PAKISTAN: il paese islamico è retto da una giunta militare. I FRAGILI EQUILIBRI DI ISLAMABAD

Sorto
soltanto nel 1947, il paese asiatico ha già una lunga storia di conflitti
(interni ed estei), colpi di stato, dittature. La presenza di gruppi
fondamentalisti provoca frequenti scontri tra musulmani sunniti e
minoranza sciita. Ancora peggio stanno i cristiani, privi di tutele,
spesso accusati di blasfemia, reato punibile con la morte. Mentre, a causa
della contesa sul Kashmir, sono sempre molto tese le relazioni con
l’India, esasperate da una folle corsa alla bomba nucleare.

Sembrano
comparse di un film biblico, capitate tutte insieme su questo aereo un po’
macilento. Alcuni hanno un fagotto o un telo ripiegato sulla spalla e
sembrano i pastori del presepe. Uniche donne,  due madri velate di nero e
circondate da uno stuolo di marmocchi. Siamo appena atterrati
all’aeroporto di Karachi e, in attesa di scendere, si sono alzati in piedi
e ora mi scrutano con i loro occhi neri e brillanti. Il naso grande e
aguzzo  sembra un punto interrogativo.

Domani
inizia Eid ul Azhad, la festa islamica che commemora la decisione di
Abramo di sacrificare il figlio Isacco. L’aeroporto è pieno di pakistani
emigrati per lavoro, che tornano in famiglia per qualche giorno. La folla
spinge e strattona senza riguardo, spingendo i carrelli stracolmi di
scatoloni e grossi involti legati con lo spago. Un primo assaggio per noi
della violenza che caratterizza questo paese. Eppure il volo era iniziato
con l’esortazione: Allah uh Akbar, gridato per tre volte, seguito da altre
suppliche incomprensibili. Forse una preghiera. Alla fine ho inteso la
parola fatale: Inshallah! E siamo partiti.

LA DOTE E LE NOZZE COMBINATE

A Karachi
oggi le strade sono tranquille. Passano bus colorati, decorati da pitture
stravaganti con visi di donne e paesaggi montani, coi bigliettai che si
sporgono a chiamare i clienti. Passano «Ape» e camioncini che trasportano
mucche e pecore agghindate di corone di fiori e lustrini, pronte per il
sacrificio. C’è chi sta lavando accuratamente un agnello, chi sta dando
alle bestie l’erba fresca. Ameer mi accompagna in questi primi giorni
pakistani e mi spiega come intende questa festa.

Due
settimane fa ha comprato una capretta: «Le mie figlie devono affezionarsi
all’animale, prima che venga sacrificato. Le cai verranno poi
distribuite ai poveri. Noi non faremo il barbecue, come la maggior parte
dei pakistani. Dopo aver curato e nutrito la capretta per 15 giorni, le
bambine oggi piangeranno, quando arriverà il macellaio a sgozzarla. Questo
è il vero senso del sacrificio».


Rabbrividisco. Comincia così la mia esperienza in Pakistan, che mi porterà
a conoscere aspetti sconcertanti di quello che è un paese confessionale
islamico, fondato nel 1947, dopo la drammatica divisione dall’India.

Quando
esco nelle vie, pare che sia tutto finito: il sangue ha formato pozze
scure nei vicoli, mentre sui marciapiedi si lavora a tagliare in piccoli
pezzi le bestie sacrificate.   Ameer è andato presto in moschea, per la
preghiera, mentre le donne erano a casa a preparare il pranzo. La famiglia
di Ameer, originaria del Rajastan, è di fede islamica da molte
generazioni. I suoi antenati, di stirpe Rajput, si convertirono dall’induismo
seguendo gli insegnamenti dei mistici sufi missionari, provenienti dalla
Persia. Nel ’47 il padre di Ameer scelse di trasferirsi qui. Lasciò tutto
e prese il treno per Lahore, dove trovò condizioni di vita molto
difficili.

«I primi
anni vivevo in una stamberga con altri profughi. Poi mi sposai ed ebbi 10
figli». Munawar è un signore alto e magro, dalla pelle scura e segnata
dall’età, che parla bene l’inglese: «Allora a Karachi c’erano anche i
tram. Tutto funzionava bene, gli uffici pubblici e i trasporti. Oggi
abbiamo solo vecchi pullman privati, che cercano di attirare clienti con
le decorazioni fantasiose. Anche le scuole sono private; quelle pubbliche
non bastano, sono sporche e di basso livello». Parliamo anche del
terrorismo, finanziato dall’India, della guerra senza fine nel Kashmir e
delle armi che arrivano dall’estero.

Padre e
figlio hanno passato molti anni all’estero, anche in Giappone, lavorando
in ristoranti e caffè. Ora hanno una bella casetta e vivono tutti insieme,
nonno, figli e uno stuolo di nipoti. Il pomeriggio lo passeremo da loro,
stretti nel salottino coperto di tappeti, a sorseggiare il tè cremoso al
latte, mentre nel vicolo si sta asciugando la pozza di sangue della bestia
uccisa.

Parliamo
del matrimonio. Ameer ha visto la sposa solo il giorno delle nozze, che
erano state combinate dalle famiglie. «Credo sia meglio così. Sono molto
felice con mia moglie: i genitori sanno quello che è giusto per i figli».
In Pakistan convivono tradizioni islamiche con altre tipiche dell’induismo,
difficili da eliminare: come la dote per le figlie femmine, un peso grave
per la famiglia, che non è prevista nell’islam.

Toerò in
albergo passando dalla via principale, che prende nome dal padre della
patria, quel Jinna che morì di tubercolosi l’anno dopo aver visto
realizzare il suo sogno di un paese islamico libero e indipendente. Sulla
banchina spartitraffico, alla luce del tramonto, un uomo è ancora intento
a preparare la carne, tagliandola minuziosamente, dopo aver fatto a pezzi
la carcassa.

LA BLASFEMIA

«Amiamo
molto la musica e le canzoni napoletane». Conosco Julie e Austen a un
concerto: stasera suona un bravo sassofonista, accompagnato da un
pianista. Scopro che sono tutti originari di Goa.  «Mio padre era medico a
Bombay – mi dice Austen -. Prima della II guerra mondiale si era
trasferito a Karachi, come molti commercianti e professionisti indiani».
La moglie, che veste una camicia e una gonna all’occidentale, aggiunge:
«Siamo cristiani e viviamo in un paese islamico per il 97%, ma non abbiamo
problemi. Nelle campagne del Punjab, presso Multan, sappiamo invece
esserci situazioni molto gravi. I cristiani sono sovente ingiustamente
accusati di blasfemia, soltanto come pretesto per poter togliere loro la
terra». La legge islamica vigente nel paese  prevede la condanna a morte
per questo reato. Basta la testimonianza di 4 musulmani. La parola del
cristiano non conta.

GLI
SCHIAVI DEI GRANDI LATIFONDISTI

Moemjo
Daro è forse la più antica città del mondo. Certamente quella più
sorprendente, per le soluzioni urbanistiche. Edifici di mattoni disposti a
scacchiera e dotati di canalizzazioni per la raccolta delle acque,
palazzi, templi e bagni, tutto dominato dal gigantesco stupa (monumento)
buddista. Dopo 4.500 anni, solo ora il sito corre il rischio di
sbriciolarsi a causa dell’umidità e del sale.

Il
Pakistan ha sete d’acqua e le dighe costruite sull’Indo hanno innalzato la
falda freatica. Il grande fiume, che un tempo passava qui vicino, pare un
rigagnolo ormai, dopo tre anni di siccità. Attraversiamo Larkana, la città
feudo della famiglia Bhutto, con il suo mercato vivace. Si sta
festeggiando un matrimonio e lo sposo si esibisce con una decorazione
vistosa sul petto: un ventaglio di banconote che sembra porti fortuna agli
sposi. C’è chi non ha casa e vive ai margini, sotto ripari di fortuna, nel
centro cittadino, in mezzo ai rifiuti. La carne del sacrificio si sta
seccando, appesa ai fili, tra una tenda e l’altra.

In questa
regione, il Sind, i viaggi non sono sicuri. Ci sono i ribelli, i banditi
che negli anni passati hanno anche rapito alcuni stranieri. «Qui ci sono
ancora gli schiavi» mi sorprende Ameer. «I servi della gleba – continua –
ci sono sempre stati e il regime feudale è ben radicato, in questa zona. I
loro figli faranno la stessa vita, dato che ben pochi di loro possono
andare a scuola e avere la speranza di migliorare. Legati al lavoro dei
campi da generazioni, ricevono dal padrone un poco di cibo per
sopravvivere».


Naturalmente i grandi latifondisti non abitano qui, ma a Karachi, Londra o
nei paesi del Golfo Persico. Ameer aggiunge che ci sono anche i forzati,
prigionieri condannati per crimini comuni, che lavorano in campagna e la
sera rientrano in prigione.

LE
PREOCCUPAZIONI DEL VESCOVO

Polvere,
caldo, mendicanti e tombe. Così si presenta Multan, una città famosa sin
dal medioevo come centro spirituale islamico. Con due milioni e mezzo di
abitanti, ai margini del deserto del Cholistan, è ricca di mausolei dove
riposano i santi mistici dell’islam, tuttora meta di pellegrinaggi.

Siamo nel
Punjab, la regione più fertile del Pakistan, irrigata dai canali e dagli
affluenti dell’Indo. Numerose sono le foaci di mattoni, dove il lavoro è
svolto tutto manualmente, con l’aiuto di muli. Le strade sono percorse dai
carri trainati da buoi e nei fossi asciutti le bufale cercano un po’ di
umidità. Lembi di campagna penetrano anche nel centro storico di questa
città estesissima. Non lontano dall’animato bazar vedo un uomo che munge
una bufala e bambine che preparano le mattonelle di letame da seccare sui
muri. Dopo tre anni di siccità, ora scarseggia anche l’energia elettrica e
in tutto il paese i black out sono la regola.

Oggi è
domenica e la sera vado alla ricerca di una chiesa, nel cantonement, il
verde quartiere coloniale. So che c’è una piccola comunità cattolica, ma è
difficile trovare il complesso del vescovado, nelle strade buie.
Finalmente una croce, un portone che si apre su un vasto piazzale con la
grotta di Lourdes e la Madonna illuminata. Incontro subito il padre
Domenico, una persona aperta, comunicativa, che parla bene l’italiano. Ha
studiato a Roma e ora lavora sul territorio della diocesi , che è la più
povera del paese e ha tanti problemi. Deve essere lui il braccio destro
del vescovo Andrew Francis, che mi accoglie nel suo studio. Purtroppo
abbiamo poco tempo per parlare e domani devo partire. Il vescovo è
contrariato. Ha rinunciato ad un impegno, per potermi parlare, ma ora
insiste: «Devi restare alcuni giorni con noi, per poter testimoniare della
situazione. Voi in Europa dovete sapere i drammi che stiamo vivendo».

Allora mi
scrive un nome, Class (**) e un numero di telefono. Quando sarò a Lahore,
forse avrò tempo per documentarmi.

CRISTIANI SENZA PROTEZIONE

Eiga,
giovane collaboratrice di Class, mi dà le prime notizie sull’attività del
centro. Poi mi accompagna in ufficio, al primo piano di un edificio
anonimo nel centro di Lahore. Mr. Joseph Francis dirige l’associazione,
che si occupa di assistenza legale e accoglienza di donne e bambine che
hanno subìto soprusi e violenze. «La giustizia non esiste, in questo
paese. Con il denaro si mette tutto a tacere».

Mr.
Francis mi spiega che gli aiuti per il centro vengono dall’unione delle
chiese cristiane di Ginevra e dagli Usa. Poi mi presenta una delle giovani
donne che sta ricevendo aiuto. Una ragazza di campagna dal viso
spaventato. Anche lei vittima di violenza, perché cristiana, quindi donna
senza valore e non credibile. Qui i cristiani appartengono ai ceti più
poveri. La conversione avvenne durante i secoli, per opera dei missionari
in India, che riuscivano a convertire i «fuori casta», gli intoccabili,
che trovavano dignità e senso di comunità nella chiesa cristiana.

Nel
dossier che mi viene presentato vedo un articolo del Times. Leggendo le
testimonianze raccolte e pubblicate,  mi rendo conto che la situazione è
veramente tragica.

Nel Punjab,
dove vive la grande maggioranza dei cristiani, la comunità cristiana e
quella islamica sono sempre vissute una accanto all’altra in perfetto
accordo. Solo da alcuni anni  si manifesta un aumento di risentimento,
intolleranza e violenza. Posso solo fare un’ipotesi sulle cause: la
miseria senza speranza che coinvolge ambedue le comunità, e l’ignoranza. I
casi di violenze sono seguiti da persecuzioni che arrivano alla
distruzione di case e chiese delle piccole comunità contadine. I
capifamiglia vengono imprigionati, sottoposti a tortura e accusati di
crimini mai commessi.

Nel maggio
1998 fece scalpore il vescovo di Faisalabad, mons. John Joseph: non
riuscendo ad aiutare uno di questi disgraziati, si suicidò davanti al
tribunale. La sua fu una tragica denuncia contro il regime, che discrimina
i non-musulmani. Nonostante le lettere di protesta spedite al primo
ministro e al Vaticano, il giorno dopo un altro cristiano venne condannato
a morte.

Eppure,
quando il padre della patria Jinnah dichiarò solennemente la formazione
del nuovo stato,   disse: «Potete appartenere a qualsiasi credo, casta o
religione. Potete andare alla moschea o in altro luogo a pregare. Non ci
sarà discriminazione tra le diverse comunità». Oggi invece siamo in piena
crisi. La legge sulla blasfemia è recente. Nel 1986, durante una
conferenza, l’avv. Asma Jehangir, musulmana impegnata in progetti di
riforma, descrisse l’islam come una religione senza icone, nella quale i
credenti hanno un rapporto diretto con Dio. Chiunque, disse, trova la fede
come fece il profeta, nonostante la sua mancanza di educazione.

I mullah
più conservatori si risentirono e l’accusarono di blasfemia, per aver
insultato Maometto, definendolo illetterato. Si mobilitarono affinché il
parlamento modificasse una sezione del codice penale, introdotto dagli
inglesi nel 1860. Nel 1992 si arrivò ad approvare una legge, secondo la
quale «chiunque, con parole o scritti, insinuazioni o reticenze,
direttamente o indirettamente, sminuisce il nome del profeta Maometto,
sarà punito con la pena capitale». Quattro mesi dopo il primo cristiano
veniva condannato a morte.

I
PROFUGHI AFGHANI DI PESHAWAR

La strada
che sale al passo Khyber è sotto di noi, un nastro sinuoso d’asfalto tra
le montagne aride. Prima di partire da Peshawar ho dovuto chiedere il
visto alla polizia tribale della città, che ha giurisdizione nella zona
del passo, a statuto speciale.

