Turchia: «Mamma, li turchi»

Viaggio nel paese della mezza luna

"Ponte tra Oriente e Occidente", la Turchia è stata per millenni crogiolo di
popoli e civiltà, sfociate nell’attuale Repubblica, "candidata" a entrare
nell’Unione Europea (UE). È pure definita "seconda Terra Santa": milioni
di pellegrini cristiani vi cercano le tracce di san Paolo e delle chiese delle origini. Le
comunità cristiane dei primi secoli, oggi, sono ridotte a sparute presenze. Per entrare a
pieno titolo nell’UE, la Turchia dovrà aggiustare non solo i parametri economici, ma
fare passi da gigante nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa.

 Articolo 1

I nodi gordiani della Turchia

"Passaggio a Ovest"

Chiamata per un millennio Bisanzio, per 11 secoli Costantinopoli e da oltre 500 anni
col nome attuale, Istanbul è l’emblema della storia plurimillenaria della vocazione
europea della Turchia odiea. Diventata repubblica laica, essa chiede l’integrazione
nell’UE. Prima delle trattative, però, la nazione turca dovrà sciogliere molti
nodi, soprattutto in materia di diritti umani e rispetto delle minoranze etniche e
religiose. È un problema di democrazia e civiltà.

Dagli spalti del Topkapi, il palazzo dei sultani a Istanbul, lo sguardo spazia sul
Bosforo: la lunga striscia di mare, più che separare, sembra unire l’estrema punta
dell’Europa all’Anatolia, chiamata dai romani Asia Minore. Mentre osservo
petroliere e mercantili che solcano lo stretto canale, ripercorro a ritroso millenni di
storia, quando sulle due sponde approdavano le fragili imbarcazioni greche, poi le triremi
romane e dromoni bizantini, quindi i velieri genovesi, veneziani e ottomani, scambiando
tra Oriente e Occidente merci, cultura e civiltà.

COSCIENZA DOPPIA

Quando Byzas stabilì sul Coo d’Oro la prima colonia greca (659 a.C.), dandole
il suo nome, l’Anatolia era già entrata a pieno diritto nella storia da oltre 1.500
anni, grazie ai commercianti assiri e ittiti che vi avevano introdotto la scrittura
cuneiforme.

Di origine indoeuropea, gli ittiti dominarono l’altipiano anatolico per oltre un
millennio, finché il loro impero fu spazzato via (1200 a.C.) da misteriosi "popoli
del mare" e frantumato in una miriade di regni (cappadoci, cari, frigi, pamfili,
lici, cilici, lidi, misi, paflagoni, sciti, cimmeri). Contemporaneamente lungo le coste
dell’Egeo i colonizzatori greci fondarono importanti città-stato.

Da subito, l’Anatolia fu strattonata a est e ovest. Ne è un esempio il regno di
Troia, città distrutta e ricostruita nove volte. Il settimo periodo (1300-1100 a.C.)
corrisponderebbe al conflitto tra troiani e greci (achei), cantato dall’epica di
Omero.

Quando Ciro il Grande, re di Persia, conquistò l’Anatolia (547 a.C.) e
l’inghiottì nel suo impero e i suoi successori minacciarono di passare i Dardanelli
e occupare anche la Grecia, cominciò lo scontro tra Oriente e Occidente. Oltre a
riscuotere imposte e reclutare soldati, i persiani imposero elementi culturali, modelli di
vita, concezioni politiche e metodi amministrativi: le città greche dell’Asia minore
si ribellarono, tirando la madre patria nel conflitto.

Per 200 anni, greci e persiani si scontrarono su entrambe le sponde dell’Egeo, in
una guerra di civiltà senza quartiere, provocando nelle popolazioni coinvolte la
sedimentazione di una "coscienza asiatica" e una "coscienza europea",
con reciproche influenze morali, politiche e culturali, di cui l’Anatolia fu il punto
di confine e congiunzione insieme.

NUOVA ECUMENE

"Regnerà sull’Asia chi riuscirà a sciogliere la corda dal giogo del timone
del carro custodito nel tempio di Zeus" diceva la profezia del santuario di Gordio, a
pochi chilometri da Ankara. Alessandro Magno risolse il problema con un colpo di spada:
sconfisse i persiani e, tra il 334 e il 327 a.C., il re macedone fondò una monarchia
universale e multietnica in cui conciliava la civiltà greca con quella orientale:
l’Anatolia diventò un importante tassello della neonata ecumene (casa comune)
ellenistica.

Ma alla morte di Alessandro (323 a.C.), i suoi generali e loro successori si scannarono
per spartirsi le spoglie dell’impero. L’Anatolia toccò a Seleucio, fu
riassorbita nella sfera persiana e coinvolta in una spirale endemica di guerre. Delle
rivalità ne approfittò Attalo I (241-197 a.C.), che si ritagliò un piccolo regno, con
capitale Pergamo, lo estese con l’aiuto di Roma e ne fece un faro di cultura e
civiltà ellenistica. L’ultimo degli attalidi, rimasto senza eredi, lasciò il regno
alla repubblica di Roma (133 a.C.).

All’ecumene ellenistica subentrava quella romana, culminata nella completa
integrazione nell’impero, quando Caracalla (212 d.C.) estese la cittadinanza romana a
tutti i cittadini liberi dell’Asia Minore. Il dominio romano favorì un lungo periodo
di pace e sviluppo economico e culturale, grazie alla fitta rete di strade e comunicazioni
che collegava le province al resto dell’impero: di tale comodità si avvalsero anche
i predicatori del vangelo per spargere il seme cristiano in tutta l’Anatolia.

IMPERO BIZANTINO

Quando Costantino spostò la capitale da Roma a Bisanzio (324), ribattezzata
Costantinopoli, e Teodosio I impose il cristianesimo come religione di stato (392), per le
eterogenee popolazioni dell’Asia Minore la religione cristiana avrebbe dovuto essere
un ulteriore consolidamento dell’ecumene greco-romana.

Nel 395 invece, i figli di Teodosio, si spartirono l’impero: Arcadio si tenne
l’oriente; Onorio l’occidente. E fu l’inizio del progressivo distacco tra
est e ovest, in cui le divergenze di concezioni politiche, culturali e religiose giocarono
un ruolo fondamentale.

Quando i barbari deposero l’ultimo imperatore di Roma (476), Costantinopoli rimase
l’unica capitale dell’impero e della cosiddetta civiltà bizantina. L’Asia
Minore ne seguì appieno le sorti nel bene e nel male.

Per oltre un millennio popolazioni dell’odiea Turchia furono coinvolte in
innumerevoli tempestose crisi politico-religiose, alternate a periodi di bonaccia, in cui
i sovrani interferivano a piacere, nominando e rimuovendo patriarchi e vescovi, convocando
concili, ficcando il naso in dispute dogmatiche e dottrinali, imponendo per decreto di
seguire ora l’ortodossia, ora le correnti eretiche.

Gli imperatori dovettero lottare anche contro i pericoli provenienti da est: i persiani
ripresero tutta l’Asia Minore e, insieme ai nordici avari, assediarono Costantinopoli
(626). I territori furono subito ripresi da Eraclio; ma costui cancellò definitivamente
dall’impero ogni traccia romana: abolì il bilinguismo e il greco diventò unica
lingua ufficiale.

Le quisquilie bizantine continuarono a lacerare la chiesa universale, dilatando il
fossato tra papato e impero. La rivalità con Roma e la contesa per il primato
politico-ecclesiale raggiunse l’apice nel 1054: il patriarca di Costantinopoli,
Michele Cerulario e papa Leone IX si scomunicarono a vicenda, spezzando l’ultimo filo
che univa ancora Oriente e Occidente: ortodossia e cattolicesimo divennero sinonimi di
divisione europea.

GUERRE "SANTE"

Mentre a Costantinopoli teologi e sovrani discutevano sul sesso degli angeli, gli arabi
combattevano le loro "guerre sante" in nome dell’islam, espandendo il loro
dominio dall’India alla penisola iberica, sottraendo all’impero bizantino gran
parte delle regioni bagnate dal Mediterraneo.

L’Asia Minore fu attaccata dalle scorribande arabe (VII-X sec.), che trovarono
fiera opposizione in Cappadocia. Nulla, invece, poté contro i vari gruppi turcomanni,
provenienti dalle regioni dell’Asia Centrale. I turchi selgiuchidi (dal fondatore
Selgiuq, X sec.), appena convertiti all’islam, occuparono l’Asia Minore: fatto
prigioniero l’imperatore bizantino (1071), giunsero fino a Nicea (Iznik).

Respinti dai crociati, i selgiuchidi si arroccarono sull’altopiano anatolico,
fissando la capitale a Konya (Iconio) e islamizzando la regione. I viaggiatori occidentali
che attraversavano l’Anatolia nel XII e XIII secolo chiamavano "Turchia"
quel territorio; il turco era usato nell’amministrazione in varie forme letterarie.

Le imprese di arabi e turchi provocarono l’avvicinamento tra papato e imperatore,
ortodossi e cattolici: furono organizzate ben sette crociate (1096-1270). Costantinopoli
s’illuse di ritornare a giocare il ruolo di baluardo storico contro l’avanzata
dei popoli asiatici; a ogni vittoria sui turchi, cercò di affermare il proprio dominio
sui territori un tempo in suo possesso; ma finì per dover lottare contro il papato, che
intendeva servirsi delle crociate per riunire la chiesa greca a quella latina, e contro i
prìncipi cristiani che, mescolando l’ideale della liberazione dei luoghi santi
cristiani con gli interessi politici e commerciali, stabilirono regni feudali
nell’Asia Minore (Antiochia, Edessa, Trebisonda).

Il colmo della beffa fu raggiunto quando i veneziani dirottarono la IV crociata su
Costantinopoli: la presero e misero a ferro e fuoco (1204), dando vita ad un effimero
regno latino d’Oriente. Nel 1261, la dinastia greca dei paleologhi, con l’aiuto
dei genovesi, rientrò trionfalmente a Costantinopoli. Ma ormai l’impero greco era
ridotto a una pallida ombra di quello bizantino: mutilato e dilaniato da guerre civili,
sopravvisse per quasi due secoli, finché fu ingoiato dall’impero ottomano.

VOGLIA DI "MELA ROSSA"

Guidati da Osman o Othman, da cui il nome di "ottomani", questi misero piede
in Anatolia alla fine del XIII secolo e dilagarono in tutta l’Asia Minore, stabilendo
la capitale a Bursa. Poi, aggirate le inespugnabili mura di Costantinopoli, invasero la
Tracia e fissarono la capitale ad Adrianopoli (Edie, 1361). Quindi proseguirono verso
Bulgaria e Serbia, sognando di raggiungere Roma, ritenuta la vera capitale del mondo e
chiamata Kizil Elma (Mela Rossa).

L’improvviso arrivo in Anatolia dei nemici-cugini mongoli di Timur lo Zoppo,
Tamerlano, costrinse il sultano Beyazit, detto il Fulmine, a fare dietrofront, ma fu
sconfitto ad Ankara (1402).

I turchi parevano annientati; ma 10 anni dopo Mehmet I li riorganizzò e preparò per
la riconquista. Mehmet II Fatih (Conquistatore) arruolò i più abili artigiani europei
del tempo perché gli fabbricassero cannoni, con cui sbriciolò le mura di Costantinopoli
(1453), che divenne la capitale dell’impero sotto un nuovo nome. Non così nuovo in
verità. Istanbul deriva dal greco "eis ten polin", alla città (urbe):
espressione che i contadini ellenici dicevano orgogliosi quando si recavano nella
metropoli, l’unica al mondo, come l’antica Roma, meritevole di tale appellativo
d’eccellenza.

Invincibile per terra, cresciuto come potenza navale, l’impero ottomano raggiunse
l’apogeo con Solimano il Magnifico (1520-66). Si estendeva su tre continenti: dal Mar
Caspio e Golfo Persico all’Algeria, dalla Serbia e Ungheria allo Yemen, con una
popolazione di 50 milioni di abitanti, dieci volte più dell’Inghilterra.

A favorire l’espansione turca e alimentare il sogno della Mela Rossa contribuì
anche la divisione tra le potenze occidentali, che permisero agli ottomani di occupare
Otranto per un anno (1480), cingere d’assedio Vienna (1529), flagellare le coste
italiane e razziare la città di Nizza (1543).

A tenere unito un impero multietnico di tale dimensione contribuì la capacità di
adattamento delle istituzioni ottomane a quelle delle popolazioni annesse, rispettandone
norme, consuetudini e diritti. Anzi, in alcune regioni dei Balcani ed Europa
centro-orientale, i turchi furono acclamati come liberatori dal fanatismo
politico-religioso innescato dalle lotte tra cattolici e protestanti.

Va riconosciuta alla Sublime Porta, come veniva chiamato il governo turco, un elevato
grado di tolleranza religiosa. Ma senza esagerare. Prima di tutto la porta delle cariche
amministrative si apriva solo a chi era di provata fede musulmana. Tale tolleranza, poi
nascondeva motivi di convenienza: gli ebrei fuggiti dalla Spagna furono accolti per
contrastare le spinte indipendentiste di armeni e greci; i cristiani non subirono
l’islamizzazione forzata perché il loro passaggio all’islam avrebbe comportato la
perdita degli ingenti gettiti fiscali imposti ai cristiani.

Senza dimenticare, infine, che centinaia di migliaia di giovani cristiani, prigionieri
di guerra o strappati alle famiglie, furono sottoposti a un formidabile lavaggio di
cervello per formare il corpo militare dei giannizzeri, i più fanatici e intransigenti
difensori dell’islam.

Sebbene in ritardo, l’Europa cominciò a vedere nell’espansione turca una
minaccia per la cristianità e la civiltà occidentale: nel 1571 la flotta di varie
potenze europee sconfisse l’armata turca nelle acque di Lepanto, ponendo fine al mito
dell’invincibilità ottomana.

Nel secolo XVII i turchi continuarono a minacciare Polonia, Austria e Slesia:
assediarono di nuovo Vienna (1683), ma furono respinti dalle truppe tedesco-polacche. E
dovettero cedere Ungheria e altri avamposti dell’Europa centro-orientale a due
minacciose potenze confinanti: Russia zarista e impero asburgico.

IL GRANDE MALATO D’EUROPA

Sublimi lussi e mollezze, avidità e intrighi di corte indebolirono il potere centrale;
generali e nobili si ritagliarono fette di potere alla periferia dell’impero.
L’arretratezza fece il resto. All’inizio del XIX secolo per le potenze
occidentali lo stato turco diventò la "questione orientale" o il "grande
malato dell’Europa" e accorsero al suo capezzale.

Più che medici, si rivelarono becchini. Nessuno voleva il decesso dell’impero, ma
tutte fecero a gara, impiegando ogni mezzo finanziario, politico o militare, per mutilae
le periferie; ognuna mobilitò la propria forza diplomatica per impedire che un eventuale
vuoto di potere venisse colmato da potenze avversarie. Al tempo stesso, Londra, Parigi e
Pietroburgo soffiavano sul vento dei nazionalismi balcani, sfociati in stati indipendenti:
Serbia, Grecia, Romania, Montenegro, Bulgaria e Albania.

I paesi occidentali offrirono le loro tecnologie (telegrafo, ferrovie) per modeizzare
lo stato, ricevendo in cambio che le proprie compagnie commerciali si stabilissero negli
scali principali della Sublime Porta. Le manifatture francesi, inglesi e olandesi misero
in crisi gli artigiani locali, incapaci di competere con la tecnologia europea.

Indebitati fino al collo, sempre più dipendenti dall’Europa, i turchi furono
tirati per i capelli in una intricata girandola di alleanze pro e contro tedeschi,
inglesi, austriaci, francesi, russi, italiani, trovandosi sempre dalla parte sbagliata e
continuando a perdere i pezzi più pregiati. La prima grande guerra li spazzò via dai
Balcani; in Anatolia si precipitarono greci, italiani, inglesi e francesi; gli armeni si
dichiararono indipendenti. Nel trattato di pace di Sèvres (1920) il sultano ratificò il
fatto compiuto.

NUOVI CONNOTATI

La Turchia rischiava di scomparire dalla geografia politica, quando il generale
macedone Mustafà Kemal, detto poi Ataturk (padre dei turchi), impostosi come leader del
movimento nazionalista, respinse il trattato di Sèvres, combatté una guerra vittoriosa
contro i greci (1920-22), annientò la minoranza armena, destituì l’ultimo sultano e
proclamò la repubblica. Nel trattato di Losanna (1923) ottenne il riconoscimento di
quelli che, sostanzialmente, sono i confini odiei.

Con un regime a partito unico, Kemal iniziò la ricostruzione dello stato, cercando di
accorciae le distanze con l’Europa, anche se trasportò la capitale da Istanbul ad
Ankara.

Basata sui pilastri del laicismo e nazionalismo, la costituzione repubblicana sancì la
separazione tra stato e islam, che cessò di essere religione di stato. Furono abrogati i
tribunali religiosi, chiuse le scuole coraniche e abolite le confrateite musulmane. Il
turco sostituì l’arabo nei riti pubblici, compresi gli appelli alla preghiera. Per
accelerare la turchizzazione, fu introdotto l’alfabeto latino, fondate nuove scuole
di ogni ordine e grado, resa obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne;
cancellati i termini di origine araba e persiana, fu abolito l’insegnamento di tali
lingue nelle scuole superiori.

Per modeizzare e occidentalizzare la nazione fu abolita la poligamia, l’obbligo
del velo per le donne e del fez per gli uomini. Fu rinnovato il sistema giudiziario,
prendendo a modello il codice civile svizzero e quello penale italiano. Venne introdotto
il sistema metrico decimale; il calendario gregoriano sostituì quello musulmano e la
domenica prese il posto del venerdì come giorno di festa.

Per completare la modeizzazione, nel 1934 fu esteso alle donne il suffragio
universale (prima dei francesi); una dozzina di anni dopo venne introdotto il
multipartitismo.

Dopo la morte di Ataturk (1938) la Turchia ha continuato il passaggio a Ovest: entrata
nella Nato (1952), ne ha accolto le basi militari, diventando un avamposto occidentale,
prima in funzione antisovietica e poi anti-islamica. Stretta un’alleanza di ferro con
gli Stati Uniti, li ha appoggiati senza condizioni durante la guerra del Golfo contro
l’Iraq (1991), perdendo ogni legame con i paesi islamici del medio e vicino oriente.

Pur continuando il processo di modeizzazione delle sue strutture economiche, sociali
e culturali, la Turchia rimane ancora in bilico tra identità europea e ideali islamici.
Nel 1996 prese le redini del governo un partito neo-ottomano (il Refah) che avversa Nato e
UE, mentre propone un revisionismo pan-turco e pan-islamico sugli ex territori ottomani.

NODI DA SCIOGLIERE

Da oltre 30 anni la Turchia cerca il suo "passaggio a ovest", bussando alla
porta dell’Unione economica europea. Finora ha ottenuto di entrare nel regime di
unione doganale (1996) e, nel 1999, le è stato accordato lo status di candidato
all’ingresso nell’UE, fanalino di coda di 13 paesi in sala d’aspetto. I
negoziati saranno aperti quando il paese avrà dimostrato di avere raggiunto certi
parametri dettati dall’UE in materia di democrazia, diritti umani, tutela delle
minoranze ed economia.

Sulla democrazia turca incombe, come la spada di Damocle, il potere militare: in 20
anni, i generali, nuovi "pascià", hanno fatto tre colpi di stato (1960,
’71, ’80). Nel Consiglio nazionale di sicurezza, che ha lo scopo di
"garantire laicità e kemalismo", i sei massimi ufficiali dell’esercito e
forze dell’ordine danno "pareri" ai cinque massimi esponenti civili,
presidente e primo ministro compresi. Gestendo una delle tre o quattro principali società
finanziarie del paese, le forze armate fanno il buono e cattivo tempo anche nel mondo
economico.

Il primo ministro turco ha assicurato che presto il parlamento abolirà la pena di
morte. Ma intanto i diritti civili, politici e religiosi continuano ad essere calpestati;
le proteste represse con brutalità; le carceri sono un inferno e la riforma carceraria
sta provocando lo sciopero della fame tra civili e carcerati: sono già morti a decine e
altri 2.000 sono pronti al sacrificio; ma il governo sembra sordo. I mezzi di
comunicazione possono trasmettere solo la voce del padrone; contestatori e difensori dei
diritti umani sono incarcerati; i sospettati di terrorismo torturati.

In fatto di minoranze, i turchi si imbufaliscono quando in Europa si parla di genocidio
armeno e si chiede di riconoscere la responsabilità dello sterminio di oltre un milione e
mezzo di armeni (vedi a p. 41). Altra questione in sospeso riguarda il ritiro delle forze
d’invasione a Cipro del nord: occupata nel 1974, ha causato 5.000 morti e 200.000
profughi. Più ingarbugliata è la questione dei kurdi, che da secoli rivendicano la loro
identità. Il problema è ben lontano da una soluzione equa, se mai ci sarà (vedi
riquadro).

Drammatica, infine, è la situazione economica. Trent’anni di sviluppo e
progresso, con costruzioni di strade, aeroporti, città, attrezzature turistiche, nonché
fabbriche, dighe, oleodotti, fonderie e altri complessi industriali ha fatto gridare al
"miracolo turco". Ma all’inizio del 2001 la Turchia si è improvvisamente
svegliata in bancarotta. Le cause sono molte: corruzione e collusione con la mafia di alte
sfere dell’apparato istituzionale; sistema finanziario e bancario al collasso; debito
estero che assorbe il 95% delle entrate; inflazione galoppante a due e tre cifre. Per un
dollaro (2.200 Lit.) oggi occorrono 1.260.000 di lire turche.

Il premier Ecevet ha chiamato al capezzale dell’economia una personalità con
esperienza internazionale, dandole pieni poteri: è Kemal Devis, ex presidente della Banca
Mondiale. Ha iniziato la cura da cavallo, che farà piangere a lungo lacrime e sangue.

PALETTI SÌ. STECCATI NO

Il processo per raggiungere i parametri richiesti dall’UE sarà lungo e difficile.
Gli osservatori più scettici dicono che l’integrazione nell’UE è rimandata
alle calende greche. "La Turchia – ha detto Pierre Moscovici, ministro francese per
gli affari europei – deve rendersi conto che l’UE non è solo una comunità di
nazioni, ma un modello di civiltà".

Alcuni settori del mondo cattolico sono allarmati: l’UE è frutto di cristianità,
legge romana e umanesimo greco; l’eventuale integrazione di 80 milioni di musulmani
turchi ne offuscherebbe l’identità.

Altri sostengono che la Turchia è stata protagonista a pieno titolo della storia
europea e deve continuare a fae parte in futuro con le carte in regola. Anche
"l’Europa deve trovare il suo "passaggio a ovest" – aggiunge un
giornalista turco, – se essa è veramente tolleranza, convivenza, multi-etnicità".
Passaggio che si chiama dialogo, fondato sulla conoscenza di se stessi e degli altri.

Non serve sbattere la porta in faccia ai turchi, si afferma in ambienti ecclesiali
italiani. L’islam l’abbiamo già in casa. La questione è come prepararsi a un
confronto serio e senza cedimenti: da una parte dobbiamo recuperare identità e dignità
di cristiani d’Europa; dall’altra si deve esigere da certi capi islamici
rispetto o un approccio pacato verso i cristiani.

Il dialogo dovrebbe far emergere nel mondo islamico l’accettazione dell’idea che
esiste la libertà della coscienza individuale, tale da non essere messa in forse né
dallo stato né da qualsiasi altra autorità. Non si aderisce all’Europa per i soli
benefici materiali, senza accettae contemporaneamente i valori.

"Non sarà un percorso facile – confessa don Elvio Damoli, direttore di Italia
Caritas -. Tuttavia, le barriere sono inutili. Serve il dialogo, anche se con i
paletti".

 

Scheda storica

2000 a.C.: nascita dell’impero ittita.

1500 a.C.: introduzione della scrittura.

1200-900.a.C.: tramonto dell’impero ittita e formazioni di regni anatolici.

850 a.C.: espansione delle colonie greche lungo le coste asiatiche.

700-500 a.C.: regni di Frigia (capitale Gordio) e di Lidia (capitale Sardi).

553 a.C.: inizia la dominazione persiana, in conflitto con i greci.

334-327 a.C.: Alessandro Magno sconfigge i persiani; inizia l’ellenismo.

240-133 a.C.: regno di Pergamo.

130 a.C.: inizia il dominio romano.

301: evangelizzazione dell’Armenia, primo stato cristiano.

325: 1° concilio ecumenico a Nicea contro l’arianesimo.

330: Costantinopoli capitale dell’impero romano.

379-95: regno di Teodosio I.

395: divisione dell’impero romano d’oriente e d’occidente.

431: concilio di Efeso contro Nestorio.

451: concilio di Calcedonia.

527-65: regno di Giustiniano, riformatore del diritto; costruzione di Santa Sofia.

600-900: scorrerie arabe in Cappadocia.

1054: scisma d’oriente.

1071-1300: regno dei turchi selgiuchidi.

1203-04: Costantinopoli presa e saccheggiata dai crociati.

1354: i turchi ottomani sbarcano in Europa e conquistano la Tracia.

1389: il sultano Murat I sconfigge i serbi nella battaglia del Kosovo.

1402: i mongoli invadono l’Anatolia.

1413: inizia il regno di Mehmet I; riprende l’espansione ottomana.

1453: presa Costantinopoli/Istanbul, nuova capitale dell’impero ottomano.

1520-66: regno di Solimano il magnifico.

1526: i turchi conquistano l’Ungheria.

1529: i turchi assediano Vienna.

1571: turchi vinti a Lepanto dai cristiani.

1683: i turchi assediano Vienna e sono sconfitti da Jean Sobieski.

