giardini, il minareto e la
moschea, i tetti e le merlature. Le palme da datteri sopravvivono ancora
dando frutti e ombra. La vecchia Ghadamès, patrimonio dell’umanità,
sopravvive malgrado l’apparente abbandono urbano.

Nonostante
le nuove e confortevoli costruzioni, la gente continua a vivere, anche di
giorno, nella vecchia città. Un proverbio arabo recita così: «Se la palma
muore, muore anche la città». Per questo e per altri motivi forse più
pratici, le vie strette e buie ma fresche e accoglienti sono ancora
frequentate e i giardini e i palmeti coltivati come un tempo, quasi che da
un giorno all’altro qualcuno venisse a controllae la vitalità.

I lunghi
corridoi coperti, più simili a tunnel scavati nel tufo, con il loro
andamento tortuoso servono a bloccare la sabbia trasportata dal vento. La
luce penetra da alcuni lucernari, e i sedili di pietra sporgenti dai muri
offrono ad ogni ora un fresco isolamento (rifugio, riparo) dalla calura
estea.

Entrando
nelle case si resta affascinati dai colori: muri bianchi decorati
prevalentemente in rosso, porte dipinte di blu, nicchie gialle, verdi,
rosse e ocra. Si salgono scale di pietra per raggiungere la «stanza di
soggiorno». Curiosamente nascosta in una nicchia, superabile solo
strisciando sul pavimento, appare l’alcova, dove per tradizione gli sposi
trascorrono solo la prima notte di nozze. Le stanze superiori e le
terrazze completano l’appartamento. Ovunque trionfa il bianco dei muri,
l’ocra, il giallo, il rosso, il blu. Sono colori caldi, ma non aggressivi,
e così ben armonizzati da lasciare una sensazione rilassante.

Visitare
Ghadamès è inoltrarsi in un passato che è ancora vivo, un mondo magico
dove gli uomini delle sabbie sono stati felici con poco. Lo sono
altrettanto ancora oggi?


Litanie delle
dune

Dune,
grandi dune ondulate come l’acqua del mare,

Dune dalla
fronte calva,

Dune, che
il vento lavora e tormenta senza tregua,

Dune, che
una goccia d’acqua rinfresca una volta ogni cent’anni,

Dune, che
vedete passare le carovane,

Dune
melodiose, che cantate al levare del sole,

Dune dal
buus d’oro e dal buus di neve,

Dune, dai
fianchi sollevati

come
quelli di una donna prossima a partorire,

Dune,
nostro sudario quando il simun soffia e ci travolge,

Dune,
grandi dune del deserto, rendeteci dolce la strada

E fate che
arriviamo alla meta…

Così
salmodiando, essi camminano lungo la strada nella sabbia, l’uno dietro
all’altro, al passo lungo e leggero dei nomadi.

Liliana Pizzoi

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