Tutti sono
passati di qua. Dai persiani achemenidi ad Alessandro, dal cristianesimo
all’islam, ai mongoli e infine gli inglesi. Anche oggi il traffico
continua. Passano camion, carichi di farina per l’Afghanistan affamato, e
altri mezzi nella direzione opposta, con merce di contrabbando. Le case
sulle pendici dei monti, da entrambi i lati del confine, sono piene di
attività. Si fabbrica di tutto, ma specialmente armi. Siamo fermi in una
curva a tornante, dove due bambini sui 10 anni aspettano con un secchio di
latta. Vi hanno messo qualche vite e bullone di recupero, da vendere ai
camionisti di passaggio. Sono profughi afghani e parlano solo pathan, la
lingua delle tribù che abitano queste montagne.

Anche Khan
è un pathan, ma ha studiato all’università di Peshawar, parla bene
l’inglese e mi può aiutare a capire. La scuola è giù nel villaggio:
profughi e ragazzini ci andranno nel tuo di pomeriggio, per due ore.
«Gli afghani sono persone meravigliose, ospitali e gentili – mi assicura
Khan -; il loro è un paese stupendo. I profughi qui si danno molto da
fare. Sopravvivono senza alcun aiuto, accettando tutti i lavori più duri».

In
effetti, ho visto a Peshawar il vecchio accampamento dei profughi, che
negli anni si è trasformato in un villaggio di casette di fango, costruite
secondo la tradizione. Alcuni, tra gli afghani più furbi, trafficano con
la merce di contrabbando che continua ad entrare nel paese. Roba che viene
anche dal Giappone, dall’Italia o dall’America, che riempie il mercato
«dei ladri» di Peshawar. Sbarca a Karachi e non fa dogana, passando subito
la frontiera a Quetta. Poi rientra nel paese dal passo Khyber.
L’Afghanistan è un paese allo sbando, porto franco, e come sempre in
questi casi, c’è chi  fa molti soldi.

Come il
proprietario della villa che abbiamo visto sulla strada per il Khyber: un
grande parco chiuso da muro di cinta alto con le guardie al cancello. Un
signore della droga che è stato in galera negli USA per tre mesi, ma si è
poi comprato la libertà. Uno che ha offerto al governo la stessa cifra che
il Pakistan riceveva dalla Banca mondiale, per avere le mani libere nei
suoi loschi traffici.

LA
VALLE DELLO SWAT: VERDE, «STUPA» E POVERTÀ

La mattina
il cielo era scuro. Saliamo verso Bahrain e una lama di luce rischiara il
greto secco dello Swat. Uomini e muli stanno lavorando: trasportano sabbia
e sassi del fiume e le loro figure silenziose riempiono il paesaggio. Vedo
che sui monti più lontani è caduta la neve, nella notte. Saliamo, e i
villaggi umidi incollati alle pareti ripide hanno i camini che fumano.

Fa freddo,
per noi che veniamo dal calore del Punjab. Le cime che ci circondano
superano i 6.000 metri. Le case di Bahrain sono addossate le une alle
altre, piccoli cubicoli di legno e fango, scuri e fumosi. La moschea
vecchia ha perso le decorazioni e il portale di legno scolpito, sostituiti
da infissi nuovi, che stonano con il complesso antico. Forse sono stati
venduti ad antiquari stranieri. La gente è calorosa, gentile. Piove e,
dopo qualche incertezza, siamo invitati ad entrare. La povertà della gente
e delle case è impressionante. Questa località è meta di vacanze estive
per i ricchi pakistani di Lahore e Islamabad. Ma la gente vive in
condizioni terribili.

Lo Swat
potrebbe essere un piccolo paradiso, come forse era ai tempi di Alessandro
Magno. Pare che i soldati del grande condottiero si siano fermati qui,
sulla via del ritorno. La prova sarebbero i capelli biondi e gli occhi
chiari di alcuni tra gli abitanti, poverissimi, della valle.

Da qui si
diffuse il buddismo, grazie ad Ashoka, l’imperatore maurya. Qui fiorì
l’arte gandhara e per la prima volta il Budda venne rappresentato in forma
umana, con un sorprendente profilo greco e lineamenti occidentali. Il
regno dei Kushana (1° sec. a.C.) rappresentò un periodo di grande
prosperità e pace, mai più raggiunto. Centinaia di stupa, molti in rovina,
punteggiano la valle, mentre le statue e i rilievi salvati dalle ruberie
riempiono i musei pakistani.

LA
BOMBA ATOMICAE L’INGENUITÀ DEI POVERI

Uno dei
più belli è lo stupa di Shingardhar, che fu costruito in memoria di un
elefante. La leggenda dice che, all’epoca del grande imperatore Ashoka (3°
sec a.C.) qui sostò un principe. Ritornava da un lungo viaggio intrapreso
per portare nella valle dello Swat una reliquia del Budda. Il suo elefante
si ammalò, morì e fu seppellito qui, dove venne poi eretto il grande
stupa.

La casa di
Gulbar si trova accanto al monumento. La moglie e i suoi figli ci
accolgono tra le mura di fango secco. Tutto è lindo e ordinato, nella
povertà. Ci sono le nicchie per le stoviglie e il foo, ma non c’è una
porta. La casa si apre sul cortile che confina con l’antico stupa.  Marwan
è il figlio maggiore, conosce qualche parola di inglese e mi chiede subito
di portarlo in Italia. Con il passaggio di visitatori stranieri, ormai
Marwan ha capito che il mondo non finisce nella valle dello Swat. Una
valle protetta da un passo, il Malakand, che ferma il calore e l’aridità
del Punjab. Una conca verdissima che non soffre la siccità come il resto
del Pakistan. Qui si coltiva di tutto, e tutti potrebbero stare bene, se
non ci fosse miseria e ignoranza.

Le
priorità del governo, oggi, dovrebbero essere educazione e sicurezza. Ma
fino a 2-3 anni fa non se ne parlava nemmeno, di scuole. Gli ospedali
mancano di tutto, e se si vuole essere curati si deve pagare. Il bilancio
delle spese dello stato favorisce, per primi, esercito e armamenti.

Ho visto
uno strano monumento, presente nelle piazze di tutte le città pakistane.
Una montagna in scala ridotta, la copia di un monte del Beluchistan,
diventata famosa nel maggio del 1998, quando è stata fatta scoppiare la
prima bomba nucleare. I pakistani ne sono orgogliosi e questo fa
dimenticare tutto ciò che a loro manca.

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PAKISTAN


 Superficie:  kmq 796.100
   Abitanti:  134,5 milioni
   Capitale:  Islamabad
   Lingua:  urdu (ufficiale), punjabi, singhi, pashto, baluchi,
inglese
   Gruppi etnici:  punjabi (48%), pashtu, sindi, saraiki, urdu
   Religione:  musulmani (95%, in maggioranza sunniti), cristiani
(2%), indù (1,5%)

Forma di
governo:  repubblica islamica a guida militare; il Pakistan è una potenza
nucleare (la prima del mondo islamico e, oggi, la prima retta da militari)


Presidente:  generale Pervez Musharraf, dal 12 ottobre 1999, in seguito a
un colpo di stato che ha spodestato il presidente eletto, Nawaz Sharif; la
Corte suprema ha dato alla giunta militare un tempo limite di 3 anni,
scaduto il quale dovrebbero tenersi le elezioni generali

Risorse
economiche:  l’economia si basa sull’agricoltura (riso, frumento, canna da
zucchero, mais, patate) e l’allevamento (ovini, caprini, bufali); il paese
è un grande produttore di cotone, che alimenta l’industria tessile e le
esportazioni

Problemi
interni:  periodicamente, si verificano violenze tra sunniti e sciiti in
varie città del paese; il Pakistan intrattiene relazioni con l’Afghanistan
dei talebani, i quali sono arrivati al potere con l’indispensabile aiuto
di Islamabad; sempre grave la tensione con l’India per la regione del
Kashmir

Claudia Caramanti




RUSSIA: l’esercito dei senzatetto (2). E’ FREDDA LA NOTTE DI MOSCA

In
prossimità delle feste, a Mosca e Pietroburgo i barboni che bivaccano
nelle vie del centro vengono caricati su camion e portati fuori città.
Perché i russi «normali» trascorrano le festività in pace… In
alternativa a questa soluzione, i senzatetto sono rinchiusi per qualche
settimana in «centri di raccolta». Oggi come ieri lo stato non si occupa
dei «bomzh», se non in modo punitivo. Per fortuna, «Medici senza
frontiere», «Caritas» e altre organizzazioni di volontariato fanno il
possibile per alleviare l’esistenza di chi è caduto nel baratro.

All’inizio
del secolo scorso i senzatetto erano circa 150.000 in tutto il paese e
potevano contare su diverse forme d’assistenza, attuate sia dallo stato e
dalla chiesa sia da organizzazioni benefiche private. A Mosca esistevano
diversi ospedali per i poveri, tra cui il famoso istituto Sklifosovskij.
Con la rivoluzione e l’instaurazione del regime sovietico, il fenomeno non
scomparve (al contrario), però non se ne ammetteva l’esistenza (in un
paese socialista non poteva esistere il disagio sociale!). Con il nuovo
codice penale del 1933, non avere una residenza e un lavoro ufficiali
divenne un reato punibile con una reclusione fino a due anni.

La fine
del regime sovietico ha fatto riaffiorare quelle situazioni di disagio,
che per anni erano rimaste relegate nel sottosuolo.

Adesso
essere senza fissa dimora non è più un reato. Tuttavia, l’atteggiamento
dello stato verso i senzatetto non è molto cambiato rispetto ai tempi in
cui erano considerati delinquenti da isolare dalla società. Il pregiudizio
nei loro confronti, condiviso in generale dall’opinione pubblica e
alimentato dai mass media, fa sì che non ci sia da parte delle istituzioni
il tentativo di comprendere il problema e di trovarvi soluzioni adeguate.
Basti dire che, a tutt’oggi, non c’è una legge sui senzatetto, che per lo
stato in Russia non esistono persone ridotte a vivere senza una casa, ma,
tutt’al più, «individui bomzh», da cui la società si deve difendere.

Del 1992 è
un decreto presidenziale a loro riguardo, che s’intitola: «Sulle misure
per prevenire vagabondaggio e accattonaggio». Dopo quasi 10 anni, il
progetto di legge che il governo del 2001 vuole sottoporre al parlamento
s’intitola: «Sulla riabilitazione sociale degli individui che praticano
vagabondaggio e accattonaggio».

Sembra che
il tempo sia passato invano. D’altra parte, se lo stato riconoscesse
l’esistenza del problema, dovrebbe anche far qualcosa per risolverlo.
Invece, ecco cosa si legge in uno studio del ministero del Lavoro e dello
Sviluppo sociale: «Gli individui bomzh che abbiamo interrogato negli
ospedali, nei centri raccolta-smistamento, alle discariche, non desiderano
cambiare il proprio stile di vita. Sono soddisfatti della propria vita e
apertamente disprezzano e deridono le persone che lavorano».

PER FORTUNA,
CI SONO LORO


Fortunatamente, negli anni Novanta, con l’apertura all’iniziativa privata
e la caduta della cortina di ferro, hanno cominciato ad operare sul
territorio russo organizzazioni umanitarie non governative sia russe che
inteazionali, sia religiose che laiche. Tra i primi ad arrivare sono
stati i Medici senza frontiere (MSF), le suore di Madre Teresa, la Caritas.
A Pietroburgo i pionieri sono stati i fondatori dell’associazione
Nochlezhka (Il rifugio), giustamente famosa in tutto il paese.

Oltre ad
assistere materialmente i senzatetto, queste organizzazioni si sono
trovate costrette a difendee i diritti sistematicamente conculcati.

MSF,
inoltre, si è più volte scontrata con le preoccupazioni «estetiche» delle
autorità. Nel 1992 una loro unità medica cominciò ad operare nelle
stazioni di Mosca, ma nel 1993 furono fermati dall’amministrazione
ferroviaria, preoccupata della visibilità che la cosa stava assumendo.
Infatti, la possibilità di ricevere assistenza medica, altrimenti negata,
richiamava un certo numero di senzatetto. Se durante l’epidemia di
difterite scoppiata a Mosca nel 1994, che costituiva una minaccia per
tutta la popolazione, a MSF fu concesso di riprendere l’attività nelle
stazioni, nel 1998 erano in arrivo nuovi guai. In preparazione alle
Olimpiadi dei giovani, l’amministrazione di Mosca decise di ripulire la
città dai barboni e chiuse anche gli ambulatori di MSF nelle stazioni.
Rimase in funzione quello aperto nel cortile dell’ospedale per malattie
infettive. Il posto è più defilato e non dà nell’occhio.

Non si
deve pensare che Mosca venga ripulita solo in occasioni così
straordinarie, come quella di un’olimpiade internazionale. Tali operazioni
si svolgono con una certa frequenza. Tanto per cominciare, in occasione
delle feste.

LE «PULIZIE»
DELLA FESTA

Arrivata a
Mosca alla vigilia dello scorso capodanno, mi sono stupita nel trovare le
vie del centro e la metropolitana sgombre di barboni.

I miei
sospetti al riguardo hanno trovato conferma parlando con gli operatori di
MSF e della Caritas: nella ricorrenza delle feste di capodanno e Natale
(il Natale ortodosso è il 7 gennaio), la città viene sgomberata dai
poveracci, tanto che in questo periodo le organizzazioni umanitarie
registrano un sensibile calo dell’attività. «Di solito abbiamo una coda di
gente che arriva fino in cortile, ma oggi riusciamo a chiudere addirittura
prima del tempo» mi spiegava Elena della Caritas.


Ovviamente, queste operazioni di sgombero vengono attuate alla
chetichella, sebbene possa capitare che se ne venga per caso a conoscenza
attraverso i mass media. Ad esempio, all’inizio di gennaio si è saputo
dalla radio che i comuni confinanti con Mosca si erano lamentati, perché
dalla capitale camion carichi di bomzh erano stati fatti arrivare e
scaricati nelle loro periferie. Alla base di questi trasferimenti c’è un
disegno primitivo: prima che i barboni riescano a riguadagnare la capitale
passano un po’ di giorni, quanto basta perché i moscoviti trascorrano «in
santa pace» le festività. Ma non sempre questi carichi umani vengono
lasciati all’interno di centri abitati. A Pietroburgo i senzatetto,
periodicamente rastrellati nella stazione ferroviaria vengono portati nei
boschi lontano, dalla città, con tutte le conseguenze che si possono
immaginare. A nulla per il momento sono valse le proteste delle
organizzazioni umanitarie, prima fra tutte Nochlezhka.

Nel 1999,
grazie all’intervento di una Tv privata, ha avuto ampia risonanza un
episodio, che altrimenti sarebbe passato inosservato, come tanti altri
simili. Il comando di polizia di un quartiere della capitale decide di
ripulire la zona dalla presenza dei senzatetto. Raccolti e caricati su un
camion, essi vengono portati a una discarica fuori città. Tra loro si
trova anche un uomo senza le gambe. L’operazione si svolge in una fredda
sera di fine estate. Al mattino alla discarica viene trovato il cadavere
del mutilato, che non aveva potuto, come gli altri, cercare un riparo ai
rigori della notte. Qualcuno ha avvertito l’emittente televisiva NTV, che
è corsa sul posto e ha reso il caso di pubblico dominio. Ciò ha spinto la
polizia ad aprire le indagini per individuare i responsabili. Ebbene, i
responsabili sono stati trovati, i loro nomi trasmessi alla magistratura,
ma quest’ultima dopo tre mesi ha chiuso l’inchiesta come se nulla fosse.
Del caso si sta occupando ora Aleksej Nikiforov, cornordinatore del
programma d’aiuti di MSF, il quale ha ottenuto che l’inchiesta fosse
riaperta.