1774: 1a guerra turco-russa e protettorato degli zar sui greci; nasce la
"questione orientale".

1877-78: 2a guerra turco-russa; Serbia, Romania, Bulgaria indipendenti.

1912-18: l’impero ottomano è ridotto ai confini attuali, sanzionati dal trattato
di Sèvres (1920).

1915-16: genocidio armeno.

1920-23: rivoluzione di M. Kemal (Ataturk) e fondazione della repubblica.

1938: morte di Ataturk.

1952: la Turchia entra nella Nato.

1960, ’71,’80: colpi di stato militari.

1974: la Turchia occupa Cipro nord.

1980-83: guerra al Kurdistan.

1994-95: il partito islamico Refah ottiene l’amministrazione di Istanbul, Ankara,
Smie e maggioranza in parlamento.

1999: la Turchia "candidata" ad entrare nell’Unione Europea.

 

Articolo 2

Dervisci: il volto mite e dialogico dell’Islam

Danzando con Allah

C i si toglie le scarpe per entrare nel mausoleo di Konya, sotto la cui cupola conica,
rivestita di maioliche turchesi, riposano Mevlana e molti suoi discepoli. Anche se da 76
anni è un museo di arte islamica, i turchi continuano a considerarlo "luogo
sacro", secondo solo alla Mecca. Domandarsi chi è Mevlana è come chiedersi chi è
Dante o Francesco d’Assisi, suoi contemporanei. È un grandissimo poeta e mistico,
uomo del suo tempo e di tutti i tempi. Espressione del volto più aperto e tollerante
dell’islam e fondatore della confrateita islamica dei mevlevi, meglio conosciuti
come "dervisci rotanti o danzanti", vestiti di tunica bianca, mantello nero e
alto cappello cilindrico di feltro.

S i chiamava Gialal ad-Din Rumi, detto poi Mevlana (maestro nostro). Nato nel 1207 a
Balkh, città persiana ora in Afghanistan, da piccolo vagò in esilio con il padre, dal
quale ricevette un’accurata educazione, completata poi con lo studio delle scienze
esoteriche. Salvo brevi soggiorni a Damasco e Aleppo, egli visse sempre a Konya, dove si
sposò, ebbe figli e insegnò nella scuola della capitale selgiuchide.

A cambiargli la vita, nel 1244, fu l’arrivo di Shams (Sole) di Tabriz, giovane
predicatore vagante, che lo avviò sulla via del sufismo. Il maturo docente si mise alla
scuola del giovane maestro, immergendosi nell’ascetismo e meditazione. Tra i due
nacque un’attrazione mistica che suscitò la gelosia di familiari e discepoli e fece
spettegolare tutta la città.

Quando Shams decise di tornare in Persia, Mevlana lo accompagnò fino a Tabriz e toò
a Konya. Strada facendo, continuava le sue mistiche riflessioni, quando, divorato da un
fuoco interiore, cominciò a roteare su se stesso in una specie di rapimento estatico.
L’episodio è all’origine delle danze religiose della confrateita islamica da
lui fondata.

M evlana passò il resto della vita dedicandosi ad ascesi, insegnamento mistico e
lavoro letterario. Scritte o dettate in persiano, le sue opere furono più tardi tradotte
in turco per l’istruzione dei discepoli. Tra di esse figurano il Divan-i-Kibir,
sterminato e appassionato canzoniere composto sotto il nome del maestro Shams, e il
Màthnawi-i-mànawi (Poema spirituale), trattato colossale di mistica in sei volumi. Opera
affascinante e impareggiabile, il Màthnawi svolge le dottrine del sufismo con aneddoti,
favole, leggende, allegorie, digressioni dottrinali, miste a voli lirici di estatico
rapimento.

Se non fosse per il grandioso panteismo di cui sono impregnate le sue liriche, queste
sembrerebbero uscite dal cuore di mistici cristiani, come Giovanni della croce. Simili,
infatti, sono lo slancio e l’ardore del sentimento religioso con cui viene cantato
l’amore tra l’Amato (Dio) e l’amante (credente). Un Amato più intimo e
vicino di quanto possiamo esserlo a noi stessi.

Così ammoniva i suoi correligionari che andavano alla Mecca e facevano i dieci giri
attorno alla kaaba:

"O gente che partite in pellegrinaggio, dove mai siete?

L’Amato è qui, tornate, tornate!

L’Amato è un tuo vicino; vivete muro a muro.

Che idea vi è venuta di vagare nel deserto d’Arabia,

per vedere la forma senza forma dell’Amato?

Il Padrone è in casa e la kaaba siete voi.

Dieci volte siete già andati per quella via, per quella casa:

provate una volta da questa casa a salire sul tetto.

Bella è la casa di Dio; ne avete narrato i segni.

Provate ora a darci un segno del Padrone di quella casa".

L a scuola di Mevlana esercitò un influsso sociale, politico e culturale di primaria
importanza nell’impero ottomano ed ebbe un grande sviluppo: il suo monastero,
denominato "la soglia della presenza", fu la casa madre di numerosi conventi
fondati in Anatolia, Egitto, Siria e Balcani, cattedre dalle quali, per sette secoli, fu
propagato il suo messaggio d’amore.

La suprema autorità dell’ordine, detto "çelebi efendi", aveva il
privilegio di cingere la spada a ogni nuovo sultano. La cerimonia si teneva a Istanbul e,
per il suo significato, richiama da vicino l’investitura con cui nel medioevo i
vescovi di Magonza riconoscevano gli imperatori di Germania.

Nel 1925 Atatuk sciolse tutte le confrateite islamiche e mise i dervisci fuori legge,
perché troppo legati al decrepito regime ottomano e fautori di un irrazionalismo
inconciliabile con la coscienza laica della nuova Turchia. Essi, però, riuscirono a
sopravvivere come associazione culturale, ufficialmente riconosciuta nel 1957, destinata a
conservare una tradizione storica.

A metà dicembre di ogni anno, per l’anniversario della morte del maestro, i
dervisci eseguono le loro danze nel mausoleo di Konya; ma si esibiscono pure in altre
città della Turchia e nel mondo intero. Per il governo turco e per i curiosi le loro
danze sono espressioni folcloristiche, per i dervisci continuano a essere preghiera.

L’islam ufficiale disapprova tali danze, perché non trovano alcuna
giustificazione nel Corano; anzi, ritiene il sufismo un’eresia, perché antepone
l’amore all’obbedienza. Mevlana, invece, insegna che attraverso musica e danza
l’uomo entra nell’armonia cosmica e delle sfere celesti, fino a scoprire le avventure
affascinanti dello spirito e dell’amore di Dio.

È tradizione che Mevlana compose le sue più belle liriche spirituali nel rapimento
dell’estasi, mentre girava vorticosamente attorno a una colonna.

Vestiti e danza, compresi i singoli gesti e movimenti, hanno significati religiosi. La
cerimonia dei dervisci, detta "giro planetario", imiterebbe il roteare degli
astri attorno al sole. Per altri ripeterebbe la danza degli angeli attorno alla kaaba.

Cappello e mantello nero sono simboli della pietra tombale e la veste bianca del
lenzuolo mortuario del proprio ego. Quando i dervisci si tolgono i mantelli, rinascono
alla verità spirituale.

Comincia la danza: il derviscio incrocia le braccia all’altezza delle spalle per
riprodurre la prima lettera di Allah in caratteri arabi; poi le estende: la destra, aperta
verso il cielo, riceve i doni divini; la sinistra, girata verso terra, li dispensa al
popolo. Girando da destra a sinistra, egli stringe la creazione e tutte le nazioni del
mondo nell’amore.

La prima fase della danza è un elogio al profeta, nel quale sono elogiati tutti i
profeti e Dio loro creatore; nella seconda si sente il colpo del tamburo, simbolo del
comando di Dio; la terza segue un preludio del flauto, ovvero il soffio di Dio che ha dato
vita a tutte le creature. La quarta fase è costituita da tre marce circolari,
accompagnate da una musica ritmica, che simboleggia altrettanti saluti delle anime
nascoste nei corpi.

Il primo saluto, che esprime la nascita dell’uomo alla verità tramite il ragionamento,
segna la presa di coscienza dello stato di creatura e dell’esistenza di Dio creatore. Nel
secondo saluto c’è la rivelazione delle meraviglie della creazione: osservando il
mondo e se stesso, l’essere umano diventa testimone dello splendore e perfezione
dell’opera divina, si meraviglia davanti all’infinita potenza di Dio.

Il terzo saluto è il rapimento, il più alto grado dell’estasi mistica: l’uomo si
abbandona all’amore di Dio.

Quindi la musica si arresta; terminato il viaggio mistico e ascensione spirituale, il
derviscio ritorna ai suoi doveri terreni, come servitore di Dio e dispensatore di amore
verso tutte le creature e tutta la creazione.

Q uello di Mevlana è un islam dal volto mite e dialogico, ben lontano
dall’integralismo dei paesi arabi e arabizzati. Egli fu amico di saggi ebrei, preti e
vescovi bizantini. Si dice che abbia fatto 40 giorni di ritiro nel monastero di un monaco
suo amico. È certo che il suo insegnamento supera gli angusti orizzonti confessionali.
Predicava l’unità di tutte le confessioni religiose. Diceva: "Un giorno cadranno
tutti i minareti dalle moschee e le campane dalle chiese: allora ci sarà perfetta
unità".

Per questo si attirò molte simpatie. Alla sua morte nel 1273, partecipò gente di ogni
ceto, razza e fede, compresi ebrei e cristiani, che vedevano in lui una figura tanto
vicina a quelle di Gesù e Mosè.

I dervisci, da parte loro, hanno continuato a simpatizzare e dialogare sul terreno
filosofico con i cristiani: si opposero al massacro degli armeni in Turchia. Continuano a
predicare la pace universale, l’amore come fulcro di tutto, l’unione con Dio
come scopo della vita, l’accoglienza senza pregiudizio.

Sono eloquenti, al proposito, i versi del Màthnawi, che i dervisci hanno voluto
riportare su una parete del mausoleo di Konya:

"Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni.

Non importa se sei un infedele,

un idolatra o adoratore del fuoco.

Vieni, anche se hai infranto il giuramento cento volte,

vieni lo stesso.

La nostra non è la porta della disperazione e del tormento.

Vieni".

 

Articolo3

Sulle tracce di san Paolo e delle prime chiese cristiane

TERRA DI RELIQUIE

Una dozzina di missionari, pellegrini nella "seconda terra santa", culla
della missione ad gentes, rileggono le parole di Paolo dove furono pronunciate, ne
rivivono successi e persecuzioni, celebrano l’eucaristia dove Pietro e Paolo
radunavano le prime comunità cristiane per lo stesso rito… Sono emozioni
indimenticabili. Ma con tanto amaro in bocca: oggi la presenza cristiana è ridotta al
lumicino, frammentata in una miriade di minuscole chiese. Unica strada di sopravvivenza:
dialogo e testimonianza della carità.

Istanbul, prima tappa obbligata del pellegrinaggio, sembra una foresta di minareti
tutti uguali. "Ci sono oltre 3 mila moschee, 17 sinagoghe e 240 chiese cristiane, in
buona parte chiuse per mancanza di fedeli" spiega Alba, la guida turca, appena siamo
seduti nel pullman.

Un senso d’impotenza afferra il cuore dei missionari davanti a Santa Sofia, la
basilica fatta costruire da Giustiniano come "la più sontuosa dall’epoca della
creazione": inaugurata nel 537, trasformata in moschea dopo la conquista ottomana
(1453) con l’aggiunta di quattro minareti, ridotta a museo nel 1953, essa simbolizza
la parabola storica del cristianesimo in tutta la Turchia: florido, represso, ignorato.

E FU SUBITO CESAROPAPISMO

Nessun apostolo vi mise mai piede, anche se la leggenda fa risalire ad Andrea la
nascita della chiesa a Bisanzio e, appena questa diventò Costantinopoli, vi furono
traslate le sue reliquie, insieme a quelle di molti altri santi. Era la mania
politico-religiosa di quei tempi: l’origine apostolica e le reliquie dei martiri
servivano a dare alla nuova capitale prestigio e autorità nei confronti con Roma.

Più tardi anche i sultani, in competizione con la Mecca, vi porteranno i peli della
barba di Maometto, conservati nella sala del tesoro del Topkapi con le reliquie del
Battista.

Leggende a parte, la chiesa di Costantinopoli mostrò subito spirito missionario,
mandando evangelizzatori oltre le frontiere dell’impero. Il vescovo Wùlfila, per 40
anni (341-383), trasmise il cristianesimo nella versione ariana ai goti e visigoti a nord
del Danubio, elaborò un alfabeto e tradusse la bibbia nella loro lingua. Più tardi
l’imperatore inviò altri missionari a evangelizzare i popoli russi e slavi, tra i
quali i due fratelli di Tessalonica, Cirillo (826-869) e Metodio (815-885).

Può sembrare strano che fossero gli imperatori a inviare i missionari. Con Costantino,
infatti, nacque il cesaropapismo: i sovrani controllavano l’attività della chiesa,
compresa quella spirituale; a partire dal 754 essi cominciarono a fregiarsi del titolo di
isapostoloi (uguali agli apostoli).

In un clima del genere, Costantinopoli diventò il brodo di cottura in cui si
svilupparono varie eresie (arianesimo, monofisismo, nestorianesimo, origenismo,
macedonismo, monotelismo, monoergismo, iconoclastia) con gravi ripercussioni sulla vita
della capitale, dell’impero e della chiesa universale. Gli stessi sovrani
parteggiavano ora per l’una ora per l’altra eresia. Grandi vescovi, del calibro
di Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, lottarono per restituire alla chiesa la
legittima autorità, ma pagarono il loro coraggio con esilio e persecuzioni.

Per riportare la pace nella chiesa e nella società civile, gli imperatori convocarono
vari concili ecumenici: quattro furono tenuti a Costantinopoli e tre nelle immediate
vicinanze (Nicea e Calcedonia). Se non altro, eresie, concili e dispute teologiche
contribuirono a fissare la formulazione della fede della chiesa universale. Ne è un
esempio il credo niceno-costantinopolitano, in cui si riconoscono tutte le chiese
cristiane.

Purtroppo non tutte le comunità accettarono le decisioni dei concili, più per
fraintendimento di parole che per divergenze teologiche. Intrighi e intrallazzi politici
fecero il resto: la chiesa si frantumò gradualmente in una miriade di comunità
scismatiche, fino alla rottura definitiva dello scisma d’oriente (1054).

UNA CHIESA FRAMMENTATA

"A Istanbul – spiega Alba, rispondendo alle domande dei missionari -sono presenti
tutte le chiese cristiane: ortodossi greci, armeni, siriani, bulgari, siro-caldei;
cattolici di rito latino, siriano, caldeo, bizantino, armeno; anglicani, luterani,
evangelici… per nominare i più importanti".

Importanza relativa, se si fanno i conti: su 70 milioni di turchi, il 99% si dichiara
musulmano; i cristiani tutti insieme arrivano a 100 mila; sottrai quasi 60 mila armeni e
circa 30 mila cattolici, delle altre chiese rimangono reliquie.

"In teoria la Turchia è uno stato laico; in realtà manca la libertà religiosa –
risponde Alba alla nostra tempesta di quesiti -. Qui laicità non significa separazione
tra stato e chiesa, ma che il governo amministra, sorveglia e controlla l’islam. Gli
80 mila iman, per esempio, sono in pratica funzionari statali; i programmi
d’insegnamento sono fissati dal governo; sulla carta d’identità è scritta la
religione di appartenenza: musulmano, ebreo, cristiano. Se un musulmano passa al
cristianesimo, incappa in seri guai burocratici e giudiziari".

A schiacciare le minoranze religiose si aggiunge la discriminazione: cariche pubbliche
civili e militari sono tutte in mano ai musulmani; negli ultimi 10 anni, in Turchia sono
state costruite 10 mila nuove moschee; a Istanbul sono state aperte 400 scuole coraniche.
Zero nelle altre chiese.

Quella cattolica romana, poi, si trova in stato d’inferiorità assoluta: non è
riconosciuta come istituzione religiosa, anche se la Turchia ha un suo ambasciatore in
Vaticano. Di conseguenza le proprietà della chiesa sono intestate a singole persone;
difficoltà per i missionari (anche se vescovi) di ottenere o rinnovare i permessi di
residenza nel paese; possibilità di essere cacciati in qualsiasi momento e senza
spiegazioni.

"Che apostolato potete fare" domandano quasi in coro i missionari ai padri
domenicani della chiesa dei ss. Pietro e Paolo. "Dialogo e testimonianza della
carità – risponde padre Lorenzo, torinese, da 17 anni in Turchia e professore di latino
all’Università islamica -. Da tre anni abbiamo istituito un centro di documentazione
per il dialogo islamo-cristiano che raccoglie informazioni sul cristianesimo: ce
l’hanno chiesto i nostri amici musulmani e lo frequentano abbastanza. Inoltre, come
insegnante di latino, ho tante occasioni per stimolare negli studenti il confronto tra la
cultura cristiana e quella islamica e per rispondere alle loro domande".

PAOLO VIVE…

Ad Antiochia (oggi Antakya), nell’estremo sud della Turchia, i missionari
pellegrini respirano a pieni polmoni l’atmosfera della missione delle origini. La
celebrazione della messa alla Grotta di san Pietro è densa di emozioni: qui, appena un
anno o due dopo la morte di Cristo, fu predicato il vangelo dai discepoli scappati dalle
persecuzioni di Gerusalemme; qui Baaba, Paolo, Luca, Pietro (primo vescovo di
Antiochia), il successore e martire Ignazio radunavano la comunità cristiana per
l’eucaristia. Qui Baaba e Paolo "in un anno istruirono tanta gente" che
"per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani": un capolavoro di
"visibilità", se in pochi mesi riuscirono a distinguersi tra mezzo milione di
abitanti.

Da Antiochia fu provocato il concilio di Gerusalemme per risolvere il primo problema di
"inculturazione" della storia missionaria: "I fedeli provenienti dal
paganesimo devono farsi prima giudei (circoncisi) e poi cristiani?". La risposta fu
una liberazione. Nella pratica però, Pietro continuava a snobbare i pagani e, proprio ad
Antiochia, si scontrò con Paolo: una dialettica sempre attuale, risolta nella carità.
Qui, infine, nacque "l’aiuto tra le chiese sorelle", con la prima colletta per
soccorrere la comunità di Gerusalemme, colpita dalla carestia.

Durante la messa risuonano le parole dello Spirito: "Mettetemi da parte Baaba e
Saulo per l’opera a cui li ho destinati"; i missionari si sentono ancora una
volta chiamati per nome e, come Baaba, Paolo, Marco, inviati dalla comunità a portare
il vangelo ai confini della terra.

ECUMENISMO OBBLIGATORIO

A richiamare tutti con i piedi per terra ci pensa il cappuccino italiano padre
Domenico: "Nei primi secoli Antiochia aveva cinque vescovi di altrettante chiese
separate; oggi è ufficialmente titolare di cinque patriarcati; ma i patriarchi risiedono
a Istanbul, Aleppo o Damasco. Siamo rimasti solo due preti, quello ortodosso e il
sottoscritto".

La comunità è formata da una sessantina di cattolici armeni, siriani, maroniti; ma è
frequentata anche da ortodossi. "Dialogo ecumenico e interreligioso sono le uniche
forme di apostolato in Turchia – continua il padre -. Non è possibile alcun annuncio
diretto. Evangelizzare è dire ciò che siamo, spiegare la nostra fede. Con gli ortodossi
i rapporti sono buoni e costruttivi: da alcuni anni abbiamo aperto l’ufficio della caritas
per aiutare i poveri della città; facciamo assieme la campagna di quaresima e celebriamo
la pasqua nella stessa data; la domenica facciamo il culto in orari differenti per evitare
competizioni; spesso celebriamo insieme funerali e matrimoni".

Padre Domenico ha pure organizzato corsi di catechesi per i giovani, frequentati da
50-60 persone quasi tutte ortodosse. "Hanno capito che il nostro scopo non è il
proselitismo, ma aiutare i cristiani ad essere più cristiani – continua il padre -. È un
nuovo modo di essere chiesa. In situazione di minoranza l’ecumenismo è
d’obbligo".

Anche con i musulmani i rapporti sono buoni: molti vengono a informarsi sulla fede
cristiana. Nella chiesetta parrocchiale il padre ha posto alcune icone e se ne serve per
spiegare e rispondere alle domande sul nostro credo. In fondo alla cappella ha messo a
disposizione copie del vangelo e video-cassette: vanno a ruba.

I NUMERI NON CONTANO

Dialogo ecumenico e interreligioso anche ad Alessandretta (Iskenderun). Il movimento
neocatecumenale è composto quasi totalmente da ortodossi; anche qui molti musulmani sono
attratti dal cristianesimo, racconta padre Roberto, cappuccino italiano da 50 anni in
Turchia.

Nella testa dei missionari pellegrini affiorano come un chiodo fisso le solite domande:
la comunità cresce? quante conversioni?

"La chiesa cattolica in Turchia è divisa in tre vicariati – risponde il padre,
girando alla larga -: Istanbul per la parte europea, Smie e Alessandretta per
l’Anatolia. Qui non contiamo mai i fedeli; non è il numero che fa la chiesa. Cerchiamo,
soprattutto, di fare coraggio ai cristiani; altrimenti emigrano, perché non vogliono che
i loro figli soffrano ciò che essi hanno patito. Ad ogni modo, abbiamo vari giovani nel
catecumenato, ma andiamo molto adagio a battezzare. Chi si fa cristiano ha vita
dura".

Alessandretta conta circa 200 cattolici; poco più di un migliaio l’intero
vicariato. "Poi ci sono i cristiani nascosti, battezzati da bambini – continua il
padre -; ma hanno paura di manifestarsi, non tanto dello stato, ma dei parenti, società e
altre chiese".

Intanto l’afflusso di pellegrini che visitano i "luoghi santi" nel paese
serve a risvegliare i cristiani turchi, che non si sentano più soli e stanno riscoprendo
le radici della loro fede.

"MAMMA, LI CROCIATI!"

Lo sperano anche Emmanuela e Maria, due "Figlie della chiesa", che da sei
anni testimoniano la carità e accolgono i pellegrini a Tarso. "Non conosciamo ancora
alcun cristiano – dice Maria -. Forse ci sono. La vista di tanti cristiani potrebbe dare
loro coraggio per venire allo scoperto: allora si potrebbe raccogliere le firme per
chiedere il permesso di celebrare regolarmente i servizi religiosi in questa chiesa e
magari riscattarla".

Infatti, la chiesa dove celebriamo l’eucaristia, costruita dai crociati, è stata
requisita e dichiarata museo: per ogni azione di culto bisogna chiedere il permesso e le
chiavi al direttore. I tentativi fatti dal vescovo per comprarla sono andati a vuoto.
"La nostra presenza rinfocola paure secolari – spiega la suora -. Noi diciamo
"mamma li turchi"; essi rispondono "mamma li crociati"".

I missionari si tuffano nella memoria di san Paolo: visitano il pozzo che porta il suo
nome; baciano le pietre della strada romana da lui calcate… ma con un groppo in gola:
nella città dove l’apostolo nacque e predicò il vangelo almeno in due occasioni dei
suoi viaggi missionari, non è sopravvissuta neppure la reliquia di un mattone che possa
dirsi cristiana.

Anche a Iconio (Konya) i pellegrini devono accontentarsi della memoria, rinfrescata
dalla lettura degli Atti degli Apostoli: qui Paolo e Baaba predicarono a lungo nel loro
primo viaggio missionario (47 d.C.); fecero molti discepoli tra giudei e greci, suscitando
la rabbia degli "integralisti" ebrei, che decisero di lapidarli.

I due apostoli fecero in tempo a scappare; ma i più facinorosi li inseguirono per una
trentina di chilometri, fino a Listra: trascinarono Paolo fuori della città e lo
tramortirono a sassate. Ma alla fine del viaggio, tutti e due tornarono a Iconio per
rincuorare e organizzare la comunità, dicendo loro che "bisogna attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio".

Sono parole che i missionari sanno a menadito; ma rileggerle nel luogo dove Paolo le
visse sulla propria pelle fa un certo effetto, anche in quelli un po’ fissati con i
numeri di battesimi e successi a buon mercato.

A ricordare le tracce di san Paolo rimane una chiesa, costruita agli inizi del 1800,
dove si può pregare a volontà, senza bisogno di permessi. Nell’abside spiccano le
immagini di Paolo, Timoteo, suo grande collaboratore, e santa Tecla, nativa di Iconio,
discepola paolina e grande missionaria. Ma la comunità attuale è ridotta a cinque o sei
cristiani, tra cui due suore trentine, Isabella e Serena.

Dopo 2000 anni Iconio non si smentisce: è la città più conservatrice e integralista
della Turchia: s’incontrano donne velate da capo a piedi; la maggioranza dei
ristoranti non servono alcolici. In casa le suore indossano una croce; quando escono la
tolgono. Non per paura di essere lapidate. "La gente è gentile – spiega Isabella -.
Ma la legge vieta abiti e simboli religiosi e ideologici. La nostra è una presenza
discreta, fatta di accoglienza e contemplazione".

ESSERCI O NON ESSERCI?

A 230 km incontriamo un’altra presenza discreta: Heirich e David, laici trentini
della "Comunità di san Valentino", che da sei anni vivono a Uçhisar, nel cuore
della Cappadocia, dediti alla preghiera, ascolto della parola di Dio e della gente.
Insieme alle suore di Iconio, sono stati inviati qui dal vescovo di Trento, come gesto di
riconoscenza per il dono della fede, seminata in Val di Non da tre missionari cappadoci:
Sisinio, Martirio e Alessandro, martirizzati nel 397.

