Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti




Genova (2): cosa ha lasciato l’assise del “G8”. QUEGLI OTTO NANI MIOPI E PREPOTENTI

 

Nonostante la propaganda governativa parli di uno storico successo,
il vertice dei G8 si è concluso con un fallimento. Sui temi caldi del debito,
dell’ambiente e della finanza non si è deciso nulla, mentre l’insistenza
attorno alla bontà della ricetta economica neoliberista appare decisamente stonata. Il
Fondo globale per la salute (l’unica decisione operativa) ha una portata da elemosina
e una struttura molto ambigua. Nel frattempo, questo novembre l’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc-Wto) discute un’ulteriore riduzione delle barriere
commerciali. La riunione si tiene a Doha, nell’emirato del Qatar, dove i
"cattivi" contestatori non potranno mai arrivare.

 

IL NULLA, NERO SU BIANCO

Sono passati quasi 3 mesi dal vertice di Genova, che ha
riunito i rappresentanti degli 8 paesi più industrializzati del mondo (i cosiddetti
"G8"). Premesso che sulla legittimità di questo organismo ci sono dubbi forti e
condivisibili, alla fine un dato è certo: il vertice si è concluso con un fallimento
epocale.

Gli 8 (più Prodi, che rappresentava l’Unione europea) signori del
mondo hanno messo nero su bianco il nulla uscito dai loro tre giorni di colloqui. I 36
punti della dichiarazione finale non sono altro che un inno stonato e ripetitivo alla
retorica del mercato che tutto sistema e tutto sana.

 

ELEMOSINA

Era stata annunciata come una grande iniziativa. In realtà, il Fondo
globale (Global Health Found) contro Aids, malaria e tubercolosi è
un’elemosina: si tratta di 1,3 miliardi di dollari, circa 3.000 miliardi di lire.
Questi fondi corrispondono alle risorse che i paesi indebitati spendono in poche settimane
a causa del debito.

Per comprendere il reale significato dei 3.000 miliardi stanziati,
ricordiamo che il deficit della sanità della regione Piemonte (con solo 4,5 milioni di
abitanti) per l’anno 2000 è stato stimato in 1.200 miliardi di lire.

Come ciò non bastasse, al punto 17 si legge: "Esprimiamo
apprezzamento per le misure prese dall’industria farmaceutica al fine di rendere
economicamente più accessibili i farmaci. Nel contesto del nuovo Fondo globale,
lavoreremo d’intesa con l’industria farmaceutica". Insomma, nonostante la
figuraccia mondiale rimediata in Sudafrica (dove hanno dovuto abbandonare la causa
intentata contro il governo nazionale), per gli 8 le multinazionali dei farmaci diventano
associazioni filantropiche.

Prima dell’inizio del vertice, Medici senza frontiere aveva
espresso forte preoccupazione per la tendenza dei governi ad abdicare a favore delle
imprese del business mondiale le responsabilità politiche della salute.

Dopo il vertice, l’organizzazione si è mantenuta coerente,
dichiarando che non parteciperà al consiglio direttivo del Global Health Found, in
quanto questo sarà aperto anche alle multinazionali farmaceutiche. Queste infatti
potranno guadagnarsi il loro posto nel consiglio attraverso una donazione al fondo. Come
non concordare allora con chi parla di "carità pelosa" e di "conflitto di
interessi"?

Inoltre, con un tono che sa molto di monito, gli 8 ribadiscono la
volontà di difendere i "diritti di proprietà intellettuale, come necessario
incentivo per la ricerca e lo sviluppo di farmaci salvavita". Questo significa che la
vicenda sudafricana (cioè la sconfitta delle multinazionali sui medicinali anti-Hiv)
viene considerata soltanto un episodio che non dovrà avere seguito.

 

DEBITO

"L’alleggerimento del debito è un valido contributo alla
lotta contro la povertà" (punto 7). Già il termine utilizzato,
"alleggerimento", fa capire che neppure questa volta sul problema del debito ci
sarà una svolta decisiva.