DIETRO LE
SBARRE

Di
professione medico, Aleksej è da tempo impegnato a difendere i diritti dei
senzatetto. «Mi rivolgo alle istituzioni, chiedendo spiegazioni sul loro
operato. Per il momento, questo diritto lo abbiamo ancora. Chiedo, in
sostanza, che gli organi dello stato agiscano secondo quanto è stabilito
dalla legge».

È dura per
un medico districarsi tra i cavilli e i sotterfugi della burocrazia.
All’inizio lo menavano facilmente per il naso, ma poi si è fatto più
accorto. Il suo non è compito da poco. La legge è sistematicamente
ignorata dalla magistratura, che preferisce attenersi alle indicazioni
delle autorità, piuttosto che rispettare la costituzione.

Un
esempio. Ai tempi dell’Urss, quando essere senza residenza era reato, il
ministero degli Intei aveva istituito i cosiddetti «Centri
raccolta-smistamento», che, al di là di tutte le alchimie verbali, erano
in realtà delle specie di prigioni (con la rivoluzione, le carceri furono
ufficialmente abolite, in quanto istituzioni borghesi; comparvero, invece,
i «luoghi di isolamento» o i «luoghi di privazione della libertà»).

Oggi la
legge proibisce di trattenere un cittadino per più di 48 ore, a meno che
su di lui non gravino pesanti sospetti di reato, che motivino un ordine
scritto del tribunale a riguardo. Ciononostante, ogni anno 400 mila
persone vengono trattenute dai 10 ai 30 giorni in questi «centri», perché
prive di documento e registrazione. Gli ordini vengono firmati da
procuratori disinvolti e motivati con la necessità di rilasciare alla
persona un nuovo documento d’identità, il che accade molto raramente. In
realtà questa pratica tradisce la convinzione che i senzatetto siano dei
potenziali delinquenti, da tenere in gabbia il più possibile.

«Essi_
sono causa d’incendi e dell’aumento della criminalità», leggiamo sempre
nella stessa pubblicazione ministeriale, cui ho già accennato sopra.

I
senzatetto entrano ed escono da questi luoghi di detenzione
silenziosamente. D’altronde, quali concrete possibilità avrebbero di
chiedere giustizia? Ma la primavera scorsa uno di loro, appoggiato da
Novyj dom, ha fatto causa alla procura di Mosca. Un giornalista, amico di
Novyj dom, è riuscito a scriverne sul quotidiano Novye Izvestija: «Quest’uomo
ha trascorso più di un anno e mezzo nei cosiddetti centri
raccolta-smistamento, dove veniva rinchiuso a forza “per identificazione e
rilascio dei documenti”. Ne usciva, tuttavia, non con la carta d’identità,
che non riuscivano a rilasciargli, ma con un certificato della polizia. Al
primo controllo documenti, quel certificato veniva stracciato dai tutori
dell’ordine, e “l’individuo bomzh” si ritrovava di nuovo dietro le
sbarre».

Dopo gli
ennesimi 30 giorni di detenzione, «l’individuo bomzh», il signor Lemekhov
ha denunciato il procuratore che ne aveva sanzionato il fermo. Ma il
giudice non si è lasciato impressionare dai riferimenti alla Costituzione
(1993); ha giudicato molto più autorevole quanto sta scritto in un decreto
del presidente Eltsin (emanato alla vigilia della nuova costituzione) e in
una disposizione del ministero degli interni dell’Urss (1970). D’altra
parte, conclude il giornalista, è noto che il sindaco Luzhkov, di propria
iniziativa, ha assegnato un sostanzioso contributo allo stipendio dei
giudici moscoviti.

L’ARBITRIO
SOSTITUISCE LA LEGGE

«Quando
vengono a trovarci i corrispondenti stranieri, dopo un po’ vediamo che il
loro sguardo si appanna. Quello che raccontiamo è per loro così assurdo,
che a un certo punto smettono di seguirci. Chiudono la saracinesca. Anche
noi spesso non riusciamo a capire, ma siamo abituati a convivere con la
follia» mi dice Elena, durante il nostro incontro presso il centro-aiuto
Caritas.

Stiamo
parlando da due ore e si stupisce che io non abbia ancora voglia di
chiudere la conversazione. «Ecco, ad esempio, adesso è un po’ di tempo che
agli uffici passaporti mancano i moduli per chiedere un nuovo documento.
Così tutto è fermo, non si può fare domanda. E anche se si potesse, le
domande dei senzatetto di regola non vengono accettate. Se uno di loro
chiede il rilascio di un nuovo documento, lo si indirizza all’ufficio
passaporti del luogo dell’ultima registrazione, sebbene la legge non lo
richieda. Anche ritornando all’ultimo luogo di residenza ufficiale, le
cose non sono così semplici, perché tutto il processo può richiedere mesi
(per legge, invece, non più di 15 giorni). E intanto, che si fa? Se poi
l’ultimo luogo di residenza era una repubblica ex-sovietica, è la fine».

Per porre
un freno all’arbitrio che regna negli uffici passaporti, MSF e Caritas
distribuiscono ai loro assistiti un foglio da consegnare al funzionario di
tuo, in cui si ricorda che, per legge, chi non ha una residenza ha
diritto a ottenere il documento d’identità là dove soggioa. «Quel pezzo
di carta col nostro timbro sopra è stato pensato per influenzare il
poliziotto – mi conferma Aleksej di MSF -. Qui accade qualcosa solo se hai
qualcuno alle spalle che ti sostiene. È quello che tentiamo di fare».

«COM’È FACILE
AFFONDARE!»

Il centro
Caritas per i senzatetto è stato aperto 7 anni fa. Qui si può ricevere un
pasto caldo, vestiti e scarpe. Ma l’aiuto materiale non basta. Queste
persone sono così disorientate che hanno bisogno di qualcuno che le
indirizzi, le consigli, o semplicemente ascolti le loro storie. Così sia
Caritas che MSF offrono un servizio di assistenza sociale.

«È facile
perdere l’equilibrio con la vita che fanno» incalza Elena, mentre mi
mostra i dati raccolti durante i colloqui con i senzatetto. «È incredibile
quanto si faccia presto ad andare a fondo e quanto difficile sia
rimettersi in piedi. E pensare che il 16% delle persone che vengono da noi
hanno una laurea universitaria. Abbiamo i barboni più istruiti del
mondo!». È vero che qualcuno si è mosso e si sta muovendo per aiutarli;
pasti caldi vengono distribuiti anche presso alcune parrocchie o da
associazioni come l’Esercito della Salvezza. Le Suore di Madre Teresa
hanno una casa con 30 letti, dove raccolgono i più infelici, i più malati;
ma nessun miglioramento radicale si potrà ottenere se non cambierà
l’atteggiamento delle autorità, dei cittadini, dei mass media nei
confronti di chi è stato sbrigativamente segnato con l’infamante marchio
di bomzh.

Biancamaria Balestra




GRAZIE, MR. BUSH!

Il surriscaldamento della terra e le scelte miopi del nuovo presidente statunitense. Si accoderà anche l’Italia di Berlusconi?

L’uso
indiscriminato dei combustibili fossili e il conseguente aumento della
temperatura del pianeta costituiscono un vero pericolo. I modelli al
calcolatore e le simulazioni, effettuate da centri di ricerca, concordano
nel prevedere aumenti della temperatura media che variano, secondo i
laboratori, da 1,5 a 4,5 gradi centigradi in questo secolo. A queste
conclusioni sono giunti gli scienziati dell’Hadley Centre dello Uk
Meternorological Office, quelli dell’Ufficio svizzero dell’ambiente e l’Intergovemental
Panel on Climate Change dell’ONU.

La
valutazione sugli incrementi di temperatura deriva dall’ipotesi di un
raddoppio del consumo di combustibili fossili nel corso del secolo: una
proiezione ragionevole, difficilmente smentibile, se non grazie a scelte
politiche coraggiose che coinvolgano tutte le nazioni. L’aumento di
temperatura avrebbe conseguenze molto gravi: crescerebbe il livello del
mare (con una drastica riduzione delle aree agricole), sparirebbero boschi
e foreste dalle zone temperate, si scioglierebbero i ghiacci perenni delle
regioni polari, si intensificherebbero le precipitazioni e assisteremmo a
violente manifestazioni meternorologiche.

A fronte
di scenari così inquietanti, l’amministrazione Bush si è opposta al
trattato internazionale di Kyoto (dicembre 1997), il protocollo secondo
cui i paesi industrializzati (tra cui l’Italia) dovrebbero diminuire
l’emissione dei gas che, come il biossido di carbonio, intrappolano il
calore realizzando l’effetto serra. Nonostante gli Stati Uniti siano
firmatari del protocollo, il presidente George W. Bush non lo ha
sottoposto al senato per la ratifica. Il trattato, secondo la Casa Bianca,
danneggerebbe l’economia degli Usa.

La signora
Christie Whitman, dell’Agenzia statunitense per la protezione
dell’ambiente, ha cercato invano di avere dall’amministrazione istruzioni
sulle risposte da dare agli alleati occidentali sulla nuova politica
statunitense circa l’uso incontrollato dei combustibili fossili. E, dato
il silenzio, al meeting di Montreal sulla politica ambientale Whitman ha
dichiarato che sarebbe stato più saggio, da parte della Casa Bianca,
esprimere la presa di posizione contro il trattato di Kyoto solo dopo aver
elaborato una strategia alternativa. Non aveva torto Whitman. Ora infatti
l’amministrazione Bush  cerca suggerimenti, consultando scienziati,
economisti e imprenditori in una trafelata azione di recupero.


All’imbarazzo seguito a scelte ambientali discutibili, si aggiunge il
problema della crescita dei prezzi dell’energia. La questione è grave in
Califoia (sesta potenza industriale del mondo), dove il governatore
Davis e l’opinione pubblica accusano l’ex petroliere Bush di favorire una
deregulation (liberalizzazione) del mercato che arricchisce i produttori
del Texas, il suo stato.

Per far
fronte alle crescenti richieste di energia, l’amministrazione Bush ha
pensato di dare il via alla costruzione di nuovi impianti nucleari.
Ebbene, secondo riviste americane conservatrici (quali Forbes), nel
passato gli investimenti statunitensi nel nucleare avrebbero causato solo
perdite. I costi di costruzione e gestione sono stati assai superiori alle
aspettative: e questo sia per errori sia per ragioni tecnologiche. Il vero
problema – si sa – è quello delle scorie. Il loro esaurimento richiede 500
anni! Dove conservarle nel frattempo?

La
questione, in realtà, non è affatto controversa: ben 5 laboratori
americani hanno dimostrato che il risparmio e l’efficienza, più che nuove
centrali nucleari, potrebbero rappresentare la vera soluzione alla crisi
energetica. Nuove tecnologie sul risparmio potrebbero ridurre il
fabbisogno statunitense dal 20 al 47%: una diminuzione corrispondente a
265 centrali da 300 megawatt.


All’osservatore imparziale risulta poco chiaro che cosa impedisca
all’amministrazione statunitense di percorrere quella che, agli occhi di
tutti, è la strada più ragionevole. Soprattutto quando scopre che gli
Stati Uniti, con una popolazione pari al 5% del totale, sono responsabili
del 24% dell’emissioni inquinanti mondiali e che il consumo medio annuo di
energia di uno statunitense è doppio di quello di un europeo e pari a
quello di 16 africani.

(*)
Fisico, Maurizio Dapor lavora a Trento. Oltre a numerosi articoli
pubblicati su riviste scientifiche inteazionali, è autore di due libri
usciti per «La Stampa»: «L’orologio di Albert» (1998) e «Sfere di
cristallo» (1999).

Maurizio Dapor




HAITI: RITI E PERSONE DI UNA FESTA VUDU’. SODO’ LA CASCATA DEI MIRACOLI

REPORTER DI STRADA

Minute sacerdotesse e corpulenti ragazzoni
emigrati a Miami. Donne gravide e contadini. Colorati ministri di riti
misteriosi. Ogni anno a metà luglio un piccolo villaggio nel centro
dell’isola rigurgita di pellegrini. È la festa della beata Vergine del
Carmelo e degli spiriti dell’acqua.

Quel
giorno, a bordo di un potente fuoristrada, cercavo di raggiungere la
località di Sodò nel cuore di Haiti. In creolo, la lingua del paese,
significa «salto d’acqua» e avrei presto capito il significato di quel
nome.

Da
Mirbalais, sul plateau centrale, mi diressi verso ovest. La strada era
diventata poco più che un sentirnero, l’erba ai lati era alta e la
vegetazione intorno lussureggiante: strano per un paese in cui la foresta
tropicale è stata quasi interamente distrutta. Ogni tanto lo sterrato si
faceva pantano e l’automobile rischiava di restare bloccata nel fango.
Guadato un grosso fiume, grazie alle quattro ruote motrici e alla dovuta
rincorsa, arrivai a Ville Bonheur (letteralmente la città della felicità),
il secondo nome di Sodò. È un villaggio sperduto, non troppo grande e
neppure bello, ma occupa un posto centrale nella «spiritualità haitiana».
Con questo termine intendo quella complessa mescolanza di credenze e fede
che fanno, al tempo stesso, sentirsi cristiani e praticanti del vudù (vuduizanti),
in un sincretismo religioso che solo gli haitiani sanno capire.

Il miracolo e il vudù

Siamo a
metà luglio. Sodò è già piena di pellegrini e con essi mercanti, musici e
prostitute. Nella settimana che precede il 16 arrivano da tutto il paese e
anche dall’estero, per partecipare alla festa della Vyèj mirak (Vergine
del miracolo), Nostra signora del Carmelo.

Era il 16
luglio del 1843 quando apparve la Vergine Maria in cima a una palma. Ma la
chiesa locale negò il miracolo e la pianta fu tagliata. La gente del
popolo però incominciò a venire in quel luogo per pregare e chiedere
miracoli. Il curato decise allora di far sradicare il ceppo rimasto e si
dice che in seguito ebbe un incidente in cui perse le gambe. Nel 1881,
sempre il 16 di luglio, ci fu una seconda apparizione e da allora nessuno
cercò più di impedire il pellegrinaggio.

Ma la Vyèj
mirak è anche, nella religione vudù, il loà Erzuli-freda (Ezili), allo
stesso tempo spirito dell’amore e madre. La mitologia vudù è complessa.
Trae le sue origini da alcuni riti africani (radà, petrò, kongò), ma ha
aggiunto nel corso dei secoli ingredienti tipici haitiani ed è in continuo
divenire. I loà del pantheon vudù sono un’eterogenea schiera di divinità e
spiriti o geni. Vi sono quelli superiori, di origine africana,
riconosciuti da tutti, accompagnati da un’infinità di loà creoli, più
recenti e in continua evoluzione. I loà sono il legame tra il visibile e
l’invisibile e possono entrare nel corpo di un individuo per possederlo.
Sono gli intermediari tra Dio e l’uomo e sono capaci del bene e del male.
I fedeli cercano di propiziarseli per ottenere protezione e i favori più
diversi. Sono comunque tutti creati da Gran Mèt (il grande maestro, ovvero
Dio), per venire in aiuto agli uomini e qualcuno li definisce come angeli
un po’ ribelli. Alcuni, più maligni, vengono chiamati diab, diavoli.
Erzuli-freda è uno dei loà principali. Rappresentata come una bella
mulatta, appartiene al gruppo degli spiriti del mare e impersonifica la
bellezza e la grazia femminili. È civetta, sensuale e ama lusso e piacere.