In questa regione turca il vangelo arrivò molto presto: il giorno di pentecoste a
Gerusalemme c’erano "abitanti della Cappadocia". Forse tra i primi
missionari arrivarono anche Pietro, partendo da Antiochia, e Paolo, in viaggio verso la
Galazia.

È certo che la fede vi si radicò in profondità, fecondata dal sangue di numerosi
martiri e illuminata da vescovi dotti e dinamici, come i padri cappadoci: Basilio di
Cesarea, suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Al Concilio di Nicea (325)
la Cappadocia era presente con 7 vescovi (di città) e 5 corepiscopi (di campagna).
All’inizio del IV secolo i missionari cappadoci erano arrivati ai confini
dell’impero e oltre: il vescovo Gregorio Illuminatore, per esempio, evangelizzò
l’Armenia.

Al tempo stesso ci fu una straordinaria fioritura di anacoreti, dediti alle forme più
fantasiose dell’ascesi cristiana: stiliti, reclusi, incatenati, solitari, senza
tetto, muti… San Basilio li mise in riga. "La vita solitaria è oziosa e senza
frutto, contraria al vangelo e alla natura sociale dell’uomo – diceva -. Solo la vita
comunitaria obbedisce al comandamento dell’amore verso Dio e verso gli altri". E
dettò le regole del monachesimo cristiano: piccole comunità di preghiera, servizio ai
poveri, malati, viandanti, avviamento al lavoro, missione e cura spirituale delle anime.

I pellegrini incassano la lezione: il missionario è un "contemplativo in
azione".

Ad attestare l’enorme sviluppo dell’eremitismo e monachesimo nelle valli
lunari della Cappadocia restano innumerevoli monasteri scavati nel tufo: attorno a Goreme
si contano 2 mila chiese rupestri. La resistenza dei cristiani alle invasioni arabe è
testimoniata dalle immense città-rifugi scavate sotto terra. Ma poi, sotto il rullo
compressore dei turchi selgiuchidi e ottomani non si salvarono neppure gli angeli, madonne
e santi, che decorano le chiese: in obbedienza al corano, che vieta ogni raffigurazione
umana, le loro facce furono prese a sassate.

"Siamo qui non per fare, ma per essere, anzi per "esserci" – spiega
fratel Davide -. Il ritmo di vita (5 ore di preghiera al giorno, lavoro di casa e
disponibilità) è un filo ideale che ci riallaccia ai monaci dei primi secoli; essendo
gli unici cristiani in Cappadocia, rendiamo presente Gesù col nostro esserci, aspettando
che il Signore realizzi i suoi piani".

Guardo le facce dei miei confratelli: gli occhi sbarrati per l’ammirazione; le
labbra torcono come se succhiassero un chiodo.

MERYEM ANA, PENSACI TU!

Il nostro pellegrinaggio si conclude a Efeso e sono emozioni a non finire. Prima di
tutto le rovine della grandiosa basilica fatta costruire dall’imperatore Giustiniano
(540) sulla tomba dell’evangelista Giovanni. In ginocchio sulla predella
dell’altare, mi pare di sognare: a pochi centimetri ci sono le reliquie del discepolo
prediletto. Vorrei dirgli tante cose, ma non mi riesce di formulare neppure una parola. E
resto in silenzio.

Passiamo alle splendide rovine della città greco-romana. Centinaia di europei,
americani e giapponesi si aggirano per le strade, come se Efeso fosse per incanto tornata
la città cosmopolita di 2 mila anni fa. E sembra di rivedere Paolo, che percorre le
stesse vie per recarsi alla sinagoga e, tre mesi dopo, quando i giudei gli rendono
difficile la vita, si sposta nella scuola di Tiranno: qui, dalle 11 alle 16, ogni giorno e
per tre anni, discute con una folla di artigiani che sacrificano la siesta per ascoltare
la buona notizia.

La fantasia non ha freni quando ci sediamo sui gradini del teatro: il battagliero Paolo
affronta l’ira di commercianti e argentieri che lo vogliono linciare: lo accusano di
mandare in malora i loro affari, poiché la gente non compra più statue e ricordini della
dea Artemide.

Nella cosiddetta basilica del concilio, prima chiesa al mondo dedicata alla Madonna, al
ricordo di Paolo si sovrappone quello di 200 vescovi, radunati (431) per controbattere le
teorie di Nestorio, patriarca di Costantinopoli: costui afferma che bisogna chiamare Maria
"Madre di Cristo" e non "Madre di Dio". Non è una quisquiglia: è in
gioco il mistero dell’incarnazione. Ma basta una sessione e i vescovi, con a capo
Cirillo di Alessandria, riaffermano unanimi che la Madonna è realmente la Theotokos
(Madre di Dio) e solennizzano l’evento con una fiaccolata in suo onore per le vie
della città.

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Benedetto Bellesi




Globalizzazione: l’opinione di Riccardo Petrella

Nel conflitto dell’«oro blu»

Intervista rilasciata nell’ambito
della "Scuola per l’alternativa" (fondata a Torino dai missionari della
Consolata, Cisv e Vis). Temi affrontati: ideologia della competitività, "oro
blu", inevitabilità della globalizzazione, mercificazione delle culture.

L’interlocutore è un "europeo": presidente del "Fast",
fondatore del "Gruppo di Lisbona",docente e autore di testi di economia
politica.

 

 Professor Petrella, cos’è il Fast, di cui lei è stato presidente?

"Fast" (Forecasting and Assesment in Science and Technology) è stato un
programma della Commissione europea di previsione e valutazione delle conseguenze
economico-sociali della scienza e tecnologia: circa il lavoro, l’energia solare, la
clonazione delle cellule. Individuati e giudicati i fenomeni, occorreva operare per
scongiurare gli aspetti negativi.

  Oggi lei è presidente del "Gruppo di Lisbona", dopo
essee stato fondatore. Con quale scopo?

Nel 1991 ho fondato il "Gruppo" invitando una ventina di studiosi, impegnati
nella scienza e nella politica, a scrivere un manifesto contro l’ideologia della
competitività: questo perché, lavorando nel "Fast", avevo notato che in
occidente la scienza serviva in grande scala le imprese nazionali e private sui mercati
mondiali. È una perversione che in Italia, per esempio, lo scopo principale dello
sviluppo tecnico, scientifico e politico sia quello di consentire alle imprese di essere
competitive.

  Questo discorso, nel "Fast" e nel "Gruppo di
Lisbona", è rivolto agli imprenditori, ai politici o anche alla gente comune?

Il "Fast" aveva come scopo di elaborare una politica della scienza-tecnologia
per i leaders dell’Europa; invece il "Gruppo di Lisbona" è
un’iniziativa per parlare alla gente. Al posto dell’ideologia della
competitività, abbiamo proposto che la scienza e tecnologia creino una maggiore ricchezza
mondiale, con beni comuni, per permettere a tutti il diritto alla vita.

  Vi siete pure dati un appuntamento per il 2020. State conseguendo
qualche risultato?

Abbiamo detto: diamoci 20-25 anni di coscientizzazione, affinché la scienza e
tecnologia consentano a tutti il diritto all’acqua, all’alimentazione, alla
salute. Ma i capi dell’Unione Europea, a partire dalla Commissione presieduta da
Prodi, riaffermano la subordinazione della scienza alla competitività delle imprese. Nel
marzo del 2000, al Vertice di Lisbona, i 15 governi dell’Unione hanno sottoscritto il
documento "E Europe" (Europa elettronica): hanno accolto la tesi che saremmo
diventati e economia, e politica, e sanità, e istruzione. Tutto è elettronico, al
servizio della competitività esasperata.

  Di conseguenza lei punta ad una istruzione diversa e mette tutti in
guardia da alcune "trappole". Oggi non vale più l’"io so… quindi
posso"?

Vale, eccome! Altrimenti, che ci farei all’università?

  Ma ci sono delle trappole. Quali?

La prima trappola è l’istruzione al servizio delle risorse umane, e non della
persona. Si dice: a scuola ci vai per diventare una risorsa redditizia e sfruttabile sul
mercato, non per crescere come cittadino critico.

Seconda trappola: la formazione necessaria è quella che permette di aumentare la
competitività del paese. Quindi c’è una separazione crescente tra conoscenze
"utili" e "non utili". L’"utile" riguarda la finanza,
il marketing, l’informatica. Oggi se, nel consiglio di amministrazione
dell’università, proponi una cattedra di letteratura bizantina, ti deridono perché
"a che serve"? Ma, se sostieni una cattedra per insegnare le tecniche di
riconoscimento della voce… del frigorifero (che, al tuo "apriti!", risponde
"sì, amore!"), allora tutti ti applaudono.

Piano piano (terza trappola) trasformiamo l’educazione da servizio pubblico e
collettivo ad una attività mercantile, subordinandola alla logica dei prezzi. La scuola
non è più un bene per tutti, ma soltanto di chi paga: è merce. Grazie ad internet, a
distanza non si vende solo il profumo personalizzato, ma anche il programma educativo. È
nata l’università virtuale, con studenti che pensano di autoeducarsi on line. Una
delle trappole più negative!

Ma ce n’è un’altra più pericolosa ancora: l’educazione come
legittimazione delle disuguaglianze sociali, dovuta alla disparità di conoscenze.

Si dice: poiché tutti hanno pari opportunità iniziali di studiare, se tu non ce la
fai, la colpa è solo tua.

  Il che è falso.

Spudoratamente falso, perché di fronte allo studio non c’è par condicio. A
prescindere dal sud del mondo, mi riferisco anche agli studenti del medesimo quartiere in
Europa. I miei figli sono andati a scuola, come quelli dell’emigrato marocchino (che
abita sulla stessa via a Bruxelles), ma con risultati diversi: e non perché i figli miei
siano più intelligenti. Le ragioni della disparità di rendimento sono altre. In Belgio
il 20% degli studenti frequenta l’università e (guarda caso!) il 92% di costoro
appartiene a famiglie ricche.

 

Professor Petrella, nel suo libro Il manifesto dell’acqua, lei affronta
un’altra disparità, legata al problema dell’"oro blu", cioè
l’acqua. Che dire dell’"oro blu" in Africa nella tragica guerra dei
"Grandi Laghi"?

Nella regione dei Grandi Laghi è evidente che una delle cause del conflitto è
l’accesso alle risorse idriche.

Ma esiste anche il problema mondiale dell’"oro blu", che è un discorso
di dominio. Perché l’acqua è "oro"? Perché è stata mercificata,
conferendole il valore di scarsità, rarità, preziosità… Il 70% dell’uso
dell’acqua è per fini agricoli, il 20% per scopi industriali e il 10% per impiego
domestico. E si dice: siccome l’acqua agricola e potabile è inquinata, bisogna
purificarla. Così diventa "oro" sempre più costoso.

  Ma l’acqua da chi è inquinata?

È questo il punto, perché se rimoviamo le cause dell’inquinamento delle acque,
non sarebbe più "oro".

Poi si dice: nei prossimi 20 anni la popolazione nel mondo crescerà di 2 miliardi, con
un ingente fabbisogno di acqua, mentre le risorse idriche resteranno stabili. E chi usa
l’acqua? L’occidente consuma l’88% delle risorse idriche mondiali per
l’agricoltura, il cibo, l’igiene, ma anche per l’industria: occorrono 400
mila litri di acqua per i 3 mila pezzi di un’auto. Siamo nel settore automobilistico,
che copre solo il 20% del mondo industriale. In media un europeo consuma acqua 80 volte di
più di un asiatico. Quindi 1 milione di italiani consuma acqua quanto 80 milioni di
indiani. Allora il problema non è la crescita demografica nel sud del mondo, ma la gente
nel nord; è la conservazione del sistema economico nel nord, assetato anche di acqua.

  Acqua minerale (imbottigliata) o del rubinetto?

Io parlavo dell’acqua del rubinetto. La minerale esige un’altra riflessione.
Oggi sembrerebbe che il 52% degli europei bevano solo acqua minerale (con l’Italia in
testa), che costa 500-1000 volte di più di quella potabile del rubinetto. In Italia
l’acqua che si beve maggiormente è San Pellegrino (della Nestlé) e Ferrarelle
(Danone). Dati i prezzi, gli affari sono elevati. Ma bisogna stigmatizzare anche il
comportamento dei consumatori. Inoltre va ricordato che l’acqua del rubinetto è più
sana di quella minerale. Questa, secondo la legge italiana, non è considerata potabile,
bensì terapeutica, che il marketing ha trasformato in bene di consumo. Nelle acque
minerali si possono trovare dosi di arsenico.

 

Questo è terrorismo psicosociale?… L’attuale sistema economico non
avrebbe alternative. È noto l’acrostico "Tina" (cioè "There is no
alternative"), di cui si fa scudo la globalizzazione. O l’alternativa c’è?

Non esiste l’inevitabilità nei sistemi economici. Se al presente privatizziamo
tutto, non significa che non ci siano progetti economici alternativi. L’Inghilterra
con la Thatcher ha privatizzato le ferrovie, però oggi discute se nazionalizzarle,
perché "i treni sono usciti dal binario"… Dal 1945 al 1973 vigeva un sistema
finanziario internazionale basato sul cambio fisso, con un tasso di crescita mediamente
più confortante rispetto al 1973-98, quando i cambi non sono più stati fissi e si è
imboccata la via della privatizzazione. Può darsi che si ritorni al sistema precedente…

Il MAI (1) era ritenuto inevitabile, ma fu bloccato. Nel software per ora vince
Microsoft, ma Linus potrebbe prendersi la rivincita, perché nulla è scontato. Anche
"il popolo di Seattle" (a prescindere dalle violenze di pochi scalmanati)
dimostra che la globalizzazione non è l’unico modo di impostare l’economia.

Il 27 aprile il papa, all’Accademia delle scienze in Vaticano, ha detto
che la globalizzazione a priori non è né positiva né negativa; dipende dall’uso
che se ne fa…

In una valutazione a priori Giovanni Paolo II ha ragione. Però, calandoci hic et nunc
nella realtà, non si può dire che "questa" globalizzazione sia neutra.

  Per questo il papa pone dei limiti: l’attenzione alla persona
e il rispetto di tutte le culture. Diversamente, la globalizzazione è colonialismo.

Però attenzione al tranello, perché la globalizzazione accetta le diversità di
cultura. Oggi le potenze scientifiche mediatiche ostentano di valorizzare, per esempio, la
religiosità plurimillenaria dell’Asia grazie ad internet. E lo fanno. Poi c’è
lo studio delle lingue…

  Ebbene, dov’è il tranello?

Il tranello è che ti offrono solo culture "mercificate". Si accettano altri
modi di vestire, mangiare e cantare, ma non di pensare. Non si accetta una politica
diversa da quella occidentale. Qui il papa ha ragione quando parla di colonialismo.

I dominatori della globalizzazione vogliono convincerci che "le guerre di
civiltà" sono inevitabili. È una tesi condivisa pure da indù e musulmani, fautori
delle "guerre di religione" per difendersi, specie se minoritari. Perché gli
indù ammazzano i musulmani in India e viceversa in Indonesia? Perché i cristiani (se
possono) vogliono conquistare il mondo con l’evangelizzazione? I dirigenti, invece di
promuovere sempre il rispetto dell’altro, ne criticano la mancanza solo quando loro
conviene. La difficoltà del missionario o dell’intellettuale è eloquente: pur
aperti, sono sempre parte di una cultura che li condiziona. L’arroganza del
"pensiero unico" è in agguato (2).

  Ha fatto sensazione nel 1991 il libro E se l’Africa rifiutasse
lo sviluppo? di Axelle Kabou (camerunense), con la tesi: mentre lo sviluppo si è
realizzato in occidente e in qualche paese dell’Asia, è fallito in Africa, perché
la cultura locale è parassitaria, pigra.

È abbastanza vero che la cultura africana è antropologicamente refrattaria allo
sviluppo del capitalismo mercantile. Ma questo potrebbe tramutarsi in una opportunità per
i popoli africani. Forse il XXI secolo sarà dell’Africa.

 

 Il fatto è che l’Africa, stretta dal Fondo monetario internazionale
o dall’Organizzazione mondiale del commercio, è in crisi e deve accodarsi al più
forte che le impone il "pensiero unico" (2).

Mi auguro che questo sia un fatto passeggero. Io sono prudentemente fiducioso sul
futuro dell’Africa.

Circa il "pensiero unico", ritenuto (come la globalizzazione) necessario per
tutti, noto qualche significativo "distinguo". Si veda il Giappone, il paese
asiatico più occidentalizzato, che ha conservato il culto degli antenati con gli altarini
in famiglia; ha il culto della vita, corpo e anima, che gli deriva dallo scintornismo… Pur
nel "pensiero unico", il pluralismo non è morto. Oggi si parla di
globalizzazione dal volto umano, con nuove regole, sconfessando quindi quella precedente.
Anche questo è pluralismo.

  Professore, se lei dovesse presentarsi ai lettori di Missioni
Consolata, cosa direbbe di se stesso?

Che sono "un operaio della parola", presente per indicare soluzioni
alternative alla mondializzazione dell’economia di mercato.

 

  

(1) Il MAI (Multilateral Agreement on Investment, accordo mondiale sugli investimenti)
prevedeva non solo libertà di investire, ma anche garanzia di protezione persino nel sud
del mondo; in caso di perdite, lo stato avrebbe dovuto risarcire gli investitori.
L’"accordo" (che aveva il benestare di Renato Ruggiero, allora direttore
dell’Organizzazione mondiale del commercio) venne bocciato nel 1998 (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 1999).

(2) Sul "pensiero unico", cfr. Ignacio Ramonet (e AA. VV.), Il pensiero unico
e i nuovi padroni del mondo, Strategia della lumaca, Roma 1996.

Francesco Beardi




India. Ai margini dei templi indù

Ci si immerge in folle numerose,
variopinte e tumultuose. L’India è un subcontinente

anche per gli abitanti, che superano il miliardo e parlano circa 300 lingue,
espresse

talora in alfabeti diversi: con una cultura di 4 mila anni e marcate differenze fra
nord e

sud… L’impegno di alcune missionarie, mentre i cristiani contano solo il
2,3%. Una

presenza di qualità, in barba ad ogni fanatismo.

 

Tutte le classi sociali

Siamo a Mumbai, come si chiama oggi Bombay. Qui esiste un legame con il nord
dell’India. Si parla anche l’hindi, che il governo di New Delhi si sforza di far
diventare lingua nazionale. I giornali in hindi sono abbastanza diffusi, a differenza del
sud. La città merita attenzione per il crogiolo di culture, come ogni grande porto. Si
contano 16 milioni di abitanti: appartengono a tutte le classi sociali, dall’enorme
ricchezza alla più desolante miseria.

È significativo il lungomare della Colaba. Percorrendo anche meno di un chilometro, si
attraversano ambienti molto diversi: un grande hotel di lusso, altri alberghi di
differenti livelli e povere abitazioni. Attoo agli alberghi stazionano tanti mendicanti
e piccoli venditori di gelati, bibite e arachidi abbrustolite in loco. Quest’ultima
attività è singolare, in quanto tutta la proprietà del venditore consiste in un vassoio
rettangolare di legno, con i bordi rialzati e di dimensioni tali da poter essere montato
sul manubrio della bici. Il vassoio raccoglie le arachidi, un foelletto a carbone e
piccoli coni di carta, ricavati da pagine di giornale, in cui vengono servite le arachidi.

È una modestissima attività, che tuttavia richiede alcune conoscenze: sapere dove
acquistare al meglio il carbone e le arachidi (analisi di acquisto), come abbrustolirle
(tecnologia) e quante tenee pronte per non fare aspettare e perdere i clienti (analisi
di mercato).

Ancora, sul lungomare della Colaba, è attivo un vasto e curato mercato di frutta e
verdura. I mercati (specie in oriente) sono un condensato di folla e costumi. In quello
della Colaba è possibile rendersi conto dei modi di vivere e delle "tolleranze"
(a sfondo religioso) innate negli abitanti. Ecco alcune mucche aggirarsi fra i banchi, con
licenza di pascersi di foglie in modo tale, però, da non incidere sull’igiene della
merce… mentre i passerotti si posano su mucchi di piselli sgranati cibandosene; altri
uccelli saltellano sui sacchi di riso satollandosi. I negozianti non intervengono,
complice l’indifferenza degli acquirenti.

i compiti sulla strada

Il quartiere sulla Colaba confina con un villaggio di pescatori brulicante di vita,
certamente al di fuori dei circuiti turistici. Ciò fa sì che, inoltrandosi nelle viuzze,
si è oggetto di non curanza, ma più spesso della sorridente curiosità di giovani e
bambini, che rivolgono al visitatore il saluto. Fra le casupole non circola certo la
ricchezza, ma neanche la miseria; è una società che si sforza di trovare un equilibrio
sociale nella vita quotidiana.

Sulla larga via che costeggia il mare, il traffico è modesto, poiché la strada muore
nei vicoli stretti del villaggio. A sera, dopo il rapido tramonto del sole, il traffico
cessa del tutto. A questo punto si assiste ad un fatto sorprendente: dalle case sciamano
in strada tutti gli abitanti, che si raccolgono a chiacchierare sulla via: donne con
donne, in gruppi separati per età; analogamente avviene per gli uomini, i giovani e i
bambini. Si conversa in piedi o accovacciati per terra su coperte portate da casa, sulle
quali qualcuno passerà la notte.

Nel cono di luce proiettato da un lampione, scoviamo alcuni bambini con i quadei
aperti sul manto stradale: stanno facendo i compiti giornalieri. Come spesso accade con i
bambini, siamo subito circondati e tempestati di domande relative al nostro nome, la
provenienza. I bambini di età intermedia ci presentano il loro "decano", che
frequenta la settima (l’ultima classe delle elementari). Deve essere bravo negli
studi, perché tutti ne lodano le capacità, con l’interessato che annuisce.

Il ragazzo, come i suoi compagni, a scuola studia anche il maharastra (la lingua
locale), l’hindi e l’inglese; il che non è di poco conto, trattandosi di idiomi
diversi anche per alfabeto. Il quaderno, che il ragazzo ci lascia esaminare, è ben
tenuto, con gli esercizi accuratamente svolti.

Se fossimo cento…

A oriente di Mumbai, nelle vicinanze di Aurangabad, si trovano le grotte di Ajanta e
Ellora. In realtà sono grandi costruzioni scavate nella roccia, in modo da ricavare
ambienti dotati di gradini, colonne, statue e bassorilievi. La realizzazione di tali opere
risale al II secolo a.C. fino al X d.C.; denota una grandissima abilità di progettazione
ed esecuzione. Infatti il lavoro non permette errori, giacché tutti gli elementi
architettonici vengono ricavati sul posto dal "pieno" della roccia, e non
trasportati in loco dopo essere stati realizzati altrove.

L’origine dei monumenti (protetti dall’Unesco come patrimonio
dell’umanità) è legata al buddismo, che ha avuto una grande diffusione nel
centro-nord dell’India. Ma, dal VI secolo d.C., l’induismo ha ripreso il
sopravvento. Intanto è continuata la costruzione delle grotte con templi indù.
Successivamente si sono aggiunti templi della religione jain, che costituisce una
evoluzione radicale dell’induismo. È curioso che, in tale regione, il 75% della
gente sia musulmana, anche se le donne vestono il sari e, quindi, non sono distinguibili
(per gli occidentali) dalle indù.

Le grotte testimoniano un senso religioso, che si avverte anche in aspetti
apparentemente secondari, come i segni colorati (rifatti ogni giorno) sul volto delle
persone.

L’attenzione degli indiani al socio-religioso è molto diffuso. Sul quotidiano
Times of India ogni giorno c’è la colonna "Spazio sacro": appaiono massime
di grandi pensatori e frasi religiose (anche del vangelo).

In Times of India del 23 marzo 2001 si leggeva: "Se gli abitanti del mondo fossero
100, scopriresti che 57 sono asiatici, 21 europei, 14 occidentali (non europei) e 8
africani; 30 di razza bianca e 70 non bianca; 52 femmine e 48 maschi; 30 cristiani e 70
non cristiani.

Se possiedi una casa, hai da mangiare e sai leggere, appartieni ad una élite pari a
meno del 25% dell’umanità. Se hai una bella casa, cibo a volontà, leggi e giochi
con il computer, appartieni ad una élite ancora più ristretta. Se ti sei alzato in buona
salute, sei più fortunato dei milioni di persone che questa settimana non
sopravviveranno.

Se non hai mai sperimentato il pericolo della guerra, la solitudine della prigionia,
l’agonia della tortura e gli spasimi della fame, non condividi la sorte di 500
milioni di persone. Se frequenti cerimonie religiose senza paura di vessazioni, arresti,
torture o morte, sei più fortunato di 3 miliardi di persone.

Se sai leggere questo messaggio, sei più fortunato di 2 miliardi di persone.
Trasmettilo per far sapere quanto siamo ricchi…".

onore al dio shiva

Lasciando Chennai (o Madras) e procedendo verso il sud, ci si inoltra in un’India
diversa. L’hindi è usato solo in attività governative. E sembra che le attuali
popolazioni non abbiano ancora assimilato l’invasione ariana di 4 mila anni fa!

Mentre il nord è famoso per i palazzi (opera spesso degli imperatori indo-musulmani
moghul), il sud è celebre per i templi indù, espressioni delle culture dravidiche
indigene. Sono opere anche gigantesche, articolate su aree di parecchi ettari. I templi
sono meta di pellegrinaggi e occasioni di feste che durano diversi giorni.