L’iniziativa a favore dei paesi poveri maggiormente indebitati (Heavily
Indebted Poor Countries
, Hipc), citata nel documento, è stata finora deludente. Non
solo perché soltanto 23 paesi poveri sono stati ammessi al programma di alleggerimento,
ma anche perché la stessa Banca mondiale ha messo in dubbio l’efficacia
dell’iniziativa Hipc nel lungo periodo.

I responsabili di Sdebitarsi e di Drop the Debt (le
organizzazioni italiana e internazionale che si battono per la cancellazione del debito)
non nascondono la loro delusione: i leaders dei G8 hanno perso una grande occasione
per affrontare in modo efficace la crisi del debito.

 

PROBLEMI? PIÙ LIBERISMO!

Tutto il documento finale è una ossessiva esaltazione della crescita,
senza una parola per i concetti di uguaglianza, giustizia, redistribuzione. Punto 10:
"Libero commercio e investimenti alimentano la crescita globale e la riduzione della
povertà". Il punto 11 ribadisce il concetto: "Appoggiamo gli sforzi compiuti
dai paesi meno avanzati per accedere al sistema commerciale globale e per approfittare
delle opportunità offerte da una crescita basata sul commercio".

Dunque, la risposta degli 8 grandi ai problemi del mondo è chiara ed
univoca: essi additano la via del libero scambio e dei commerci. Per abbattere la
miseria strutturale e lo squilibrio della ricchezza serve più liberismo, la nuova
ideologia che – come ci viene continuamente ricordato – non si può mettere in discussione
perché è l’unica possibile.

Questo novembre ci sarà la quarta riunione dell’Organizzazione
mondiale del commercio
(Omc-Wto), la prima dopo il fallimento di Seattle (novembre
1999). Poiché quanti si oppongono e si mobilitano per manifestare il dissenso sono
considerati violenti o criminali, la riunione si terrà nell’emirato arabo del Qatar,
paese praticamente irraggiungibile. Insomma, finalmente il Wto potrà decidere in tutta
tranquillità cosa è bene per gli abitanti della terra. E poco importa se i delegati dei
49 paesi più poveri del pianeta, che si sono riuniti a Zanzibar (24 e 25 luglio), hanno
espresso forti preoccupazioni per le pressioni continue all’apertura dei loro mercati
quando questi sono ancora troppo deboli per competere con quelli dell’Occidente.

Se il Wto riuscisse a realizzare il suo disegno di liberalizzazione
completa dei mercati, sarebbe il primo organismo in grado di imporre le sue decisioni al
mondo intero. L’organizzazione – ha spiegato Susan George – è "un tavolo
permanente i cui membri si impegnano a negoziare per sempre in una sola direzione".
È quella del pensiero unico neoliberista, che elabora le giustificazioni teoriche
per la consegna delle economie nelle mani delle grandi imprese multinazionali.

"Il nostro modo di vivere e di pensare – ha scritto il premio
Nobel Rita Levi Montalcini -, il nostro modo di produrre, di consumare e di sprecare non
sono più compatibili con i diritti dei popoli dell’intero globo. I meccanismi
perversi dell’attuale modello di sviluppo provocano l’impoverimento, il
depredamento degli ecosistemi, la negazione delle soggettività e delle differenze".

 

GLI SPECULATORI? LIBERI DI ARRICCHIRSI

Al vertice di Genova si è parlato molto di economia, ma si sono
coscientemente tralasciate le variabili dell’economia finanziaria.

Attualmente sui mercati valutari si scambiano ogni giorno 1.800
miliardi di dollari; il 95% di tale entità riguarda transazioni di breve o brevissimo
periodo, la maggior parte delle quali riveste un carattere meramente speculativo. Se sulle
transazioni valutarie si applicasse la Tobin tax, si limiterebbero le speculazioni
finanziarie (che mettono continuamente in pericolo la stabilità degli stati più deboli e
l’equilibrio dell’intero sistema) e al tempo stesso si raccoglierebbero cospicui
fondi (si parla di 100 – 400 miliardi di dollari) per porre rimedio allo sviluppo
diseguale. Ma di tutto ciò, al summit di Genova, non si è parlato. Per banchieri
e speculatori non è mai difficile convincere i governi!