La chiesa
bianca nel centro di Ville Bonheur è straripante di fedeli, che entrano,
pregano ed escono in un flusso continuo. È difficile riuscire a inserirsi.
Ma questi uomini e donne, ancor prima di venire qui sono stati a
purificarsi nel vero posto magico di Sodò: la grande cascata, il salto
d’acqua, poco lontano dal villaggio.

Verso il salto d’acqua

È la
vigilia della festa. Fin dalle prime ore dell’alba un colorato fiume di
gente crea un continuo andirivieni lungo la stradina sterrata che si
inerpica verso lo splendido santuario naturale. I colori forti degli
houngan e delle mambo – preti e sacerdotesse vudù – in smaglianti abiti
blu e rossi, bianchi e blu, verdi si mischiano a quelli dei contadini,
piedi nudi e cappello di paglia e della diaspora (haitiani che vivono
all’estero), con i loro pesanti braccialetti dorati, occhiali scuri e
vestiti americani. Le persone che vengono in pellegrinaggio a Sodò sono di
tutte le classi sociali e si ritrovano nella stessa settimana in questo
splendido angolo di Haiti.

«Bét sur
bét» (bestia su bestia) urla qualcuno per farsi largo nella folla
cavalcando goffamente un asinello. «Veniamo per pregare la Vyèj mirak,
affinché ci dia salute e fortuna negli affari».

Eddy e
Mariette sono una giovane coppia di Port-au-Prince, capitale di Haiti. Lui
è muratore, mentre lei lavora a casa. Hanno pochi vestiti addosso, ma
portano una borsa di plastica con nuovi indumenti. «Butteremo via questi
abiti durante la preghiera, per metterci quelli nuovi» dice Eddy. È una
purificazione che passa anche attraverso gli oggetti. Raoul Deorcely è di
Leogane, una cittadina a sud est della capitale. Dice di aver diciott’anni
ma sembra più giovane. Va alla preghiera per chiedere la possibilità (o il
miracolo) di poter partire all’estero e trovare un buon lavoro: «In questo
modo sarei in grado di aiutare la mia famiglia qui» ci dice.

Vicino,
una giovane donna urla a squarciagola: «Sto chiedendo alla vergine di
avere un bambino! Sono sposata, ma sto ancora aspettando». «Chiederò di
avere gioia e felicità per tutto l’anno» risponde un uomo di mezza età.

Saturazione dei sensi

Lungo la
strada, in alcuni luoghi, per noi casuali, piccole candele colorate sono
accese e piantate nella terra dalla gente in lenta marcia verso la
cascata. Qui si fermano a pregare un momento, legano un cordino colorato,
accendono il loro lumicino. Poi continuano. L’atmosfera spirituale è molto
forte. I nostri sensi sono tutti sollecitati, quasi saturati. Gli odori
sono intensi e i colori vivaci, quasi aggressivi. C’è chi sta in silenzio
con gli occhi chiusi e chi urla allargando le braccia. Come una striscia
di formiche in movimento verso il formicaio, anche noi immersi nel mezzo,
arriviamo nei pressi del luogo sacro.

In un
piccolo spiazzo dove l’erba è più brillante e l’aria si è fatta umida,
troviamo dei piccoli banchetti di legno, ricolmi di strana mercanzia. Sono
i venditori di oggetti sacri, essenziali nei diversi riti. A fianco dei
biscotti espongono candele di cera colorata: rossa, gialla, nera, cordini
blu e rossi o bianchi e rossi. Sono le offerte delle giovani donne a
Erzuli, la vera regina della festa, o agli altri spiriti dell’acqua. Ci
sono poi bottiglie che contengono strani liquidi ed erbe medicinali.
Talvolta immagini di santi e simboli di loà sono incollati come etichetta.
Speciali frasche sono vendute in gran quantità ai pellegrini di passaggio.
In un cantuccio, sopra a un ceppo, ancora candele accese e alcune anziane
mambo intorno.

Il bagno nella fortuna

La
splendida cascata naturale appare all’improvviso in fondo a una stretta
gola. È incoiciata da giganteschi alberi dalle lunghe fronde, in passato
comuni sull’isola caraibica, oggi una rarità.

Tutto è
immerso in un vapore di goccioline minuscole, che ti avvolge e ti bagna
senza che tu possa accorgertene. Un po’ ovunque si formano i colori
dell’arcobaleno quando un raggio spunta dalla sommità della montagna.
L’acqua spumeggia e poi scorre in piccole conche alla base della cascata,
fino a ridiventare un fiume. La gente sembra ora concentrarsi, cercando un
percorso per arrivare sotto i flutti. Uomini, donne, bambini si spogliano
di tutto, o quasi – mentre la gente della diaspora si riconosce dai
variopinti costumi da bagno – si spingono sotto la potenza dell’acqua che
cade da oltre trenta metri di altezza. Pregano, urlano, si lavano uno con
l’altro. Una donna strofina con le frasche il ventre gonfio dell’amica
gravida. Qualcuno cade in trance e si rotola nell’acqua, sulle rocce
muschiose presenti ovunque. È posseduto da uno spirito. Nella cascata
infatti abitano tutti i loa legati all’acqua. Damballah, il potente
dio-serpente associato ora con l’arcobaleno ora al lampo, a lui sono
dedicati alcuni grossi alberi – anch’essi, come è noto, rifugio dei
serpenti – sui quali i fedeli legano le cordicelle colorate, dopo averle
portate ai fianchi, accendono candele sul tronco e pregano. Con lui Aida,
sua moglie, e gli altri spiriti acquatici. Condividono il luogo di culto
con la vergine del Carmelo in un perfetto sincretismo.

Qui i
fedeli cercano il bagno di chance, una sorta di purificazione (lavaggio
dai problemi) ma anche un’immersione di forza spirituale che fortifica
contro i nemici e le avversità della vita. Si può fare a casa o in un
tempio vudù, ma funziona molto meglio in questi particolari luoghi sacri,
residenze dei loà. Si utilizzano erbe, piante e profumi che piacciono allo
spirito e si chiede la sua protezione. Tutto intorno a noi la gente si
lava con piccoli pezzi di sapone che poi abbandona su una roccia.
«Attenzione: non bisogna portarsi a casa il sapone – spiega una mambo –
lasciarlo sotto la cascata vuol dire lasciare tutto ciò che è male e di
cui volete liberarvi. Se un pellegrino non ha il sapone è meglio che si
lavi senza: se ne raccoglie un pezzo rischia di prendersi tutti i problemi
di chi lo ha lasciato lì!».

Per una
vita migliore

«Prendiamo
un po’ d’acqua in un bidone per mia madre – dice Etienne, un bambino
venuto qui dalla capitale con il suo cuginetto – è a casa malata e noi
siamo venuti qui per pregare per lei». Marie-Jò, una giovane donna dell’Artiboinite
(l’unica ampia pianura del paese, zona di contadini e di riso), viene qui
ogni anno e prega la Vergine (o Erzuli) di allontanare da lei tutti i
problemi. «Chiediamo una nuova casa – sostiene Marie-Héléne, con la sua
amica Louise che ha in braccio un bimbo – siamo di Cité Soleil (la più
grande bidonville di Port-au-Prince, ndr) e abbiamo perso la nostra casa.
Abbiamo tre bambini ognuna e i nostri mariti ci hanno lasciate. Cosa
possiamo fare?».

Mentre
qualcuno si sta rotolando nell’acqua, urlando e piangendo, un’anziana
cerca di uscire dalla folla sotto i flutti. Ha un mucchietto di terra
coperto di muschio nella mano sinistra, «La porto a una malata del mio
villaggio. Penso che la aiuterà». Dietro di lei un uomo corpulento ride e
dice in misto creolo-inglese, tipico della diaspora: «Sono di Okap (grande
città del nord, ndr), ma vivo a Miami. Mi piace venire a questa festa ogni
volta che posso». Va via con un grosso stereo portatile sulla spalla.

Tutt’intorno
luoghi di culto, pieni di candele e gente in preghiera. Sotto la cascata
lo spettacolo è impressionante: una massa di persone, quasi nude, assieme
senza distinzione di classe sociale e luogo di origine, ma ognuno con la
sua preghiera o qualcuno solo per divertirsi. E anche noi, che vuduizanti
non siamo, restiamo rapiti da un’atmosfera di sacralità profonda, che
ancora non riusciamo a capire.

Audétte ha
tre figli da tre papà diversi. Fa la commerciante di strada in capitale ed
è partita da Port-au-Prince con due amiche. Hanno affrontato il viaggio
nel cassone di un camion per raggiungere Sodò e pregare la vergine-loà.
«Mamma Vyèj mirak è una donna, conosce il dolore dei bambini e i problemi
delle donne come lei» ci racconta sotto un rovescio.

Alla
cascata cerca una vita migliore. Mentre si bagna elenca tutte le
difficoltà che l’acqua deve portarsi via: malattie, usura, affitto della
baracca, un marito che ha abbandonato i figli, i problemi con i vicini.
Quando ha finito lascia una moneta per lo spirito dell’acqua. Ora il suo
volto è sereno. Pensa che i suoi problemi siano svaniti ed è tornata a
riempirsi di speranza. In un certo senso, il miracolo la Vergine del
Carmelo, Erzuli e i loà acquatici – in una parola la Vyèj mirak – lo hanno
già fatto.

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Breve vademecum vudù

Vudù (o
vodù): religione sincretica che trae le sue origini dalla spiritualità
africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con il vudù praticato in
paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina, ma si differenzia
per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani.

Loà: sono
le divinità e gli spiriti del vudù e fanno parte del pantheon vudù. Ne
esistono un’infinità e sono in continua evoluzione. I principali,
riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono creoli, meno
potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loà protezione e questi
li «posseggono» durante i riti. I loà sono capaci del bene e del male e
collegano il visibile con l’invisibile. I diab sono gli spiriti cattivi.
Molti loà sono associati a santi cristiani.

Radà,
petrò, kongò e gli altri: i primi due sono i riti principali del vudù
haitiano secondo i quali si classificano i loà. Nel radà si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petrò ha spiriti più vendicativi e
utilizzati nella magia. Il kongò ha origini bantu, prevede sacrifici e
riti più violenti. Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna
universale. Ogni categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi
e saluti propri.

Mambo e
hungan: sacerdotessa e prete vudù (questo chiamato anche boko) sono i
maestri dei riti.


Erzuli-freda: spirito della bellezza e della sensualità, ma anche
dell’amore materno. È uno spirito del mare e delle acque. Ha tutte le
caratteristiche di una bella donna ed è associato alla Madonna. Esistono
altre Erzuli, sempre femminili ma con caratteristiche diverse.


Damballah-redo: è il dio-serpente, vive sugli alberi e nei corsi d’acqua.
È una delle divinità più popolari del vudù haitiano. Il colore bianco è
suo simbolo ed è padrone dell’argento. È lui che dà la ricchezza. Sua
moglie Aida-redo: è anch’essa uno spirito acquatico.

Bains de
chance: sono i bagni della fortuna che i fedeli del vudù fanno per
propiziarsi i loà e ricevere grazie e protezione.

Vévé: è il
disegno simbolico che raffigura tutti gli attributi del loà. Viene
tracciato durante le cerimonie per richiamare lo spirito.

Potò-mitan:
oggetto sacro è il palo situato al centro del peristilio e la via dei loà
per scendere, durante i riti, dal cielo alla terra.

Ma.Be.

Marco Bello




PUNTI INTERROGATIVI


Ripensando ai lunghi anni trascorsi in Kenya, un missionario si confessa.
È cambiato il modo di stare con la gente, di spiegare la salvezza dei non
cristiani di aiutare gli altri…
Ma,
anche se ci si può lamentare con Dio di fronte alle sofferenze dei
poveri,la cosa migliore da fare è ancora… fidarsi di Lui.

Siamo agli inizi

degli anni
’50. Sono le mie prime settimane di scuola e sto cercando di mettere
insieme le lettere dell’alfabeto, di leggere le prime parole. Però mi
sembra tutto tempo sprecato: niente entra in zucca! Un giorno la maestra
ci chiede di portare qualcosa per la «giornata missionaria mondiale». E
che cos’è?

Rumino la
parola «missione» lungo la strada… niente! Forse che la maestra non
lavora per noi? Ha bisogno anche lei di uno stipendio. Forse è proprio
questo che ci ha chiesto. Lo dico subito a papà e, immaginate la mia
delusione, quando mi risponde che è già pagata dal governo.

Missione.
«Sì, – mi spiegano – sono i neretti». Poverini! Devono avere ben freddo,
perché sono mezzi nudi. Mia sorellina ha una bambola moretta: la guardo,
la rigiro tra le mani… Sono anch’essi come noi. Cambia solo il colore
della pelle. Ma – continuo a chiedermi – come mai sono così? Forse che si
sono dati il lucido da scarpe?…

Erano
altri tempi. L’Italia era ancora «bianca e pulita», come sostengono alcuni
oggi. Per le nostre strade non si vedeva «gente di colore». Oggi tutto è
cambiato. Italia ed Europa stanno diventando sempre più color caffellatte
e nessuno si chiede più come sono i negretti. Gli anni sono passati e
anch’io, ormai, ho trascorso metà della mia vita in Africa. Sono
missionario. Ma perché?

Ci
dicevano e ripetevano che coloro che morivano senza battesimo andavano
all’inferno. Bisognava, allora, andare, battezzare, predicare. Questo,
però, mi ha sempre lasciato con molti punti interrogativi… In Kenya le
conversioni sono molte, i catecumenati pieni e tanti chiedono di conoscere
la fede cristiana. Lo Spirito lavora, anche se è tutta gente che viene
dalle religioni tradizionali.

Ma i
musulmani, gli hindu… non si convertono. Parlare loro di Gesù Cristo?
Sarebbe inutile. Penso al commerciante indiano che, ogni settimana,
provvede il pane all’orfanotrofio. Penso alla donna musulmana che ho
incontrato un giorno nel suo negozio, durante il ramadan, mese del
digiuno: stava ascoltando alla radio un programma musulmano, con il volume
assordante. Non capivo la lingua, ma sentivo che ripeteva sempre la stessa
litania e la ripeteva mentre mi serviva. Mi sono azzardato a chiedere che
cosa fosse. Un po’ sorpresa, mi ha risposto che si trattava della loro
preghiera, senz’altro strana, molto strana per noi.

Che gente
come questa dovesse andare all’inferno non l’ho mai pensato. Per fortuna
oggi la teologia è cambiata e in paradiso ci vanno molti di più. Il mio
compito è soprattutto quello di «testimoniare», condividere, essere
presente.