Una sera, a Kottayam, assistiamo ad una festa in onore del dio Shiva. L’ampio
piazzale del tempio è saturo di folla e bancarelle di venditori. Sul pronao, cui si
accede tramite una larga scalinata, si impongono cinque elefanti affiancati: ogni animale
è riccamente bardato e montato da un conducente. Altri inservienti reggono lunghe aste,
sulle quali ardono cinque lampade simmetriche, alimentate con olio. Gli addetti alla
cerimonia sono a torso nudo e indossano una lunga gonna, tipica degli uomini. Un suonatore
di una sorta di oboe, dal suono nasale, emette un motivo ossessionante, amplificato dal
microfono e accompagnato da percussioni martellanti. Il rumore è assordante e si
percepisce un’atmosfera inquietante. La festa dura l’intera notte.

Nei templi si venerano tutte le divinità del panteon indù, con particolare devozione
a Shiva e Visnù. Gli edifici sono interessanti per l’architettura, le sculture e
qualche dipinto. È pure interessante osservare la quantità e varietà di fedeli: intere
famiglie di contadini e persone di ceto sociale anche elevato, che però si mescolano in
un unico turbinio di folla variopinta.

Un accenno ai vestiti delle donne. Nel sud l’abito è praticamente il sari. Però
non c’è un sari uguale all’altro. I colori, i disegni e il modo di portarlo
foiscono ai locali tante informazioni, che agli stranieri sfuggono. La vivacità e
l’accostamento dei colori è un retaggio delle giovani come delle anziane: infatti si
vedono signore canute indossare sari sgargianti e lucenti, essendo tessuti pure con fili
che appaiono metallici.

Con le domenicane

Nel marzo scorso sono stati resi pubblici i risultati del censimento nazionale. Oggi
gli indiani ammontano a 1 miliardo e 27 milioni, di cui il 52% maschi. Il censimento
rivela che la differenza numerica fra uomini e donne sta riducendosi. Non è un dato
trascurabile: indica, infatti, che nella nascita si sopprimono meno bambine rispetto ad un
tempo. Ma la pratica è tutt’altro che estinta.

Madre Domenica Farinaccio, delle domenicane della Madonna del Rosario di Iolo (Prato),
che vive nel Rosary Convent di Chocin, ci dice che una famiglia non ricca, con figlie da
maritare, incontra enormi difficoltà. Questo perché, per sposare una ragazza, si
richiede come minimo una dote di 4-5 milioni di lire: una somma irraggiungibile per la
maggioranza delle famiglie. Ne consegue talora il suicidio dei genitori (specie dei
padri), quello delle figlie e prostituzione. Secondo suor Domenica, se una ragazza in età
da marito non si sposa in tempo, diventa l’oggetto di tutti.

Uno degli impegni delle missionarie è quello di dare un mestiere alle ragazze ed anche
di costituire un fondo per la necessaria dote del matrimonio.

Le statistiche governative rivelano anche una riduzione dell’analfabetismo, che
tuttavia affligge ancora il 25% dei maschi e il 46% delle femmine. Nel Kerala
l’analfabetismo tocca solo il 10%: merito anche dei cattolici che nella regione
raggiungono il 28%, a fronte però di meno del 2,3% (compresi i protestanti) su base
nazionale.

Le domenicane gestiscono una rinomata scuola elementare, con insegnanti governativi (ma
pagati dalle suore) e oltre mille allievi indù, musulmani e cattolici. Si versa una
retta, e gli allievi delle famiglie povere sono aiutati affinché possano accedere alla
scuola. Le missionarie gestiscono anche degli ambulatori, con laboratori di analisi, e
dispensari a Chocin e dintorni.

La presenza cattolica si manifesta in varie chiese e scuole: il Kerala rimane comunque
una regione a maggioranza indù.

Le missionarie domenicane sono 22 e 16 le aspiranti indiane. Non operano in un ambiente
scevro da pericoli. Quasi ogni settimana sui giornali si legge di aggressioni a cristiani
da parte di fanatici indù. Un trafiletto, apparso durante il nostro soggiorno, riportava
la notizia di una preghiera serale, interrotta da alcune persone (tre poi arrestate):
hanno malmenato il sacerdote e vari fedeli, hanno strappato e bruciato pagine del vangelo,
diffidando il prete.

Questi episodi, contrari alla tradizionale tolleranza indiana, stanno diventando
frequenti, all’ombra di un governo impotente a controllare il partito dei
fondamentalisti indù, piccolo ma indispensabile per formare la maggioranza governativa.

Né si scordi che in India la donna è "subordinata", se non peggio. Ciò
nonostante, le "donne" della Madonna del Rosario, da sole ottengono risultati
notevoli. Accolgono i più poveri, senza fare cortei; aprono ambulatori e non bruciano
beni pubblici; nutrono i meno abbienti, senza distruggere McDonald’s.

Pier Giorgio Motta




Dialogo interreligioso. Sull’onda del grande fiume

Il documento pontificio "Dialogo e
annuncio" ha 10 anni. Un testo che, già nel titolo,

rompe un po’ gli schemi. Perché il dialogo dovrebbe seguire
l’annuncio,non viceversa.

Ma il primo non intacca né minimizza il secondo. Dialogo per cogliere "i
segni dei tempi".

 

Dal Concilio ecumenico Vaticano II è scaturito un fiume, come il Po dalle rocce del
Monviso… Il 7 dicembre 1965, mentre il Concilio chiudeva i battenti, apparve la
costituzione Gaudium et Spes, con la quale la Chiesa dichiarava di voler dialogare con il
mondo: "con tutti gli uomini del mondo", e "non solo con coloro che
invocano il nome di Gesù Cristo", "per instaurare la frateità
universale", per salvare e non per condannare, per servire e non per essere servita
(2-3).

È il fiume del "dialogo fraterno", la più grande scoperta del secolo. È un
poema sinfonico… come il fiume Moldava, che Smetana (1824-1884) coglie allorché nasce
da due sorgenti e gorgoglia gaio tra le pietre luccicando al sole, poi si allarga e le sue
rive echeggiano di voci… per giungere alla rapida di san Giovanni, sulle cui rocce le
onde si infrangono spumeggiando: di là il fiume scorre largo verso Praga…

Parlare non È dialogare

Come non pensare, nel parlare di "dialogo", ai 34 dialoghi di Platone
(427-348 a.C.)? Specie a quello tra Eutifrone e Socrate, sorpresi mentre si dirigono al
tribunale: il primo per accusare suo padre di omicidio, poiché aveva lasciato morire un
servo; il secondo perché accusato da Meleto di corrompere i giovani e di fabbricare nuovi
dèi.

Il discorso sale e scende quando i due si intrattengono sul concetto di
"santo" e, più propriamente, su che cosa significhi "pio" o
"empio". Un dialogo divertente e sottilissimo. Alle domande stringenti di
Socrate, Eutifrone conclude: "Non so che dirti, perché qualunque definizione ci
mettiamo avanti, ci gira sempre attorno, e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto che la mettiamo". È quanto avviene in ogni dialogo.

La Chiesa ha sempre parlato, ma un conto è parlare un altro dialogare. La Chiesa al
Concilio ne scopre la novità, il suo valore sociale, politico, economico, scientifico,
religioso, ecumenico, interreligioso…

Il dialogo è una chiave capace di aprire tutte le porte, se ben usata: non per
nascondere ciò che si possiede o per barattarlo sottobanco, ma per mostrarlo per ciò che
è, confrontarlo, arricchirlo, accettando le diversità. Le tante diversità che non è
sempre possibile eliminare, ma che è sempre possibile riconciliare, accettare, tollerare,
per non continuare a scannarci: cattolici contro protestanti e viceversa, cattolici contro
ortodossi e viceversa, cattolici contro musulmani e viceversa…

Quante volte il battesimo viene ridotto a proselitismo a favore di una congrega a
scapito di un’altra, specialmente nel passato.

Nel romanzo Jenny di Anya Seton, ambientato nell’Inghilterra del XVIII secolo, si
racconta di un pastore che battezza una bimba, pronunciando la formula: "Jane
Radcliffe, figlia della Covenant, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo". Qui la forza della formula non sta tanto nelle tre persone divine, ma
nella "figlia della Covenant" (convenzione, patto). Era anche la professione di
fede nazional-religiosa degli scozzesi, che dopo una lunga lotta vennero sottomessi al
rito anglicano.

Pagine da cancellare

C’è anche un problema a monte, che la teologia appena sfiora perché si tratta di
"sabbie mobili". È l’esistenza delle "guerre sante",
dell’arroganza religiosa, compresa la "bellicosità cristiana".

Un esempio classico è il profeta Elia, che si ritiene autorizzato ad uccidere 450
sacerdoti di Baal: "Afferrate i profeti di Baal – comanda Elia -; non ne scappi
neppure uno. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li
scannò" (1 Re 18, 20-46). Un Elia fanatico che deve imparare che Dio non si
manifesta nella tempesta, ma nel mormorio del vento (1 Re 19, 1-13).

Si rimane incantati dalla nostalgica poesia dei deportati ebrei a Babilonia:

"Sui fiumi di Babilonia

là sedevamo piangendo

al ricordo di Sion.

Ai salici di quella terra

appendemmo le nostre cetre…".

Ma questi esuli esigono da Dio il pareggio, e il salmo 136 termina con le terribili
parole:

"Beato chi afferra i tuoi piccoli

e li sbatte contro la pietra!".

Quando leggiamo: "A me la vendetta, dice il Signore" (Rom 12, 19), è per
toglierla di mano agli uomini?

Il dialogo "urlato" non serve. Se in una assemblea le lingue ufficiali
superano la ventina, si è vicini a Babele.

Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, sulla voce "tolleranza" scrive:
"Un giunco, piegato dal vento contro il fango, dovrà forse dire al giunco vicino
piegato in un senso contrario: "Striscia come striscio io, miserabile, o ti
denuncerò per farti sradicare e bruciare"?".

E, all’inizio della voce "tolleranza", Voltaire pone la domanda:

"Perché noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo
concilio di Nicea?…

Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le
nostre balordaggini. È la prima legge di natura". Voltaire ricorda pure che, negli
organi di una volta, c’era il registro chiamato "voce umana".

documenti significativi

Dal 7 dicembre 1965 il fiume limpido e possente del dialogo ha iniziato una discesa a
valle; si è diviso in canali per irrigare meglio paesi e continenti, erosi dalla
diffidenza ed intolleranza. Altri torrenti, col passare degli anni, sono confluiti nel
fiume ingrossandone la portata.

Dal 1965 ad oggi sono oltre una decina i documenti ufficiali che la Chiesa ha fatto
uscire, a conferma dell’importanza capitale del dialogo: anzitutto le lettere di
Paolo VI Ecclesiam suam nel 1964 (quasi una introduzione alla Gaudium et Spes) ed
Evangelii nuntiandi nel 1975. Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha pubblicato
"L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci delle altre religioni –
Riflessioni e orientamenti su dialogo e missioni". Nel 1990 è arrivata
l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio.

Dieci anni fa il pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e la Congregazione
per l’evangelizzazione dei popoli, dialogando tra loro, hanno pubblicato
"Dialogo e annuncio – Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e
l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo". È un documento significativo perché
è nato da un’esperienza di dialogo fra i due dicasteri.

Nel frattempo il grande fiume del dialogo si è imbattuto in dighe, sbarramenti,
cateratte, pozzanghere. In alcune regioni cristiane il dialogo è interpretato come
un’oscura provocazione; ci sono ecumenismi senza sbocchi; ecumenismi che minacciano
di cadere nella trappola del relativismo (per cui tutte le verità si equivalgono) o del
confusionismo. Si finisce anche col dire: "La mia religione è migliore della
tua".

Si svolgono ovunque congressi, convegni, tavole rotonde che hanno per titolo: "La
Chiesa dialoga con la città". Difficilmente avviene il contrario: che una città,
nelle sue varie istituzioni, prenda l’iniziativa. Si lanciano piani di pastorale,
dove il dialogo appare come contorno, valvola di sicurezza, ruscelletto grazioso o canale
di scolo.

L’ultimo documento ricordato "Dialogo e annuncio" (di cui si celebra
quest’anno il decennio) ha un paragrafo dal titolo "Ostacoli al dialogo" e
ne enumera 11. Il paragrafo inizia così: "Già solo sul piano puramente umano non è
facile praticare il dialogo. Il dialogo interreligioso è ancora più difficile";
tuttavia "malgrado le difficoltà l’impegno della Chiesa nel dialogo resta fermo
e irreversibile" (n. 54).

Necessario questo dialogo anche all’interno della Chiesa a cui apparteniamo. Non
solo con i "fedeli attivi", ma anche con quelli (forse più numerosi) che, senza
essere contrari, sono inattivi, quasi "forestieri", che non comprendono del
tutto il nostro modo di parlare, disposti a ricevere una "benedizione di Dio",
se non un "sacramento".

E poi ci sono i "lontani".

 

I n conclusione, specie con i fedeli "inattivi" e "lontani", si
potrebbe prendere come esempio di dialogo anche Giacomo Leopardi.

Il grande poeta compose il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez. La
scena è nottua, in alto mare, su una gracile caravella. Colombo e Gutierrez conversano
sui motivi che li hanno spinti all’avventura, alla scoperta di nuove terre che non
appaiono.

Colombo: Buona notte, amico.

Gutierrez: Bella in verità: e credo che a vederla da terra sarebbe più bella.

(Ma la terra dov’è? Colombo, per il riverbero della terra vicina, ne sente quasi
il profumo).

Colombo: Da certi giorni in qua lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità
della materia che gli vien dietro mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al
sole mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi.
L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco più dolce e più tepida di prima. Il
vento non corre più, come per l’addietro, così pieno, né così diritto, né
costante; ma piuttosto incerto e vario, e come fosse interrotto da qualche intoppo.
Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata da poco; e
quel ramicello di albero con quelle coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli
uccelli, benché mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano, e
così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno che penso vi si possa fare
qualche fondamento; massime che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla
forma, non mi paiono marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto
che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona.

Gutierrez: Voglia Dio questa volta ch’ella si verifichi.

È il dialogo sui "segni dei tempi". Anche Gesù invitò a non trascurarli.
Il Concilio, a sua volta, come materia di dialogo, proclama che è dovere della Chiesa
scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo (Gaudium et Spes, 4).

Igino Tubaldo




GLOBALIZZAZIONE / Un altro mondo non è possibile?

Egregio professor Panebianco

Vogliamo accettare un mondo dove 4 miliardi di persone sopravvivono con 2 dollari al
giorno? Un mondo dove alcune persone possono avere "stipendi" maggiori del
Prodotto interno lordo di interi paesi? Eppure in molti cercano di legittimarlo asserendo
che questo è l’unico mondo possibile. No, forse non è proprio così…

Egregio professor Panebianco, non sono mai stato un suo estimatore. Tuttavia, per avere
un’informazione il più possibile completa, anch’io leggo i suoi editoriali sul
"Corriere della sera".

"Un’idea pericolosa – lei scrive (Angelo Panebianco, Vanataggi globali e la
società chiusa, Corriere della Sera del 23 giugno 2001) – si va diffondendo. È
l’idea che i contestatori della cosiddetta "globalizzazione" abbiano più
ragioni che torti".

Il pericolo non sono i danni evidenti ed esplosivi prodotti dalla globalizzazione, ma
sono i contestatori della stessa. Questa sua affermazione ha dell’incredibile,
professore!

"Tutti costoro accettano troppo facilmente gli slogan degli antiglobalizzatori:
credono davvero che il potere di vita e di morte sui destini del mondo sia nelle mani di
un pugno di multinazionali".

Le multinazionali non sono un pugno, ma qualcuna di più: 63.459 secondo le statistiche
dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite.

Le 200 multinazionali più grandi rappresentano oltre il 30% dell’attività
economica mondiale. Il fatturato della General Motors è più elevato del prodotto interno
lordo della Danimarca; quello della Ford è maggiore del Pil del Sudafrica. Le entrate
dell’Ibm superano ampiamente il prodotto interno lordo dell’Argentina. E così
via. Davanti a numeri simili, chi può dubitare del potere di vita e morte delle
multinazionali? Però, proviamo ad immaginare che queste compagnie siano
"etiche" e, dunque, non abusino del loro potere. Andiamo a vedere, come direbbe
la Confindustria, quello che effettivamente fanno. Ebbene, l’elenco dei misfatti di
cui esse sono imputabili è lunghissimo. Ma facciamo pure qualche nome.

Le multinazionali statunitensi Chiquita, Dole e Del Monte posseggono i 2/3 del mercato
mondiale delle banane. Nel loro curriculum sta scritta una lunga lista di crimini
(sociali, ambientali e sindacali). Interi paesi latinoamericani (Honduras, Guatemala,
Costa Rica, Panama, Ecuador) sono stati segnati dalla loro nefasta presenza.

La Monsanto (Usa) e la Novartis (Svizzera), dopo aver inquinato mezzo pianeta con
pesticidi ed erbicidi, ora si sono buttate sulla manipolazione genetica, non per sfamare
il mondo, ma per instaurare un regime di monopolio sulle sementi.

La multinazionale alimentare Nestlè (Svizzera) è accusata di aver spinto per
l’utilizzo del suo latte in polvere a scapito di quello materno. Secondo
l’Unicef, un milione e mezzo di bambini muoiono ogni anno nei paesi poveri perché
non vengono nutriti con il latte materno, e altri milioni si ammalano.

Le multinazionali petrolifere sono tra i maggiori responsabili dei disastri ambientali
del pianeta. La Royal Dutch-Shell, per esempio, è famosa soprattutto per le sue
operazioni in Nigeria: contro l’ambiente (il fiume Niger) e il popolo degli ogoni.

E che dire del presidente George W. Bush? Tutti sanno che l’ex petroliere texano
ha trovato generosi sponsor nelle compagnie petrolifere statunitensi: Exxon-Mobil, Texaco,
Chevron, sopra tutti. Sarà un caso che, appena entrato alla Casa Bianca, il presidente
abbia dichiarato morto il protocollo di Kyoto sulla riduzione dei gas a effetto serra?

Caro professore, non c’è dubbio che le multinazionali costituiscano un enorme
pericolo per il mondo, soprattutto da quando, in nome del neoliberismo e della
globalizzazione, è passata l’idea di "stati leggeri", privi di un
effettivo potere di regolamentazione e controllo. Quello della perdita di potere degli
stati nazionali è uno degli effetti più subdoli della globalizzazione.

"Credono davvero che la globalizzazione accresca la povertà al di fuori del mondo
occidentale. Nessuno di loro è sfiorato dal dubbio che queste siano falsità. Nessuno di
loro è disposto, ad esempio, a prendere in considerazione il fatto, ampiamente
documentato, che, lungi dall’accrescere la povertà, l’apertura dei mercati
abbia, nell’ultimo decennio, contribuito potentemente a ridurla".

È proprio vero che in questo mondo tutto è relativo. Io non so quale documentazione
abbia in mano, professor Panebianco. Ma forse basterebbe che lei facesse un viaggio nelle
periferie di Lagos, San Paolo, Manila, Lima o di altre megalopoli del Sud del mondo. Le
statistiche più recenti parlano di un miliardo e 175 milioni di persone che sopravvivono
con un dollaro al giorno, mentre altri 3 miliardi ogni giorno portano a casa un po’
di più: 2 dollari (4.500 lire).

D’altra parte, la globalizzazione fa molto bene ai ricchi (chiamiamoli così): ci
sono stipendi annuali che superano il prodotto interno lordo di interi paesi (Charles Wang
della Computer Associated nel 1999 ha guadagnato 507 milioni di dollari) o patrimoni
personali che un paese potrebbero acquistarlo (Bill Gates con 58,7 miliardi di dollari è
il primo, ma anche Silvio Berlusconi con 10,3 non può lamentarsi).

Ghandi diceva: "Il mondo è abbastanza ricco per soddisfare i bisogni di tutti, ma
non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno".

"Il problema è sempre uno, da quando è nato il capitalismo: il conflitto fra i
fautori della società chiusa, tra quelli che pensano che il commercio senza barriere e
restrizioni porti, col tempo, benessere e libertà a tutti coloro che vi vengono
coinvolti, e quelli che lo intendono solo come una forma di sfruttamento e di oppressione
(oltre che, va da sé, di "mercificazione" dell’esistenza)".

Benessere per chi? Libertà di che? Nel mondo globalizzato la sola certezza è la
"libertà di profitto", indipendentemente dai costi sociali che questa produce.
Professore, si ricorda ancora di quella che si chiama "libertà dal bisogno"?
L’evidenza quotidiana dimostra che essa non sussiste per la maggioranza
dell’umanità. E poi, mi scusi, lei contrappone società aperte e società chiuse.
Allora perché paesi ultraliberisti come Argentina, Brasile e Messico sono periodicamente
sull’orlo della bancarotta?

Ma dove il suo ragionamento cade miseramente è davanti al fenomeno delle migrazioni. I
paesi dell’Occidente sono aperti? Lo sono per ricevere i capitali delle speculazioni
finanziarie, ma non per accogliere tutte le persone (donne e bambini compresi) che
scappano alla ricerca di un’esistenza dignitosa.

Lei sceglie il sarcasmo per liquidare coloro che parlano di sfruttamento, oppressione e
mercificazione dell’esistenza. Non è forse sfruttamento quanto avviene in moltissime
unità produttive del Sud del mondo, dove la gente (bambine e bambini compresi) è
costretta ad accettare condizioni di lavoro disumane? Non è forse oppressione non essere
liberi di vivere nelle proprie terre perché concupite da qualche multinazionale? Non è
forse mercificazione dover pagare per curarsi o rimanere in salute?

"Non colpisce il semplicismo del pensiero di certi portavoce del movimento
antiglobalizzazione (che immaginano il mondo retto da un governo occulto delle
multinazionali). (…) Poi ci sono le cose serie (…). Che poco sembrano interessare al
"popolo di Seattle" e ai suoi rispettabili simpatizzanti".

Normalmente, quando si accusa qualcuno di semplicismo, vuol dire che quel qualcuno sta
colpendo nel segno. Caro professore, al contrario di quanto lei asserisce, le cose serie
sono proprio quelle che il "popolo di Seattle" cerca di portare
all’attenzione dei cittadini del mondo: una democratizzazione delle istituzioni
economiche che dettano legge a stati e popoli (Organizzazione mondiale del commercio,
Banca mondiale e Fondo monetario internazionale); uno sviluppo sostenibile che non
distrugga foreste, mari, aria, acqua e non dia l’80% delle risorse al 20% della
popolazione mondiale; la tassazione delle operazioni finanziarie speculative (Tobin Tax),
per colpire quel mondo degli affari dove – come ha scritto John K. Galbraith – il senso di
responsabilità per gli interessi collettivi è nullo; la remissione del debito dei paesi
poveri; una ridefinizione del ruolo del mercato, che non è – come i sostenitori del
"pensiero unico" vorrebbero far credere – una legge di natura, ma una mera
invenzione umana.

 

Egregio professore, spero che il mondo che lei difende un giorno o l’altro si
frantumi sotto il peso delle proprie contraddizioni. Con l’aiuto di quel "popolo
di Seattle" (e di Porto Alegre) che lei liquida con accademica sicumera.

Paolo Moiola




MADAGASCAR: un angolo controverso di paradiso. Vivi e morti… inseparabili

Madagascar: quasi una grande zattera tra
Asia e Africa, variopinto miscuglio di culture e tradizioni diverse. E dove la morte
riesce a diventare "l’evento più importante della vita".

 

  Atterrando in Madagascar sul piccolo aeroporto di Nosy-Be, costruito a
ridosso di un villaggio di capanne in legno e su palafitte (per staccare la struttura
dalla terra e tenerla asciutta), sembra di essere ritornati indietro nel tempo. Quando,
poi, ci si immette sulla strada che conduce alla parte abitata di Nosy-Be (isoletta a nord
del paese), si resta ancora più meravigliati dallo spettacolo. Si passa attraverso le
coltivazioni più disparate, dai profumi inebrianti, e tra alberi da frutta a profusione;
nella stagione dei monsoni, sembra addirittura di correre su di un tappeto di manghi,
caduti così numerosi dagli alberi che non ci sono mani sufficienti per raccoglierli, né
bocche per mangiarli.

Una decina di chilometri per arrivare a Hell-Ville, capitale dell’isola, con molte
case coloniali francesi; altri dieci chilometri e arriviamo ad una grande scuola, sulla
riva dell’Oceano Indiano, sul lato ovest, in faccia al Mozambico.

Nel gennaio 1999 misi piede per la prima volta a Nosy-Be e, più precisamente, nella
scuola delle "Discepole del Sacro Cuore" di Lecce, che è diventata anche la mia
missione.

Vedendo un costone alto e scosceso a picco sull’oceano, proprio dietro alla
scuola, mi è venuta l’idea di edificarvi una chiesetta bianca, bella e slanciata in
onore della Madonna Consolata: una piccola costruzione, ma che si vedesse da lontano da
piroghieri, motonauti, marinai, vacanzieri, pescatori… da tutti quelli, insomma, che
solcano questo lembo di Oceano Indiano.

Il piccolo sogno è oggi realtà. La Consolata, in questo anno centenario di fondazione
dei suoi missionari, ha una chiesetta sulla più bella isola del Madagascar. Una generosa
signora brianzola, devota da sempre della Consolata, ha sostenuto le spese
dell’opera. Il santuario diventerà certamente una meta di preghiera per chi si
avventurerà su quest’isola di sogno!

 L’isola dei profumi

Nosy-Be, estesa come l’isola d’Elba, è una meraviglia nel suo genere,
esotica e modea, turistica e selvaggia. Situata a 15 chilometri dalla costa del
Madagascar, è di origine vulcanica e montagnosa, con molti laghi formatisi negli antichi
crateri. È chiamata "l’isola dei profumi" per le colture di canna da
zucchero, caffè, vaniglia, pepe, zafferano, zenzero. E merita la reputazione di piccolo
paradiso.

