Ma il cuore rimane in Colombia

New York è la quinta città colombiana,
dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla.
Ne abbiamo parlato con Maurizio Suarez Copete,
console colombiano a New York.

«New York è la quinta città colombiana, dopo Bogotá, Medellín, Cali, Barraquilla. Circa un milione vivono a Jackson Heights (detto la pequena Colombia) nel Queens e a Elisabeth nel New Jersey». Così ci spiega Maurizio Suarez Copete, console colombiano a New York.
Il console ci ha concesso la seguente intervista.

Il giornale americano che parla di più della Colombia è il New York Times; gli altri ne scrivono quando ci sono di mezzo droga e guerra. Esiste uno studio serio, che affronti il problema dei colombiani a New York e non li veda solo come problema, ma anche come risorsa?

Negli ultimi dieci anni la comunità degli emigranti colombiani, legali e illegali, di New York, New Jersey e Connecticut è aumentata molto velocemente. La Colombia, infatti, è uno dei 20 principali paesi di provenienza degli emigranti che vengono ammessi o entrano negli Stati Uniti. La zona metropolitana, per le enormi possibilità di lavoro che offre, continua ad essere lo stato americano con maggiore numero di emigranti.
Tuttavia le caratteristiche di questa comunità, i suoi problemi, bisogni, aspirazioni e l’impatto sulla vita sociale, politica ed economica è ancora poco studiato. Oggi la maggioranza degli americani considera i colombiani residenti negli Usa un guaio! Grazie a Dio, in questi ultimi anni, il bisogno di conoscere meglio la comunità colombiana è incominciato a crescere. Un progetto di collaborazione tra il consolato generale della Colombia di New York e la Wagner Graduate School for Public Service dell’università di New York sta aiutando a capire le caratteristiche dell’emigrazione, come pure i problemi e bisogni della comunità colombiana.

Oltre ai risultati della ricerca (che mostrano il colombiano come grande lavoratore, ligio alle tradizioni e appassionato ricercatore del sogno americano), cosa ci si prefigge di raggiungere con questo progetto?

La nostra è una società della comunicazione, ma sovente è monodirezionale: cioè chi parla non si pone il problema degli ascoltatori, dei loro bisogni e reazioni. Mi sono immerso in questo studio, perché ho notato tanti pregiudizi nei confronti dei miei connazionali. Soprattutto mi ha colpito la debolezza (o assenza) di ascolto e dialogo, davanti alla diversità di lingua, cultura e storia tra il Sud e Nord americano. Con questa ricerca desidero non solo far conoscere la storia del mio popolo, ma anche i suoi prodotti. Questi saranno accettati, quando la popolazione americana vedrà in modo positivo i colombiani.
Anche se la maggioranza colombiana svolge lavori manuali, vi è un crescente gruppo di professionisti, come avvocati, dottori, architetti, managers e banchieri… Mi sta a cuore sapere come questi emigranti si inseriscono e adattano all’ambiente in cui vivono, conoscere la percezione che gli emigranti hanno dell’attività che svolgono, esplorare le organizzazioni in cui lavorano, seguire in particolare i servizi del consolato a loro favore e togliere o migliorare gli stereotipi sui colombiani americani.

Potrebbe parlarci del lavoro nel contesto della famiglia colombiana?

La maggior parte degli emigrati colombiani sono attratti dagli Stati Uniti per le condizioni materiali ed economiche che contribuiscono ad un miglior livello di vita. Una volta stabiliti negli Stati Uniti, riescono a inserirsi nella forza lavorativa, ma con una differenza: i colombiani che vengono negli Usa sono disposti e costretti, per questioni di lingua e sistema scolastico diverso, a lavorare in occupazioni socialmente e professionalmente inferiori a quelle che avrebbero goduto se fossero rimasti in Colombia.
Negli Stati Uniti le occupazioni principali dei colombiani sono lavori manuali: casalinghe, camerieri, operai di fabbrica, assistenti ai commercianti, bidelli, custodi di palazzi e così via. E vi rimangono per parecchi anni. Ciò dimostra che un’alta percentuale ha lavori fissi, stabili.
Questo contraddice lo stereotipo, a volte diffuso e accettato per motivo di ignoranza, che la popolazione colombiana sia disoccupata, impegnata in occupazioni illegali. Inoltre è da notare che, anche se i colombiani a New York si trovano in condizioni migliori di altri gruppi latinoamericani, non sono esenti da necessità e problemi. Il 40 per cento, ad esempio, non gode di un’assicurazione medica e, dunque, non è protetta contro i rischi della salute.
Che cosa fa lei, come console, per convincere i colombiani a frequentare la scuola?

Una minima parte dei colombiani ha un’occupazione talmente sofisticata da poter influenzare decisioni che toccano la loro comunità. È perciò necessario dare importanza all’istruzione e allo sviluppo dei professionisti, in modo tale che possano competere nel salire più in alto nella scala sociale, mantenendo viva nello stesso tempo la loro solidarietà e responsabilità verso la comunità.
I sondaggi presi nelle scuole di New York rivelano che il 61 per cento dei colombiani ha riportato un diploma di scuola superiore durante gli ultimi tre anni; inoltre, dopo la popolazione bianca e paragonati agli altri latini e afro-americani, i colombiani che frequentano l’università sono al secondo posto.
Qui devo menzionare l’opera della dottoressa Gloria Gomez, nata a Bogotá 45 anni or sono, attualmente direttrice della Zoni Language Center. È un sistema scolastico composto di 25 centri, che ha diversi scopi: migliorare l’istruzione dei giovani colombiani, per confutare l’immagine negativa che il mondo esterno ha del loro paese; far conoscere la lingua e cultura inglese; sopperire alla mancanza di rappresentanza politica; combattere la discriminazione; punire la vendita e l’uso di droga…

Fra i colombiani c’è chi si integra totalmente nella società americana e chi ha già il biglietto di ritorno in patria. Comunque la cultura colombiana è l’orgoglio di questa gente: sia che rimanga o ritorni in Colombia, l’identità nazionale resta profonda nel cuore. È vero?

I colombiani negli Stati Uniti dicono con grande sincerità che, economicamente, hanno raggiunto il fine che si erano proposti lasciando il loro paese. Però, in contrasto con la soddisfazione materiale, c’è la convinzione profonda che la Colombia offra maggiori opportunità per soddisfare i loro bisogni emotivi, come il legame con gli amici e la famiglia. Sovente sento dire: «Gli Stati Uniti offrono molte opportunità; però avvertiamo la mancanza del calore umano, che possiamo avere soltanto nel nostro paese».

Nel mondo i mass media dipingono la Colombia come un paese senza pace a causa della guerriglia, la presenza della droga e l’apparente mancanza di rispetto per la vita. Non vi sarebbe interesse né attenzione per affrontare in modo giusto la questione. Cosa pensa al riguardo?