"Globali – ha scritto recentemente Oskar Lafontaine, ex ministro
delle finanze della Germania – sono solo i mercati finanziari -. La possibilità di
trovare in pochi secondi la migliore collocazione del capitale in tutto il mondo. Le crisi
finanziarie in Messico, Asia, Russia, Brasile e Argentina hanno rivelato
l’instabilità dei mercati finanziari inteazionali. Non ci sono dubbi che le crisi
hanno provocato un aumento considerevole della disoccupazione e dell’impoverimento
sociale".

 

LA TERRA PUÒ ATTENDERE

Non hanno potuto mentire. Al punto 24 i grandi affermano: "Al
momento non siamo d’accordo sul protocollo di Kyoto e sulla sua ratifica".

Su questo tema è stata determinante l’opposizione di George W.
Bush. Il protocollo di Kyoto (che prevede una blanda riduzione dei gas a effetto serra)
era stato firmato (1997), ma mai ratificato dagli Usa.

È qui che diventa palese una delle conseguenze più inquietanti della
globalizzazione: l’americanizzazione del mondo, ovvero la sua subordinazione
agli interessi della superpotenza statunitense. Finché si tratta di favorire il business
delle imprese multinazionali va tutto bene; ma quando si tratta di imporre regole
nell’interesse collettivo dell’umanità gli Usa si tirano indietro.

Vale la pena di ricordare che gli Stati Uniti sono di gran lunga il
paese più inquinante del pianeta (leggere box). Insomma, gli Usa guidano la fila
di coloro che si rifiutano di pagare quell’enorme debito ecologico e sociale
che le loro politiche hanno prodotto nei paesi del Sud, pur guardandosi bene dal
contabilizzarlo. Come ha ricordato l’ecuadoriana Aurora Donoso (di Acciòn
ecologica
), i paesi ricchi hanno operato un sistematico saccheggio delle risorse del
Sud (petrolio, minerali, foreste, biodiversità), lasciando in eredità distruzione
ambientale e sociale, mutamenti climatici e biopirateria di cui ora non vogliono farsi
carico.

"Le catastrofi ecologiche – scrive Lafontaine -, come
l’incidente al reattore di Cheobyl, il buco dell’ozono e le perdite delle
petroliere, hanno ricordato al mondo intero che anche la distruzione della natura fa parte
della globalizzazione. Gli interessi dell’ecologia si scontrano con lo spirito
neoliberale".

Molta più attenzione gli 8 grandi hanno mostrato nei confronti della tecnologia,
vista come panacea di tutti i mali. "Le tecnologie informatiche e delle comunicazioni
– recita il punto 22 della dichiarazione finale – rappresentano un enorme potenziale per
aiutare i paesi in via di sviluppo ad accelerare la crescita, elevare il tenore di vita e
soddisfare altre priorità dello sviluppo". Né è mancata (punto 20) la professione
di fede per le biotecnologie, nonostante il dibattito nella comunità scientifica e
nella società civile consigli molta prudenza.

Verso la fine del documento (punto 33) si parla di criminalità
transnazionale. Ma non si fa alcun cenno né al commercio delle armi né ai paradisi
fiscali e finanziari.
Evidentemente, per gli 8 "grandi" questi non sono
crimini.

 

LA PROMESSA

 

Silvio Berlusconi, non smentendo la sua fama di immodesto, ha
parlato di un vertice di portata storica. Come abbiamo visto, di storico c’è
soltanto il suo fallimento. Senza dire delle incredibili violenze che lo hanno circondato.
I 36 punti della dichiarazione finale di Genova si chiudono con "il nostro lavoro
continuerà". Più che una promessa, sembra una minaccia.