Oltre la metà degli abitanti (circa 30 mila) è cristiana, in maggioranza cattolica,
con minoranze musulmane, indiane e cinesi. La popolazione, tranquilla e accogliente, sa
convivere in pace nella mescolanza delle diverse razze.

A Nosy-Be, con le suore "discepole", ci occupiamo di una grande scuola di
1.030 allievi: una scuola tradizionale che, secondo il sistema francese, parte dalla terza
all’undicesima classe. Le maestre sono suore malgasce ed è, ovviamente, cattolica,
anche se non si fanno differenze di religione. Accettiamo tutti, finché c’è posto.
Le varie religioni convivono senza alcun problema. E questo è bello.

I nostri allievi sono in maggioranza figli di tagliatori di canna da zucchero, il
lavoro più duro che si possa immaginare, un’attività da schiavi, che molte tribù
rifiutano di fare. Il salario è da fame e molti genitori riescono con difficoltà a
pagare la piccola quota mensile per mandare i figli a scuola.

Tuttavia la nostra scuola funziona bene: le suore si impegnano al massimo e i risultati
sono buoni. È forse per questo che tutti vogliono venire da noi, anche perché, molte
volte, sulla regolarità del pagamento chiudiamo un occhio… Ultimamente siamo anche
riusciti a fare adottare i bambini più poveri, con grande sollievo dei genitori.

La scuola inizia alle sette: ed è uno spettacolo assistere all’arrivo degli
scolari, tutti con il grembiulino azzurro, la maggioranza a piedi nudi; chi lungo la
spiaggia e chi attraverso i campi di canna da zucchero. Visi belli e sorridenti,
rispettosi e vivaci.

Vivere per… morire

  Uno dei fatti che più mi ha colpito, arrivando in Madagascar, è la
coabitazione (non sempre facile) tra cristianesimo e certi riti locali legati al culto dei
morti. Oltre la metà dei malgasci è ancora legata alla religione tradizionale, che si
riduce alla venerazione degli antenati.

Le diatribe su questo problema continuano da 180 anni, da quando, cioè, il
cristianesimo è arrivato per la prima volta nella grande isola. Le opinioni divergono:
alcuni ritengono le pratiche dei morti in contraddizione con l’insegnamento di
Cristo; altri come una testimonianza dell’immortalità dell’anima.

La differenza di attitudine tra gli stessi cristiani ha portato a querele, destinate a
durare all’infinito. Fra l’altro, i riti ancestrali prevedono sacrifici di
zebù, funerali stabiliti dallo stregone e rivoltamento dei cadaveri dopo cinque-sette
anni dalla morte, per dare finalmente una sepoltura definitiva al defunto, che diventa
così "antenato".

Come tutte le religioni tradizionali africane, anche quella malgascia afferma che Dio
è buono, ma è lontano ed è meglio lasciarlo tranquillo. Si ha, piuttosto, paura dei
morti e si fa di tutto per tenerseli buoni. Gli antenati conservano la loro identità e i
legami familiari. La credenza considera che tutto il male che arriva in una famiglia
(incidenti, malattie, lutti, difficoltà economiche…) derivi dal mancato rispetto di
certi desideri dei defunti. Pertanto tutti (cristiani compresi) non cessano mai di
sottoporsi a costosi sacrifici in onore dei defunti: in occasione di un matrimonio,
l’acquisto di una piroga, la costruzione di una nuova abitazione. Così, per
tenerseli buoni!

In Madagascar si vive per prepararsi… a morire. La morte segna il passaggio dal rango
di "uomo" a quello di "antenato" ed è caratterizzata da tre cerimonie
fondamentali: i "primi" funerali; l’esumazione e il rivoltamento dello
scheletro (pulito con cura e pitturato di vernice bianca); il "secondo" funerale
(dopo cinque-sette anni), con nuovi sacrifici. In genere il defunto viene sepolto nel suo
campo. Molti di quelli che vivono in città lasciano come ultima volontà di farsi portare
nella terra di origine. "È la morte l’evento principale nella vita di un
malgascio" mi dice un vecchio tagliatore di canna a riposo.

Quando si attraversano le campagne, si incontrano sovente monumenti funebri, negli
stili più diversi, secondo le regioni. Il funerale è una festa e la sua importanza
dipende dalla ricchezza del defunto e dal numero di zebù messi a disposizione dei
partecipanti alle esequie. Alcune tombe, oate da centinaia di coa di zebù, indicano
palesemente la potenza dello scomparso.

A proposito: in Madagascar vivono più zebù che persone. Mentre gli abitanti sono
circa 15 milioni, gli zebù arrivano a 17 milioni e ogni famiglia ne possiede almeno uno,
che alleva per il prossimo lutto.

Frammenti di culture diverse

Non è possibile stabilire quale sia stata la stirpe originaria del Madagascar. Le 18
etnie principali che oggi l’abitano mostrano un’incredibile varietà di tratti
somatici, tanto da rendere impossibile ogni generalizzazione.

Crocevia geografico tra Asia, Africa, Arabia e occidente, in Madagascar si ritrovano
elementi culturali di mille paesi: il riso coltivato a terrazze come in Indonesia; le
piroghe a bilanciere dei polinesiani; i libri di magia scritti in arabo;
l’allevamento brado, caratteristico delle tribù seminomadi africane; i mercati e
negozi indiani; chiese cattoliche e protestanti, abbinate in ogni centro abitato;
l’amministrazione pubblica, fotocopia di quella francese.

L’isolamento millenario del Madagascar ha fatto sì che gli elementi portati da
ciascuno si mescolassero e sviluppassero in modo originale. Natura e cultura hanno seguito
una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Sulla grande "isola rossa" vivono molte specie di serpenti, ma nemmeno uno è
velenoso; moltissimi gli animali nella foresta, ma neppure uno feroce. Alcune specie di
animali ed uccelli sono veramente prolifiche nel Madagascar; famosissimi i lemuri,
proscimmie graziose e mobilissime, sovente considerate portatrici di malocchio dalla
popolazione (che li perseguita).

Quasi tutti i malgasci hanno la pelle nera, ma nella forma degli occhi, i capelli
lisci, i nasi stretti, gli zigomi sporgenti… si legge l’oriente che è passato di
qui. E si è anche fermato. Un villaggio tipico malgascio, anche il più sperduto, ha una
chiesa protestante, una cattolica e sempre un emporio con un cinese o un indiano dietro il
banco di vendita. No, i malgasci non amano il commercio e continuano pacifici sulla strada
della tradizione, che li vede da sempre agricoltori e allevatori di zebù.

Una cosa importante: non dite ad un malgascio che è africano! Il Madagascar non si
riconosce nel continente. Come una grande zattera che galleggia sull’Oceano Indiano,
l’isola si richiama piuttosto all’Asia, non senza una certa fierezza, dovuta a
parentele lontane e misteriose. La distinzione arriva talvolta a una certa forma di
razzismo, sul quale si è fondata la stratificazione sociale di oggi, ben prima
dell’arrivo dell’uomo bianco.

Al di là di tutte le teorie, il colore della pelle nera, bruna o chiara, è un
criterio essenziale di classificazione dei malgasci stessi tra di loro: più la pelle è
scura e meno l’origine è nobile. Una semplice osservazione della folla la dice più
lunga di qualsiasi discorso scientifico. Tinte nere, gialle o ramate, capelli lisci o
crespi, occhi stretti o molto aperti: il miscuglio è evidente e dà seguito a
combinazioni tra il tipo malese dalla pelle chiara, il nero oceanico e il nero africano.

La fusione delle razze è la conseguenza diretta di un popolo che ha tante origini
quante sono state le ondate migratorie negli ultimi 15 secoli.

È vero che il Madagascar occupa (ahimè!) uno degli ultimi posti in tutte le
classifiche e statistiche disponibili: 13° paese più povero del mondo, 5° più
"dipendente" dagli aiuti estei, 12° tra i più assistiti. È anche il
penultimo, dopo il Tibet, nell’uso di concimi chimici e, dunque, il secondo paese nel
praticare un’agricoltura biologica ed ecologica, grazie alla povertà dei contadini.
La condizione di miseria della "grande isola" sembra sfuggire a ogni logica.

Nonostante gli aiuti e il sostegno, il paese continua a sprofondare. E tutti gli
esperti concordano nel dire che l’isola possiede un potenziale enorme, che dovrebbe,
invece, permetterle di svilupparsi in fretta.

Noè Cereda




Corea del Sud: nella periferia di Inch’on (Seul). Accanto alla ferrovia

La piccola storia di una comunità di laici impegnati, che ha scelto di
"stare" con i poveri, in una periferia di città, per crescere insieme, anche
nella fede. L’esempio tenace e contagioso di Agnes, sorretta da missionari della
Consolata.

 

 Sin dagli inizi, la scelta di inserirsi nel quartiere di Man-sok- dong (alla
periferia di Inch’on – Seul) aveva suscitato in me curiosità e speranza. Immersi in
un ambiente emarginato, i missionari della Consolata avevano deciso di vivere con la
gente, con il proposito di condividere le stesse aspirazioni, recando il fermento del
vangelo, senza ricorrere a grandi strutture. In umiltà e solidarietà, si voleva gettare
il seme della Parola con la stessa speranza del seminatore.

Qualche articolo di Missioni Consolata e Amico aveva descritto gli inizi di tale
esperienza. Tra l’altro, si segnalava l’amicizia e la collaborazione con alcuni
giovani volontari del quartiere al servizio di minori.

Poi non ne seppi più nulla fino a poco tempo fa, quando incontrai i nostri missionari
a Seul. Chiesi loro di poter vedere Man-sok-dong e, se possibile, di rivolgere qualche
domanda ai giovani della "Sala di studio accanto alla ferrovia". O, se preferite
in coreano, "Kich’a kil yoph kong-bu pang". Fui accontentato.

Con l’aiuto di padre Luiz Emer, brasiliano, rivolsi alcune domande a Agnes Kim
Chum-mi,

la giovane donna che iniziò un’esperienza oggi punto di riferimento significativo
anche per la chiesa coreana, impegnata tra gli emarginati urbani.

Nel 2000 Agnes vinse pure un premio nazionale di letteratura, dedicata
all’infanzia coreana, prendendo lo spunto dalle tante storie di cui sono protagonisti
e vittime i bambini di Man-sok-dong.

    

Signora Agnes, la "Sala di studio" come sta aiutando i bambini del
quartiere?

A volte sembra che li stiamo aiutando, altre no. Guardando ad alcuni giovani che
conosco dal 1987 e che allora erano bambini, si può notare che sono cresciuti, anche se
continuano ad avere alcuni problemi. Sono giovani onesti, degni di fiducia e, per vari
aspetti, diversi dagli altri.

Molti ritengono che il criterio, per giudicare se li stiamo aiutando realmente, sia
l’"inserimento nella società": trovare un buon lavoro, guadagnare bene. Ma
noi non la pensiamo così. Il nostro obiettivo non è aiutarli ad "aggiustarsi e
adeguarsi" alla società e alla concorrenza, ma di farli vivere secondo i valori
della solidarietà e condivisione.

Quanto al lavoro con i minori, li aiutiamo nelle necessità di base. Terminata la
scuola, invece di andare in strada a giocare o fare i delinquenti, qui possono trovare un
ambiente adatto per studiare, fare i compiti con l’aiuto dei volontari. Pochi di
questi bambini vengono da famiglie "normali", con il padre e la madre uniti.
Allora cerchiamo di dare loro l’affetto che non ricevono in casa.

Ad alcuni diamo pure da mangiare, paghiamo la scuola e il materiale didattico,
compriamo i vestiti. Questo aiuto è necessario e non possiamo fare a meno di darlo, anche
se a volte stiamo male quando abbiamo l’impressione che i bambini e genitori
dipendono troppo da noi. Ci troviamo a sostituire i parenti in molte circostanze: e questo
non sarebbe il nostro ruolo. Perciò non sempre l’aiuto dato è l’ideale,
affinché tutti possano maturare.

Ciò che ci stimola è che i ragazzi, una volta cresciuti, si rendono conto del nostro
ruolo nella loro vita. Anche se, all’inizio, non hanno chiare le motivazioni per cui
noi volontari viviamo qui e ci dedichiamo a loro, poi sentono che si tratta di qualcosa di
diverso e apprezzano molto il nostro modo di vivere.

Lo sviluppo della vostra comunità ha influenzato i giovani di Man-sok-dong?

Dopo i primi cinque anni di presenza, è stato normale che i ragazzi venissero a
chiederci: "Fino a quando rimarrete qui?". Avevano paura che noi ce ne andassimo
e loro rimanessero privi di gente di cui fidarsi. Ma hanno visto che i volontari e le
volontarie si sposavano tra di loro, avevano dei figli e non "andavano e
venivano" come nei primi tempi, ma si stabilivano nel quartiere per condividere da
vicino la loro vita. Questo ha trasmesso sicurezza e la paura che la Sala di studio
finisse da un giorno all’altro è scomparsa.

Così non ci è più stata rivolta quella domanda.

Come si comportano i più piccoli?

Se con i ragazzi più grandi constatiamo che stanno ricevendo e "digerendo"
molte cose, con i piccoli la situazione è più problematica, perché è legata ai…
genitori. I bambini con cui abbiamo iniziato a lavorare provenivano da famiglie di
contadini, con genitori dai rapporti stabili che, pur poveri, si sacrificavano per i
figli. Ci riunivamo insieme e potevamo contare sul loro apporto per il bene dei figli.

Invece i genitori dei bambini che seguiamo ora sono cresciuti a Man-sok-dong, a non
molti chilometri da Seul (11 milioni di abitanti): i padri sono disoccupati e le madri non
mostrano grande interesse per i figli; entrambi facilmente abbandonano la famiglia.

 

Quali scelte pensate di fare per il futuro delle famiglie nella comunità dei
volontari?

Spesso la gente ci dice: "Vivere in comunità, semplicemente e poveramente, è una
scelta vostra; ma è giusto proporla anche ai vostri figli?".

Di una cosa posso parlare con certezza: le mie due figlie, come anche i figli degli
altri volontari, stanno crescendo secondo valori diversi da quelli della società odiea.
Saltano, giocano, piangono come tutti gli altri bambini; però, quando vanno in altri
ambienti (per esempio all’asilo o a scuola), le prime persone a cui si avvicinano e
di cui diventano amici sono i coetanei più sporchi o mal vestiti. Mia figlia maggiore, a
10 anni, sa già fare le sue scelte: pur avendo la possibilità di ricevere lezioni
speciali di arte nella sua scuola e dimostrando molto interesse in questo campo, è
l’unica a non approfittae, perché "gli altri compagni della comunità non
hanno le stesse opportunità".

Certamente per i nostri figli non è facile questo stile di vita, ma stanno imparando.

  Avete qualche altro "sogno nel cassetto"?

Stiamo pensando di iniziare una nuova esperienza: il lavoro "contadino".

La nostra comunità non deve solo vivere insieme e condividere, ma offrire anche
un’alternativa ad altre persone. Non si tratta di essere migliori degli altri, ma il
centro che intendiamo organizzare in campagna dovrebbe diventare "il segno della
trasformazione" che la Sala di studio sta assumendo. Così chi lo desidera e se ne
sente attratto potrà farvi parte. In città l’unico modo per sopravvivere è il
lavoro in fabbrica; in campagna, invece, saremo noi stessi in grado di produrre ciò che
consumiamo. Ma abbiamo ancora molte paure. Tuttavia questo è il nostro sogno: una
comunità aperta, non troppo grande.

Desideriamo andare in campagna, non solo per produrre il necessario e vivere
tranquilli, ma anche per aiutare meglio i bambini della città. I ragazzi (piccoli e
grandi) della Sala di studio, a causa della malnutrizione, l’abbandono e la mancanza
di un sereno ambiente familiare, hanno un livello di apprendimento che non supera il 30%.
Molti di loro, da adulti, seguiranno la strada dei genitori disoccupati, con nessuna
prospettiva di vita dignitosa.

La capacità intellettuale della stragrande maggioranza dei nostri ragazzi è stata
seriamente pregiudicata. Ma possono fare bene il lavoro manuale: lavorare il legno, ad
esempio; un’attività in cui sono maestri e che a loro piace… Osservando
realisticamente i bambini di Man-sok-dong, sappiamo che ben pochi riusciranno a terminare
le scuole superiori; per cui è necessario offrire loro un mestiere, evitando che vivano
come i genitori.

  Qual è stato il ruolo della fede nella tua vita e in quella della
comunità?

Ciò che mi ha spinto a chiedere di essere battezzata nella chiesa cattolica è stata
la testimonianza di un sacerdote, impegnato nella pastorale del lavoro, quando ero operaia
negli anni ’80. In seguito, allorché mi sono stabilita qui per fare qualcosa in
favore dei bambini, la fede è diventata fondamentale per me.

Ci sono stati momenti difficili, anche con i volontari della nostra comunità. La
situazione si è aggravata quando mi sono innamorata di mio marito, anch’egli membro
del gruppo da circa un anno. Ad alcuni non piaceva il nostro rapporto. Ed io, per la prima
volta in vita, pensai di fare qualche "sciocchezza", tanta era la sofferenza,
perché mi sentivo sola, abbandonata. È stato allora che ho incominciato a sentire più
forte la presenza di Gesù.

Ricordo pure che, all’inizio dell’esperienza, i volontari nel quartiere, se
ne andavano via tutti dopo poco tempo. In seguito, con l’arrivo di nuove persone,
abbiamo compiuto i primi passi come comunità.

Ma solo io ero cattolica e c’era un netto rigetto negli altri verso tutto ciò che
sapesse di religione. Ho tentato più volte di introdurre la lettura della bibbia nei
nostri incontri; ma gli uomini, soprattutto, hanno minacciato di abbandonare le riunioni
se l’avessi fatto.

  Quando hai conosciuto i missionari della Consolata?

È stato proprio in quel momento di tensione, quando i missionari della Consolata sono
venuti a vivere a Man-sok-dong. Per andare avanti, io continuavo a trovare forza nella
fede: era la base della mia vita.

Il significativo mutamento, dopo l’arrivo dei missionari, è incominciato quando
gli uomini della comunità hanno capito: è scomparsa a poco a poco l’avversione per
la religione e ci si è resi conto dell’importanza della fede, sia nella vita
personale che comunitaria. Con tale apertura molti, anche i volontari più giovani, hanno
mostrato interesse per la figura di Gesù Cristo e hanno iniziato a frequentare la
catechesi.

Così la crescita della comunità è stata grande e si è tradotta in un impegno
maturo. La fede in Gesù resta il fulcro, attorno a cui la comunità agisce.

   

Il futuro di Agnes e del marito Bartimeo, quello delle loro due figlie e della
comunità rimane aperto a nuove scelte, ma nella fedeltà ai valori di povertà,
solidarietà, condivisione e alla luce della parola del Signore. Il discernimento li ha
portati a rifiutare allettanti proposte (venute anche dalla pubblica amministrazione), per
scegliere i minori in difficoltà.

Qualcuno ha suggerito di espandersi e moltiplicare l’esperienza altrove; ma ad
Agnes e compagni è sembrato meglio, per ora, continuare il cammino secondo le intuizioni
e lo spirito che sentono propri. "È importante che pure altri trovino il loro modo
di scegliere il servizio tra gli emarginati e crescere insieme" ha commentato Agnes.

La comunità è attualmente composta da una quarantina di giovani, in maggioranza
sposati, residenti a Man-sok- dong.

Giano Benedetti




Colombia: Il governatore che sfida la storia

Una storia che significa violenza,
narcotraffico, ingiustizia. Lui si chiama Floro Alberto Tunubala Paja e appartiene
all’etnia "guambiana". Tra i potenti non ha molti amici. I paramilitari,
squadroni della morte assoldati da industriali e latifondisti, lo minacciano; i
guerriglieri delle Farc lo guardano con sospetto. Intanto, per difendersi dalle
aggressioni dei paramilitari, le comunità indigene hanno costituito una "guardia
civica", composta da volontari armati di… bastone. La strategia non violenta
adottata dagli indios ha già ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e inteazionali.
Ma riusciranno a sopportare il peso di una partita tanto difficile?

 

All’inizio del nuovo secolo, per la prima volta nella sua storia, il dipartimento
del Cauca ha conosciuto un governatore indigeno. È Floro Alberto Tunubala Paja,
dell’etnia guambiana. È stato eletto nel mese di ottobre dell’anno scorso ed ha
cominciato a governare dal 1° gennaio di quest’anno.

L’elezione di Floro è avvenuta grazie a una coalizione che ha il suo punto di
aggregazione nel territorio di convivenza e pace della Maria Piendamo (**). Lì diversi
gruppi etnici (indigeni nasa-paeces, guambiani, negri, meticci), campesinos, lavoratori e
persino un gruppo di gente del mondo finanziario di Popayan (capoluogo del dipartimento)
hanno formato una coalizione, che è risultata vincitrice nelle elezioni. Tutti si sono
trovati concordi nell’unire le forze per cercare una soluzione a una situazione che
andava di male in peggio e una scena politica che non mostrava alcun segno di cambiamento
per il futuro.

Inutile dire che l’oligarchia di Popayan è rimasta a bocca aperta, perché non si
aspettava che vincesse le elezioni un indio (ancora oggi, questi è guardato con
alterigia, per non dire disprezzo) e neppure che vincesse un gruppo senza un referente
politico tradizionale.

Per loro sfortuna, all’inizio di quest’anno Floro è riuscito a formare in
seno al consiglio un gruppo di maggioranza che è dalla sua parte e che si professa
alternativo.

TRAGEDIA INDIGENA,

PROFITTI INDUSTRIALI

La situazione del Cauca non è certamente rosea. Il dipartimento presenta un debito
altissimo. C’è il problema della guerriglia e del narcotraffico, che si somma ai
consueti problemi (disoccupazione, fame, mancanza di educazione e salute ecc.). C’è
infine la cosiddetta "legge paez", una delle cause dell’esplosione di
violenza nella regione.

Questa legge è stata varata dopo il terremoto e la tragedia del fiume Paez in
Tierradentro, avvenuti il 6 giugno del 1994. La legge prende il nome degli indigeni del
luogo (che oggi preferiscono chiamarsi nasa), ma non comprende il loro territorio, troppo
impervio. Il relatore era un senatore liberale di nome Iragorri Hoaza.

Questo signore, un politico di vecchia data, si accorse che la zona industriale di
Yumbo, alla periferia di Cali, non poteva più ospitare fabbriche per motivi di
inquinamento e di spazio. Il senatore propose allora di portare le industrie nelle zone
più pianeggianti del vicino Cauca. Egli fece approvare una legge che incentivava chi
volesse costruire in quelle zone: crediti bancari agevolati, esenzione dalle imposte per
10 anni, acquisto della terra a buon prezzo.

Nella "legge paez" rientrano alcuni comuni, come Santander de Quilichao,
Caloto, Corinto, Miranda, Suarez, Buenos Aires e molti altri che si trovano nella parte
pianeggiante.

Per poter approfittare della legge e investire i loro capitali, gli industriali
volevano che ci fosse anche sicurezza e stabilità politica. Ma nella regione sono
presenti tutti i gruppi armati colombiani, che hanno scelto la zona per la facilità di
raggiungere altre parti del paese senza correre grossi rischi.

LA FEROCIA

DEI PARAMILITARI

Per garantire la stabilità, gli industriali e i grossi commercianti hanno pensato di
agire in proprio, organizzando gruppi paramilitari, anche conosciuti come squadroni della
morte. Dalla fine dell’anno scorso, i paramilitari hanno cominciato a fare pulizia,
sequestrando e uccidendo moltissime persone. Secondo dati ufficiali nei primi 4 mesi del
2001 nel nord del Cauca i paramilitari (e, in misura minore, la guerriglia) hanno già
ucciso più di 500 persone.

Hanno minacciato e continuano a minacciare il neogovernatore Floro. Hanno ucciso e
continuano a uccidere gente in Santander de Quilichao, Caloto, Corinto, Timba, Suarez,
Buenos Aires. I paramilitari sono persino arrivati alla Costa Naya, per raggiungere la
quale occorrono due giorni di cammino. Lì hanno massacrato più di 50 persone (secondo i
dati del governo) e le hanno tagliate con una motosega. Molti altri, che non sono
rientrati nei conteggi del governo, sono stati buttati giù dai burroni che si incontrano
in questo territorio. Questo è stato il massacro più orrendo fino ad oggi.

L’obiettivo dei paramilitari è la difesa del capitale industriale. Per
raggiungere questo scopo, i gruppi mercenari attuano una sorta di pulizia generale
preventiva: eliminano drogati, ladruncoli, persone incomode e, naturalmente, chiunque
abbia idee vicine a quelle della guerriglia marxista. Il problema è che in questo modo i
paramilitari stanno uccidendo moltissima gente innocente. A Santander de Quilichao non si
può camminare con sicurezza: molti indigeni, arrivati dalle montagne per il mercato,
vengono sequestrati per avere informazioni o per essere arruolati con loro.

Dall’altra parte, c’è la guerriglia delle Farc. Siccome non si sa come
andranno a finire i dialoghi di pace nel Caquetà, molti guerriglieri si stanno spostando
su queste montagne e cercano di convincere le comunità indigene a schierarsi dalla loro
parte. Ma gli indigeni resistono e con più insistenza rivendicano la loro autonomia
territoriale. Per questo non vogliono che alcun gruppo armato entri in terra di resguardo
(la riserva indigena).

Poiché nella zona montagnosa si muove la guerriglia, i paramilitari accusano gli
indios di essere guerriglieri e quando possono li sequestrano o li uccidono. D’altra
parte, per il fatto che le autorità indigene sono andate a cercare sulle rive del fiume
Cauca (verso Timba) la gente sequestrata dai paramilitari, la guerriglia accusa le
autorità indigene di essere amici di questi. Insomma, come si può comprendere, gli
indios si trovano tra l’incudine e il martello.