La Colombia sta attraversando un periodo molto tragico di guerra, violenza, corruzione e il mondo intero spera in una soluzione vicina, intelligente e senza sangue. Ce lo auguriamo tutti.
Il mio lavoro, tuttavia, mira a progettare un piano di azione per servire la comunità nella zona metropolitana e definie le priorità, che sono varie. Innanzitutto promuovere i programmi sociali per prevenire l’uso della droga e della violenza, specialmente tra i giovani. Inoltre lanciare attività dirette allo sviluppo delle organizzazioni della comunità e istruire i leaders a dirigerle. In terzo luogo: prendere misure pratiche per aiutare gli emigranti a trovare lavoro e provvedere informazioni circa lo stato giuridico, i benefici, diritti e doveri che si hanno negli Stati Uniti.
Il mio compito è anche quello di stabilire un ponte tra il governo americano e la comunità colombiana, in modo che i funzionari statali conoscano e aiutino i colombiani di New York ad affermarsi sempre di più. È chiaro che i leaders delle comunità colombiane devono coinvolgersi per debellare i problemi derivati dall’«immagine negativa», dalla mancanza di partecipazione nei vari settori della vita pubblica e, soprattutto, dalla discriminazione.
Dato che il consolato è limitato in risorse e personale, si avvale di organizzazioni locali, associazioni professionali, imprese private, chiese e mass media per organizzare incontri, stabilire programmi d’azione e preparare leaders che possano aiutare i colombiani ad affrontare le sfide nel nuovo paese di adozione.

HECHOS POSITIVOS

I colombiani negli Stati Uniti hanno bisogno del loro paese e la Colombia dei suoi connazionali all’estero. Il ponte tra queste due grandi comunità è possibile con i mass media. Un giornale, diretto e prodotto da soli colombiani a New York, è Hechos Positivos (Fatti positivi), con circa 20 mila copie giornaliere. Ideato e diretto da Luis Alejandro Medina in collaborazione con Luis Orlando Murcia, nativi di Bogotá e residenti a New York da dieci anni, si prefigge di aiutare la comunità colombiana informandola sugli avvenimenti, correggendo gli stereotipi, riportando le leggi immigratorie e assistenziali, coltivando l’orgoglio nazionale (tradizioni, turismo, famiglia, fede dei colombiani) e appoggiando i colombiani che si candidano alle elezioni amministrative, civiche e religiose nella zona metropolitana.
Luis Alejandro Medina, l’anno scorso, ha ricevuto due premi: il premio nazionale «Bolivar» dalla Colombia, come migliore giornalista all’estero, e il premio di «eccellente reporter» dalla stazione televisiva 47 per cui lavora. I suoi reports generalmente riguardano tre aspetti: il legame dei colombiani con il loro paese, l’impegno a sostenere i compatrioti all’estero, il coinvolgimento del consolato tra gli immigrati con progetti e attività.
Sfogliando il giornale, si notano storie e racconti di un forte attaccamento dei colombiani alla loro famiglia e amici, l’uso dominante dello spagnolo in casa, il sogno di ritornare a vivere in patria, l’abitudine di mandare soldi ai parenti lontani. Nello stesso tempo, si racconta come le istituzioni del Nord America siano più efficienti di quelle colombiane; come un grandissimo numero di colombiani siano diventati cittadini degli Stati Uniti e facciano uso del diritto di doppia cittadinanza; come moltissimi stiano integrandosi con la cultura degli Stati Uniti, pronti a organizzarsi per il bene comune. La grande maggioranza dei colombiani in America apprezza la libertà di agire, senza essere criticati o repressi.
Hechos Positivos si batte pure perché il consolato migliori la qualità dei servizi e informazioni sulle attività pubbliche, sostenga le attività culturali e folcloristiche, realizzi le aspettative della gente e gli impegni per cui riceve aiuti, migliori l’immagine della Colombia all’estero, crei organismi capaci di affrontare le risorse pubbliche.
Soprattutto incoraggi la comunità colombiana a formare una rappresentanza che migliori il futuro.
A.Ba.

Al Barozzi




La donna-sguardo e la donna-voce

I l mondo della donna araba è circondato dal mistero e da tanti stereotipi. Solo la scrittura illuminata di qualche donna araba, colta ed intelligente, può aiutarci a penetrare e, in parte, a comprendere un mondo così lontano dalla nostra cultura.
Nata nel 1936 a Cherchel (Algeria), Assia Djebar è stata la prima donna algerina ammessa all’École Normale Supérieure francese. Nel 1957, ancora giovanissima, ha pubblicato il suo primo romanzo Le Soif e, un anno dopo, Les Impatients.
Testimone oculare ed avida raccoglitrice di storie vere, la Djebar riesce, nei suoi numerosi romanzi e racconti, a farci partecipi sia di tante tragedie umane e familiari, causate dalla crudele guerra algerina, sia del lento processo di evoluzione nella vita delle donne arabe, costringendoci ad ascoltare «la voce dei sospiri, dei risentimenti, dei dolori di tutte coloro che sono state murate vive».
La prolifica scrittrice algerina si è anche cimentata come cineasta, vincendo nel 1979 il Gran Premio della Critica Internazionale al Festival del Cinema di Venezia con il film Les Nouba des Femmes du Mont-Chenoua. Lo scorso anno ha, inoltre, presentato a Roma una sua opera teatrale, tratta dal romanzo Figlie di Ismaele.
Dal 1997 vive tra Francia e Stati Uniti, poiché lavora come professore e direttore del Center for French and Francophone Studies della Louisiana State University.

«C ome agire oggi da rabdomante per le migliaia di accenti ancora sospesi nei silenzi del serraglio di ieri, per le parole del corpo velato, per un linguaggio che, a sua volta, ha da molto tempo preso il velo?».
Si chiede Assia Djebar nell’introduzione alla sua raccolta di racconti, da lei stessi definiti «capisaldi di un percorso di ascolto che va dal 1958 al 1978», pubblicata in Italia con il titolo Donne d’Algeri nei loro appartamenti.
E’ un titolo ispirato dal famoso capolavoro di Delacroix, pittore francesce, che nel 1832, grazie all’interesse dell’ingegnere capo del porto di Algeri, signor Poirel, riuscì ad entrare nell’harem di un ex-comandante d’imbarcazione corsara e abbozzare disegni e schizzi corredati da tante note.
«Inebriato dallo spettacolo che aveva sotto gli occhi», Delacroix rielaborò per due anni le impressioni raccolte e ne scaturì il capolavoro Donne di Algeri, in cui – ci racconta la Djebar nella post-fazione del suo libro – «tre donne sono prigioniere rassegnate di un luogo chiuso rischiarato da una luce che scaturisce dal nulla, luce di serra o di acquario». Passarono 15 anni e Delacroix, all’esposizione del 1849, presentò una seconda versione delle Donne di Algeri, che al sol pensiero strappava lacrime a Renoir.
Infatti «uno dei muri della camera viene messo in evidenza, in modo da farlo pesare con gravità più ossessiva sulla solitudine delle tre donne… l’ombra nasconde come una minaccia invisibile».
L e donne, tratteggiate con grande talento dalla Djebar nei suoi racconti, rievocano spaccati reali di vite dall’Ottocento ad oggi e ci fanno partecipi di oppressioni, dolori, tragedie, nonché qualche raro momento di gioia e, persino, di gloria.
Ad esempio, l’eroina Messauda («la lieta»), nel 1839, con le sue grida di incitamento impedì che il forte di «Ksar el Hayran» fosse preso dai nemici. Messauda, come tante donne oggi impegnate nella resistenza, è una delle «donne guerriere, uscite dal loro ruolo tradizionale di spettatrici». Un ruolo così ben ricordato dal coro di donne, intervenute al funerale della mitica Yemma Hadda, che, divenuta vedova per la seconda volta, con severità e burbera tristezza pose «i nuovi cardini della vita al villaggio».
«Quelle donne il cui destino era sempre stato di essere le orecchie e i sussurri della città, la cui vocazione era stata di accovacciarsi ai piedi dello sposo per togliergli le scarpe la sera quando tornava a casa»; quelle stesse donne nel bagno turco si rivelano con «un baccano di voci sovrapposte, un colloquio sommesso di pene… Altre donne, mute, si fissano attraverso i vapori: sono quelle che vengono tenute rinchiuse per mesi o anni, tranne che per il bagno».
Queste donne devono, a causa del perenne stato di guerra o guerriglia, sopportare un’ulteriore atroce tragedia, perché lievito inconsapevole di figli adolescenti, improvvisamente risoluti a combattere e a morire («mio figlio… il mio fegato straziato… la mia carne dilaniata!»).
Chi, come la portatrice d’acqua e la massaggiatrice del bagno turco, si è ribellata al tragico destino di sposa-bambina, dopo una vita di sofferenze ed umiliazioni sussurra nel delirio: «Sono io – io? – che hanno esclusa, colei sulla quale è stato posto il divieto. Sono io – io? – colei che hanno umiliata. Io colei che hanno ingabbiata…».
Vi sono alcune donne, come l’evoluta Sarah o la coraggiosa Nfissa, che hanno sofferto la prigionia e tortura. Eppure Nfissa, tra profumi di menta e gelsomino, si sente dire dalla sorella diciannovenne: «Se tu hai conosciuto la prigione, io pure l’ho conosciuta, ma qui, proprio in questa casa che ti sembra meravigliosa».
La Djebar presenta, infine, con spietata ironia il simbolo di una cultura: la donna velata. «L’unico occhio scoperto scruta attraverso il buco dalla ostile forma triangolare, unica apertura nel volto interamente mascherato… La giovane guardona osserva ogni cosa con lentezza e gravità, spesso con disprezzo… Il mondo isolato delle donne contiene l’assillo di spiare ed essere spiate per provare, in questo modo, l’illusione del mistero…».