Ammiro tantissimo

i primi
missionari arrivati qui, nel centro del Kenya, all’inizio del secolo. Soli
e sperduti in un paese senza strade, tra gente indifferente e a volte
ostile, impossibilitati a comunicare non conoscendo la lingua del posto,
tagliati fuori dal loro mondo di origine… Quanta povertà!

Eppure ce
l’hanno fatta… Oggi alzo la cornetta e chiamo l’Italia, senza neppure
passare dal centralino. Ci sono strade, macchine. In città troviamo cibi
di ogni tipo e viviamo in case di pietra.

Ricordo un
mio compagno missionario che voleva vivere come loro, gli africani: cibo,
casa, mezzi di trasporto… Dopo qualche tempo si è ritrovato
all’ospedale: una degenza che l’ha fatto riflettere e gli ha fatto
cambiare qualche idea. Ho un’educazione, una formazione, una cultura, un
passaporto, una cittadinanza italiana. Quanti in Kenya vorrebbero averla.
Scapperebbero subito, per cercare fortuna in Italia. Sì! Sono ricco. Ma mi
sento anche tanto povero.

Povero,
perché vivo in un paese straniero, di cui non potrò mai conoscere appieno
la lingua e la cultura. La mentalità della gente è sempre un mistero,
anche dopo tanti anni. Povero, perché in certi uffici o parlando con certe
persone, sento chiaro il messaggio o l’invito (anche se non detto a
parole): è meglio che me ne torni nel mio paese.

Sì, sono
un povero ricco o un ricco povero! Senz’altro un segno di contraddizione:
amato, stimato, rispettato da molti… rigettato da altri. Testimonianza,
quindi, di un povero ricco. Ed è con la mentalità del ricco che sono
venuto. Avevo molto da dare. Ed era anche vero. Oggi, quando qualcuno mi
chiede un aiuto materiale, non posso dire che non ho niente. In fondo alle
tasche qualche monetina la trovo sempre.

Ma, dopo
tanti anni, mi accorgo che ho ricevuto molto dagli africani. Hanno valori
che noi non abbiamo o abbiamo perso: amore alla vita, solidarietà,
comunità, il gusto per la celebrazione… Quando sono in Italia, quelle
messe domenicali di 35 minuti, così slavate, proprio non mi dicono niente
o quasi. E non c’è modo di farle più lunghe, perché ti accorgi che la
gente comincia a guardare l’orologio o il parroco, dopo gli avvisi, ha già
detto ai fedeli: «In piedi per la preghiera finale».

E quella
volta che mi sono permesso di lasciare un minuto di silenzio dopo la
comunione, l’inserviente in sacrestia mi ha subito domandato se mi fossi
addormentato. Poteva permetterselo, perché… era mio nipote! Le
celebrazioni liturgiche in Africa, sempre così animate e piene di vita,
sono un’altra cosa.


Missione è presenza

dare e
ricevere, in un interscambio che arricchisce entrambe le parti. Sono
venuto giovane, entusiasta, pieno di vita, pensando di cambiare il mondo.
Mi accorgo ora, dopo tanti anni, che l’Africa ha cambiato me.

È appena
venuta una donna a chiedere aiuto: non ha di che sfamare la famiglia. So
che è sincera. È la seconda siccità di fila; sono mancate le piogge anche
quest’anno. Andando in giro, mi si stringe il cuore, quando vedo quel
granoturco così accartocciato. Ho trovato ancora qualcosa per lei nel
portafoglio. Ma domani avrà di nuovo fame. È nuvoloso, ma non cade una
goccia di pioggia per salvare in extremis questo granoturco e questi
fagioli. Niente. Chiedo a Dio, nella preghiera, che cosa stia facendo. Il
suo silenzio è terribile. Certo, se avessi creato io il mondo, l’avrei
fatto diverso. Non avrei permesso che tanta gente soffra la fame.

Ma forse è
meglio che lasci a Dio il suo mestiere. E io mi accontenti di essere un
povero testimone, che ha tanto da imparare. Un testimone che prega con
questa gente: «Dacci oggi, il nostro pane quotidiano». E quanto al mondo,
visto che non l’ho creato io, non sarò io a cambiarlo. Ma voglio offrire
il mio piccolissimo contributo per renderlo più umano, più abitabile.

È tutto
ciò che posso fare e che Dio mi consente… qui in Kenya. Gliene sono
grato. Molto grato.

Un missionario sereno




BETANIA (COLOMBIA): unico statunitense nella zona smilitarizata. UNO «YANKEE» NEL REGNO DELLE FARC

Per i
guerriglieri è uno yankee: lo tengono d’occhio, ma lo rispettano. Per la
gente è il gigante buono, che rischia la vita accanto agli emarginati,
nella cosiddetta zona smilitarizzata, controllata da guerriglia e
narcotraffico. È padre Van Allen Hager, missionario della Consolata, nato
a Buffalo (Usa) 57 anni fa: alto 1,86, guarda i pericoli dall’alto in
basso, ma con gli occhi fissi al cielo.

Il
gracchiare di un altoparlante rompe il sonnolento pomeriggio di Betania,
uno sperduto paese in riva al fiume Caguán, mentre un gruppo di uomini
puntano scommesse su un’accalorata partita a domino. Poi la voce
fortemente accentata di padre Van Allen Hager, unico cittadino
statunitense presente nella regione controllata dalla guerriglia nel sud
della Colombia, lancia importanti messaggi in spagnolo: è evidente che non
è la lingua imparata da sua madre. «Signore, per amore della mia vita; non
riesco a capire una parola di quanto dice» lamenta uno dei giocatori,
levando le palme al cielo con comica espressione.

ZONA A
RISCHIO

Dopo
cinque anni di lavoro in quest’area maledettamente violenta, dove ci sono
tante anime da salvare e cuori feriti da guarire, padre Hager confessa che
deve mettercela tutta per essere all’altezza del suo lavoro missionario.
Betania, la sua parrocchia, si trova nell’estremo lembo meridionale della
cosiddetta «zona smilitarizzata», un territorio grande come la Svizzera,
che il presidente Andrés Pastrana ha ceduto alle Forze armate
rivoluzionarie della Colombia (Farc) alla fine del 1998. Il paese, famoso
per la sua storia di violenza, è generalmente considerato insicuro perfino
per i più coraggiosi colombiani; immaginarsi per un solitario americano.

Non è
facile, confessa il missionario, occupare un posto in prima linea tanto
eccezionale, a causa del caos creato da guerra e narcotraffico: una
situazione che ha posto la nazione colombiana tra le priorità della
politica estera di Washington in America Latina. Padre Hager è convinto
che i guerriglieri si fidino di lui; ma intanto continuano a tenere
strettamente d’occhio i suoi movimenti. «Sono certo che sanno dove vado e
con chi parlo» dice il 57enne missionario.

Il suo
lavoro è diventato più difficile, e forse più pericoloso, da quando gli
Stati Uniti hanno varato il controverso «plan Colombia»: si tratta dello
stanziamento di 1,3 miliardi di dollari (quasi 5 mila miliardi di lire), 
destinati soprattutto alla famigerata fumigazione delle coltivazioni di
coca, con la conseguente distruzione della produzione agricola
circostante. In questo modo si pensa di colpire le Farc e altri gruppi
ribelli che traggono profitto dal commercio della droga, esigendo
un’imposta sia dai coltivatori di coca che dai narcotrafficanti.

Le Farc,
tradizionalmente nemiche dell’«imperialismo yankee», hanno dichiarato
«obiettivi militari» tutti i consiglieri nordamericani presenti in
Colombia e sono responsabili dell’assassinio di tre indigenisti
statunitensi nel 1999.

Nei raduni
settimanali convocati dai ribelli, la cui partecipazione è obbligatoria,
«essi fanno sempre riferimenti a ciò che i nordamericani stanno facendo
nel paese – continua il missionario -. Dicono che siamo responsabili di
tutto ciò che di sbagliato accade in Colombia. Siamo sempre colpevoli.
Qualsiasi cosa facciamo è sbagliata».

«Ho paura
per la sua vita» dice uno dei giocatori di domino che, come gli altri
paesani, rifiuta di dare il proprio nome, per timore di rappresaglie da
parte dei guerriglieri: questi pattugliano il paese, ma non se ne trova
uno disponibile a fornire una parola di commento.

Tutti i
ribelli sanno della presenza del missionario. D’altronde sarebbe
impossibile non dare nell’occhio: 1 metro e 86 di statura, capelli
d’argento, talare bianca, zaino verde e sbrindellato, è inconfondibile
quando si sposta da un villaggio all’altro, per visitare le 15 comunità
della parrocchia. Ed è sempre in viaggio. Alcune comunità sono
raggiungibili solo per via fluviale, altre richiedono fino a otto ore a
dorso di mulo, sotto il sole implacabile, per sentirneri fangosi e
pericolosi attraverso la giungla tropicale.

Eppure «i
guerriglieri non hanno mai messo in discussione la mia presenza e i miei
viaggi in questa zona – aggiunge il padre -. Posso dire onestamente che mi
è sempre stato riservato un trattamento preferenziale». Esempio tipico di
tale trattamento lo sperimenta nei posti di blocco: i ribelli rinunciano
alle lunghe perquisizioni e interrogatori a cui sono sottoposti tutti gli
altri.

NON SCUOTERE
LA BARCA

La vita
nella zona controllata dalle Farc è un esercizio di attento riserbo e
autocensura, racconta il padre. I capi ribelli hanno proibito di usare
nelle omelie la parola «sequestro». I frequenti rapimenti di uomini, donne
e bambini e relativi riscatti sono giustificabili conseguenze della
guerra, dicono loro e insistono perché si parli invece di «prigionieri».

A chi non
frena la lingua arrivano minacce di morte. È capitato anche a un
missionario di San Vicente del Caguán, capitale della zona smilitarizzata
e controllata dalle Farc: i superiori lo hanno trasferito in un’altra
diocesi, dopo che i ribelli avevano inserito il suo nome nella lista nera.

Alcuni
mesi fa, mons. Romulo Emiliani, vescovo di Darien, in Panama, ha ricevuto
minacce di morte per le critiche contro le incursioni oltre confine dei
ribelli colombiani. A cinque missionari protestanti americani, della
regione sud-orientale del Panama, è capitato di peggio: sequestrati nel
1992, due furono uccisi, dopo essere stati rapiti dalle Farc; degli altri
tre non si sa più nulla; si sospetta che anche questi siano stati portati
in territorio colombiano.

Perché non
capitino cose del genere ai missionari che lavorano nelle sette parrocchie
comprese nella zona smilitarizzata, il vescovo di San Vicente, Francisco
Xavier Munera, ha tracciato l’anno scorso una nuova politica,
raccomandando estrema cautela in ogni dichiarazione pubblica: «Sostieni la
gente meglio che puoi; ma non schierarti politicamente da nessuna parte –
dice padre Hager, citando le nuove norme -. Non scuotere la barca e cerca
di essere neutrale in ogni situazione».

Ma per un
uomo come padre Hager, con alle spalle una reputazione di franchezza e
attivismo radicale, non è semplice osservare tali regole. Negli Stati
Uniti, alcuni anni fa, venne alla ribalta dei mass media nazionali per la
sua partecipazione alla crociata contro l’aborto: guidò veglie di
preghiera e assedi alle cliniche abortiste in varie parti del paese. Un
giorno, in un alterco con il personale di una clinica, asperse gli
impiegati con l’acqua benedetta; uno di essi minacciò di fare causa alla
sua congregazione religiosa, i missionari della Consolata. Il superiore lo
invitò a spostarsi nel sud della Colombia, sperando che si desse una
calmata.

Sorride il
missionario mentre rievoca tali avventure. E aggiunge: «Data la mia
storia, la tentazione di non seguire le nuove direttive è molto forte: mi
è duro non essere là fuori a protestare contro gli abusi che mi tocca
vedere ogni giorno, soprattutto le violazioni dei diritti umani di cui
sono testimone». E aggiunge subito che non sono solo le Farc responsabili
di violenze e atrocità; anche i gruppi paramilitari e le truppe
governative sono altrettanto responsabili.


L’esperienza negli Stati Uniti e i pericoli reali che si affrontano in
Colombia «mi hanno insegnato a moderare i bollenti spiriti. Mi considero
ancora molto attivo; ma qui la partita è totalmente differente».

ABUSI E
PERICOLI QUOTIDIANI

Di abusi
da fare perdere le staffe padre Hager ne ha visti tanti, come quelli
contro i bambini di appena 10 anni, costretti dalle Farc a eseguire lavori
pesanti, arruolati in squadre di operai per costruire strade. In gennaio,
due uomini furono uccisi da banditi davanti alla chiesa, mentre stava
celebrando la messa. Dal momento che solo le Farc possono maneggiare armi
nella zona smilitarizzata, si deduce che l’assassino fu opera dei
guerriglieri.

Il sindaco
del paese è stato condannato a un mese di lavoro forzato, perché si era
lamentato delle interferenze dei comandanti delle Farc nella gestione del
comune. «Ci sono troppi capi» dice padre Hager, citando il sindaco; «il
suo crimine è di aver criticato la rivoluzione» aggiunge, citando i
guerriglieri.

Un altro
caso: una catechista fu costretta da un pistolero ad abbandonare la zona
smilitarizzata insieme al marito e ai figli. Arma in pugno, fu minacciata
di morte, senza altra spiegazione. Il fatto è che un locale comandante
delle Farc aveva messo gli occhi sul loro campicello e la famiglia si era
rifiutata di venderlo.

«La gente
non ha alcuna possibilità di godere il più elementare diritto come
cittadini» conclude il padre.

Mentre una
lunga barca a forma di canoa, carica di una dozzina di guerriglieri
armati, mescolati tra i civili, si avvicina all’attracco, padre Hager
riprende: «Ciò che stai vedendo è una flagrante violazione della legge
internazionale. Come pastori, raccomandiamo alla gente di non salire mai
in una imbarcazione dove viaggiano anche combattenti armati. Quando la
barca passa i confini della zona smilitarizzata, pochi chilometri a sud di
Betania, in qualsiasi momento potrebbero esserci scontri con i soldati
dell’esercito o gruppi paramilitari».

Ma i
pericoli che deve affrontare il missionario non sono solo di natura
militare. Negli ultimi due anni, padre Hager ha avuto violenti attacchi di
malaria, tifo e dengue. Mentre visitava alcuni villaggi, ha riportato
ferite alle gambe e alla schiena per una caduta da cavallo. Oltre a tutti
i pericoli in Colombia, egli è stato testimone di massacri ben peggiori,
mentre lavorava come missionario in Etiopia, dal 1973 al ’78, durante la
rivoluzione che detronizzò l’imperatore Hailé Salassié. «In quattro anni,
ho visto 30 mila bambini uccisi e abbandonati sulle strade, perché i
genitori li ritrovassero – racconta -. Sia qui che in Africa, mi sono
trovato in molte situazioni di pericolo; ma me la son cavata sempre». Poi
aggiunge, con un rapido sguardo al cielo: «Lassù qualcuno mi protegge».

(*) Tod
Robberson è un giornalista dell’Associated Press; questo articolo è
apparso su The Dallas Moing News (Usa) del 2 maggio 2001.