LA GUARDIA INDIGENA

E IL BASTONE DELLA PACE

In mezzo a tutto questo, i diversi governatori dei cabildos (qui opera la ACIN, che è
il gruppo dei 15 cabildos della zona nord), a cominciare dal cabildo indigeno di Jambaló
(dove chi scrive opera), hanno organizzato una guardia civica, la quale controlla le vie
di accesso al resguardo, chiudendo il transito a moto, macchine, persone a piedi o a
cavallo dalle 6 del pomeriggio alle 4 del mattino.

Questa guardia civica è volontaria ed è formata da gente della stessa comunità.
Tutte le sere si ritrova nei punti strategici, mette un grosso tronco di albero in mezzo
alla strada e semina chiodi. Altri volontari perlustrano i diversi sentirneri per vedere se
incontrano gente forestiera. Se si trovano persone della stessa comunità si trattengono
fino al mattino, così che le fila dei vigilanti si ingrossano.

Poiché la guardia è civica, non si usano armi. L’unica arma, se così si può
chiamare, è un bastone di un metro.

Quando si è promossa l’idea di questa guardia, sono sorti molti interrogativi. Il
più forte era cosa avrebbero potuto fare delle guardie armate soltanto di bastone di
fronte a gente (guerriglia, esercito, paramilitari) che impugna armi. La risposta è stata
che la vera arma della guardia è l’appoggio di tutta la comunità e che gli indigeni
non devono lasciarsi coinvolgere nella violenza. Si sono fissate alcune strategie per
avvisare la gente in caso di pericolo affinché abbia il tempo per nascondersi. I
volontari che si stanno prestando a questo servizio lo fanno con molta responsabilità,
coscienti dei pericoli che si corrono, ma senza paura.

Diceva una guardia in una riunione: "Mi possono anche uccidere, però è
importante che si salvino gli altri della comunità". Un altro diceva: "La cosa
più importante è il piano di vita che abbiamo predisposto come comunità. Noi ci
muoviamo sempre in gruppi numerosi: potranno uccidere qualcuno, però non riusciranno a
ucciderci tutti".

Fino ad oggi, la guardia civica ha già avuto degli scontri verbali con la guerriglia
che non voleva rispettare i posti di blocco. Però la stessa guerriglia si rende conto che
la gente è a favore del cabildo e della guardia e non dei gruppi armati. Sapendo il
pericolo che corre la popolazione civile, i cabildos si stanno adoperando per avere un
appoggio nazionale e internazionale.

TRA MARCE E PREMI,

LA STRATEGIA INDIGENA

A livello nazionale, l’anno scorso, il "progetto Nasa", come
rappresentante di tutti i progetti della zona nord, ha ricevuto il premio nazionale per la
pace e questo riconoscimento ha fatto risuonare una volta in più la voce e la presenza
delle comunità indigene nel paese.

Nel marzo di quest’anno si è tenuto l’XI Congresso del CRIC
(l’organizzazione indigena del Cauca, fondata 30 anni fa), con la presenza di 80
cabildos e di molte organizzazioni nazionali e inteazionali (in maggioranza Ong) e uno
dei temi è stato quello dell’ordine pubblico. Come impegno e conclusione di questa
riflessione sono nate due marce. La prima era per protestare contro l’uccisione di 8
studenti nel parco nazionale di Purace per mano delle Farc; la marcia si è fatta nella
settimana santa ed è terminata con una eucaristia la domenica di Resurrezione nel parco
dell’eccidio.

L’altra marcia, che aveva per nome "Convivenza senza violenza", si è
realizzata dal 14 al 18 maggio, partendo da Santander de Quilichao e terminando a Cali con
una udienza pubblica per protestare contro la violenza che sta colpendo i dipartimenti del
Cauca, Valle e Narino; per richiamare l’attenzione delle autorità sulla situazione
che stanno vivendo le persone di queste regioni; per denunciare di fronte agli organismi
inteazionali le continue violazioni dei diritti umani; per sottolineare
l’indifferenza del governo su questi fatti ed esigere misure di protezione per tutta
la gente che si trova minacciata.

La partecipazione della gente è stata straordinaria. Alla marcia da Santander a Cali
hanno partecipato 40.000 persone: c’erano indigeni, campesinos, gruppi urbani, negri
e tutte le persone che sono state toccate dalla violenza. Hanno accompagnato la marcia
anche alcune suore, sacerdoti e logicamente tutta la nostra équipe missionaria.

A livello internazionale, c’è stato un incontro in Canada tra indigeni e
rappresentanti di varie organizzazioni, non solo colombiane.

Ezequiel Vitonas (ex sindaco di Toribio) ha espresso la posizione politica delle
comunità indigene, difendendo la loro autonomia. Ha messo in risalto come sia il governo
colombiano sia la guerriglia non vogliano che gli indigeni sopravvivano in Colombia con il
loro piano di vita (ovvero i piani di sviluppo da loro elaborati). L’esposizione di
Ezequiel ha attirato le critiche di chi aveva sostenuto che la guerriglia difende gli
interessi dei poveri e quindi anche degli indigeni.

Ezequiel ha ribattuto che gli indigeni sono autonomi e si difendono da soli e non hanno
bisogno della guerriglia. Questo battibecco ha fatto sì che i guerriglieri delle Farc
mettessero in internet (in molte lingue, tra le quali l’italiano), che il CRIC li sta
calunniando, accusandoli di uccidere e minacciare leaders indigeni.

Sempre nell’ambito della marcia internazionale, grazie alla signora Martha
Cardenas della Ong FESCOL, i giorni 7 e 8 giugno a Maria Piendamo e a Toribio ci hanno
visitato il famoso giudice spagnolo Baltazar Garzon, il rappresentante dei diritti umani
dell’Onu Anders Compas, quello della cooperazione spagnola Vicente Selle e altre
personalità dell’ambasciata di Spagna per raccogliere informazioni sui massacri che
si sono avuti in questo periodo. Il giudice Baltazar Garzon, nell’ascoltare le
testimonianze della gente del Naya, ha commentato che questi massacri sono peggiori di
quelli imputati al dittatore cileno Pinochet.

Nella riunione che il giorno 8 si è tenuta nel CECIDIC, la comunità ha nominato tutte
queste personalità come ambasciatori degli indios nei loro posti di responsabilità e
nelle loro nazioni.

Con queste iniziative, si vogliono rivendicare i diritti dei popoli indigeni. Si
capisce con chiarezza che gli indigeni colombiani stanno cercando di costruire una
società civile fondata sul dialogo e non sulla violenza.

ACCOMPAGNAMENTO

In un contesto tanto difficile, l’équipe missionaria sta accompagnando la
popolazione, cercando di illuminare la situazione con la testimonianza di Gesù e del suo
Regno in tempi di conflitto.

Si fanno corsi per i volontari della guardia civica su relazioni umane ed etica. Si
cerca di dare concreto appoggio alle famiglie che sono state colpite dall’uccisione
di qualche loro membro. Con le autorità locali si vanno a cercare le persone sequestrate.
Purtroppo, nella maggioranza dei casi, si ritorna a mani vuote. Però anche questo,
pensiamo, è la dimostrazione che non ci vogliamo rassegnare a perdere gente e a restare
passivi davanti alla situazione.

Rinaldo Cogliati




Lettere: cari missionari


Soldi…
coltello

Caro
direttore,


complimenti per il dossier «Soldi e missione» (Missioni Consolata, aprile
2001). Alla luce di quanto è stato scritto, faccio alcune considerazioni.

n Dopo il
fallimento dei programmi di cooperazione governativa e i processi di «mani
pulite» contro la corruzione, molte nazioni dell’occidente (specialmente
del Nordeuropa) inseguono i missionari nel destinare i fondi per lo
sviluppo nel sud del mondo: perché i missionari vivono con la gente, ne
parlano la lingua e conoscono la mentalità, non riscuotono salari e,
anche, salvano la faccia dei paesi donatori facendo sì che i soldi
arrivino veramente ai poveri. Circa i 1.900 miliardi di lire destinati
dall’Italia al terzo mondo, Giorgio Torelli, nel suo libro Baba Camillo,
affermava che i denari sarebbero stati spesi meglio attraverso i
missionari. Invece che fine hanno fatto?

n Anch’io,
come scrive padre Eesto Viscardi, autore del dossier, non ho mai capito
perché sia sempre complicato reperire soldi per erigere una cappella… e
non per un allevamento di animali. Ancora più sconcertante è che, quando
negli anni ’90 ero missionario in Uganda, varie associazioni cattoliche
europee (nonché il mio istituto) hanno negato i denari per completare una
cappella in costruzione dal 1972. È stata un’organizzazione luterana della
Svezia che mi ha aiutato a terminare l’opera!

n Non c’è
dubbio che gli italiani, di fronte ai problemi missionari, sono un popolo
generoso, se non il più generoso. Lo dico da canadese (che ha anche il
passaporto italiano). La generosità è da lodare sia per quantità che per
qualità. Gli aiuti italiani sono veramente «cattolici», cioè universali,
senza frontiere e condizioni.

n La
provvidenza ci mette a disposizione cospicue somme di denaro, frutto di
rinunce di tante persone semplici, spesso di condizione modesta. Mi
chiedo, come missionario, se sono degno di ricevere i frutti di tanta
bontà. I soldi sono come un coltello… che si può usare per spalmare il
burro sul pane o ammazzare qualcuno.

n Noi
missionari della Consolata dobbiamo essere amministratori trasparenti;
dobbiamo essere pronti ad aprire i libri di contabilità ad ogni persona e
a qualsiasi ora; soprattutto dobbiamo ricordarci che quanto ci è stato
donato non è nostro, ma dei poveri, e che dobbiamo avere uno stile di vita
semplice e sobrio.

p. Marco
Bagnarol

Cacém
(Portogallo)

Il beato
Giuseppe Allamano ricordava ai suoi missionari: «Non dimenticate mai che
le offerte sono frutto dei sacrifici dei benefattori e richiedono non solo
che preghiamo per loro, ma soprattutto che ai loro sacrifici
corrispondiamo con qualche sacrificio… Quando leggo l’elenco delle
offerte sulla rivista, vi assicuro che faccio una vera meditazione…
Quelle cifre sono lacrime, sono sangue!».

Per
ragioni di riconoscenza e trasparenza, da 103 anni la nostra rivista
pubblica l’ammontare delle offerte ricevute.


Claudia… e
le tigri!


Spettabile redazione,

un «bravo»
a Claudia Caramanti per i reportages da Armenia, Georgia, Turkmenistan e
Uzbekistan. Oltre ai testi, ho apprezzato pure le foto.

Penso, in
particolare, alla madrasa «sher dor» di Samarcanda, con le bellissime
tigri stilizzate: un tesoro dell’arte islamica. Abituati a vedere i grandi
felini dalla televisione (ossia nelle vesti di dominatori delle savane
africane e delle giungle indiane), forse non tutti sappiamo o ricordiamo
che, allo stato naturale, le tigri sono esistite anche in Asia occidentale
e centrale; se oggi sono scomparse da questa enorme area, ciò non è dipeso
dal normale processo evolutivo.

Fino a non
molti decenni fa, una frazione importante delle oltre 100 mila tigri
dell’Asia viveva proprio nelle tugaji, che si estendevano tra Dusanbe e
Tashkent, tra Bukhara e Samarcanda, tra Ashkabad e Teheran, ed erano
presenti anche in Azerbaigian, Georgia e Armenia (Varrone Reatino, nella
sua grammatica, scrive che «tigre» è una parola di origine armena…).

Se oggi le
uniche tigri visibili sono quelle di Sher Dor, il colpevole è solo
l’egoismo dell’uomo che, oltre a sterminare i grandi caivori per
trasformarli in pregiate pellicce e prestigiosi trofei, ha degradato gli
ecosistemi, togliendo spazi vitali a tanti erbivori, agli uccelli e
persino ai pesci.

Questi
territori, per decenni, sono stati controllati da partiti comunisti in un
regime che si è fregiato di «Unione delle repubbliche socialiste
sovietiche». Ma il modo con cui i burocrati locali hanno massacrato i
bacini del Caspio, Aral, Amu Darya e Syr Darya, ha nulla da invidiare a
quello del capitalismo ecocida presente e passato. E, se neppure gli
autori del libro nero sul comunismo hanno speso una parola per denunciare
questo crimine, ciò non significa che l’impatto sia stato meno devastante:
vite umane sacrificate, profughi, mancanza di prospettive per le future
generazioni.

Nelle
città e campagne intorno a quello che un tempo era il pescosissimo Mare
Aral, la mortalità prenatale e infantile è quattro volte superiore a
quella (peraltro drammatica) registrata nell’ex Urss europeo.

Spero che
pubblichiate altri servizi su questa regione, senza dimenticare l’Asia
centrale non sovietica. Anche qui il business del petrolio, la
sperimentazione nucleare, un’agricoltura volta solo a incrementare i
profitti delle mafie del cotone, tabacco, e oppio… hanno provocato dei
danni irreparabili. Penso ai bacini dell’Ili e Tarim, all’antica Zungaria,
al sistema di laghetti del Lop-nor, descritto dal grande esploratore
svedese S. A. Hedin.

Fino a
50-60 anni fa, anche questa era terra di tigri e uomini che sapevano
valorizzarla vivendo in equilibrio con tutte le specie animali. Oggi Tigri
Lop-nor è solo il nome di un movimento indipendentista e terroristico, che
lotta per sottrarre il Turkestan cinese (con forte presenza islamica) alle
prepotenze di regime di Pechino e al suo piano di omologazione culturale.
Un piano che non prevede spazi vivibili per le minoranze etniche e
religiose.

Ave
Baldassarretti

Fano (PS)

Grazie di
questa lettera, con in calce anche un’abbondante bibliografia da
consultare… Intanto l’amico-lettore si «goda», su questo numero, un
altro reportage della nostra collaboratrice Claudia Caramanti: questa
volta dal Pakistan (vedi pp. 52-59).


Non
perderti…

nella
corsa consumistica e materialistica, per inventare un modo diverso di
trascorrere il tempo libero, lo svago o qualcosa che ti realizzi: la
passione per il divertimento, il computer, le auto… Basta essere piccoli
volontari dell’amore in ogni occasione che capita.

Non avere
paura o riluttanza nel privarti di una parte del tempo (anche nei luoghi
di lavoro, se è possibile) per donare qualcosa. A volte basta un piccolo
gesto per accendere un sorriso.

Prova a
privarti di qualche bene personale, per andare incontro alle necessità
altrui (non solo economiche, di salute o lavoro), ricordando le parole di
Gesù: «Chi vuole essere il più grande sia il servo di tutti… Ciò che fai
al più piccolo dei fratelli lo fai al Signore stesso».

Massimo
Piermattei

(via
«e-mail»)



L’«incompiuta» dell’anno santo…

Caro
direttore,

da mesi le
celebrazioni dell’anno santo sono finite nella tomba dell’oblio. Io però
sento ancora, nelle mie orecchie, le promesse d’uguaglianza e giustizia
tra i popoli, promesse fatte da Dio come frutto dell’anno della
riconciliazione.

Fossi
stato io papa, la notte di natale 1999, al momento di aprire la porta
santa (ma può una porta essere «santa»?), mentre le videocamere e tutti i
mezzi di comunicazione erano puntati sul pontefice, mi sarei girato verso
di loro e avrei proclamato ai quattro venti: «Il papa non aprirà nessuna
porta santa, finché i paesi ricchi non avranno assunto un serio impegno di
condonare il debito ai paesi in via di sviluppo, e finché non saranno
varate leggi alle Nazioni Unite per risolvere il problema della fame nel
mondo. Buona notte!…».

Oggi, nel
sonnolento dopo-pranzo, dò un’occhiata a diversi giornali e riviste.
Constato che, dopo ben 18 mesi dal proclama al mondo di un anno speciale,
propizio alla concordia, ad accorciare le distanze tra i popoli e a
diminuire le differenze tra ricchi e poveri, non ci sono grandi risultati.

Anzi, i
milioni di poveri, che muoiono ogni anno per fame o malattie causate da
essa, continuano ad aumentare. Aumentano guerre e conflitti, armati o
meno. Non è diminuita l’intolleranza verso lo straniero, e i disadattati
sono in costante incremento.

Non dubito
che, nell’anno santo, ci siano state delle conversioni personali e persino
comunitarie (le seconde, però, molto scarse). Queste santificano la chiesa
e la rendono migliore dal di dentro.

Io, però,
mi sarei aspettato pure qualche gesto esterno da parte della nostra chiesa
ufficiale. Magari una parola di speranza per il ritorno degli oltre 25
mila preti, tagliati fuori per decreto dal ministero perché hanno scelto
il matrimonio. Oppure dei passi significativi verso l’accettazione della
donna in qualche ministero ecclesiale, verso il suo inserimento effettivo
in cariche importanti, come avviene nella politica.

Non
sarebbe stata bella qualche mozione per una maggiore democrazia
all’interno della chiesa?

Non vi
sarebbe piaciuto che alla teologia della liberazione, relegata nell’ombra
della dimenticanza, fosse stato dato un colpetto d’incoraggiamento sulla
schiena? Sarebbe poi tanto male renderla ancora viva in una chiesa che, la
domenica mattina, sbadiglia durante le monotone prediche di numerosi
sacerdoti?

Come
sarebbe stato bello, per me e forse per tanti altri, vedere alcuni nostri
inamidati e «grandi della chiesa», a capo di dicasteri romani, sorridere
un po’ ai teologi condannati per motivi anche giusti, ma senz’altro
suscettibili di tolleranza. Non era, forse, l’anno della riconciliazione?
Quanto avremmo apprezzato un abbraccio tra il teologo ritenuto avanzato e
il rigido censore! Il tutto magari trasmesso per tivù all’intero mondo:
una riconciliazione globale!

Mi sarei
pure aspettato qualche passo in più verso l’unificazione delle chiese.

L’anno
santo è servito a molte entità (tutte del nord) per ingrossare i loro
conti in banca. A me sembra di ricordare che, agli inizi degli anni ’70,
un dotto papa aveva scritto che «l’aumento della ricchezza nei paesi
sviluppati dipende direttamente dall’impoverimento di quelli in via di
sviluppo». Ebbene, l’anno santo ha pure aumentato la povertà del Terzo
mondo?

Se oggi
l’umanità non ha ancora risolto, tra gli altri, il gravissimo problema
dell’equa distribuzione della ricchezza(e non si vedono soluzioni né a
corta né a lunga scadenza), ditemi voi a che cosa è servito questo
benedetto anno santo?

Il re è
veramente nudo!


Lettera firmata


Addis Abeba (Etiopia)

Il 6
gennaio 2001 si è concluso il giubileo del 2000. In tale occasione
Giovanni Paolo II, con la lettera apostolica Novo millennio ineunte, ha
tracciato un bilancio dell’evento. Tra i fatti significativi si ricordano:
la richiesta di perdono, il raduno dei giovani e l’incontro con i
carcerati, il pellegrinaggio in «terra santa», l’«apertura ecumenica» di
una porta santa (compiuta dal papa, dal primate anglicano e da un
metropolita del patriarcato di Costantinopoli), l’impegno per il condono
del debito estero dei paesi poveri, la riaffermazione della scelta
preferenziale dei bisognosi.

La lettera
«punta in alto» ricordando anche le sfide del futuro: il dissesto
ecologico, i problemi della pace, il vilipendio dei diritti umani, le
biotecnologie (con i loro problemi etici) e, non ultimo, il dialogo
interreligioso… per evitare «lo spettro funesto delle guerre di
religione».

Questo (e
altro) rivelano che l’anno santo è rimasto «incompiuto».


L’auto…
missionaria

Egregio
direttore,

sono un
lettore un po’ anziano della sua rivista: mi interessano molti articoli.
Inoltre ho visto personalmente che cosa fanno in Etiopia i missionari
della Consolata: cose meravigliose! Però, spesso, non sono d’accordo con
le tesi estreme sostenute da Missioni Consolata.

È proprio
vero (vedi l’editoriale di aprile 2001) che «anche quando sono fermi…
tutti gli autoveicoli sono un monumento allo spreco»? Questo vale anche
per gli automezzi, senza i quali il missionario vedrebbe paurosamente
restringersi il suo campo d’azione? E se no, perché scriverlo?


ing. Edmondo Schmidt


Roma

Il signor
Schmidt continua a leggere Missioni Consolata, nonostante le divergenze di
opinione con la rivista. Questa è una testimonianza di pluralismo e
tolleranza, che apprezziamo molto.

Un
editoriale è anche provocatorio. In tale senso va colto lo scritto a cui
si riferisce il lettore, consapevoli che gli automezzi, oltre che
consumare, sono pure inquinanti.

Circa il
«nostro» uso dell’auto, vale il detto


«est modus in rebus».
Ma
il problema resta, anche per i missionari.


Il «nostro
genoma»


Felicitazioni per lo «straordinario» sul centenario dell’Istituto. Avete
usato il metodo degli archeologi: cioè avete scavato fra i vari «campioni»
della nostra famiglia, presentando un modo speciale di «fare missione». Le
figure che avete selezionato confermano la feconda radice del nostro
albero genealogico.

La
«memoria» della nostra storia non solo emoziona, ma stimola a conservarla,
obbliga a onorarla e incarnarla. Con umiltà e modestia, io, voi e molti
altri siamo tale storia, componiamo questa «epopea di Dio», senza rumore,
facendo bene il bene, fedeli al nostro genoma di missionari della
Consolata.

Il vostro
numero straordinario non è tutto l’Istituto e i suoi 100 anni. Però avete
saputo far vibrare il senso di appartenenza, tanto prezioso per noi
«anziani». Mi domando: saprà la generazione nuova bagnarsi nella «nostra
eredità»? Anche il metallo più vile, bagnato nell’oro, si trasforma!

Mi auguro
che i giovani missionari, appartenenti a varie culture, riconoscano con
giusto orgoglio «la roccia da cui siamo stati tagliati…». Voi, che cosa
avete provato dopo la fatica del numero speciale?

p.
Ermenegildo Crespi

Machagai
(Argentina)


«Fuori della chiese c’è salvezza»



PRENDERE O LASCIARE?

Il dossier
«L’alta teologia e il buon senso» (Missioni Consolata, gennaio 2001)
analizzava l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il dossier
era firmato da Igino Tubaldo, teologo e missionario. In aprile la rivista
ritornava sull’argomento con la puntualizzazione di Antonio Santucci,
vescovo di Trivento (CB), e la risposta di padre Tubaldo. Ora intervengono
anche tre lettori di Missioni Consolata.


Chiesa
«istituzione» e «corpo di Cristo»

A ppena ho
letto il «botta e risposta» tra il vescovo Santucci e il teologo Tubaldo,
mi sono venute in mente le parole di Dietrich Bonhoeffer: «La chiesa non è
un’associazione religiosa di adoratori di Cristo, bensì il Cristo che ha
preso forma tra gli uomini… Nel caso della chiesa, non si tratta di
religione, ma della forma di Cristo e del suo prendere forma in un gruppo
di uomini. Il fatto che solo una parte dell’umanità riconosca la forma del
proprio redentore è un mistero di cui non esiste spiegazione».

A questo
punto una nota del libro (da cui ho tratto la citazione) dice: «La
concezione che, anche indipendentemente dal fatto di essere “conosciuto”
dall’uomo, l’evento di Cristo riguardi tutti gli uomini, induce a pensare
all’idea del cristianesimo inconsapevole».

Prosegue
Bonhoeffer: «Dio diviene uomo significa che la forma di Cristo, per quanto
sia e rimanga una e identica, vuole tuttavia prendere forma in uomini
reali e cioè in maniere molto diverse».

Alla luce
di queste parole, non è che si faccia ancora confusione tra chiesa
«istituzione» e chiesa «corpo di Cristo»? Non è che l’eterna questione (se
vi sia o no salvezza fuori della chiesa) sia un non-senso o, almeno,
ampiamente superata?

Stefano Poli
– Zevio (VR)



Chiesa-gerarchia e Maria

Ho letto
le osservazioni del vescovo di Trivento e la risposta del teologo Tubaldo.
Seguendo le indicazioni di mons. Santucci, ho preso il Catechismo
universale e ho trovato la frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio
per padre se non ha la chiesa per madre». Però, se stacchiamo la frase dal
contesto della tradizione cristiana basata sulle sacre scritture, la
mateità di Maria dove finisce?

Se Maria è
madre della chiesa, come ha riconosciuto il Concilio Vaticano II, questa
mateità è decisiva per la salvezza. Come fa a salvarsi una chiesa che
antepone «la mateità» della sua gerarchia a quella di Maria?

Se Cristo
avesse voluto affidare alla gerarchia ecclesiastica il compito di essere
madre dell’umanità, avrebbe forse fatto sì che ai piedi della croce
andasse Pietro, non sua madre. E non si sarebbe rivolto a Giovanni, unico
rappresentante di un nucleo gerarchico smarrito di fronte al potere di
altre gerarchie, dicendogli (indicando Maria): «Ecco tua madre!».

Sui
pericoli cui va incontro l’uomo quando baratta la vera pateità e
mateità con i loro surrogati, le sacre scritture dicono cose importanti:
ad esempio, quando a Gesù dicono che sua madre e i suoi fratelli lo stanno
cercando, Egli risponde: «Mia madre e i miei fratelli – risponde Gesù –
sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
Inoltre quando, nella folla intorno a Gesù, una donna inneggia a «colei
che gli è madre», l’Interessato risponde: «Beati piuttosto chi ascolta la
parola di Dio e la custodisce».

Ogni
cristiano è chiamato a essere «madre di Cristo».