C’ è speranza? Djebar pensa di sì. Inoltre suggerisce: «Soltanto nei frammenti dei bisbigli antichi io vedo la via per cercar di restituire il dialogo fra le donne, quello stesso che Delacroix gela sulla superficie del suo quadro. Soltanto dalla porta aperta in pieno sole, quella che Picasso ha in seguito imposto, spero una liberazione concreta e quotidiana delle donne».

I racconti e romanzi di
Assia Djebar,
pubblicati in Italia, sono:
Donne d’Algeri
nei loro appartamenti;
Ombre sultane;
Lontano da Medina. Figlie
di Ismaele;
Nel cuore della notte algerina (Edizione Giunti);
L’amore, la guerra
(Edizione Ibis);
Bianco d’Algeria
(Edizione Il Saggiatore).

Sillvana Bottignole




INDIA – Verso l’assoluto

San Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti
e verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

Dio, Allah, Javhè, Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda, ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo, esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso millenni.
Senza pretendere di dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.
È quanto tentiamo di fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C. al II d.C.
Il Bahagavad-Gita è un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge nell’intimo di ogni persona.
Questo libro ha lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa dell’India, da essere considerato un testo sacro.

N el poema viene esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che, all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.
Brahaman, infatti, è «l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me – afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).
Nel Bahagavad-Gita viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).
Seguendo i precetti adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me; per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).
Quindi è già esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve aspirare e tendere.
Tale salvezza non è raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento: quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano poveri» (IX,23).
L’umiltà di Brahaman si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore, una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e devotamente e con amore» (IX,26).
La fede non è un aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

B rahaman possiede una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare la gloria della mia vista» (XI,12).
È interessante notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato testimone.
Anche per noi cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli. Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

D ove risiede Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo appare reale ai nostri sensi, in realtà è illusorio. Anche per noi cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni nostra capacità di comprensione.
Il concetto di illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma invisibile di Dio.

C ome si può raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e dalla preoccupazione» (XII,13-15).
Cosa succede a chi non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21). Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza (pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).
Da qui scaturisce un ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare salvezza eterna.
È interessante notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile, perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).
Il risultato di tale fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la pace del Nirvana» (II,72).

I n conclusione, questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana. Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a prima vista.
Sono i «semi del Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti di salvezza.

Piergiorgio Motta




Un flacone contro il mal di stomaco

Che fa un vescovo in prigione per 13 anni,
di cui nove in isolamento?
Risponde lo stesso carcerato, dal 1975 al 1988
vittima in Viet Nam delle galere del comunismo.
Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio
«Giustizia e pace».
Ed è pure cardinale.

In Viet Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di morte.
Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.
pacchetti di sigarette
Il primo giorno di carcere… sono a mani vuote. Il secondo, mi è permesso di scrivere per chiedere dei vestiti e un dentifricio. Chiedo pure delle medicine e del vino… La gente, fuori, ha il dono dello Spirito: capisce subito.
Non molto tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.
– Signor Vân Thuân, lei ha mal di stomaco?
– Sì, signore!
– Ha bisogno di medicine?
– Ogni mattina.
– Eccole un flacone per il suo male.
È una bottiglietta di vino.
Con mia grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.
L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici. Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me. La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini per contenere il Santissimo.
Ogni settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista. Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno «intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione, lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede ritornano praticanti.
Non potrò mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…
Con l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.
Con l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una catechesi.
«Sei hutu o tutzi?»
In ogni angolo del mondo l’eucaristia infonde forza e fa santi di ogni tribù, lingua e nazione. La storia della chiesa è piena di martiri, che hanno vinto persino la morte grazie all’eucaristia.
Ricordo i trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.
In Africa non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda. La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.
In Burundi alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40 studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40 seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola cosa…».
Nella regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo. Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.
– Perché resta qui? Deve andarsene. Il morbo è molto contagioso!
– Rimango per servire la gente, anche a prezzo della mia vita.
Sono tutte morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.
La croce del vescovo
In carcere in Viet Nam i poliziotti non mi parlano, perché sono in isolamento. Ma un giorno mi rivelano ciò che è stato detto loro dal capo: «Dal momento che andrete a controllare un vescovo cattolico assai pericoloso, vi sostituirò ogni due settimane con un altro gruppo, altrimenti egli vi contaminerà». Dopo qualche tempo, il capo convoca tutti i miei carcerieri: «Ormai non vi cambio più, altrimenti questo cattivissimo vescovo contaminerà tutta la polizia».
Con quale veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello dell’amore di Cristo Gesù?
Un giorno, durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».
– È molto pericoloso, è vietato! Lei ora è mio amico e io finirò in prigione come lei.
– No, chiudi gli occhi e lasciami fare.
Il custode non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel 1988.
Trasferito in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di filo elettrico.
– Signor Vân Thuân, lei vuole suicidarsi!
– Ma no!
– Cosa vuole fare con il filo elettrico?
– Voglio fare una catenella per appendere la mia croce. Se mi presti due piccole tenaglie, te lo mostrerò.
Tre giorni dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.
Diverse volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.
– Lei ci ama?
– Sì, certo, che vi amo.
– Impossibile! Noi la teniamo qui da più di dieci anni, senza giudizio, senza sentenza, e lei ci ama!
– Io continuo ad amarvi e voi vedete come siamo amici. È incomprensibile, ma bello.
– Perché ci ama?
– Perché me l’ha insegnato Gesù e io, se non vi amassi, non sarei più degno di portare il nome cristiano di Francesco Saverio.
Così sono vissuto in prigione sino alla fine.
«Corpus Domini» in Serbia
Ancora un aneddoto, che non ho mai raccontato.
Nel 1999, in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi: dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.
Il santo padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me, mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».
Partiamo: io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori sono fuggiti?».
L’indomani celebro l’eucaristia in cattedrale con il popolo. Quando leggo il telegramma del pontefice, tutti piangono, perché i cattolici sono una minoranza tra ortodossi e musulmani: sentono che il papa è con loro e prega per la pace nella regione. Dopo la messa, i sei ambasciatori vengono a congedarsi in sagrestia. E, nello stesso istante, i loro segretari arrivano di corsa con una notizia: la Serbia sta per accettare il piano di pace della Nato e tutti gli ambasciatori stanno per ritornare. Ndr: dopo 78 giorni di guerra, il 9 giugno 1999 il presidente Milosevic e il parlamento serbo accettarono i 12 punti del piano di pace proposto dalla Nato e Russia.
A mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede: «Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».
La preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande missione.

Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000. Adattamento della redazione.

Trecento frammenti di speranza

È nato il 17 aprile 1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri. Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).
La mamma Elisabeth ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce. Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché restasse sempre fedele alla chiesa.
L’incarcerazione avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove anni di isolamento.
In carcere non poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il suo vademecum quotidiano.
Liberato nel 1988, tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».
Dal 1998 è presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21 febbraio scorso, cardinale.
Ha pubblicato vari libri, tutti all’insegna della speranza:
Il cammino della speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II, Preghiere di speranza, La speranza non delude…

Con 72 condannati alla forca

I missionari della Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali, condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla catastrofe della seconda guerra mondiale.
Questo periodo assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45, la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il terribile clima della guerra.
Come confortare un morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata: complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al 5 novembre 1944.
L’azione dei missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove, contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.

Sulle orme di san Cafasso

L a prima caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel rispetto delle norme penitenziarie.
Scrive padre Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».
Padre Sandrone raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel 1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare, come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di penitenza».
Non si può scordare che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.
Padre Sandrone assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.
Il 1° febbraio 1936 padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a morte.
L’esperienza di san Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin, Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.
«Erano le 17 circa del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma: “Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”. Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi immobili».

Anche un ragazzo di 20 anni

Disponibilità, altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi, negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal 1943 al 1950.
n L’ascolto del carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa ricomporre nei disegni di Dio».
Il detenuto non chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.
n La solidarietà crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono 30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli. Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».
La solidarietà si anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la ragionevolezza nei rapporti sociali.
Il tatto caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio… Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di Carluccio».
Padre Sommadossi è cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute, secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo operato.
Il rischio del martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».
Il rischio di essere fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.
n La conversione è un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve il battesimo e la prima comunione.

Nel giorno della sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma: «Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso e delicato».
Ricordarli oggi è un dovere della società e della chiesa.
Personalmente lo faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.
Felice Tagliente, psicologo
delle carceri «Le Vallette/Le Nuove» – Torino

F. Xavier e Van Thuan




ETIOPIA – Un paese… di corsa

Non si tratta delle visite alle nostre missioni
di chi vuole in pochi giorni conoscere
la cultura della nazione e vivere un’esperienza missionaria;
ma del verbo «correre», nel senso letterale
del termine: l’Etiopia è famosa per i suoi maratoneti; ma anche i ragazzi di un campo profughi alla periferia della capitale non scherzano.

V enti anni fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960.
Oggi, a 40 anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel centro di Addis Abeba.
Il giorno che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat, mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino. Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti; un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.
Queste vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.
Oggi, il numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.
C onfesso che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io. Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.
L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di 11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la loro tredicenne compagna Sinnàit.
Alla mia età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida. Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.
Le tute da bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

D a Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città, tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.
Abùsh va perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.
Da parte mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di scarto.
A i piedi delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada. È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta, mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto, come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina. Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla. Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt si mostra molto gentile: vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e dobbiamo rientrare prima che faccia buio.
La gente, al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.
Siamo quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti. Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più fortunato.

Vincenzo Clerici




Salvare i brevetti (e i profitti) o salvare vite?

L’«etica» delle multinazionali farmaceutiche

In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla salute» sta diventando
un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano
troppo. Le multinazionali si giustificano con gli elevati costi della ricerca.
Peccato che i dati smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia, India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente, sfidando le ire degli Stati Uniti
e dell’«Organizzazione mondiale del commercio».
Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante «diritto alla salute»?

UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.
La sanità statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto indietro.
Come si fa a conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il necessario per mangiare.
Il problema si ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene, guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.
Per essi il futuro è nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del 35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.
Rispetto al totale mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore, durante l’allattamento) avvengono in Africa.
Gli scienziati sono convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa 15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.
Alcuni di essi (come Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno per paziente.
Nel 1997 il presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale (costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.
Il secondo aspetto della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali, anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che detengono i brevetti.
Contro la legge si mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc, Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a Pretoria, è iniziato il processo intentato da 42 case farmaceutiche contro il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli accordi sul commercio mondiale.
E qui il problema assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema neoliberista?
FARMACI «PROTETTI» DAL «LIBERO» MERCATO
Dal 1994, ai paesi aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati «Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties») del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20 anni.
Tuttavia, sotto la pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione: in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia, l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come vuole fare il Sudafrica).
Di queste scappatornie si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.
Poiché in campagna elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».
È inutile negare l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi industriali e finanziari.
Eppure, non occorre essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di 350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i «farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali, rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.
Negli anni passati, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari nei paesi in via di sviluppo?
Nella maggioranza dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e, ove malato, di curarsi.

UN VIRUS CHIAMATO «POVERTÀ»

L’anno scorso il presidente sudafricano Thabo Mbeki, successore di Mandela, venne sbeffeggiato e deriso perché aveva dato credito alle teorie dissidenti, secondo le quali il virus dell’immunodeficienza (Hiv) non sarebbe la causa dell’Aids.
Di fronte a questa forte polemica, passarono in secondo piano le altre osservazioni del leader sudafricano. Nella lettera indirizzata al presidente Clinton, Mbeki sottolineava lo stretto rapporto tra la morte massiccia, provocata dalla malattia in alcune regioni del mondo come l’Africa, e la povertà di massa che soffoca quelle stesse regioni. In pratica, il presidente sudafricano sottolineava che il solo approccio biomedico non permette di vincere la sfida dell’Aids. Era questa una constatazione non nuova, ma sempre sottovalutata.
Già nel 1985, l’annuale rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità scriveva: «La povertà esercita un’influenza su tutti gli stadi della vita umana, dal concepimento alla tomba. Cospira con le malattie più mortali e dolorose».
No, non si è tutti eguali davanti alla malattia. E l’Aids è solo l’ultimo degli esempi possibili.

GLI ARGOMENTI DELLE MULTINAZIONALI FARMACEUTICHE

* Ci vogliono almeno 20 anni di protezione brevettuale per recuperare le grandi somme necessarie alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci.