 

 

Il commento di Maurizio Pagliassotti e Silvia
Battaglia

TRA LIMONI DI PLASTICA E COPPE DI CHAMPAGNE

 

Quali commenti si possono fare sui contenuti del vertice genovese tra
gli 8 grandi della terra? Pochi. I risultati sono talmente striminziti che si finisce per
fare una critica al sistema stesso.

Certo, il tutto è stato ricoperto abbondantemente di demagogia,
spalmata da media pronti ad enfatizzare il nulla per nascondere parole che negli anni si
dimostrano sempre uguali, sempre più superficiali e banali.

"Il G8 della speranza", così è stata definita l’ultima
riunione dell’Internazionale del Conservatorismo Compassionevole. Mentre nelle
strade di Genova imperversava la guerra, all’interno di Palazzo Ducale, tra limoni di
plastica e coppe di champagne, i grandi 8 bollavano i manifestanti come "nemici dei
poveri" e, con unanimità di vedute, sproloquiavano le solite frasi, i soliti
ritoelli.

Il G8 svoltosi in Giappone, nel 2000, ebbe almeno un risvolto comico.
Allora la montagna riuscì a partorire lo slogan "Inteet per tutti",
come panacea mondiale della fame e del sottosviluppo. Anche per quei 2 miliardi di persone
che non hanno la più pallida idea di cosa sia il telefono?

D’altronde il grottesco in politica sembra seguire le leggi
dell’entropia nella fisica: tende all’infinito. Il ministro degli Esteri
italiano Renato Ruggiero, nominato direttamente dall’ex segretario di Stato
americano Henry Kissinger, ha detto, durante una trasmissione televisiva la sera
del 20 luglio, sostenendo l’importanza delle nuove tecnologie per il terzo mondo:
"Oggi un telefonino può salvare vite umane" (*).

Non si salverebbero molte più vite umane con una semplice riforma
agraria che favorisca le necessità intee anziché l’esportazione di monocolture?
Oppure evitando la crescente desertificazione di gran parte dei paesi poveri dovuta agli
effetti degli stili di vita consumistici del nord?

Niente di tutto questo. Gli 8 si sono mossi esclusivamente nel
ristretto ambito del progetto neoliberista. E in questo quadro devono essere viste le
piccole decisioni, poi definite "storiche", prese durante le "cene di
lavoro".

Allargamento del G8 – Dal prossimo anno dovrebbe essere presente
stabilmente una rappresentanza dei paesi poveri durante il pre-vertice. Demagogia. Molte
nazioni del terzo e quarto mondo sono "protettorati" degli Stati Uniti. Si
pensi, ad esempio, a molti paesi dell’America Latina.

È una realtà, invece, che i promessi aiuti allo sviluppo da anni non
facciano alcun progresso. I paesi industrializzati si impegnarono a destinare lo 0,7% del
PIL al sud del mondo. Escluse poche eccezioni scandinave, nessuno lo ha fatto. Tale
mancanza non è stata oggetto di discussioni.

Debito – È stata confermata la volontà di
"alleggerire" i debiti delle nazioni più povere. Restano in piedi quelli con il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale…

Curiosità: cosa si domanda in cambio
dell’"alleggerimento"? Si chiede un ulteriore taglio della già miserevole
previdenza sociale? Oppure un’ennesima apertura dei mercati, affinché possano
arrivare capitali stranieri ansiosi di trovare paesi finalmente liberi da basilari
normative sindacali ed ambientali?

Aids – È prevista l’istituzione di un fondo di 1,3
miliardi di dollari per combattere l’epidemia in Africa. Una bazzecola. Per lo scudo
spaziale statunitense sono previsti investimenti per 100 miliardi di dollari. Si è
parlato di far cadere il brevetto ventennale che copre i farmaci e li rende
scandalosamente cari?

Clima – Nessun accordo sul protocollo di Kyoto. Gli Stati Uniti,
ostaggi della stagnazione economica, si rifiutano di rinunciare al proprio stile di vita
iperconsumista, facendone anzi una bandiera. Un trattato totalmente insufficiente trova
ostacoli insormontabili.