Francesco
Rondina – Fano (PS)


Affermano le
stesse cose

M i
permetto di interloquire nella «diatriba» tra Santucci e Tubaldo. Ritengo
che nella replica del missionario ci sia una presunzione di teologicità:
Tubaldo sostiene le stesse cose del vescovo, almeno per chi ha
interpretato nel giusto senso i documenti del Concilio.

Non vedo
la ragione di contrapporsi polemicamente, ribadendo gli stessi concetti.
Può creare sconcerto in chi ha a che fare con cristiani che non conoscono
più l’abbicidì della religione, e deve essere considerato un «missionario
interno»; per cui giustamente si preoccupa che le parole siano intese
bene, senza equivoci.

Però
riconosco la difficoltà dei missionari, costretti a confrontarsi con
popolazioni non cattoliche; capisco anche il fervore con cui si battono
per sostenere le proprie convinzioni e quelle di cristiani autentici, che
vogliono scuotere le coscienze. Forse viene loro meno la capacità di
comprendere il contesto in cui calano le parole, con effetti talvolta
negativi per la realtà che stiamo vivendo.

A tutti
sta a cuore l’affermarsi del regno di Dio nelle forme che il Signore
stabilisce, e tutti, come cristiani, dobbiamo dare testimonianza della
nostra fede. Manifesto il disagio per quanto ho letto, consapevole che
tutti dobbiamo pregare anche per i terremotati che muoiono senza aver
sentito parlare di Cristo, e così per tutti gli uomini, come credo faccia
ogni cristiano che sia tale. Un vero privilegio, peraltro, di cui non ci
si rende conto… io per primo.

Giannantonio
Grigolato, Crocetta del Montello (TV)

box2


Lettere di famiglia

Cari
missionari, faccio seguito all’offerta inviata a favore delle vostre
missioni per chiedere di ringraziare la Madonna, con le vostre preghiere e
quelle delle persone bisognose da voi beneficate, per le numerose grazie
da me ricevute in situazioni disperate.

Ho sentito
la forza della Consolata che, per ben due volte, ha liberato me e la mia
famiglia dal maligno. Questi «miracoli» sono avvenuti l’anno scorso, nel
mese di ottobre, mese dedicato proprio alle missioni.

Scusate
queste parole di una povera mamma.

mamma Angela
– Bari

Caro
direttore, questa volta, invece di un articolo, ti invio una semplice
foto. È un po’ sfocata, ma la ritengo abbastanza significativa. La si
potrebbe intitolare: «Amicizia kenyana-etiopica» (padre Nicholas Makau,
del Kenya, fra Marta e Meseret dell’Etiopia). Se non ti va, cestina tutto.

Sarà
possibile un futuro di pace e amicizia tra i diversi popoli e gruppi
etnici dell’Africa? Il Signore è il principe della pace. Ma ciò non
dispensa l’uomo dall’impegno.

fr. Vincenzo
Clerici – Addis Abeba (Etiopia)

Cari
missionari, mi sia concesso di ricordare il fratello Tonino, morto nel
1997 in Calabria, dopo aver vissuto tanti anni a Torino. Tutti dicevano
che era anche un missionario… Servendosi di lui, il Signore ha
convertito diverse persone.

Tonino era
pure innamorato della Madonna Consolata. Una volta (che ero a Torino) mi
chiese per telefono di rinnovargli l’abbonamento alla vostra rivista. Ora
la ricevo io e in agosto, se Dio vuole, verrò a Torino e rinnoverò ancora
l’abbonamento a Missioni Consolata.

Sto
scrivendo dal letto: soffro per una brutta cervicale e porto il collare.
Spero che passi. Altrimenti, «fiat voluntas tua…».

sr. Martina
Belvedere – Napoli

Tre
lettere di «famiglia» scritte quasi con pudore. O, meglio, con amore…
Nel libro dei Proverbi si legge: «Un piatto di verdura con amore è meglio
di un bue grasso con odio» (15, 5).

AAVV




Indios di Roraima, Brasile. ANCHE GLI ANGELI PERDONO LE ALI

L’ennesima lotta per non scomparire e l’impegno della chiesa del Consiglio indigeno di Roraima

Articolo 1

Area
indigena «Raposa Serra do Sol»

Gli
indios nella morsa dell’esercito

del
Consiglio indigeno di Roraima

Gli indios
brasiliani di Roraima sono, ancora una volta, sul piede di guerra. I
macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang, che abitano la regione «Raposa
Serra do Sol», stanno affrontando una nuova battaglia politica e legale.
Questa volta contro l’esercito nazionale e le sue caserme. Il luogo della
discordia (o dell’aggressione da parte dei bianchi) è il villaggio di
Uiramutã.

La
caserma ad ogni costo

Il
progetto «Calha Norte» prevede oggi anche una base militare nel villaggio
degli indios macuxí di Uiramutã. Ma la risposta della comunità locale e di
quella delle montagne non si è fatta attendere: sono ricorse alla
giustizia per impedire la costruzione della struttura dell’esercito.

I macuxí
sono molto preoccupati, specialmente dopo le denunce dei yanomami di abusi
sessuali e distribuzione di armi da parte dei militari nei villaggi
indigeni. La costruzione della caserma è un ulteriore attentato alla
cultura degli indios e una violazione dei diritti costituzionali in
Brasile.

La
tensione è alta a Uiramutã, poiché l’esercito sembra deciso a costruire la
caserma ad ogni costo.

Nel
novembre scorso l’esercito incominciò a spianare l’area, a soli 100 metri
dalle abitazioni macuxí, e i capi indigeni fecero ricorso alla giustizia
per fermare i lavori. Ma l’Avvocatura generale dell’unione (Agu), che
difende i militari, si appellò contro le decisioni favorevoli agli indios.
L’ultima sentenza della Corte federale di Brasilia ha previsto che
l’esercito individui con le comunità indigene il luogo più appropriato per
la costruzione della caserma. Ma finora i militari non hanno preso alcuna
iniziativa per arrivare ad un accordo.

L’Agu, con
il ricorso contro la decisione della Corte, ha rivelato che i militari non
hanno alcuna intenzione di trattare con gli indios. Il generale Claudimar
Nunes Magalhães, comandante della prima brigata della «selva», non crede
nel dialogo con i leader indigeni. «Qualsiasi luogo noi scegliamo – ha
detto – a loro non va bene» (Brasil Norte 19/01/2001).

D’altro
canto, in febbraio, i capi di tutte le etnie indie del Brasile si sono
riuniti: hanno inviato un documento alle autorità denunciando gli abusi
dei militari contro i yanomami e chiedendo di partecipare alla decisione
circa il luogo dove costruire la caserma nella regione Raposa Serra do
Sol.

Il 21
febbraio rappresentanti della Giustizia federale, politici e ufficiali
dell’esercito hanno visitato Uiramutã e il villaggio di Maturuca, dove
hanno incontrato i responsabili del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).
Questi hanno sostenuto che la costruzione di una base militare a Raposa
Serra do Sol non è necessaria, poiché esistono già due unità militari
lungo i confini della regione. L’incontro non ha portato ad alcuna
soluzione.

Il 18
marzo il ministro della Difesa, Geraldo Quintão, ha dichiarato alla stampa
nazionale che l’esercito è determinato a costruire la base a Uiramutã,
nonostante l’opposizione indigena. Il giornale O Globo ha rivelato che i
militari ritengono impensabile una decisione finale della Corte, contraria
alla costruzione della caserma (O Globo 18/03/2001).

Inoltre a
Roraima Quintão ha affermato che la demarcazione dell’area yanomami è
stata un errore e si è dichiarato contrario ad altre demarcazioni di terre
indigene in aree uniche (non a macchia di leopardo), riferendosi proprio a
Raposa Serra do Sol (O Estado de São Paulo, 22/03/01).

Il
«municipio bianco» a Uiramutã

La
demarcazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è considerata da
varie organizzazioni ambientaliste e dei diritti umani l’emblema della
politica governativa brasiliana circa i diritti indigeni, soprattutto il
diritto alla terra.

L’area
Raposa Serra do Sol occupa 1.651.300 ettari nel nord orientale di Roraima
ed è abitata da oltre 15 mila indios macuxì, wapixana, ingaricó, patamona
e taurepang.

La
demarcazione di questa zona è stata apertamente e costantemente combattuta
dal governo e dai parlamentari di Roraima, anche con mezzi illegali (ad
esempio, la strumentalizzazione di capi indigeni), onde bloccare la
conclusione del processo di delimitazione del territorio. È dal 1998 che
l’atto finale è fermo negli uffici della Presidenza della repubblica, a
causa delle pressioni dei politici.

Vari
gruppi economici e politici, con interessi in Amazzonia, seguono con ansia
gli sviluppi della situazione a Raposa Serra do Sol, sperando in un
«precedente giuridico» che li aiuti a contrastare altre demarcazioni di
aree indigene.

Nel 1997
il governo di Roraima fece pressione per l’installazione del «municipio
bianco» a Uiramutã, nella regione delle montagne, come strategia per
destabilizzare il movimento di demarcazione e per frammentare il
territorio indigeno.

Il
municipio è stato la fonte di costanti aggressioni contro gli indios, di
invasione dei loro territori e di divisione tra i villaggi. Il Consiglio
indigeno di Roraima ha lottato legalmente per annullare il municipio,
installato al contrario per vie illegali. La sede, nel cuore del villaggio
di Uiramutã, esprime la politica di soffocamento contro le società
indigene praticata dal governo di Roraima.

La
prefettura di Uiramutã ha costruito altri edifici pubblici fra le
abitazioni macuxí e ora rivendica che il villaggio sia riconosciuto come
vila (cittadina dei bianchi) e addirittura come città. Ma vi sono solo 110
non-indios a Uiramutã, contro 380 indios. Oltre alle costanti minacce ed
aggressioni fisiche contro gli indios, i non-indios commerciano bevande
alcornoliche, responsabili della distruzione fisica, sociale e culturale
delle comunità.

È in
questo contesto che si colloca la costruzione della caserma, senza il
consenso degli indios. La struttura consoliderebbe l’invasione del
villaggio e, inoltre, costituisce una violazione del diritto
costituzionale delle società indigene a conservare i propri costumi,
lingue, credenze e tradizioni, nonché il diritto originario sulle terre
dove vivono da sempre. Oltre a questo, preoccupa gli indios la recente
denuncia dei capi yanomami di irregolarità commesse dai militari nella
base di Surucucus.

I yanomami
accusano soldati e ufficiali di abusare sessualmente delle loro donne e di
distribuire armi da fuoco e munizioni agli uomini. Il che aumenta le
aggressioni fisiche tra i villaggi rivali.

I capi
indigeni di Roraima non vogliono che questa storia si ripeta in altre
comunità e temono che la presenza di militari nei pressi dei villaggi
generi prostituzione e alcornolismo.

I tuxáuas
(capi) di Raposa Serra do Sol non sono contrari alla presenza
dell’esercito in Amazzonia, ma non vogliono caserme dentro o nei pressi
dei villaggi indigeni. Un’eventuale caserma dovrebbe essere costruita
lontano dalle comunità, per evitare i problemi vissuti dai yanomami.

L’esercito
finora si è rifiutato di discutere la scelta di un altro luogo per la
base. Secondo il colonnello Roberto De Paula Avelino, responsabile del
progetto Calha Norte, il problema non può dipendere da questioni indigene
e territoriali. A suo parere, le uniche preoccupazioni riguardano la
sovranità nazionale e lo sviluppo regionale. «Spero che nei prossimi 18
mesi la caserma di Uiramutã sia in funzione» ha affermato il militare in
un’intervista alla stampa. Significativo il titolo: «Calha Norte non bada
alla questione indigena in Roraima (Folha de Boa Vista, 5/12/2000).

Complici i cercatori d’oro

Il
villaggio di Uiramutã sorge nella regione delle montagne, una delle
quattro aree che formano la Raposa Serra do Sol, a poca distanza dal fiume
Maú, al confine tra Brasile e Guiana. Sul finire degli anni Cinquanta, i
garimpeiros (cercatori d’oro) si installarono nel cuore del villaggio, a
fianco pure della casa del vecchio tuxáua José Massaranduba, che vive
tutt’oggi in loco.

La
presenza di garimpeiros ha causato l’oppressione e disgregazione della
comunità attraverso l’alcornolismo, la prostituzione, gli omicidi, lo
sfruttamento della manodopera indigena, insieme ad una lunga serie di
violenze culturali e fisiche. Poi, con il fallimento del garimpo (miniera
d’oro) nella regione, gli invasori se ne sono andati. Sono rimasti solo
pochi avventurieri.

Agli inizi
degli anni Ottanta la comunità indigena, già rafforzata dal movimento di
recupero socioculturale nei villaggi e dalla lotta per la terra, riuscì a
controllare il viavai di estranei.

Intanto, a
partire dal 1985, si è assistito ad una nuova invasione di garimpeiros in
territorio yanomami, attratti sempre dalla corsa all’oro. Tale invasione
fu favorita dallo stesso governo di Roraima che, tra i vari provvedimenti,
aprì una strada per facilitare l’«integrazione» del territorio isolato. Il
villaggio di Uiramutã è stato nuovamente circondato da garimpeiros. I
nuovi invasori hanno aperto bar e postriboli vicino alle case degli indios.
E le comunità indigene della regione sono state colpite da malaria,
malattie respiratorie, come pure da aggressioni fisiche che causano molti
decessi.

Però, in
questa circostanza, gli indios erano più organizzati e coscientizzati
rispetto al passato. La presenza di garimpeiros li ha stimolati a
sollecitare un urgente e quanto mai necessario riconoscimento ufficiale
della loro terra.

Nel 1993
la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) concluse e fissò il processo di
identificazione e demarcazione del territorio macuxí, ingaricó, taurepang
e wapixana e lo consegnò al ministro di Giustizia. Il fatto suscitò, da
parte del governo locale, proteste, minacce e tentativi di consolidare
l’invasione. Fra questi vi fu la costruzione della diga del Tamanduá, sul
fiume Cotingo, che gli indios contestarono con successo.

La
creazione del municipio di Uiramutã è stato l’ennesimo stratagemma
politico del governo di Roraima per impadronirsi del territorio.

Gli indios
hanno denunciato l’imposizione della struttura «bianca» nel villaggio di
Uiramutã e il Consiglio indigeno di Roraima è ricorso alla giustizia
contro la creazione illegale del municipio. Il processo è ancora in alto
mare e si aspetta la decisione definitiva di Brasilia.

Nella
regione, tra il 1997 e il 1998, la reazione degli indios portò
all’espulsione dei garimpeiros dall’area e la chiusura dei garimpos, che
costituivano insieme al settore terziario l’unica fonte di rendita per il
municipio. Al presente ci sono solo i salari dei dipendenti del municipio
a sostenere la «cittadina».

Si sappia
che le comunità indigene delle montagne hanno al presente il controllo di
quasi tutte le terre che dovevano teoricamente appartenere al municipio.

La corruzione dei capi

Uiramutã è
un villaggio che comprende due realtà diverse: il centro tradizionale
(chiamato vila), invaso dai bianchi, e il centro recente.

Il centro
tradizionale è una fascia di terra delimitata, da ovest ad est, da due
igarapés (torrenti), che confluiscono nello stesso punto dopo le ultime
case. Il territorio misura circa 1.000 metri di larghezza sul lato ovest,
300 sul lato est e circa 1.300 metri di lunghezza (vedi cartina). Tra i
due igarapés vivono 26 famiglie macuxí. Fra loro si trovano pure 31
famiglie di non-indios, per un totale di 110 persone.

Il governo
di Roraima ha installato proprio qui la sede del municipio e ha «riempito»
il luogo con le seguenti strutture politiche: una scuola elementare con
otto classi e una media con cinque, più un corso supplementare; un campo
sportivo; una casa di appoggio per l’esercito; due cistee d’acqua; un
palazzo comunale con la «camera dei deputati»; un centro di
amministrazione; un ambulatorio; due generatori elettrici; un
radiotelefono; una casa per «il club delle madri»; un commissariato di
polizia.

Il centro
recente del villaggio (situato lungo il limite settentrionale e
meridionale dell’area invasa e da essa separato solo dai due igarapés), è
amministrato dal tuxáua Orlando Pereira, figlio di Massaranduba. Qui si
contano 74 case, con un totale di 380 persone. Il centro possiede una
scuola con 83 alunni e diversi insegnanti indigeni, un ambulatorio, acqua
canalizzata, una chiesa cattolica, tre retiros per l’allevamento del
bestiame e 56 piccole piantagioni. La comunità indigena (e le sue
abitazioni) è circondata quasi totalmente dal complesso di edifici
costruiti dal governo. A lato dell’agglomerato delle case del villaggio,
c’è la sponda dell’igarapé meridionale, dove i militari vogliono costruire
la loro caserma. La distanza della base militare dalla casa indigena più
prossima è di appena 100 metri.

Nella
regione i rapporti tra indios e non-indios sono stati sempre tesi e
pericolosi per gli indigeni e i loro alleati. Basta ricordare alcuni
episodi recenti: il rogo di tre case indie a Uiramutã; l’invasione nel
1999 da parte di abitanti della vila del vicino villaggio di Weilimon, in
seguito al tentato omicidio del leader Paulo; il tentativo di pugnalare il
segretario generale del Cimi, Egon Eck.

Ma ancora
più grave è il fatto che il governo di Roraima abbia cornoptato e ingaggiato
alcuni leader indigeni con stipendi e promesse di ricchezza. Questi si
sono schierati addirittura contro i propri diritti e dei fratelli,
arrivando a chiedere la demarcazione di una superficie inferiore a quella
che la stessa legge loro garantisce, nonché il ritorno dei garimpeiros,
l’espansione della vila e, oggi, la costruzione della caserma a Uiramutã.

La
cornoptazione è stata la strategia principale, adottata dall’attuale
governatore dello stato di Roraima, per destabilizzare il movimento
indigeno e impedire l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do
Sol.

Articolo 2

Ladri,
corrotti e «viados»

di Carlo
Miglietta (*)

Boa
Vista, capitale dello stato di Roraima. Scendendo dall’aereo, il primo
assaggio del clima è tremendo. Fa molto caldo; soprattutto c’è un’umidità
che ti fa sembrare di camminare… nell’acqua calda! I missionari della
Consolata, venuti ad attenderci, ci prendono in giro: «Ma se è inverno!
Siamo nei mesi freschi delle piogge».

Ci
sorprende che ad attenderci non ci sia l’amico padre Silvano Sabatini.
Però subito ne comprendiamo il perché. La città è tappezzata di manifesti,
stampati dal governo e da fantomatiche associazioni di commercianti e
agricoltori, che attaccano i missionari e la Funai (Fondazione nazionale
dell’indio) per la loro difesa degli indios.

Alcuni
cartelloni recitano: «La Funai genera miseria e conflitti!»; «No alle
demarcazioni delle terre! A “isole” sì, ad “area continua” no!»; «Il
Brasile è dei brasiliani e non degli indios»; «La diocesi deve
catechizzare, non terrorizzare»; «La chiesa è contro la società»…

C’è lotta
senza quartiere tra i missionari (che premono perché le terre indigene
siano demarcate come aree continue, secondo la Costituzione brasiliana del
1994, e il governo locale, in mano alla lobby dei fazendeiros, che accetta
solo la demarcazione del territorio «a isole» (cioè a pezzetti),
accerchiate da grandi fazendas pronte ad inglobarle… Sui muri vistose
scritte: «Preti ladri, corrotti e travestiti! (viados)».

Padre
Sabatini è uno dei «ricercati», ed è meglio che non si faccia vedere in
giro. Il suo libro Massacre (1998) ha inchiodato, con nomi e testimonianze
precise, gli autori dell’uccisione di padre Giovanni Calleri e di numerosi
indios: militari, personaggi di compagnie minerarie e di sètte
nordamericane fiancheggiatrici.

Missione
di Calungá, alla periferia di Boa Vista. È anche la sede provinciale dei
missionari della Consolata. E qui abbracciamo finalmente padre Silvano,
che ci aggioa sulla situazione molto tesa.

Il diritto
degli indios alla demarcazione delle loro terre indigene è rimasto
disatteso. Bianchi, fazendeiros ed enti minerari hanno depredato gli
indios delle loro terre, massacrandoli con mitragliatrici e bombe,
inquinando i fiumi con derivati mercuriali, diffondendo malattie contro
cui gli indios non hanno difese immunitarie. In una trentina d’anni, da
300-400 mila sono passati a poche decine di migliaia.

Il governo
di Roraima, dato che i potenti fazendeiros non hanno alcuna voglia di
abbandonare (neanche dietro indennizzo) le aree da essi arbitrariamente
occupate, cerca addirittura di aumentare la presenza dei bianchi nelle
aree indigene, per rendee ancora più difficile l’espulsione. A tal fine,
ha favorito l’immigrazione di contadini del nordest, soprattutto del
Maranhão. In queste regioni era iniziata una timida assegnazione di terre
ai contadini, senza dotarli delle necessarie infrastrutture (trasporti,
scuole, ospedali): il contadino, che si è visto dare un terreno a 400-600
chilometri dalla città, ma senza mezzi per raggiungerlo, non sapendo come
vendere i raccolti, ha accettato la misera offerta del latifondista; e
dotato di grossi camion e aerei per i trasporti, con pochi soldi si è
visto di nuovo legalmente proprietario di tutti i terreni.

Il governo
di Roraima concede ai contadini poveri 100 metri quadrati di terra a Boa
Vista per costruire una baracca; ed essi vi giungono a frotte dal nordest.
Così la città è cresciuta, in una decina d’anni, da 70 mila a 360 mila
abitanti: tutti baraccati, senza fogne, con la luce rubata attraverso
allacciamenti di fortuna, con acqua solo se, scavando nel terreno, c’è la
ventura di trovarvi un pozzo.

Il governo
di Roraima ha indetto, contro la demarcazione delle terre, la «marcia in
difesa dello stato», favorendola in ogni modo con trasporti gratuiti e una
giornata di libertà per i dipendenti della pubblica amministrazione. La
Folha de São Paulo ha scritto che vi hanno partecipato 30 mila persone,
ma, secondo il giornale locale O Correio, la manifestazione è stata un
fiasco, con non più di 3 mila persone.

Visitiamo
l’ospedale infettivologico per gli indios, a pochi chilometri da Boa
Vista. È stato costruito dai missionari della Consolata a misura di indio:
come «reparti» ci sono «maloche», le tipiche costruzioni a capanna
plurifamiliare, e come letti le immancabili amache. Gli indios possono
cucinarsi il cibo secondo le proprie usanze; dispongono di locali per
lavori artigianali anche durante il ricovero; hanno possibilità di
alfabetizzarsi… L’ospedale è diretto da Renato, un avvocato brasiliano
di origine tedesca, anch’egli nel mirino della repressione, e vi operano
part time un medico colombiano e un radiologo venezuelano. Malattie più
frequenti: tbc, malaria, varicella, morbillo, che colpiscono gli indios in
forme devastanti.

Un
cruciale problema per l’ospedale sono i finanziamenti: lo stato, che
dovrebbe mantenerlo in convenzione, paga… qualche volta. Tempo fa i
missionari sono stati costretti a chiuderlo e a portare gli infetti
all’ospedale statale ottenendo… l’immediato pagamento degli arretrati.

Eucaristia
nella cappella (anche questa a forma di maloca) nella missione di Boa
Vista. Padre Silvano ricorda con viva commozione Micarnela, mancata un anno
fa, indicandola come vera «santa missionaria», per avere fino all’ultimo
pensato ai fratelli e alla missione, nonostante la sua gravissima
malattia.

Pure noi,
anche guardando il sacerdote celebrante, siamo commossi: padre Silvano,
dopo 79 anni di «intemperie», è cieco! Ma la mente, lucidissima, vede
sempre lontano e il cuore è appassionato… Preghiamo per gli amici di
Torino, i familiari, i sostenitori degli indios.

(*) Carlo
Miglietta è medico a Torino. Si è recato due volte nella zona di Roraima,
l’ultima delle quali per accompagnare gli inviati del settimanale
«Famiglia Cristiana».

Articolo 3


Surumú – Maturuca


Storia di liberazioni

di
Benedetto Bellesi

Una
volta si vergognavano di sentirsi indios; oggi si sono riappropriati delle
loro terre, dignità e valori culturali. È una lotta infinita, combattuta
su due fronti: contro l’oppressione estea e schiavitù intee, come
alcornolismo e dipendenza. Da 40 anni i missionari della Consolata camminano
con gli indigeni di Raposa Serra do Sol, aiutandoli a confrontarsi con la
parola di Dio, a cui traggono ispirazione e forza per continuare il loro
processo di riscatto.

Prima di
mettersi al volante padre Giacomo Mena si toglie le ciabatte e infila i
piedi nudi nelle scarpe d’ordinanza. «Meglio bollenti che una grana con la
polizia – spiega -. Non conviene farsi prendere in castagna, specie in
questi giorni in cui tutti cercano appigli per sbattere la chiesa in prima
pagina». Un bel segno di croce e ci mettiamo in viaggio per Surumú e
Maturuca. «Il Signore ce la mandi buona» continua, con un augurio che
vuole essere anche una preghiera.

Lasciata
alle spalle Boa Vista, infiliamo la statale che conduce in Venezuela.
L’asfalto invita a pigiare sull’acceleratore; ma per un’ora e mezza, un
occhio alla strada e l’altro al contachilometri, l’autista rispetta con
scrupolo i limiti di velocità. Poi svolta a destra, su uno stradone
sterrato. «Ora siamo al sicuro» afferma il padre con un sorriso soione:
ferma l’auto, rimette le ciabatte e riparte a tutto gas.