GLI ARGOMENTI
DEI PAESI DEL SUD

* Le aziende farmaceutiche (e con loro gli Stati Uniti e il Wto) mettono il profitto davanti agli individui.

* Da anni gli utili delle case farmaceutiche sono sempre superiori agli utili delle altre aziende.

* La spesa in ricerca e sviluppo è un’esigua frazione rispetto ai soldi spesi per il marketing dei farmaci.

* Solo il 10% dei fondi per la ricerca e lo sviluppo è destinato a cure contro il 90% delle malattie a diffusione mondiale, mentre il grosso è speso per malattie tipiche del Primo mondo come l’obesità, la calvizie e l’impotenza.

* Il Sud del mondo viene utilizzato per la sperimentazione di farmaci che poi non vengono resi disponibili per le popolazioni che hanno subito la sperimentazione.

Farmaci antiretrovirali

Primo gruppo:
inibitori nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Retrovir (Glaxo-Wellcome) L. 571.200
Videx (Bristol-M. Squibb) L. 406.100
Epivir (Glaxo-Wellcome) L. 532.000 H
Zerit (Bristol-M. Squibb) L. 519.600 H
Hivid (Roche) L. 499.800
Ziagen (Glaxo-Wellcome) L. 685.300 H

Combinazione di 2 inibitori
Combivir (Glaxo-Wellcome) L. 930.600 H

Secondo gruppo:
inibitori delle proteasi

Norvir (Abbott) L. 849.300 H
Invirase (Roche) L. 1.276.000 H
Fortovase (Roche) L. 1.266.000 H
Crixivan (Merck S.D.) L. 1.258.400 H
Viracept (Roche) L. 919.600 H
Agenerase (Glaxo-Wellcome) L. 959.200 H

Terzo gruppo:
inibitori non nucleosidici della transcriptasi inversa virale

Viramune (Boehringer Ing.) L. 375.000 H
Sustiva (Du Pont Ph.) L. 761.400 H

H = solo dispensazione ospedaliera (il prezzo va dimezzato).
Il prezzo equivale al costo di una terapia per un mese.
In Italia le cure sono gratuite. Per ora.

Paolo Moiola




Ma se l’è proprio cercata?

Aids tra scienza e coscienza

Nel tunnel chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce,
dopo il buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo,
anche se dal Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo
(finora proibitivo) dei farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti.
Specie quando si deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani) non ci saranno più?».
Quelli erano gli anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di pochi anni.
Oggi quasi tutti i sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.
Ecco cosa può fare la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è attaccabile in maniera molto selettiva.
La svolta di Vancouver
Yokoama, agosto 1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte: tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…
Vancouver (Canada), luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile. Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15 mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è diffusa, sono tutti lì.
David Ho parla dei nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici, pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.
Dal 1996 poco tempo è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo, attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad ogni livello.
Molte cose sono cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.
il medico «sa»
Oggi si ammalano di Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le terapie.
Però i sieropositivi continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul medico vengono «scaricate» angosce e timori.
Il medico è uno dei pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte, si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza tecnico-scientifica o di fuga.
Personalmente mi sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non «identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.
D’altro canto l’Aids ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi, nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle terapie.
In questi anni alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.
Ho visto cambiare tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri. Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le cure (cfr. box, pagina 40).
Mentre sto scrivendo questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39 case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla forza di piccoli-grandi eroi.
Già, quanti «eroi» ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.
Nella introduzione agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge: «Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».
Spesso penso ai tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che, durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca, Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…
Giustamente si paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic» incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi) vi hanno trovato posto.
«Ipersesso» e stranieri
Accennavo alla prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.
Ma oggi sarebbe necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade, nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura dell’Aids.
Ma a che gioco giochiamo?
Luc Montagnier, grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.
Esiste poi il grande problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere individuati, schedati, espulsi.
Non hanno ancora capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.
La prevenzione con gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma se colta in tempo.
Vi sono poi alcune situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo, cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il figlio diventa bassissimo.
Prudenza, non moralismo
«Dottore, che mi consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande prudenza.
Purtroppo la gente non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’ più di fortuna o prudenza in qualche occasione…
L’ignoranza è ancora dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata: «Lo sai che Tizio ha l’Aids?».
Pure il moralismo da quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone moralmente molto più a terra dei giudicati!
E poi, applicando questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…
Un giorno entra in ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’ di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:
– Ma a questo qui, quanto gli resta da vivere?
– Come ha detto? Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un mio paziente. Non si permetta di parlare così!
La signora abbozza una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria. Avrà capito?
In ogni caso ci vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.
Insieme ai farmaci, l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi, operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari. Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri limiti.
Come ha ragione quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.
Esiste un gruppo di persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per iscriversi è sempre aperta.

di Giancarlo Orofino (*)

Giancarlo Orofino




Correva l’anno 1981

Il punto della situazione

Conosciuta soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita
nota con l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti,
per tre quarti africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande
senza controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati deludenti.
Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura lotta
contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali contro l’Aids
sono acquistabili da un’esigua minoranza.

IL PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3 milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75 milioni di dollari. Niente, appunto».
A fare questa dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D. Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard, consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti economisti a livello mondiale.
Pochi mesi fa, la dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10 anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».
E l’economista Sachs, con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più, quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai danni».
È interessante e, allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.
UN PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e propria pandemia.
I primi casi sono stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi, colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana), successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto morto in Africa nel 1959.
Da dove è venuta questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e, successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in Europa e in tutto il mondo.
Per ciò che concee le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.
Il I patte comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola percentuale.
Nel II patte, comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto uomo-donna di circa uno ad uno.
Il III patte (Asia-Pacifico, Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes, si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.
UN PROBLEMA POLITICO ED ECONOMICO
La pandemia sta distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo dalle parole della dott.ssa Sanchez.
«In Perù, se vuoi entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi? Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno morendo».
Semplicemente e con poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa, Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di peste vissuta in Europa nel corso del 1300.
L’impossibilità di curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per l’alto indice di natalità.
Quanto detto sopra è chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi 1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.
Anche il semplice preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE FARE DAVANTI A UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del 2001?
«Nei suoi due decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -, l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri, nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita in una vera emergenza mondiale».
«Nella dichiarazione del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della pandemia e di altre malattie infettive».
Più avanti Kofi Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi, specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».
Quindi il segretario generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».
Il lungo documento, dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità politica delle nazioni».
«Gli effetti negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola, su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale, le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della crescita economica prevista».

SFIDA ALLA SICUREZZA

La mia vicina di casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.
La dott.ssa Sanchez ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva essere concentrato sull’informazione/educazione.
Nella mia città, Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.
La nostra società invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.
In un passo del suo discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società, debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla sicurezza dell’umanità».
La sfida all’AIDS deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena aperto.
DISEGUAGLIANZA SOCIALE
Oggi è l’AIDS, domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema non è solo sanitario, ma anche economico e politico.
Dobbiamo impegnarci a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la diseguaglianza sociale.