Scudo spaziale – Preoccupanti le aperture russe verso lo scudo
spaziale voluto dagli Stati Uniti.

Tobin Tax – Tutti sono scoppiati a ridere.

E poi tanti altri bla bla su Medio Oriente, Macedonia, Africa
etc.

 

Nulla di nuovo quindi. Passa il messaggio che la soluzione dei problemi
globali vada ricercata attraverso una politica commerciale neoliberista, la stessa che
quotidianamente crea distruzione e morte. La ricetta proposta dagli 8 fa della
competizione commerciale un dogma. Bisognerebbe anche aggiungere che trattasi di
competizione al ribasso sui costi, intesi come umani ed ambientali, pena appunto
l’esclusione dal mercato. Questo meccanismo diabolico è ben dimostrato da paesi come
Cina e Messico, luoghi in cui le commesse di prodotti volti al consumatore occidentale
hanno prodotto piccole élites ultraricche e masse enormi di disperati, esattamente coloro
sui quali si scarica la "flessibilità competitiva globale". È giusta una
politica che lascia ai paesi poveri, come uniche scelte, la disoccupazione se si rifiutano
le regole di questo mercato oppure lo sfruttamento e la distruzione delle risorse naturali
se invece si accettano? A noi sembra paradossale.

Forse proprio questo messaggio, non più sussurrato subdolamente,
bensì urlato a gran voce, è il risultato più imbarazzante e pericoloso di questo
summit: la pretesa che la globalizzazione, e quindi la scienza ed il pensiero occidentale,
siano gli unici mezzi per diminuire la povertà del sud del mondo. Evidentemente non è a
tutti chiaro che la conoscenza occidentale è semplicemente il risultato
dell’evoluzione storico-culturale del popolo occidentale. Altre conoscenze ed altre
scienze hanno lo stesso diritto di esistere e di dare le proprie interpretazioni di ciò
che noi intendiamo per sviluppo e progresso.

Un carrozzone inutile, quindi, il G8, megafono di decisioni che vengono
prese altrove. Decisioni volte al mantenimento di un capitalismo che oramai è
impazzito, sfuggito di mano e che sembra quasi vivere di vita propria, ingovernabile. Un
macro-organismo che, brandendo la spada della tecnologia, necessita per mantenersi in vita
di sempre nuovi consumi, nuovi uomini da sfruttare per tagliare i costi, nuovi ambienti da
distruggere per trovare materia prima.

Quegli 8 uomini avrebbero dovuto ammettere che la soluzione ai problemi
dell’ambiente e delle popolazioni povere passa attraverso una drastica redistribuzione
della ricchezza.
Traduzione: fine dei patrimoni personali pari al PIL di interi
continenti, delle flotte di aviogetti privati, delle automobili da 1.000.000 di dollari, e
di moltissimi altri scandali. E, molto probabilmente, fine anche di molte altre minori
comodità che oramai noi consideriamo un diritto, ma che tali non sono.

Meglio rimandare fino al momento del collasso totale, meglio correre
spensierati verso una comodissima catastrofe.

(*) Speciale Porta a Porta, venerdì 20 luglio 2001, Rai 1.

 

 

Dopo l’11 settembre

SIAMO TUTTI AMERICANI, MA…

 

… anche serbi, palestinesi, kurdi, rwandesi, iracheni. Il terrorismo
è inciviltà. La guerra lo è ancora di più.

 

Nella peggiore delle ipotesi, quando leggerete queste pagine, George W.
Bush avrà già scatenato la vendetta. E altre persone innocenti, proprio come le migliaia
morte negli attentati di New York e Washington, pagheranno con la vita l’incapacità
umana di risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza.

 

Il seme dell’odio

– Chi ha seminato il seme dell’odio? Perché è accaduto quel che
è accaduto? Non basta il fanatismo di Osama Bin Laden e dei talebani afghani per spiegare
la rabbia di una gran parte del mondo verso l’Occidente in generale e gli Stati Uniti
in particolare.