Tod Robberson




SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): una missione quasi agli inizi. POVERTA’ E FRATERNITA’

Presenti in Costa d’Avorio da pochi anni, i
missionari della Consolata si sono buttati nella nuova impresa con slancio
ed entusiasmo. Anche se le difficoltà sono sempre in agguato e la strada
per superarle è zeppa di imprevisti…

Ma, quando
si arriva nella bidonville di Bardot, nella periferia di San Pedro (il
secondo porto della Costa d’Avorio), ci si rende conto immediatamente che
qui la povertà è, prima di tutto, miseria materiale, mancanza delle cose
più essenziali per vivere, anche se la popolazione ha spesso il senso
dell’umorismo, è intelligente e, soprattutto, è ricca di ospitalità e
sorrisi.

Io non ho
mai vissuto in una bidonville e mi chiedevo quali fossero i bisogni di chi
vive qui, in periferia. Allora ho chiesto a padre Armando Olaya,
missionario della Consolata colombiano, di organizzarmi un incontro con
qualche leader della parrocchia, proprio nel bel mezzo delle casupole e
capanne di Bardot.

Ho posto
due semplici domande: quali fossero i loro bisogni più urgenti e come la
comunità tentasse di rispondervi.

Salute,
prima di tutto

Nel
quartiere di 50-60 mila persone vi sono parecchie cliniche private e,
nella città di San Pedro, anche un ospedale pubblico. Il problema però è
che, in clinica o nel pubblico ospedale, qualsiasi cura è troppo cara per
le possibilità della gente di Bardot. «Le cliniche private possono
iniziare l’attività con una autorizzazione governativa e la maggior parte
di esse cura soltanto piccoli malesseri, piccole ferite» – spiega
Feando.

Qui
bisogna pagare non solo il medico e il suo infermiere, ma anche le
medicine e tutto il materiale che si usa. Ancora prima di essere visitati
da un medico di un ospedale pubblico, bisogna anticipare la somma di 1.000
franchi. Spesso occorre aggiungervi anche una mancia per l’infermiere o il
medico, altrimenti si rischia di aspettare giorni e giorni. Poi bisogna
pagare tutte le prescrizioni.

Claudio,
un professore, racconta che la settimana precedente era stato all’ospedale
con una delle sue sorelle, in preda ad una forte crisi di malaria: in soli
due giorni, le ricette gli sono costate ben 25 mila franchi. In seguito la
sorella è stata ricoverata in una sala comune e lì ha dovuto sborsare 5
mila franchi al giorno_ ma solo per il letto, perché la famiglia ha dovuto
procurare all’ammalata il cibo quotidiano.

Mi
permetto di notare: «Ma, almeno, ricevono tutte le cure?». Bonifacio
aggiunge il suo granello di sale: «Non tutte, perché, per alcuni test e
analisi, i campioni devono essere mandati ad Abidjan, la capitale, a 500
km da qui».

Cosa
potrebbe fare, allora, la comunità di Bardot per superare questa difficile
situazione sanitaria? Tutti sono d’accordo che non ci sono
soluzioni-miracolo. Senza dubbio la strada migliore sarebbe un dispensario
gestito dai missionari, che prestasse le cure ad un prezzo minimo.
Feando aggiunge che, nella parrocchia vicina, le suore hanno un
dispensario e, dal momento che ricevono le medicine dall’Europa, i costi
sono meno elevati. Un altro aggiunge che ad Abidjan ci sono dei grossisti
e vi si possono acquistare farmaci a prezzi accessibili.

«Ma allora
– chiedo io – perché non lo fate questo dispensario?». La risposta (dopo
una risata generale) è che mancano i mezzi. Mi dicono che le offerte in
chiesa, la domenica, non arrivano a 15 mila franchi: il che non basta
nemmeno a pagare il cibo dei due preti della parrocchia.

Nel
quartiere di Bardot, poi, sono molto rari coloro che possono usufruire di
una retribuzione fissa, adeguata e… sicura. La maggior parte ha un
salario minimo e lavora soltanto qualche mese l’anno.

Scuole, tasse
e… prestiti!

Il secondo
ambito dove i bisogni sono più urgenti è quello dell’educazione. Per i
15-20 mila ragazzi di Bardot c’è una sola scuola pubblica e cinque
private. Alla scuola pubblica non è raro vedere 70-80 alunni nella stessa
classe.

Il
presidente del consiglio parrocchiale ha otto figli e mi spiega che spesso
i genitori iscrivono i loro figli e cominciano a pagare le tasse
scolastiche; ma, dopo tre o quattro mesi, il ragazzo viene allontanato
dalla scuola semplicemente perché i parenti non ce la fanno più a pagare.
Tra le spese scolastiche e la pentola di riso, si preferisce il riso!

Ciò vale
soprattutto per le scuole private, poiché in quelle pubbliche (almeno
teoricamente) non dovrebbero esserci spese scolastiche.

È un altro
papà a spiegarmi come nelle scuole pubbliche ci siano le famose
«collette»: se la scuola deve acquistare dei nuovi banchi, si organizza
una raccolta tra i genitori; se la classe necessita di essere ridipinta,
un’altra raccolta; così pure se bisogna acquistare le scope_ Insomma,
qualsiasi acquisto diventa oggetto di raccolta da parte dei parenti. «E
poi – aggiunge un altro – bisogna mettere in conto anche le mance!».

Se è vero
che la scuola cattolica è stata costruita per gli alunni cattolici, non è
normale che i genitori non possano mandarvi i loro figli, a causa delle
spese troppo elevate! Il direttore, interpellato, mi ha risposto che le
tasse erano alte perché gli alunni erano… pochi! Ma gli alunni sono
pochi, perché le spese sono alte. Un bel circolo vizioso!

Un altro
prende la parola: «Se potessimo diminuire le spese per le foiture
scolastiche, non sarebbe già un buon passo nella giusta direzione? Se la
comunità aprisse una cartoleria_». Ma si porrebbe lo stesso problema: la
comunità cattolica di Bardot non ha capitali disponibili per iniziare tale
progetto.

Arrischio
una soluzione «audace»: perché non si tenta un prestito delle banche? La
risposta mi arriva dal solito presidente: «Le banche prestano soltanto
alle persone sicure e che possono pagare; ma gli abitanti della bidonville
di Bardot non lo sono!».

Un
insegnante spiega allora che esiste un programma della «Banca africana per
lo sviluppo»: libri agli studenti, con una cauzione all’inizio dell’anno;
se tornano in buono stato, la cauzione viene rimborsata. Ma questo non
vale per le ragazze!

C’è poi il
problema delle campagne. Qui le scuole non esistono affatto e i ragazzzi,
per studiare, devono andare in città. «Sovente – spiega un giovane papà –
i giovani vivono in condizioni spaventevoli: si trovano un “tutore”
(spesso un parente), che li sfrutta e non solo finanziariamente; per
questo sarebbe utile che la comunità aprisse un foyer, una specie di
pensionato per accogliere i giovani che provengono dalle campagne».

Non
mancano le idee

Così, in
quasi tutte le soluzioni prospettate dalla popolazione, ciò che manca alla
comunità di Bardot è il capitale per realizzare le iniziative. Ma perché
non istituiscono una cornoperativa, una specie di cassa popolare? Uno, che
finora non si era espresso, prende la parola: «Sì, ma nel villaggio di…
il responsabile ha preso la fuga con tutti i soldi dei contadini!».

La
principale obiezione rimane, tuttavia, il fatto che i cattolici di Bardot
sono in numero limitato, probabilmente troppo pochi per costituire una
cornoperativa che renda.

Un giovane
professore interviene decisamente: «Io penso che ciò che manca alla gente
del nostro quartiere sono le specializzazioni. Se non trovano lavoro, è
perché sono manovali da impiegare con il salario minimo e che si
licenziano quando termina il lavoro. Ciò di cui abbiamo bisogno è un
centro di formazione professionale».

Subito due
o tre aggiungono: «È vero: con una formazione intensiva si potrebbero
preparare tecnici in avicoltura in sei mesi. Abbiamo professori
disponibili, ma manca l’equipaggiamento». E un altro commenta: «Da San
Pedro esportiamo legname in tutto il mondo, eppure non abbiamo falegnami,
né carpentieri!».

Tutti sono
d’accordo: c’è bisogno di un centro di formazione professionale. Ma dove
trovare il capitale per comperare l’equipaggiamento e un luogo dove dare
questi corsi?

Conclude
tristemente il presidente: «Vedi, padre Jean (il sottoscritto): abbiamo
molte idee; ma siamo sempre bloccati dalle finanze».

Nella mia
piccola testa ronza, insistente, un’idea: le comunità ricche d’America e
Europa non potrebbero, anch’esse, diventare più fratee e solidali con
gli amici della Costa d’Avorio?

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GLI INIZI

Quando il
vescovo Barthelemy accolse i missionari della Consolata nella sua diocesi,
sognava una magnifica cattedrale, costruita proprio da loro. Il «figlio»,
però, ha deluso le  attese del «genitore».

In questa
loro ultima «impresa» del XX secolo, i missionari della Consolata hanno
voluto, dall’inizio, incamminarsi su sentirneri nuovi, utilizzare metodi
diversi, senza ripetere quelli che molti considerano errori del passato.
Tra l’altro sovente, in Africa, si rimprovera ai missionari di aver
costruito tanti e splendidi edifici, che le chiese locali, però, non sono
capaci di curare e portare avanti.

Così
monsignor Barthelemy è un vescovo senza cattedrale.

Lo spirito
di famiglia è una delle caratteristiche dei missionari della Consolata. Ma
in una comunità dove le generazioni si susseguono rapidamente e
l’inteazionalità mette insieme missionari di differenti culture, non è
sempre facile andare d’accordo.

Nel primo
gruppo di missionari giunti in Costa d’Avorio, vi erano due spagnoli e un
colombiano, un giovane e due già in età matura. L’intesa non è stata
facile: né sullo stile di vita e neppure sui metodi di apostolato. Ma gli
stessi missionari confessano che è proprio nella sofferenza che sono
maturati insieme. E i frutti cominciano a vedersi.

Nella
nuova missione di Sago tutto era da costruire. Siccome nessun missionario
era esperto di edilizia, i superiori inviarono da Roma un fratello
costruttore per i primi edifici. All’inizio del 1998, fratel Pietro
Menegon venne mandato in Costa d’Avorio.

Ma un
imprevisto era in agguato: fratel Pietro, con i suoi 64 anni, avrebbe
resistito ad un clima caldo e umido come quello della costa ivoriana? Dopo
qualche mese, la sua salute cominciò a creare problemi: crisi di malaria
una dopo l’altra. Il fratello fu costretto (ahimé!) a rientrare in Italia.

Però,
nonostante tutte le difficoltà, la missione in Costa d’Avorio non si è
fermata. I padri presenti non si sono scoraggiati. Anzi, il gruppo è
aumentato. E un nuovo centro è stato aperto a Grand-Béréby.


L’evangelizzazione continua più viva che mai.

Jean Paré




BAMBINI SCHIAVI: infanzia negata e segni di cambiamento. L’ARCOBALENO SPEZZATO

La nave
africana, carica di piccoli destinati alle piantagioni spinge ad alcune
riflessioni: non solo sul lavoro minorile, ma anche su cammini
possibili,per opporsi a questa situazione. Insieme a Claudia, Daniela,
Arturo, Feliciano… per gridare insieme: «Un altro mondo è possibile!».

La vicenda
dell’«Etireno» (la nave carica di piccoli schiavi apparsa e scomparsa
tempo fa sulle coste africane) ha riportato alla ribalta della cronaca la
drammatica situazione dell’infanzia «negata» nel mondo.

I mass
media – è vero – ci bombardano di statistiche, dati e analisi, ma non si
sente la voce dei protagonisti, dei 250 milioni di baby lavoratori.

Si pensa
ad una merce «particolare»: ragazzini imbarcati per essere venduti come
manodopera. Chi conosce il Sud del mondo sa che è cosa normale per ragazzi
e ragazze dai 12-13 anni lavorare: impiegati nella cosiddetta «economia
informale». Per le ragazze, questo significa di solito fare le domestiche
o le venditrici; per i ragazzi finire a lavorare nelle piantagioni di
cacao, caffè o altre produzioni da export dell’Africa occidentale, non
certo a paga sindacale.

I
rappresentanti dei ragazzi lavoratori africani provenienti da Benin, Costa
d’Avorio, Mali, Senegal e Togo si sono incontrati a Bamako (Mali) nel
novembre 2000, con il sostegno di Enda (la maggiore organizzazione non
governativa dell’Africa francofona) e hanno sottolineato il contesto in
cui può avvenire il traffico di giovanissimi, fuori dalle mitologie sui
«bambini schiavi»: un contesto regionale di migrazioni transfrontaliere di
ogni tipo, in particolare per attività di commercio, spesso assimilabili
alla frode, al contrabbando e altri traffici.

La
povertà, l’insufficienza alimentare, la mancanza di soldi o il costo
troppo elevato per mettere a scuola un bambino (quando la scuola esiste),
un certo sentimento di miseria e abbandono… spingono alla fuga in città.

Compagni
di questi ragazzi lavoratori africani sono i movimenti Nats («Niños
adolescentes trabajadores»), organizzazioni interamente autogestite da
bambini e adolescenti lavoratori, nate nel Perù degli anni ’70 e diffuse,
poi, a tutta l’America Latina ispanofona (ultimamente anche all’India).

Proprio
rivolgendosi ad Alejandro Toledo (dallo scorso 3 giugno presidente del
Perú, figlio di una povera famiglia e per questo a 10 anni già lavorava
come lustrascarpe), i rappresentanti del «Movimento nazionale dei bambini
e ragazzi lavoratori» organizzati del Perù (rappresentanti di ben 12 mila
ragazzi/e), gli hanno rivolto una «lettera aperta»: in essa difendono il
proprio diritto a lavorare in condizioni degne, a poter usufruire di
un’adeguata istruzione ed assistenza sanitaria.

Sul tema
della povertà, i ragazzi chiedono un nuovo piano di azione a livello
nazionale che tuteli gli interessi dell’infanzia e unisca alla lotta
contro la miseria quella per l’eliminazione di ogni forma di sfruttamento
del lavoro minorile. Particolare attenzione viene, inoltre, richiesta alle
esigenze dei bambini delle aree rurali e comunità indigene.

La
«lettera aperta» è stata diffusa da Fabio Cattaneo, presidente
dell’Associazione Italia-Nats (che raccoglie 14 associazioni,
Organizzazioni non governative e Botteghe del commercio equo italiane,
collegate in rete per far sentire la  voce dei bambini di tutto il mondo)
ad un convegno dal titolo: «L’arcobaleno spezzato: dall’infanzia negata
nasce il cambiamento».

In quell’occasione
Maria Teresa Tagliaventi (esperta di lavoro minorile e componente
dell’Associazione Nats) ha sottolineato che «i movimenti Nats hanno la
peculiarità di lottare contro ogni forma di sfruttamento economico dei
minori, pur essendo contrari ad una abolizione del lavoro infantile che
sia globale e aprioristica. I Nats adottano, infatti, l’approccio della
cosiddetta valorizzazione critica, secondo cui il lavoro, quando è svolto
mediante opportune modalità, può essere un mezzo di sviluppo e crescita
del soggetto, anche se si tratta di un bambino.