Guido Sattin




RUSSIA – La fabbrica dei barboni

Secondo il Ministero del lavoro e dello sviluppo, sono una massa grigia di vagabondi maleodoranti, ubriaconi ed accattoni, con un’innata renitenza al lavoro e una spiccata tendenza a delinquere. Così certamente «appaiono». Ma si scopre pure
che sono stati «fabbricati» da eventi non casuali: quando si sottrae loro la casa
o vengono truffati «legalmente», quando si impongono leggi da servitù della gleba…
E non è tutto. Qualcuno rema a favore dei barboni, per fortuna.

UNA BRUTTA PAROLA

Se ne cominciò a parlare all’inizio degli anni Novanta. Fu allora che nel vocabolario dei russi entrò un nuovo termine, alquanto goffo, come tutte le parole-sigla di cui è pieno il linguaggio sovietico:
BOMZH, Bez Opredelennogo Mesta Zhitel’stva, ovvero «senza fissa dimora». In breve, barbone.
Il termine riflette nel suono, così tristemente burocratico, le caratteristiche di un fenomeno presente in tutti i paesi del mondo. Ma in Russia, per molta parte, bomzh non si diventa a seguito di disavventure familiari, rovesci finanziari, immigrazioni da paesi stranieri, oppure di scelte di vita. Il bomzh è sovente il prodotto delle leggi statali, dell’incuria e dell’arbitrio di funzionari governativi e pubblici ufficiali.
Dunque, all’inizio degli anni Novanta, con la fine del comunismo, il fenomeno dei senzatetto s’impose all’attenzione generale. Si collegava il fatto alla privatizzazione degli appartamenti, fino allora proprietà statale o di cornoperative. Era questo un atto quasi formale: le persone si vedevano riconoscere, dopo il pagamento di pochi rubli, la proprietà dell’appartamento o delle stanze in cui abitavano.
Con il ritorno della proprietà privata, fiorì un aggressivo mercato del mattone. E cominciarono a circolare per Mosca storie cui si stentava a credere: storie di alcolizzati che, in un momento di coscienza obnubilata, vendevano per un pugno di rubli il proprio appartamento e quello dei loro figli, buttati sul pianerottolo di casa; storie di anziani che d’improvviso morivano, lasciando così libera la propria stanza; storie di famiglie indotte, dietro regolare contratto di permuta, a trasferirsi in un altro alloggio che… non esisteva.
Pareva che l’origine dei bomzhi fosse da attribuire alla spregiudicatezza di un capitalismo senza regole, da Far West, che stava aggredendo tutti i settori dell’economia nazionale. Però, man mano che il tempo passava e il popolo dei barboni cresceva, diventava sempre più difficile credere che quella fosse l’unica causa di un fenomeno che assumeva proporzioni gigantesche.
Secondo dati ufficiali, nella sola Mosca erano 30 mila nel 1992; 100 mila nel 1995. Oggi superano i 4 milioni in Russia.