Padre Mena
non è fanatico di regole e comandamenti. Nato a Chiari (Brescia) 60 anni
fa, metà della vita spesa in Brasile, conosce bene la situazione e,
piccolo ma furbo quanto basta, sa dove finisce la sfida e inizia la
prudenza. «Sicuri dalla polizia, non da peggiori incontri – continua
sorridendo sotto i baffi e sbirciando di traverso per vedere la mia
reazione -. Qui si sa quando si parte, ma non quando e se si arriva a
destinazione. Preti e suore sono nel mirino di pistoleros pagati dai
fazendeiros. La situazione, ora, sembra calma; ma non si è mai sicuri al
cento per cento».

SPECIALISTI DEL PROGRESSO

Il viaggio
continua, invece, liscio come l’olio e dopo un’altra ora buona siamo a
Surumú: la vila (villaggio dei bianchi) è sotto l’amministrazione
regionale; la missione si trova nella riserva Raposa Serra do Sol.
«Abbiamo i piedi su due staffe – spiega suor Leta, missionaria della
Consolata -. E ciò crea una certa tensione. I bianchi non ci sopportano,
perché difendiamo gli indios; noi boicottiamo le loro botteghe, perché
vendono alcornolici agli indigeni».

La
missione di Surumú, la prima fondata tra gli indios della savana (1951), è
stato il centro della riscossa indigena. Iniziò con la scuola elementare e
inteato per una trentina di alunni, poi è stata adattata alle varie
esigenze della popolazione indigena, diventando centro di formazione per
leaders e capi indigeni; oggi è una specie di università agricola.

«Con la
demarcazione della riserva e il graduale recupero della terra – spiega
suor Leta, incaricata della formazione di questa scuola -, c’è bisogno di
gente capace di difendere i propri diritti e promuovere l’autonomia
economica delle comunità. Cinque anni fa, nella loro assemblea annuale, i
tuxáuas hanno chiesto ai missionari di assumersi questa responsabilità».

Un’équipe
di missionari e professori di antropologia, diritto, tecnica agricola ha
progettato un programma di tre anni e si è messo subito al lavoro. Una
trentina di giovani hanno già concluso i corsi e si sono reinseriti nelle
rispettive comunità.

Le
principali materie di studio riguardano la tecnica agricola e agropecuaria;
la formazione è integrata con lezioni di antropologia e diritto, perché
gli alunni conoscano e apprezzino i valori culturali dei vari gruppi
etnici, imparino a fronteggiare uniti le sfide che li aspettano in futuro.
Qualche volta padre Giorgio Dal Ben porta a scuola i tuxáuas, che
raccontano agli studenti il cammino di lotta che stanno percorrendo per
riacquistare la loro dignità. Così la memoria storica viene tramandata di
generazione in generazione.

Alle
lezioni teoriche segue la pratica. La missione ha un esteso campo, dove i
giovani coltivano fagioli, mais, orzo; un frutteto con banani, manghi,
aranci, limoni; stalle con mucche, porci, galline. Fa impressione vedere
ragazze maneggiare zappe, concimi e tritaforaggio. «Anche le ragazze
frequentano questa scuola – spiega la suora -. Fa parte della loro
cultura: è la donna che coltiva i campi».

Entro
nell’aula scolastica, dove il professore Martino sta tenendo una lezione
di apicultura. Gli alunni sono attenti e non badano alla nostra
intrusione. «Sono affamati di sapere – continua suor Leta – e
impegnatissimi». Quasi tutti hanno solo la licenza elementare; nei ritagli
di tempo si preparano privatamente per conseguire il diploma statale di
secondo grado. Spesso accompagnano il professor Martino nelle varie
malocas, per esaminae i terreni e studiae le possibilità di
coltivazioni. Un mese fa hanno filmato il loro lavoro: un trapianto di
banani, con relative spiegazioni su qualità del suolo, malattie, cure e
concimazione. Poi hanno proiettato la cassetta in una maloca, imparando
così a trasmettere agli altri ciò che apprendono.

Suor Leta
confessa che anche lei ha molto da imparare da questi giovani. «Quando
arrivai a Surumú – racconta – in questa veranda c’erano sempre otto grossi
rospi, nonostante i sette gatti e quattro cani che girano per casa; finché
una ragazza sparse un po’ di sale sul pavimento e i rospi sparirono. “Oggi
ho appreso una cosa nuova: come ammazzare i rospi” dissi. “I rospi non si
uccidono, suora” rispose la ragazza. Oltre a imparare che il sale
impedisce la respirazione dei rospi, ricevetti una bella lezione di
ecologia: il rospo mangia insetti e scarafaggi; il gatto mangia il topo, i
cani allontanono i serpenti… Nella cultura indigena ogni creatura ha il
suo posto nell’equilibrio della natura».

AGENTI DI SALUTE

Altro
fiore all’occhiello della missione di Surumú è il piccolo, ma
attrezzatissimo ospedale S. Camillo, il primo e l’unico in tutto la parte
settentrionale della riserva Raposa Serra do Sol, la savana di Surumú e
Basso Cotingo e la «regione delle montagne» di Maturuca. Da otto anni lo
dirige suor Teresa, missionaria della Consolata kenyana. Oltre ai vari
reparti, mi mostra con orgoglio il giardino da lei curato, zeppo di alberi
da frutta ed erbe medicinali.

Ma i
frutti più belli del S. Camillo sono gli operatori di sanità, infermieri e
infermiere che già operano in molti villaggi della riserva. «Sono tanti e
ben preparati – spiega suor Teresa -. Se la cavano benissimo nei casi di
ordinaria amministrazione. Per quelli più complicati i pazienti vengono
portati qui, dove sono curati o immediatamente inviati a Boa Vista o a
Santa Eléna, in Venezuela, a seconda dell’urgenza e disponibilità: Boa
Vista è a due ore e mezza di viaggio; il confine venezuelano è
raggiungibile in un’ora».

Fino a
poco tempo fa, suor Teresa era supervisore della scuola infermieristica,
dei centri di salute e scuole della riserva: le visitava periodicamente
con grande beneficio per insegnanti e operatori sanitari. Poi
l’amministrazione regionale ha cominciato a mettere i bastoni tra le
ruote: la suora ha dovuto smettere le sue visite e i corsi di
infermieristica sono chiusi. «I fondi stanziati per l’ospedale sono
bloccati dall’amministrazione di Roraima – spiega sconsolata suor Teresa
-; medici, insegnanti e microscopisti hanno cercato lavoro altrove. Da tre
mesi sto aspettando l’arrivo di sussidi e altro personale per mandare
avanti l’ospedale. Ma sono stanca di sperare. È stanchezza mentale: ogni
progetto viene prima approvato e poi sistematicamente impedito, con grande
danno della popolazione indigena».

È la
strategia messa in atto dalla società locale contro la chiesa di Roraima,
con un continuo stillicidio di attacchi, calunnie, sospetti, minacce,
boicottaggi, fino a veri atti di violenza. «È in corso una guerra di
logoramento – sospira padre Luciano Stefanini (una vita spesa accanto alla
popolazione indigena) -, per costringerci a gettare la spugna nella difesa
dei diritti degli indios; una lotta che assorbe tempo, energie e denaro
per controbattere gli attacchi, anche per via legale, a scapito del lavoro
religioso e formazione della gente».

VIVERE NELLA TERRA PROMESSA

A Surumú
si tengono anche le assemblee annuali, dove i tuxauas della savana e delle
montagne prendono le decisioni più importanti per la vita delle loro
comunità. Storica è stata quella del 1977, quando dichiararono guerra
all’alcornolismo e giurarono di lottare uniti per riscattare terra, cultura
e dignità. Nel presbiterio della chiesa sono ancora appesi i simboli di
tale decisione: un fascio di rami, per indicare che l’unione fa la forza,
e una croce di legno, simbolo della volontà di sacrificarsi per il bene di
tutta la popolazione.

Anche i
giovani hanno assimilato le decisioni dei loro capi; sono consapevoli che
tutti i loro mali sono legati all’alcornolismo, che ubriacarsi significa
abbrutirsi. Per questo gli alunni della scuola di Surumú hanno forgiato
uno slogan e lo hanno inserito nel loro regolamento interno: «Ha bevuto?
Fuori!». Chi beve deve allontanarsi dalla scuola. E vi si attengono con
scrupolosa serietà.

«Qui è
iniziata e continua una storia di liberazione – afferma suor Leta -. Una
volta tutta la regione era in mano ai fazendeiros; gli indios erano alle
loro dipendenze e affogavano le loro frustrazioni nell’alcornol; ora quasi
tutti i bianchi hanno lasciato le fazendas e gli indigeni sono ritornati
padroni della propria terra e del proprio destino. Un conto, però, è
entrare nella “terra promessa”; come viverci è una storia tutta da
inventare».

Articolo 4

Maturuca, scuola di liberazione

Lasciamo
la savana e ci addentriamo nella regione delle serras (montagne). La
strada costeggia fiumi e ruscelli, attraversa amene vallette e e si
arrampica per dorsali scoscesi. Il panorama diventa sempre più vario e
pittoresco: bello da fotografare, affatto comodo per viverci. «Delle 46
comunità di Maturuca – dice padre Mena – non sono molte quelle
raggiungibili per strada camionabile. Alcune sono a 200 km di distanza: se
ne percorre 60 in auto, il resto a piedi. Le visitiamo tutte almeno due o
tre volte all’anno».

Tenendo
conto che, durante il periodo delle piogge, strade e sentirneri sono
impraticabili, rimangono sei mesi in cui è possibile raggiungere le
malocas più isolate. Le visite richiedono fino a due o tre settimane.
Tanto di cappello ai due missionari, Giorgio Dal Ben e Giacomo Mena,
parroco e vice, che in barba all’età, rispettivamente 58 e 60 anni,
continuano con immutato ritmo giovanile.

«Una
volta, per raggiungere un villaggio ingaricó – continua padre Giacomo – ho
impiegato 10 giorni. In un’altra occasione, i miei accompagnatori ogni ora
si fermavano a parlottare, con la scusa di farmi riposare. Dopo mezza
giornata, riuscii a capire che si erano perduti e cercavano punti di
riferimento». In questa regione montagnosa e senza strade anche gli angeli
perdono le ali.

CUORE DEL RISCATTO

Grazie a
Dio, l’auto di padre Mena non ha le ali: al tramonto siamo in vista di
Maturuca. Una corona di alture scintillanti fanno da sfondo a un arioso
anfiteatro, in cui le ombre lunghe degli alberi di mango ed anacardio
nascondono case e capanne disseminate nel pianoro. A parte la scuola, un
edificio ampio e moderno, gli altri fabbricati del villaggio appaiono
poveri e male in aese.

Cuore
della vita economica e sociale della comunità è un ampio piazzale
rettangolare, i cui lati sono delimitati da due casette bianche, sedi
dell’ambulatorio medico e laboratorio di taglio e cucito, da un grande
padiglione a cupola, dove sono raccolti una trentina di agenti di salute
per un corso di aggioamento, e da due file ben allineate e ad angolo
retto di capanne e tettornie, destinate a mercati e fiere nel periodo
estivo.

In
disparte, la vecchia chiesetta, distinta a mala pena da una crocetta di
legno, pendolante dal culmine del tetto. Neppure l’antistante casa dei
padri dà nell’occhio: tre stanzette basse e scure, con mobilia ridotta
all’osso. Unica comodità modea è un paio di pannelli solari che
alimentano le fioche lampadine dell’abitazione e della chiesa.


Disposizione e caratteristiche degli edifici sono significative: la chiesa
riveste un ruolo di presenza, sostegno e accompagnamento del cammino di
liberazione delle popolazioni indigene. Ma protagoniste sono le comunità,
che hanno preso in mano le redini del proprio futuro.

Il cammino
è stato lungo e faticoso ed è ancora tutto in salita. È iniziato alla fine
degli anni ’60, nella maloca di Raposa, nella zona della savana, quando i
missionari della Consolata si schierarono con un capo makuxí, Gabriel
Viriato, nella difesa della sua terra dalle invasioni dei bianchi. Una
vittoria che diede una svolta all’impostazione del lavoro missionario tra
gli indigeni della diocesi di Roraima.

Uno degli
animatori di tale cambiamento è padre Dal Ben, che nella regione di Raposa
fece le prime esperienze e lanciò varie iniziative a favore degli indios;
e quando si trasferì a Maturuca, questa divenne il centro della
liberazione di tutte le popolazioni indigene della riserva Raposa Serra do
Sol: macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang. Qui fu ideata,
discussa e avviata la famosa campagna «una mucca per l’indio»: nel 1979
avvenne la prima consegna di bestiame alla maloca di Maturuca; l’anno dopo
a quelle di Enseada e Petra Branca e negli anni seguenti il progetto fu
esteso a tutte le comunità che ne fecero richista.

Con tale
progetto gli indigeni riuscirono a bloccare l’avanzata dei bianchi nel
loro territorio; con la campagna per la demarcazione della riserva Raposa
Serra do Sol, sempre partita da Maturuca, essi cominciarono a recuperare
le terre perdute.

LOTTA ALL’ALCOOLISMO

«Non siete
troppo coinvolti nel sociale?» domando con una punta di provocazione. «Il
lavoro impostato dalla missione di Maturuca nella regione delle montagne –
comincia padre Mena, serio e composto come non lo avevo mai visto – si
basa sul progetto di Dio, come appare dalle prime righe della bibbia:
“Creati a immagine di Dio”, da cui derivano rispetto, dignità e valore
della propria e altra persona; “crescere e moltiplicarsi”, cioè
organizzazione familiare e comunitaria; “occupare e dominare la terra”,
cioè lavoro e responsabilità individuale e collettiva. Sono i tre pilastri
della nostra attività missionaria, basati sul confronto con la parola di
Dio».

Una delle
prime decisioni prese a Maturuca fu la lotta all’alcornolismo. «Era l’inizio
del 1977 – racconta il maestro indigeno Elias -. Riflettendo sulla parola
di Dio, i nostri tuxauas presero coscienza della necessità di liberarsi
dalla schiavitù dell’ubriachezza, che distrugge l’essere di Dio che è in
noi, oltre a minacciare l’estensione fisica di individui e comunità».
Iniziò così la lotta alla cachaça, una grappa estratta dalla canna da
zucchero e venduta dai bianchi, e al caxirí e pajuarú, micidiali bevande
alcornoliche fatte in casa con la fermentazione della farina di manioca.
L’impegno fu accolto da tutti i tuxauas della riserva indigena
nell’assemblea tenuta lo stesso anno a Surumú.

Nonostante
la buona volontà, non è facile sbarazzarsi delle cattive abitudini
assimilate da oltre mezzo secolo di invasioni, oppressioni, frustrazioni e
abusi provocati dai fazendeiros. Il discorso fu ripreso nel natale 1993:
durante i 15 giorni di riflessione sul primo capitolo della bibbia, i
catechisti di Maturuca si presentarono in chiesa e dissero alla comunità:
«Noi abbiamo deciso di non bere più bevande alcornoliche e vogliamo che
tutta la comunità faccia altrettanto».

Era una
decisione drastica, coraggiosa, quasi una violenza psicologica e
culturale. «È vero che caxirí e pajuarú ci sono stati tramandati dai
nostri antichi – continuarono i catechisti -, ma noi ne abusiamo, fino a
commettere dei crimini. Non dobbiamo più né berle né produrle». Dopo tre
giorni di discussioni e contorsioni, metà della comunità accettò tale
decisione.

«Fu un
grande passo verso la liberazione – racconta Jaime, cornordinatore dei
catechisti di Maturuca -. In un incontro a livello diocesano abbiamo
proposto la nostra scelta ai catechisti di altre parrocchie. La reazione
fu durissima; siamo tornati a casa con la coda tra le gambe. Più positiva,
invece, è stata la risposta delle comunità di Maturuca che, dopo lunghe e
snervanti discussioni, hanno accolto tutte il nostro motto: no alle
bevande alcornoliche, sì all’organizzazione comunitaria».

«Se siano
stati sempre fedeli, non lo posso giurare – aggiunge padre Giacomo,
riprendendo il suo sorriso soione -. Ma il cambiamento è avvenuto,
specialmente negli ultimi anni. La gente ha preso coscienza che l’alcornol
distrugge la vita comunitaria; ha pure constatato che si ammala di meno,
ha più energia per lavorare e più cibo per la famiglia».

LOTTA ALLA DIPENDENZA

Per
recuperare la propria dignità, l’immagine e somiglianza di Dio, è
necessario avere una buona alimentazione, che si ottiene lavorando e
producendo con le proprie mani. Madre natura è particolarmente prodiga in
questa regione: fiumi, ruscelli e sorgenti dappertutto, foreste e
praterie, terreno per allevamenti, orti, frutteti, piantagioni.

Inoltre,
con la demarcazione di Raposa Serra do Sol, quasi tutto il territorio
indigeno è ritornato nelle mani delle varie etnie. Ora la gente è libera
di stabilirsi dove vuole, con l’autorizzazione dei capi villaggi,
naturalmente, poiché la terra, secondo la cultura india, appartiene alla
comunità. Ma bisogna farla rendere.

«Il lavoro
– continua il padre – risolve un’altra piaga secolare degli indios: la
dipendenza dal bianco». Anche oggi, con la cosiddetta «cesta basica»,
pacco di alimenti, vari politici corrompono e manipolano a piacere alcuni
gruppi indigeni rimasti fuori dal processo di liberazione, fino a far dire
loro quello che vogliono contro la chiesa e quelle organizzazioni indigene
schierate contro la politica ufficiale.

Per
sciogliere il legame della dipendenza, padre Mena vuole introdurre nella
regione delle montagne le cornoperative o botteghe di generi di prima
necessità. L’iniziativa non è nuova; già negli anni ’70 padre Giorgio
l’aveva lanciata con otto comunità della zona di Raposa e ripetuta a
Maturuca; ma è stato un fallimento: la gente comprava la merce a credito e
finiva per non pagare più. Da una decina di anni non ne esistono più e gli
indios continuano a dipendere dai bianchi, fazendeiros e commercianti
delle vilas.

Altro
sogno di padre Mena è recuperare i vecchi crediti delle cornoperative
fallite. Un’operazione del genere è riuscita con le donne della scuola di
taglio e cucito: con il capitale recuperato sono stati aperti altri
laboratori di cucito in varie malocas che hanno chiesto e sottoscritto le
regole del gioco. «Anche questo è un modo di aiutare la gente a recuperare
dignità, libertà, indipendenza e responsabilità comunitaria. Storia e
cultura li hanno abituati a vivere alla giornata. Ma hanno cominciato a
pensare al futuro: calcolare spese, costi di produzione e guadagni,
risparmiare e capitalizzare per ulteriore sviluppo, prevedere manutenzione
e riparazioni».

Lo stesso
senso di responsabilità è richiesto nei progetti di allevamento del
bestiame. Quando in un villaggio la mandria assegnata non aumenta o
addirittura diminuisce, gli animali vengono ritirati consegnati ad
un’altra comunità, che s’impegna a «recuperare il progetto», cioè
riportarlo il più presto possibile al numero originario: 50 mucche e due
tori. Recuperato il bestiame, la comunità può chiedere di continuare o
passarlo a un’altra maloca.

LA FORZA DELLA COMUNITÀ

E tutto
avviene attraverso l’organizzazione comunitaria. Il missionario ispira e
sostiene le iniziative; ma le decisioni vengono prese e realizzate
comunitariamente. È tutta la comunità che deve chiedere e sottoscrivere la
responsabilità dei progetti del bestiame o della scuola di cucito; sono
gli indigeni che gestiscono i vari progetti, assegnano o ritirano il
bestiame, controllano se le regole vengono applicate e comminano eventuali
sanzioni. È tutta la comunità che si impegna a evitare le bevande
alcornoliche.

Fuori
della comunità, l’indio è perduto; non ha forza per resistere da solo.
Basta che uno si ubriachi e tutta la maloca lo segue.

La
dimensione comunitaria permea tutta la vita, compresa naturalmente quella
religiosa. Ogni domenica la gente si raduna per pregare insieme e,
riflettendo sulla parola di Dio, esamina e discute i problemi di ogni
giorno, per concludere con un impegno concreto, che coinvolge tutti e di
cui rendere conto la domenica seguente.

Battesimi,
matrimoni e altri sacramenti sono eventi importanti per tutta la comunità.
Vi partecipano tutti e intervengono con discorsi, consigli, esortazioni,
interpretazioni, gesti simbolici: come lanciare nell’acqua sassi o
pezzetti di legno, per indicare che si gettano via i peccati, perché
l’acqua se li porti via.

«Nel rito
del battesimo – spiega padre Mena – la rinuncia a Satana e alle sue
seduzioni e la professione di fede si traducono in impegni concreti e
comunitari: no alle bevande alcornoliche e ubriachezza; sì al rispetto della
persona, al lavoro e aiuto reciproco; fedeltà nei doveri comunitari e
nell’impegno missionario, per comunicare agli altri la propria fede. Il
prete non ha bisogno di fare tante prediche; ci pensano i genitori, capi,
animatori, catechisti a dare consigli, fare raccomandazioni ai
battezzandi, ed esortare gli adulti a dare il buon esempio».

In questo
processo di crescita nello spirito e impegno comunitari anche i missionari
e loro ospiti sono chiamati a dare il buon esempio. Posso giurare che nei
giorni passati nella riserva indigena non ho visto neppure una birretta.

box 1


Glossario

box 2


Con il fiato
sospeso

i fatti
degli ultimi mesi

Novembre
2000 – Ruspe dell’esercito raggiungono Uiramutã e cominciano a spianare il
terreno per la caserma: una collinetta accanto alle case macuxí, separata
da esse solo dalla strada verso il villaggio. Avvalendosi dei militari, il
prefetto Venceslau Braz fa spianare un altro luogo nel villaggio, per
costruire un campo di calcio. Gli indios ne impediscono l’uso.

Dicembre
2000 – Orlando Pereira, leader di Uiramutã, e Jacir De Souza, cornordinatore
indigeno della regione delle montagne, a nome delle comunità, richiedono
alla giustizia di proibire la costruzione della caserma.

3 gennaio
2001 – Il giudice federale di Roraima, Helder Girão Barreto, dà parere
favorevole alla sospensione dei lavori. Il giudice considera infondata
l’argomentazione che l’opera è necessaria per la sovranità nazionale,
ricordando che la sovranità («concetto antico e abusato») non è
compromessa in alcun modo con la demarcazione delle terre indigene.
Secondo Girão, la vicinanza della caserma metterebbe a rischio
l’organizzazione sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni dei
popoli indigeni, «in netto contrasto con l’articolo 231 della
Costituzione».

18 gennaio
2001 – Il generale Claudimar N. Magalhães, comandante della prima brigata
della selva, reagisce alla sentenza del giudice federale: organizza in
loco una visita di autorità per ascoltare le parti coinvolte, cercare
l’appoggio degli indios e dimostrare l’inesistenza di un conflitto con
loro. I capi, legati al Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e la
Fondazione nazionale per l’indio (Funai) non sono invitati. Gli unici
indios presenti sono quelli che appoggiano la suddivisione delle terre da
parte del governo.

26 gennaio
2001 – Capi macuxí organizzano a Uiramutã un incontro con le autorità
statali e federali per discutere dove costruire la caserma. I militari non
vi partecipano, perché «tutto è già stato verificato il giorno 18 e
nient’altro può più essere fatto».

31 gennaio
2001 – Il giudice Feando T. Neto, presidente del tribunale regionale
federale della prima regione di Brasilia, accoglie la richiesta
dell’Avvocatura generale dell’unione contro la sentenza di sospensione dei
lavori. I militari possono ricominciare a ricostruire la caserma.
L’Avvocatura sostiene il leader Pereira e il cornordinatore De Souza non
avevano legittimità nella loro iniziativa, non avendo dimostrato di
appartenere al villaggio. Ma la contestazione è infondata, perché si basa
solo sulle carte d’identità rilasciate a Boa Vista e non considera il
riconoscimento della Funai, secondo la quale i due sono registrati come
dirigenti della comunità e della regione.

5 febbraio
2001 – Neto ritorna sui suoi passi e sospende la decisione del 31 gennaio.
Il giudice decreta che «l’esercito brasiliano e la comunità indigena,
entro 15 giorni, si riuniscano per trovare un’area che sia strategicamente
favorevole alla vigilanza dell’esercito, ma che non sia nel villaggio
degli indios, restando ad una distanza che non comprometta questi ultimi».
La decisione è presa in seguito al ricorso di Deborah Duprat, procuratrice
del Ministero pubblico federale di Brasilia.

5-8
febbraio 2001 – Circa 400 capi di varie etnie si riuniscono a Pium (Roraima)
per la loro XXX Assemblea generale annuale: inviano un documento al
presidente della Repubblica, ai ministri di Giustizia, Ambiente e Difesa,
al presidente della Funai e ai procuratori del Ministero pubblico
federale, chiedendo che i loro diritti, riconosciuti dalla Costituzione,
siano rispettati: soprattutto la omologazione immediata delle terre;
specie Raposa Serra do Sol, minacciata dall’invasione dei risicoltori, dal
Parco nazionale del Monte Roraima e dal municipio di Uiramutã. Inoltre il
documento si appella affinché non siano costruite nuove basi militari fra
i yanomami. Ve ne sono già tre (Awauris, Surucucus e Maturacá) e una
quarta è prevista a Ericó. Pure a Raposa Serra do Sol vi sono due basi
militari.

15
febbraio 2001 – L’Avvocatura annuncia alla stampa che si appellerà contro
Neto, presidente del Tribunale regionale federale della prima regione, che
impedisce a Uiramutã la costruzione della caserma del sesto battaglione di
frontiera a Raposa Serra do Sol (Folha de São Paulo 15/02/2001).

21
febbraio 2001 – Autorità giudiziarie, militari e politiche visitano
Uiramutã su invito del Comando militare dell’Amazzonia, quando già è
scaduto il tempo, stabil

Benedetto Bellesi Carlo Miglietta