Tutti condanniamo il terrorismo, ma dobbiamo anche porci delle domande,
senza dividere il mondo tra "buoni" e "cattivi", tra
"civiltà" e "inciviltà", come ci suggeriscono molti politici e molti
media. Finché sul nostro pianeta ci saranno moltitudini affette da fame, miseria,
ingiustizia, ci saranno la disperazione e personaggi come Osama Bin Laden (o chi per lui)
pronti ad usarla per i loro fini.

 

Il fondamentalismo – Dei danni prodotti dal sentire
fondamentalista (che non accetta interpretazioni della vita diverse dalla propria) sono
pieni i libri di storia. Al giorno d’oggi, il fondamentalismo islamico è sicuramente
tra i più pericolosi. Innanzitutto, per la forza dei numeri: i musulmani sono oltre un
miliardo, in grande maggioranza nei paesi poveri. Poi perché, attraverso
un’interpretazione distorta dei testi coranici, leaders (chiamiamoli così) islamici
senza scrupoli cercano di alimentare il risentimento di popoli (afghani, iracheni,
yemeniti, pakistani, egiziani, sudanesi ecc.) costretti a vivere in condizioni di grande
privazione.

Ma non possiamo dimenticare tutti gli altri fondamentalismi, quelli che
si sono sviluppati nel Nord del mondo, nei ricchi paesi occidentali. Per esempio,
c’è del fondamentalismo nella dottrina neoliberista che non accetta obiezioni alle
leggi del mercato e del profitto, per le quali non ci sarebbe alternativa nonostante gli
squilibri dell’economia globale siano sotto gli occhi di tutti. "Ciò che è
avvenuto – ha scritto la Rete di Lilliput – è in stretta relazione con la fragilità e
l’intrinseca insicurezza dell’attuale sistema economico e politico dominante che
non riesce a risolvere i problemi che continuano ad affliggere gran parte
dell’umanità. Un mondo che viene rapinato nella ricerca esasperata di profitti a
breve termine e in cui il divario tra i più poveri e i più ricchi aumenta di anno in
anno non può che diventare un invivibile focolaio di tensioni e conflitti".

Ancora: come giudicare l’atteggiamento di George W. Bush e della
sua amministrazione? In pochi mesi di governo, questi signori sono riusciti a rendersi
invisi a una buona parte del mondo per aver stracciato i più importanti trattati
inteazionali: da quello di Kyoto sull’ambiente a quello sulle armi batteriologiche,
da quello sulla regolamentazione delle armi leggere a quello sui missili antibalistici.

Per non dire dell’idea di sviluppare un costosissimo sistema di
"scudo stellare", che rischia di riaprire la corsa agli armamenti. Gli attentati
dell’11 settembre hanno dimostrato la follia e inutilità di quel progetto. I nemici,
invece di utilizzare ordigni lanciati da altri paesi, hanno dirottato quattro voli interni
e li hanno usati come missili. Eppure, ne possiamo essere certi, Bush e altri
riaffermeranno con forza l’indispensabilità dello scudo stellare, che servirà
soltanto a svuotare le casse pubbliche e a riempire quelle delle industrie belliche.

E che pensare dello strano silenzio statunitense circa il conflitto
medio-orientale? Dalla guerra tra Israele e palestinesi nascono tensioni che si riflettono
su tutto il mondo. La soluzione equa di quel problema è un atto che riavvicinerebbe il
mondo islamico all’Occidente. Invece, approfittando della "distrazione
generale", il premier israeliano Ariel Sharon proprio nei giorni degli attentati ha
sferrato sanguinosi attacchi sui territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

D’altra parte, è evidente che George W. Bush è (almeno fino ad
oggi) un presidente totalmente inadeguato per guidare la superpotenza americana. Tanto che
il grande scrittore messicano Carlos Fuentes non ha esitato a definirlo "un
energumeno ignorante". Prima delle stragi, Bush junior era solito ripetere il motto
"the United States of America first", gli Stati Uniti innanzitutto. Speriamo che
qualcuno lo consigli di anteporre gli interessi dell’umanità, magari facendo
riferimento alle Nazioni Unite, un’istituzione che da anni gli americani tentano
(riuscendovi, purtroppo) di mettere in disparte.