I «bomzhi» da prigione

A leggere i documenti del Ministero del lavoro e dello sviluppo sociale o le disposizioni emanate dalle autorità dello stato, i bomzhi sono una grigia massa di vagabondi maleodoranti, ubriaconi e accattoni per un’innata renitenza al lavoro e una spiccata tendenza a delinquere. Ma è proprio vero?
Giacché lo stato per lo più finge di ignorare il problema, per capire chi sono i senzatetto bisogna rivolgersi alle organizzazioni umanitarie. Grazie ai loro sforzi e ai dati di cui dispongono, possiamo farci un’idea meno approssimativa del fenomeno.
Sono diversi i motivi per cui ci si ritrova su una strada: problemi familiari; la chiusura di imprese e la conseguente perdita dell’alloggio aziendale; perché si è vittime di truffe immobiliari; perché dalle repubbliche ex-sovietiche si viene in Russia a cercare lavoro; perché si perde il documento d’identità; perché si esce di prigione.
Da questo elenco già s’intuisce che, per capire il problema dei senzatetto in Russia, è necessario riferirsi alla realtà del paese, in cui pesa ancora molto il recente passato sovietico. Esiste un dato che può sembrare sorprendente: il 35% (40% dopo l’amnistia di maggio 2000) dei senzatetto in Russia è costituito da ex detenuti. E, per spiegarlo, bisogna fare un passo indietro.
Nell’ex Unione Sovietica tutte le abitazioni appartenevano allo stato; quando, per motivi di lavoro, servizio militare o lunghe detenzioni, ci si trasferiva altrove, si perdeva la residenza e il diritto all’alloggio; in caso di ritorno, se ne sarebbe ricevuto un altro. Già allora il sistema funzionava a corrente alternata: bene in un senso e meno bene in quello opposto.
Se l’URSS ha cessato di esistere nel 1991, la sua macchina amministrativa ha però continuato a funzionare oltre questa data, alimentata da mentalità e abitudini radicate. Solo nel 1995 è stata abolita la legge che privava del diritto all’alloggio una persona che restasse assente da casa oltre sei mesi. Ciononostante, nei confronti dei condannati a più di sei mesi di reclusione, ancora oggi si applica arbitrariamente la vecchia disposizione. L’ex detenuto che ritorna, se non ha una famiglia che lo accoglie, si ritrova su una strada.
Nella sola Pietroburgo ogni anno ritornano dal carcere 8-10 mila individui. E molti non sanno dove andare. Non rimane che mettersi in lista per l’assegnazione di un alloggio in quanto nullatenente. La legge, infatti, ne riconosce il diritto a tutti, sebbene, non fissando i tempi di esecuzione, lo neghi in pratica.
Vale da esempio il caso di Valerij, classe 1958, pietroburghese. Nel 1993, mentre era in carcere e i genitori morivano, il suo appartamento è tornato all’amministrazione rionale. Rientrato in città, Valerij ha chiesto un’altra abitazione. «È impossibile – si è giustificata la commissione-case -, data la grande carenza di alloggi nel quartiere». Con chi se la poteva prendere Valerij? Non certo contro l’amministrazione, che ha accolto la sua richiesta, ma cui la legge non impone un termine entro cui esaudirla.
Non sono solo gli ex detenuti a restare senza un tetto a causa di assurdi meccanismi legislativi. Nella medesima situazione si trovano i russi che tornano a casa dopo una residenza in altre regioni del paese. Un altro esempio.
Tempo fa una famiglia di Mosca partiva per le ingrate regioni del nord, dove il lavoro era ancora ben remunerato. Ha lasciato a casa il nonno, che però è morto senza aver privatizzato l’appartamento, passato così all’amministrazione cittadina. La famiglia, quando quattro anni fa è tornata, non ha trovato più niente. Ora i genitori hanno un letto al dormitorio pubblico e i figli vivono all’orfanotrofio.
Per non parlare di truffe
Ci sono altri motivi per cui una persona può perdere la casa. Ho già accennato al fatto che con la privatizzazione degli appartamenti sono iniziate pure le truffe immobiliari. Secondo dati di Medici senza frontiere e Caritas, ne è vittima circa il 15% dei senzatetto. È un tipico postumo del periodo sovietico.
In un paese dove per decenni l’unica proprietà possibile era statale e le istituzioni erano infallibili per postulato, i cittadini hanno perso completamente il «senso giuridico» della proprietà privata e acquisito, nel contempo, la convinzione che tutto ciò che ha apparenza istituzionale (un pezzo di carta con timbro e bollo) sia di per sé degno di fede. Così la gente si è lasciata raggirare facilmente.
Le truffe rimangono spesso impunite. Polizia e procura non dimostrano un particolare zelo nello smascherare e perseguire i colpevoli, anche perché vi sono spesso coinvolti colleghi e funzionari del Ministero degli interni o dell’amministrazione statale. È difficile per le vittime raccogliere le prove sufficienti a dimostrare la truffa. Inoltre, data l’ignoranza delle leggi, è indispensabile l’assistenza di un avvocato, per molti un onere troppo costoso.
Per aiutare le persone in tali condizioni, è nata nel 1994 l’associazione Novyj dom («Una nuova casa»), che offre assistenza legale gratuita a chi non se la può permettere. È costituita da professionisti che vi dedicano le ore della sera, al termine della giornata di lavoro. «Altrimenti non potremmo sostentarci – spiega uno di loro, Aleksandr Kotov -, perché non riceviamo quasi finanziamenti dall’esterno».
Nessuna targa sulla strada indica la sede: si trova al piano terra di un appartamento e gli inquilini del palazzo mal sopportano Novyj dom, con quel viavai di gente di ogni tipo. «Lo stato non ci aiuta in alcun modo, non ci accorda nemmeno le esenzioni fiscali che spettano alle organizzazioni benefiche. Per essere ufficialmente riconosciuti come tali, avremmo dovuto dare una tangente, ma ci siamo rifiutati. Per ben tre volte abbiamo provato ad avviare la pratica, ma abbiamo sempre dovuto rinunciarvi».
Aleksandr mi racconta uno dei tanti inverosimili casi capitati.
Un uomo viene fermato per strada con un pretesto e condotto al comando di polizia, dove è trattenuto per un mese. Nel frattempo gli tolgono il documento d’identità, che non gli verrà più restituito. Quando viene rilasciato, l’uomo corre a casa e trova la porta sbarrata: la chiave non entra più nella serratura. Ritorna alla polizia, ma trova altre persone. Quando dichiara le proprie generalità (che ora senza documento non può più provare), gli dicono che lui non è lui, che la persona per cui si «spaccia» ha venduto il proprio appartamento un paio di settimane prima e si è trasferita altrove… Adesso il gioco era chiaro: mentre si trovava sequestrato dalla polizia, qualcuno ha venduto il suo appartamento servendosi del suo documento.
Grazie a Novyj dom, quell’uomo ricupererà la casa. Ma questo è solo uno dei pochi episodi a lieto fine. Anche quando si arriva al processo, l’iter è lungo e difficile, perché bisogna rompere le reti di connivenze. Si può farcela, ma nel frattempo l’interessato può sparire chissà dove, nel tentativo di sopravvivere senza una casa, travolto dalla vita randagia cui è stato costretto.
imprese e orfani
Una discreta percentuale di senzatetto (15%) perde la casa in seguito alla perdita del lavoro. Però non è solo un problema di disoccupazione.
In Russia la mancanza di case è sempre stata cronica. Per tale motivo, nel tempo sovietico diverse imprese statali mettevano a disposizione dei dipendenti un alloggio in un pensionato aziendale: anche solo una stanza o un letto. Per i lavoratori, oggi, una delle conseguenze più gravi del fallimento o della privatizzazione delle imprese è essere privati di un tetto, che è molto difficile rimpiazzare.
In Russia c’è parecchia gente che vive in appartamenti di «coabitazione», dove le stanze sono occupate da vari nuclei famigliari, mentre bagno e cucina sono in comune. Si aggiunga che, negli ultimi anni (specie a Mosca), i prezzi degli affitti sono al di sopra delle possibilità di una famiglia media. Ciò spiega perché tanta gente perda la casa.
Molte giovani coppie si vedono costrette a convivere con genitori o suoceri. E accade che, quando uno della famiglia se ne va per dissidi o perché si divorzia o (peggio ancora) perché si è minacciati da estranei introdottisi in casa (la convivente del figlio, il convivente della madre o della moglie), l’individuo abbia serie difficoltà a trovare un’altra sistemazione. Così finisce facilmente sulla strada.
Poi ci sono coloro che non hanno quasi mai avuto una casa. Sono i tanti bambini che crescono negli orfanotrofi.
In questi ultimi anni la Russia è diventata uno dei paesi cui maggiormente ci si rivolge per adozioni inteazionali. Dove vanno i bimbi che escono dagli orfanotrofi? Chi vi è giunto direttamente dal reparto mateità di un ospedale, non avendo mai avuto un alloggio, non ha neanche diritto ad essee reintegrato (la logica non fa una grinza); gli altri dovrebbero ricevee uno, ma sovente non accade.
Un tempo questi ragazzi venivano mandati a lavorare in fabbrica, e ricevevano pure un letto. Oggi passano direttamente dall’orfanotrofio alla strada. Date le condizioni precarie in cui si trovano, finiscono prima o poi per commettere un reato; e in poco tempo si ritrovano in prigione o in una colonia di rieducazione. Per lo stato è meglio tenerli lì che procurare loro un alloggio.
Il problema si ripresenta quando devono uscire dalla prigione. «Non vogliono andarsene – afferma Aleksandr di Novyj dom, che sta cercando di aiutare le ragazze detenute in una colonia penale nei pressi di Rjazan’. Chiedono di rimanere a lavorare in carcere. Il direttore, che è un brav’uomo, fa di tutto per aiutarle, ma egli stesso ha grossi problemi a mandare avanti la colonia… con le magre dotazioni statali».
Come marziani dal cielo
La Caritas usa una strana espressione: «vittime di furto». Il problema non è economico: sarebbe troppo comprensibile. I soldi questa volta non c’entrano.
Ebbene, basta poco per entrare nella grande «famiglia» dei senzatetto: basta, ad esempio, perdere il documento di identità lontano da casa.
Molte sono le persone che vengono in Russia da altre repubbliche ex sovietiche in cerca di lavoro. Lasciano la loro casa in Ucraina, Moldavia, Bielorussia, Armenia… sperando di farvi ritorno dopo qualche mese con un po’ di soldi. Arrivano e, tanto per cominciare, passano le prime notti in una stazione. Per 25 rubli viene data loro una cuccetta in un vagone parcheggiato su un binario morto. Qui i furti sono all’ordine del giorno.
Qualcuno nota gli sprovveduti novellini e ruba loro la borsa con soldi e documenti. Che fare? Ritornare a casa senza un soldo sarebbe una vergogna; né potrebbero farlo, anche se avessero il denaro sufficiente per acquistare un biglietto: senza documento non glielo vendono. Se decidessero di farsi mandare dei soldi da casa, non potrebbero poi ritirarli alla posta senza la carta di identità. Per ottenere un nuovo documento occorrono mesi, se non anni: bisogna aspettare che arrivi il fascicolo personale, custodito all’ufficio passaporti del luogo di residenza. I rapporti tra le istituzioni russe e quelle delle altre repubbliche sono poco collaborativi, per non dire ostili. Inoltre gli stessi uffici passaporti russi non sono modelli di efficienza.
In identiche condizioni si possono trovare i russi, venuti a Mosca dalle lontane province in cerca di lavoro, o per sbrigare una pratica o per cure mediche. Se perdono il documento, si ritrovano nel proprio paese come marziani piombati dal cielo.
Nel frattempo bisogna vivere: ottenere un lavoro regolare senza documenti è impossibile. Rimangono i lavori neri, sottopagati e rischiosi, perché invece della paga puoi ricevere una manica di botte. È un’esperienza quotidiana. Tanto, senza documenti, sei nessuno: non puoi andare in tribunale né rivolgerti ad un pronto soccorso o un ambulatorio, se ti succede qualcosa.
È difficile anche trovare un alloggio. Per legge è vietato ospitare persone prive di documenti o senza registrazione. Chi lo fa viene multato. A Mosca i dormitori pubblici accettano solo moscoviti o ex moscoviti, naturalmente in possesso di documenti.
Infine, se ti fermano per strada per un controllo (cosa molto probabile, perché il tuo aspetto non passa inosservato all’occhio attento dei tutori dell’ordine), trovandoti senza documenti finisci quasi certamente in un luogo chiamato «Centro raccolta e smistamento».
Proprio come un pacco.
(Continua nel prossimo numero).