L’azione
di questi movimenti è incentrata sul miglioramento delle condizioni di
lavoro e l’eliminazione di tutte le  altre forme di sfruttamento economico
del bambino.

È questo
un approccio non convenzionale, che purtroppo, deve fare i conti con
l’ostracismo l’avversione di tutte le principali istituzioni
transnazionali, ministeriali e sindacali.

I Nats
dimostrano con la loro esperienza che il lavoro non serve solo per
sopravvivere materialmente, ma ha anche una valenza sociale nel favorire
lo sviluppo integrale della persona, nello stimolare i rapporti
interpersonali e nel creare identità, cittadinanza e protagonismo; può
quindi diventare strumento di cambiamento delle stesse realtà di
ingiustizia sociale che lo generano.

 

In qualità
di educatore e cittadino solidale, che ha condiviso il cammino con
ragazzi/e a «rischio d’esclusione» a Palermo (i picciriddi scannazzati),
con meninos de rua in Brasile, con ragazzi/e lustrascarpe in Ecuador,
testimonio l’importanza di riconoscere e valorizzare il loro protagonismo
di autogestione, cittadinanza attiva e mutamento dal basso.

Sono
piccoli costruttori di speranza in un mondo impoverito da un’economia, che
accentra nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone la
ricchezza e che esclude masse sempre più grandi dalla possibilità di una
vita umana e dignitosa.

«In una
società che mette al centro il profitto e l’avere, anche noi bambine/i e
ragazze/i diventiamo oggetti e cose sacrificate all’efficienza e alla
competitività del sistema e soffriamo per la fame; siamo sfruttati nel
lavoro precoce. I nostri corpi sono usati e consumati nella prostituzione,
per soddisfare gli adulti. Siamo coinvolti nel traffico e nel consumo di
droga e nelle guerre degli adulti; reclutati come bambini soldato per far
esplodere campi minati; decimati dagli squadroni della morte, siamo
vittime di violenze  persino nel seno delle nostre famiglie» (tratto dalla
«Lettera dei ragazzi/e del mondo», provenienti da Brasile, Ecuador,
Guatemala, Perú, Cameroun, rivolta all’Onu dei popoli radunati ad Assisi
nell’ottobre 1997).

Questo
grido di denuncia è stato lanciato anche durante la carovana «Grido della
speranza» di un anno fa, dove per un mese ho accompagnato 30 ex meninos de
rua che hanno percorso le strade d’Italia per offrire uno spettacolo di
arte e cultura brasiliana, capace di esprimere la forza della frateità:
un’alternativa di cambiamento, che nasce dall’universo dell’infanzia
negata.

Dopo 500
anni, le caravelle approdate in America Latina sono ritornate indietro con
un messaggio di pace e giustizia per risvegliare la vecchia Europa. I
ragazzi invitano i coetanei italiani a partecipare al Giubileo al rovescio
«Pachacutik» (in lingua quechua, «inversione di rotta»), svoltosi nel
gennaio scorso a Rio de Janeiro (nella frontiera della Baixada Fluminense,
dove padre Renato Chiera lotta contro gli squadroni della morte per
difendere i meninos de rua).


Organizzato dall’Associazione internazionale «Noi Ragazzi del mondo», vi
hanno preso parte 134 ragazzi/e, lavoratori nel microcosmo della strada,
provenienti da Ecuador, Perù, Brasile, Guatemala e Italia.

Ricordo
l’ultimo giorno dell’anno a Rio de Janeiro. Ci immergiamo in una folla di
2 milioni di brasiliani, che stanno aspettando il 2001 lungo le spiagge
di  Copacabana. Questo formicaio umano sembra resistere alla furia di un
uragano di pioggia e freddo, davvero anomalo a queste latitudini.

Mi
avventuro tra questi «gironi danteschi», protetti da grattacieli: con la
loro maestosità e ricchezza, vorrebbero costruire un altro muro di Berlino
per difendersi dalla miseria e dalla violenza delle favelas.

Sono in
compagnia di Claudia, «passionaria» ecuadoriana di 28 anni (la mia età),
che accoglie 40 bambini di strada nella Sierra andina; Daniela, un’ex baby
prostituta carioca di 16 anni, «affamata» di carezze; Arturo, intelligente
piccolo lavoratore quattordicenne di Lima e militante nei Nats, che ci ha
raccontato come stanno lottando in Perù contro il debito estero; Marcelino,
un ex ragazzo di strada, sopravvissuto agli squadroni della morte e ora
ottimo animatore di «minori a rischio d’esclusione», che imparano a
gestire i conflitti, scoprire la pace in un Guatemala segnato da oltre 30
anni di guerra civile; Anita, adolescente india dell’etnia quechua che, 5
anni fa, spacciava droga e ora, a 16 anni, fa da mamma ai bambini
abbandonati accolti nella casa famiglia «Cristo de la calle»; Jussara,
«pantera nera» di 29 anni e fiera di essere afrodiscendente, che, pur
provenendo da un quartiere povero, si è laureata e sta aiutando la sua
comunità nell’educazione popolare.

Con
Claudia, Daniela, Arturo, Feliciano, Anita e Jussara formiamo una banda di
pazzi, innamorati della vita, malgrado tutto. Ci stringiamo forte le mani,
ci abbracciamo stretti per riscaldarci col calore dei corpi, con l’energia
della nostra anima. Con la forza della nostra nudità di «piccoli della
terra», ci opponiamo ad un uragano ben più violento e oppressore: il
neoliberismo.

Non
brindiamo con champagne, ma condividiamo i sogni che abbiamo espresso a
madre natura, al Signore della vita.

È una
passione che continua ad accendermi come un fuoco d’utopie inarrestabili:
il piccolo Davide continua a lanciare pietruzze contro il gigante Golia; è
la strategia lillipuziana dei piccoli passi, per indignarci di fronte alle
ingiustizie e costruire un’alternativa all’economia che idolatra il
profitto e mercifica perfino i sentimenti e le relazioni umane.

Anche noi
gridiamo: «Un altro mondo è possibile!». L’abbiamo fatto insieme ai 10
mila partecipanti al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e lo faremo in
luglio al G8 di Genova. È la speranza del cammino di coscientizzazione,
liberazione e protagonismo dei ragazzi/e lavoratori nel microcosmo della
strada. Una speranza che non muore.

(*)
Cristiano Morsolin è un educatore che ha lavorato con i ragazzi di strada
di Palermo, del Brasile e dell’Ecuador. Fa parte della Comunità
internazionale di Capodarco (AP).

Cristiano Morsolin




SE OSPEDALI E SCUOLE DIVENTANO IMPRESE

Vivo
nella periferia di Lima, con due figli piccoli e mia moglie peruviana. Pur
essendo qui da 9 anni, ancora non riesco a farmi una ragione di ciò che
vedo. Non mi abituo a considerare gli ospedali, anche i più umili, come
luoghi proibiti per molta gente, perché, se vi entrassero, dovrebbero
pagarsi tutto… Due anni fa donai il sangue per una ragazza con cancro
terminale. Nell’ospedale «pubblico» dovetti pagare 20 dollari… per
donare il sangue!… Quattro anni fa una donna incinta arrivò all’ospedale
per un parto d’emergenza; le cose si complicarono e si rese necessario il
taglio cesareo. Ma, sorpresa, il medico non poteva operare, perché la
donna non aveva i soldi per le spese dell’intervento. Morì sia lei sia la
creatura che portava in grembo. Sconvolto, chiesi spiegazioni. Il medico
rispose che situazioni così erano comuni. Se avesse deciso di operare la
donna, avrebbe dovuto pagare lui l’intervento, perché l’ospedale non
fornisce neppure il bisturi.

Non mi
abituo ad ascoltare i bambini che non vanno neppure alla scuola pubblica,
perché non possono comprarsi il grembiule. O perché non hanno tempo,
dovendo lavorare per aiutare la famiglia. E continuo a domandarmi: perché
succede questo? Nel centro di Lima, mi capita di passare tra grandi ville
con piscina, campo da tennis, governanti e guardiani. Non posso non
chiedermi: perché tanto sfarzo?

A parte
l’eterna e crescente differenza tra ricco e povero, ho scoperto che
ospedali e scuole sono delle imprese e, come tali, devono chiudere il mese
in attivo. Tutto rientra nei programmi del Fondo monetario internazionale,
che partono dall’assioma: lasciare tutto al Mercato perché Lui regolerà
ogni bisogno. E così, negli ultimi 10 anni di impero del mercato, si è
consumato di più in cosmetici che in alimenti. Ed è rispuntata la TBC, che
in America Latina chiamano «malattia della nuova economia». Nella nostra
zona ha già colpito oltre la metà dei bambini. L’assistente sociale
vorrebbe mettere su un programma per prevenirla. Però mancano i fondi e lo
stato rimane a guardare in attesa che il mercato regoli anche questo
bisogno… A meno che non si ricorra alla carità (si parla infatti di
«capitalismo compassionevole»). Questo è l’unico spazio che ci lascia il
sistema neoliberista, che così prende due piccioni con una fava: da una
parte toglie ai poveri la dignità e, dall’altra, permette ai ricchi di
sopire i problemi di coscienza che di tanto in tanto affiorano, nonostante
l’overdose di indifferenza.

D ico:
«Cambiamo i politici. Votiamo per quelli più vicini ai problemi della
gente». Poi scopro che tutti devono obbedire alla nuova trinità: un unico
dio (il neoliberalismo) in tre entità (Fondo monetario internazionale,
Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio). Questi hanno
deciso che tutto deve essere riducibile a merce acquistabile sul mercato,
anche i servizi basici (salute, educazione, cibo, casa). Lo stato
interventista è scomparso; resiste solo come esercito per difendere i
confini, come polizia per la sicurezza intea e come ufficio per pagare
il debito estero. Alcuni, con tanta ipocrisia, parlano di «neoliberalismo
dal volto umano». Io non riesco a vederlo.

Credo che
occorrerà fare un enorme lavoro educativo. Partendo dall’antidoto della
solidarietà (che fa rima con dignità, non con elemosina), si potrà pensare
a nuovi rapporti nella società e nel mondo. Ma queste conclusioni (così
ovvie in una realtà latinoamericana) non sono tanto scontate per altri in
altri luoghi (in Italia, per esempio). A volte, anche per chi dice di
condividere un discorso missionario a servizio di una vita degna per tutti
i figli di Dio.

Sarà che
ormai io sono troppo distante dalla realtà italiana e, in generale, dal
Nord del mondo?

Gianni
Vaccaro, Lima (Perù)

Gianni Vaccaro




GIUSEPPE ALLAMANO – Dalla Consolata al mondo

Chi passa per la casa madre dei missionari della Consolata a Torino si trova davanti a striscioni che ricordano i loro 100 anni di vita: «I missionari della Consolata compiono cento anni!».
Un anniversario ricco di stimoli. Ripercorrere la propria storia è motivo per vedervi la presenza di Dio. Ai missionari partenti, il fondatore, beato Giuseppe Allamano, spesso ripeteva la incoraggiante promessa di Gesù, quando affida ai discepoli di continuare la sua opera di evangelizzazione nel mondo intero: «Io sono con voi tutti i giorni». E commenta: «Egli parte con voi, sarà il vostro sostegno… Questo pensiero deve essere la vostra consolazione: il Signore parte con voi e sarà sempre con voi, non in modo generico, ma tutto particolare» (Conf. III, 470). È lui che opera attraverso i suoi messaggeri.
Ma, prima ancora, egli ha agito nel beato Giuseppe Allamano, a cui si deve la fondazione dell’Istituto. Egli ebbe sempre viva la coscienza di essere soltanto uno strumento nelle mani di Dio per la realizzazione di tante vocazioni alla missione: «Non avendo potuto essere missionario io – diceva – mi sono proposto di aiutare altri a esserlo». Ma si è preoccupato, anzitutto, che fosse il Signore a volerlo, secondo la direttiva fondamentale su cui ha regolato la sua esistenza: fare in tutto e sempre la volontà di Dio.
Alla fondazione di un istituto esclusivamente dedicato all’evangelizzazione dei popoli a cui non è giunto il messaggio del vangelo, l’Allamano pensò in modo abbastanza concreto fin dal 1891, ma non si mosse finché non ebbe la garanzia che ciò rientrava nei disegni di Dio.
La prova da lui ritenuta definitiva la ebbe nel gennaio 1900 quando, assistendo una anziana signora in una gelida soffitta, ne uscì con i brividi della febbre, sviluppatasi poi in broncopolmonite, che lo portò, debole di polmoni fin dagli anni del seminario, in fin di vita. Le suppliche alla Consolata ottennero la guarigione, ritenuta da tutti e dall’Allamano stesso, miracolosa. Erano le prime ore del 29 gennaio. Lui stesso davanti al quadretto della Consolata che stava ai piedi del suo letto promise che, se fosse guarito, avrebbe dato inizio all’Istituto. E mantenne la promessa. Diceva: «Avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale la fondazione si doveva fare: che io fossi guarito non si poteva negare».
Convalescente nella villa di Rivoli, il 24 aprile spedì al cardinale Richelmy la lettera in cui prospettava tutta la questione relativa alla fondazione dell’Istituto. La mise sull’altare dove celebrò la messa, chiedendo che il Signore manifestasse ancora la sua volontà, come aveva scritto al cardinale nella conclusione: «Rifletti alla cosa presso il Signore, e ritornando fra non molto a Torino, mi dirai il da farsi». Il cardinale gli disse che si doveva fare. E l’Allamano, con le parole di Pietro a Gesù, rispose: «Sulla tua parola getterò le reti». Secondo il suo stile, cominciò subito.
Dopo aver consultato il Dicastero romano di Propaganda Fide, interpellò i vescovi del Piemonte, riuniti alla Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900 per la loro assemblea annuale, sul progetto di fondazione dell’Istituto missionario. Il cronista del tempo riferisce che «vivamente caldeggiata dal cardinale Richelmy, l’opera venne discussa, lodata e approvata da tutti i presuli subalpini» (La Consolata, 1,1900, p. 163; cf. L’Italia Reale – Corriere Nazionale, 14-15 ottobre 1900).
Il cardinale manifestò pubblicamente la sua cordiale approvazione con un messaggio pubblicato sulla rivista La Consolata:
«Benediciamo con tutta l’effusione dell’animo al nuovo Istituto, che prendendo il nome della Consolata, ha per scopo di consolare il cuore stesso dell’amatissimo nostro Signor Gesù Cristo col far paghi i desideri del suo amore.
A codesti figli novelli di Maria Consolatrice auguriamo collo spirito di zelo e di sacrificio i doni più eletti dell’apostolato cattolico; e affrettiamo coi voti più ardenti la conversione di quegli infelici, che nelle terre lontane ancor giacciono fra le tenebre e l’ombra di morte.
E mentre sull’opera novella imploriamo i favori del cielo, raccomandiamo la stessa a tutti i nostri figlioli, e specialmente alle anime devote della cara nostra Madre delle Consolazioni. Torino 12 ottobre 1900. Agostino card. Richelmy».
La data «ufficiale» di fondazione dell’Istituto venne stabilita dal card. Richelmy e dal beato Allamano al 29 gennaio 1901, anniversario della guarigione.
Alla culla della Madre
L’ispirazione della fondazione dell’Istituto è venuta dall’intenso dialogo di amore dell’Allamano di fronte alla icona della Consolata. Lì capì che lei è Madre di tutta l’umanità e a tutti desidera che sia fatto conoscere il suo Divin Figlio. Da lei è venuto il segno che doveva partire.
Lei è all’origine dell’Istituto. Il beato Allamano ne è fermamente convinto: «È lei che ideò il nostro Istituto, lo sostenne materialmente e spiritualmente, ed è sempre pronta alle nostre necessità. È lei la fondatrice. Non c’è dubbio che tutto quello che è stato fatto è opera sua».
Era logico che al suo santuario avvenisse la celebrazione principale a cento anni dalla fondazione dell’Istituto, il 29 gennaio 2001, con la presidenza dell’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, successore del Richelmy, del rettore del santuario, mons. Franco Peradotto, dei missionari e delle missionarie della Consolata con i loro superiori, e di tanta gente.
Il beato Giuseppe Allamano che ha sempre tenacemente rivendicato la sua funzione unica di trasmettere un carisma e uno spirito, ha anche avuto viva coscienza di non poterlo fare se non insieme a tante persone, dal Camisassa, ai sacerdoti della diocesi, alle tante persone che frequentavano il santuario della Consolata e hanno imparato a esprimere il loro amore alla Madonna contribuendo al cammino della missione e all’aiuto dei fratelli più bisognosi. Questo centenario è di tutta la gente, tante persone che hanno accompagnato, aiutato, incoraggiato e sostenuto l’Istituto e ne hanno reso possibile l’impegno missionario. Tutti insieme hanno espresso il grazie per i 100 anni dell’Istituto, che ha percorso le strade del mondo per portare ai popoli il vangelo, consolazione e vita.
Insieme alla riconoscenza, la celebrazione centenaria è occasione per rinnovare l’affidamento alla Consolata. «Portiamo il suo nome», ricordava l’Allamano; «siamo suoi figli»; da lei prende ispirazione la consacrazione alla missione. Per questo, il superiore generale ha offerto una lampada, che arda davanti a lei durante tutto l’anno, segno di adesione, di rinnovato impegno e fiducia. La Consolata, che «nei momenti difficili è intervenuta in modo straordinario», ha protetto i suoi missionari e le sue missionarie, ha fatto per loro «miracoli quotidiani», continui a prenderli sotto il suo manto e, insieme a loro, quanti ne accompagnano e sostengono il cammino di annuncio del vangelo.
A nome di tutti i missionari della Consolata, il padre generale ha affidato tutto l’Istituto alla loro Madre. Questo gesto ha voluto ricordare e fare proprio l’atteggiamento di fede del beato Allamano. Davanti all’icona della Consolata si inginocchiava affidando a lei i missionari lontani, in viaggio, tra i pericoli, ammalati, presi da sconforto o nostalgia. Nelle difficoltà più grosse, la sicurezza è venuta dal dire con fiducia alla Consolata: «L’Istituto è tuo, pensaci tu!». E ha percepito pure la risposta della Madonna: «Stai tranquillo, ci sono io!». Con questo stesso spirito, il padre generale ha pregato:

«Santa Vergine degli inizi, fidenti ti invochiamo
in quest’alba del secondo centenario di vita dell’Istituto.
Da te, Consolata, è venuta a noi la vita;
per te il Signore ci ha elargito doni
con munificenza regale.

Specchio della nostra identità,
ispiratrice della nostra vita
rendici fedeli collaboratori del regno che viene.
Vincolo della nostra comunione,
ravviva nelle nostre comunità lo spirito di famiglia,
la capacità di lavorare in unità di intenti,
la sollecitudine per i fratelli che ci vivono accanto.

Non si spenga in noi la lampada della speranza,
nella certezza che nulla è impossibile a Dio;
arda in noi il fuoco della missione per illuminare
quanti non conoscono la luce da te generata;
brilli in noi la gioia della consolazione,
perché si diffonda nelle case dei poveri,
degli oppressi e smarriti di cuore.

L’Istituto è opera tua, o Consolata;
alla tua protettrice assistenza ci affidiamo.
Imprimi nel nostro cuore
le parole del beato padre fondatore:
“Coraggio! Avanti!”,
per muovere i nostri passi verso le frontiere dell’umanità,
portando la vera consolazione, Gesù Cristo,
e il lieto annunzio del suo vangelo. Amen».
Tante vite donate
All’inizio della celebrazione è stato espresso il senso di profonda comunione con quanti hanno contribuito alla nascita e alla crescita dell’Istituto; con i missionari e le missionarie e le loro comunità in ogni parte del mondo; con coloro che in cento anni hanno speso la vita per la missione.
Tra questi un posto singolare hanno avuto i missionari, le missionarie, i laici uccisi a causa dell’annuncio del vangelo. Con il dovuto risalto è stata portata all’altare della Madonna una ampolla intrisa del sangue di catechisti martiri del Mozambico. In essi erano presenti tanti altri, molte vite sacrificate per il regno di Dio. Sono il fiore e frutto più valido della missione, la più potente intercessione. L’arcivescovo l’ha invocata a conclusione della preghiera universale, tenendo tra le mani questa ampolla, chiedendo:
«Sia preziosa davanti a te, Signore, questa terra intrisa del sangue di missionari e catechisti martiri; renda a te accetta la nostra preghiera, efficace la nostra intercessione. La loro testimonianza sia seme da cui germoglia la vita, fioriscono nuove vocazioni alla missione, coraggio nell’impegno di oggi fiducia nel futuro».
Dal grembo della diocesi
Nell’omelia, dopo aver fatto memoria dell’evento storico che sta alla base della celebrazione, l’arcivescovo di Torino ha proseguito:
«Da dove è nato l’Istituto dei missionari della Consolata? La risposta ovvia, anche da quello che abbiamo già sentito, è che è nato qui, nella casa della Madonna Consolata. Ha preso il nome da questo nostro carissimo e importante santuario. Potremmo anche dire che è nato dal cuore della SS. Trinità, perché ogni opera, ogni iniziativa di bene viene da Dio: “Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce”, ci ricorderebbe S. Paolo. Credo che sia molto importante, volgere questo sguardo verso le vere origini, che sono la SS. Trinità e l’ispirazione della Madonna, accanto a cui l’Allamano è vissuto per ben 46 anni. Lo sguardo però alla realtà storica ci conduce a dire che l’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. Un sacerdote della diocesi di Torino, nato a Castelnuovo Don Bosco, terra di santi, nipote del Cafasso, patria di s. Giovanni Bosco, paese dove è morto, in una frazioncina, anche s. Domenico Savio. Un comune che annovera già al suo interno ben quattro santi, già proclamati tali dalla chiesa.
Il giovane Giuseppe Allamano ha attinto la sua formazione dalla famiglia, indubbiamente profondamente cristiana, ha coltivato la sua preparazione con gli studi filosofici e teologici, fino a raggiungere la laurea in teologia, e ha costruito in questo santuario, accanto alla Vergine e attraverso la devozione alla Consolata, la storia del convitto ecclesiastico, il suo cammino di santità cristiana, lo slancio per attuare l’ispirazione di fondare l’Istituto dei missionari della Consolata, e poi delle missionarie della Consolata.
L’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. E non perché sono arcivescovo di Torino, ma per aderenza alla realtà storica, dico anche che è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino. L’Allamano, con il consiglio e l’approvazione dell’arcivescovo del tempo, card. Richelmy, e, come abbiamo sentito, di tutti i vescovi del Piemonte, si poneva il problema dell’annuncio del vangelo a immense popolazioni del mondo, ancora distanti dalla conoscenza di Cristo. La situazione, tanto diversa da oggi, era di grande abbondanza di clero locale, da arrivare al punto che l’arcivescovo non sapeva dove mandare i sacerdoti appena ordinati. Ecco allora che all’interno del presbiterio diocesano, l’Allamano intuisce di poter chiamare un gruppo di sacerdoti, che diventeranno il primo nucleo dell’Istituto.
Ci tengo a ripetere che l’Istituto è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino e, in senso più largo, da questa santa chiesa di Torino. La grande tradizione di santità e di spirito apostolico dei secoli XIX e XX è diventata il giardino in cui sono germogliati tanti fiori, tanti istituti religiosi, tanti esempi di santità e di missionarietà. Questo è il ricordo storico che desideravo fare a cento anni dalla nascita dell’Istituto della Consolata, sottolineando il legame di parentela tra l’arcidiocesi di Torino e il vostro Istituto. Il vostro fondatore è sempre rimasto prete diocesano e per 46 anni, fino alla sua morte, rettore di questo santuario della Consolata; questo mi ha impressionato».
Motivi per dire grazie
«Dalle piccole esperienze dirette che anch’io ho avuto dell’azione dei missionari della Consolata – ha continuato l’arcivescovo – posso dire che il loro stile è quello tipico di coloro che partono per la missione ad gentes. Andare in un luogo dove non si conosce Gesù Cristo, annunciare il vangelo, far sorgere la comunità cristiana, attendere pazientemente che essa si esprima in sacerdoti, laici impegnati, catechisti, per poi spostarsi da un’altra parte, e lasciare che questa comunità cammini con le proprie gambe. Questa caratteristica del missionario non solo della Consolata, ma di tutti gli Istituti missionari, di essere sempre sulla frontiera dell’annuncio, ha caratterizzato i cento anni di storia dei missionari della Consolata.
La vostra storia, nel profondo, ha avuto quello spirito che l’Allamano aveva sempre raccomandato: una grande preparazione culturale, soprattutto teologica, grande santità e fervore di vita, e soprattutto una carità tale da essere disposti a morire anche martiri per l’annuncio del vangelo. Credo che davvero questi cento anni sono stati un camminare su questa traccia indicata dal Fondatore: formazione umana, teologica, spirituale, santità di vita, eroismo fino all’effusione del sangue.
La terra intrisa del sangue dei martiri del Mozambico, come è già stato ricordato nell’introduzione, dà pieno significato al rendimento di grazie che oggi innalziamo al Signore e alla Vergine Consolata.
Vanno pure ricordate le chiese locali nate dall’apostolato dei missionari. Io ne ricordo diverse in Kenya e in Tanzania, dove sono stato, per vostra benevolenza, a predicare un corso di esercizi spirituali ai padri. Dove non c’era niente, ora ci sono parrocchie, fiorenti comunità cristiane. Anche per questo rendiamo grazie».
Riprendere slancio
«Siamo qui anche per un rilancio. Il santo padre nella lettera apostolica che ha voluto donarci a conclusione del grande giubileo del 2000, prende lo spunto dal testo di Luca, dove Gesù dice a Pietro “prendi il largo”, e getta le reti per la pesca. Non bisogna fermarsi al passato, ma guardare il futuro e rilanciare il fervore della prima ora, l’entusiasmo e lo slancio dei primi missionari. Questo ci propone la parola di Dio che abbiamo ascoltato. S. Paolo nel bellissimo inno della lettera agli Efesini (1,3-14) ricorda che siamo dentro il grande progetto di Dio. Un Dio che “ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo”, non per realizzazioni umane “ma per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”. Un Dio che ci chiama ad entrare nella grande avventura del suo mysterium, “il progetto di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra”.
Cari missionari della Consolata, questo è uno slancio che dovete riprendere nel cuore, nella mente e nelle azioni. Entrare dentro al progetto che il Padre ha di ricapitolare, riassumere, riconciliare nel Signore Gesù Cristo tutta l’umanità. E questo è possibile se noi, come diceva il vangelo (Gv 15,4-15), siamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite. Uniti a lui portiamo frutti, e abbondanti, come quelli che avete raccolto in questi cento anni.
Se siamo uniti a Cristo dobbiamo anche accettare di essere potati, provati, nelle difficoltà e nella sofferenza. Anche i missionari della Consolata, come i seminari diocesani, stanno tribolando per la scarsità di vocazioni. Sono tutte prove che il Signore ci dà per purificare la nostra vita, la testimonianza, lo spirito. Il Signore ha i suoi disegni, per cui se un tralcio porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto. Questa unione con Cristo è certezza della sua amicizia, “vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto ciò che il Padre mi ha detto”. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. E vi ho detto queste cose, vi comunico la mia amicizia, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
Lo slancio lo prendiamo qui, ai piedi della Vergine Consolata, il modello, la protettrice, colei che ci sostiene e dà forza nelle difficoltà. Qui l’Allamano ha trovato ispirazione e forza per seguire la sua vocazione e dare al vostro Istituto le caratteristiche che lui ha ricevuto dalla Madonna Consolata. Qui è il riferimento irrinunciabile».
Per sempre
«Ho incontrato alcune missionarie della Consolata a Nairobi nella loro casa per le suore anziane. Dicevano: “Noi siamo partite per l’Africa 50 anni fa, quando eravamo giovani, e non siamo mai più tornate in Italia”. Ho chiesto: “Come mai? Adesso vanno e vengono con i voli aerei, adesso c’è facilità di viaggiare”. “E no – risposero -. Quando siamo partite, il nostro santo fondatore ci diceva che si parte per sempre. E anche se i superiori ci concedono di ritornare, vogliamo rimanere qui fedeli al nostro impegno”. Questo mi ha scioccato, mi ha impressionato: “Siamo partite e non siamo mai ritornate in Italia, vogliamo morire qui ed essere sepolte qui”.
Il “per sempre”, fratelli e sorelle carissimi, oggi non è così ovvio. Tuttavia, anche se oggi non è tanto di moda, è una caratteristica fondamentale dell’amore. Uno che ama Dio, ama Gesù Cristo, e sente il bisogno di portare il vangelo agli altri, dice sì come ha detto Maria, per tutta la vita, per sempre. Così ha fatto il beato Giuseppe Allamano, che si è consegnato a Dio nella fedeltà alla sua vocazione. Così ha fatto la serva di Dio Irene Stefani (speriamo che anche voi suore abbiate poi la vostra santa proclamata tale dalla chiesa). Siamo qui nel santuario della Vergine Consolata, per rinnovare nel ringraziamento, nel ricordo storico, il nostro proposito di perseveranza e di fedeltà alla missione che il Signore ci ha affidato. Questa fedeltà deve durare per sempre».

L’ inizio del centenario, al santuario della Consolata è stato veramente una festa «di famiglia» per la missione: nella «casa della Madre», nel ricordo del padre che ha dato avvio all’Istituto, con la rappresentanza di tutta la diocesi, che ha condiviso attivamente l’intento dell’Allamano e ne ha reso possibile la realizzazione.
Circondati da un gran numero di testimoni fedeli a questo progetto, suscitato da Dio per attuare l’opera di salvezza di Cristo, si è rafforzata la volontà di proseguire per la strada intrapresa.
È cresciuta la fiducia che il beato Giuseppe Allamano aveva per il futuro: «La nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata. Passeranno gli uomini, cadranno pure alcune foglie, ma l’albero prospererà e verrà un albero gigantesco: io ne ho prove prodigiose in mano».

Redazione