L’eventuale risposta bellica di Bush ed alleati non potrà che
radicalizzare il conflitto tra Occidente e mondo islamico, aumentando l’odio e
accrescendo le fila degli aspiranti kamikaze, pronti a sacrificare la propria vita al
primo cenno del mullah di tuo.

 

Lacrime vere e lacrime false? – In Italia gran parte dei
mass media tenta di far passare la tesi "chi non è con gli Stati Uniti, favorisce i
terroristi e tutti i nemici dell’Occidente". Questa semplificazione è una
vergognosa strumentalizzazione della tragedia e tende ad escludere ogni posizione diversa.
Come avvenne per la guerra del Golfo (1991) e per quella del Kosovo (1999). Che i contrari
alla guerra avessero ragione oggi è sotto gli occhi di tutti: l’Iraq è un paese con
una popolazione alla fame e un Saddam Hussein saldamente al potere, il Kossovo e tutta la
ex Jugoslavia sono una polveriera colma di cadaveri e d’odio.

Da tutte le parti, ci dicono che occorre parteggiare, schierarsi,
scegliere, escludendo ogni posizione diversa. Addirittura, c’è chi parla di morale,
di etica: non essere d’accordo con Bush e la Nato significherebbe mancare di rispetto
alle migliaia di morti sepolti sotto le macerie delle torri del "World Trade
Center" e del Pentagono. Le lacrime di chi vuole applicare la legge del taglione
("occhio per occhio, dente per dente") sarebbero più vere di quelle di coloro
che vogliono ragionare da uomini, declinando parole diverse (dialogo, giustizia, pace,
tolleranza, comprensione) da quelle dei governi e dei potenti (guerra, vendetta, rivalsa,
dominio)?

 

Le due facce della medaglia – Ero a New
York nei giorni attorno a ferragosto. Ovviamente sono andato ad ammirare il panorama dal
110.mo piano delle Torri gemelle. Da quell’altezza, come tutti ho goduto della
splendida vista di Manhattan, uno dei luoghi più fotografati del pianeta. Proprio sotto
c’era il distretto finanziario e la famosa Wall Street. A vedere il mondo di lassù,
tutto sembra (sembrava) all’insegna dell’ottimismo e della ricchezza. Ecco il
punto: in Occidente, in troppi vedono (o vogliono vedere) soltanto una faccia della
medaglia.

Per chiedere un mondo diverso e più giusto, sono stato a protestare
lungo le vie di Genova e, nonostante quanto dicano Silvio Berlusconi, il suo governo e i
suoi giornali, non solo ne sono orgoglioso, ma non avrei dubbi a rifare le stesse scelte.
Per gli stessi motivi, non avrò tentennamenti a scendere in piazza per protestare contro
la follia della guerra, per gridare che un’altra strada esiste.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi




Trento / Incontro con il DALAI LAMA UN PIANETA DA CONDIVIDERE

 

Guida spirituale e
politica del popolo tibetano, premio Nobel per la pace 1989, il quattordicesimo Dalai Lama
è un personaggio affascinante, che ha saputo guadagnare rispetto e considerazione in
tutto il mondo. In questa intervista il Dalai Lama parla dei rapporti tra Oriente e
Occidente, e tra buddisti e cattolici. Senza dimenticare la lunga occupazione della sua
patria ad opera dei cinesi. Ma, assicura il premio Nobel, lo "spirito tibetano"
saprà sopravvivere agli invasori e al tempo.

 

La vicinanza del Dalai Lama non incute propriamente soggezione, anche
se la guida spirituale e politica del popolo tibetano, quattordicesima reincarnazione del
Bodhisattva Avalokitesvara, raduna ovunque si rechi in visita folle di curiosi. Persino in
una terra profondamente cattolica come il Trentino, che lo ha ospitato il 28 e 29 giugno
scorsi. Trasmette invece una sorta di benessere, finanche di buonumore; il prodotto di
un’umanissima simpatia, piuttosto che di reverenziale rispetto.