IL CERCHIO SI CHIUDE SEMPRE

A nno 1917. Dopo la rivoluzione d’ottobre il nuovo regime, tra le varie istituzioni considerate borghesi, abolì anche il sistema dei passaporti interni, l’equivalente delle nostre carte d’identità. In seguito questo sistema non solo fu reintrodotto, ma il rilascio del documento fu condizionato al luogo di residenza: si proibiva ai cittadini sovietici di risiedere in un luogo diverso da quello registrato. La registrazione si chiamava propiska.
Veniva così risuscitato un istituto della servitù della gleba, quando il contadino non aveva il diritto di abbandonare la terra su cui viveva.
L’obbligo della «propiska» aveva in URSS un fine analogo: impedire al contadino di abbandonare le campagne collettivizzate. La legge vietava di trasferirsi da un luogo all’altro senza avere prima il permesso di soggiorno. Tale permesso si otteneva solo se si contraeva il matrimonio con persona già residente o se si aveva un lavoro; ma nessun lavoro veniva offerto senza un permesso di soggiorno. E il cerchio si chiudeva.
Con la fine dell’URSS, il concetto di «propiska» è formalmente decaduto, ma nella pratica è più vegeto che mai (oggi si chiama «registrazione»), in aperto contrasto con le libertà garantite dalla nuova costituzione. Il caso di Mosca è il più eclatante.
Ogni cittadino della Federazione Russa che arrivi nella capitale per qualsiasi motivo (turismo, visita a parenti, cure, rientro temporaneo dall’estero) è tenuto a registrarsi presso la questura. È come se un italiano, in visita a Roma, dovesse segnalare il suo arrivo alla polizia, che può a propria discrezione negargli il permesso di soggioare in città… La registrazione è una disposizione (anticostituzionale) del sindaco di Mosca, Luzhkov, che viene puntualmente fatta rispettare in barba a tutto e a tutti.
Due poliziotti fermano un passante d’aspetto caucasico, o dall’aria provinciale o male in aese (probabilmente un bomzh) e controllano i suoi documenti. Controlli illegali, ma per essere lasciati in pace bisogna «sganciare»… Scene del genere si vedono in continuazione per le vie di Mosca: nei punti di maggior traffico, nei mercati, davanti agli ingressi della metropolitana.
La prassi ha anche il piacevole (per le autorità) effetto di creare nel cittadino un sentimento d’insicurezza. Davanti al poliziotto, il rappresentante della legge, ci si sente sempre nel torto.
D unque, senza un luogo di dimora fisso, è molto difficile ottenere il documento d’identità. E, senza il documento d’identità, non sei nessuno: sei un non-uomo. E il cerchio si chiude un’altra volta.
Come s’è visto, senza un documento non puoi avere un alloggio regolare, e non solo. Non puoi avere un lavoro: il datore sarebbe multato. Senza un documento e relativa registrazione, ti vedi rifiutare l’assistenza ambulatoriale (è prestata secondo la residenza), non puoi votare (gli elenchi elettorali sono formati con riferimento ai residenti), né puoi rivolgerti al tribunale o acquistare un biglietto aereo o ferroviario; non puoi ottenere la pensione o altri sussidi statali (si ricevono in base alla residenza), né puoi usufruire di strutture pubbliche quali ospizi, pensionati per invalidi (è richiesto un certificato medico che per te è impossibile ottenere); non puoi essere iscritto sulle liste di disoccupazione (gli uffici di collocamento accettano solo i residenti nel territorio).
In compenso, puoi essere fermato per la strada dalla polizia e trattenuto (illegalmente) fino a 30 giorni.
Ecco il potere dei documenti d’identità e «propiska» in Russia. E si capisce quale terribile fatalità sia rimanee senza.
Una fatalità che agli ex detenuti tocca quasi sempre affrontare. All’uscita del carcere essi dovrebbero, per legge, ricevere un nuovo documento d’identità. Ciò avviene nel 5% dei casi. Per il resto viene consegnato solo il certificato di rilascio dalla prigione, che al primo controllo per strada può venire stracciato da qualche poliziotto arrogante. Sì, perché la polizia spesso straccia o requisisce certificati e documenti d’identità.
Molti scontano il periodo di detenzione lontano dalle loro case; per tornarvi devono fare parecchia strada e, in breve, i pochi soldi finiscono. Allora vengono a Mosca in cerca di un lavoro per proseguire. Ma non ce la fanno, perché si ritrovano senza documenti, cioè senza diritti.
Il cerchio si chiude sempre.
Bi.Ba.

Biancamaria Balestra




CONGO, RD – Ambasciatori in scarpette e calzoncini

Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti
ha raggiunto la regione orientale della Repubblica democratica del Congo
per unirsi alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare
pace e rispetto dei diritti umani.
L’iniziativa ha seminato forti speranze che attendono di diventare realtà.

Sembrava un’idea temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso, quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati i costruttori di pace», «Operazione colomba» e «Chiama l’Africa», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia, Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo, nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo, per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.
PROGETTO «VISIONARIO»
A volte la causa della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante appoggio logistico ai pacifisti.
L’ispiratore di tale iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri e manifestazioni varie.
Che i tempi fossero maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.
Alla frontiera ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman, percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno. In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!» (pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?» domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama: la chiamano «Organizzazione non utile».
Dopo una sosta a Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del Rassemblement congolais pour la democratie (Rcd) di Goma, appoggiati dai rwandesi.
A Butembo apparvero ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati ufficiali?».
SIMPOSIO PER LA PACE
A Butembo i pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali attori politico-militari della regione.
«Simposio» è una parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.
All’apertura dei lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba, presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia assoluta».
La replica di Bemba non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a volte è necessario combattere».
Il Sipa chiuse i lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza intercongolese di pace.
Nonostante il moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine della giornata conclusiva.
IL CAPO CHIEDE PERDONO
Lentamente, le circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio contributo.
La cerimonia finale, che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa. «Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -. Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare ritorno alle loro sedi».
L’annuncio è accolto dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.
Stupore anche fra le fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati, obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo intrapreso quest’avventura.
SPERANZA APPESA A UN FILO
Solo il tempo dirà se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.
Nessuno è così ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae. L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.
Le ultime notizie che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle truppe straniere di occupazione.
La smobilitazione delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu (uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.
Non è chiaro, infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo, il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.
Il futuro rimane ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.
Marco Pontoni è giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.

Marco Pontoni