L’invito era partito nel 1994 dal Forum trentino per la pace,
emanazione della Provincia autonoma di Trento; da allora è stato costantemente rinnovato,
fino a quando il Tibet Bureau di Ginevra, rappresentanza ufficiale del governo tibetano in
esilio per l’Europa centro-meridionale, è riuscito ad accoglierlo. Al centro delle
due giornate di visita, lo Statuto di autonomia del Trentino, visto come un possibile
modello anche per una realtà come quella tibetana. Ed inoltre, i progetti di cooperazione
allo sviluppo rivolti verso le comunità dei tibetani in esilio.

Abbiamo incontrato il Dalai Lama privatamente, per un’intervista
concessaci in esclusiva, e poi nell’ambito della conferenza stampa organizzata al
Castello del Buonconsiglio, uno dei luoghi simbolici dell’Autonomia trentina, già
residenza dei principi-vescovi, e poi carcere degli irredentisti italiani (qui sono stati
giustiziati Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa). Durante gli incontri con i
giornalisti – così come nel corso dei numerosi colloqui pubblici tenuti in varie
località del Trentino – spesso si è interrotto per sorridere, ammiccare al fotografo,
riservare la dovuta attenzione ad ognuno dei presenti (non solo, insomma, alle autorità,
ma anche a chi era lì per lavoro, o semplicemente per vederlo da vicino). Davvero si ha
l’impressione che il grande e il piccolo, il vicino e il lontano, il visibile e
l’invisibile siano, per il premio Nobel per la pace 1989, concetti molto relativi.

Ma non c’è nulla di ieratico nel suo muoversi da un appuntamento
all’altro, in ossequio ai ritmi frenetici imposti dalle visite di carattere
diplomatico. Se le sue parole esprimono moderazione – anche quando parla
dell’occupazione cinese del Tibet o della globalizzazione –, gli occhi
tradiscono un’intelligenza vigile, insieme a un’insaziabile curiosità per il
mondo.

 

Sua Santità, Trento è la città dell’omonimo Concilio, molto
importante per la storia del cattolicesimo. La prima domanda, quindi, è in un certo senso
obbligata: quali rapporti ci possono essere fra cattolici e buddisti?

"Fra le diverse tradizioni religiose ve ne sono alcune che
accettano l’esistenza di un Dio Creatore, e altre, invece, che lo negano.

Il buddismo fa parte del secondo gruppo. Da questo punto di vista si
può dunque dire che c’è una grande differenza dottrinale fra buddisti e cattolici.
D’altra parte, vorrei ricordare che anche nell’ambito buddista vi sono diverse
scuole di pensiero".

 

Ad esempio?

"Vi sono alcune scuole che affermano l’esistenza reale delle
cose, mentre altre dicono che ciò che appare non è come noi lo vediamo, e che esiste un
livello di realtà più profondo. Quindi esistono anche nell’ambito buddista delle
grandi differenze dottrinali; alcune scuole ne accusano altre di nichilismo. Però, dal
punto di vista della pratica spirituale, per quel che riguarda lo sviluppo dell’amore
e della compassione, la religione cattolica e il buddismo si possono definire concordanti.

Io ho degli amici cristiani che praticano alcune tecniche tipiche del
buddismo per lo sviluppo della pazienza e che cercano di rendersi conto dell’ira per
poterla controllare. E anche i monaci e le monache buddiste possono imparare dalla pratica
delle loro sorelle e fratelli cristiani".

 

L’Occidente e l’Oriente possono dunque arricchirsi
vicendevolmente? E se sì, in cosa la tradizione occidentale vi sarebbe debitrice?

"Tradizione occidentale è una definizione così vasta che è
difficile dire in che cosa essa possa essere stata influenzata dall’Oriente.
Comunque, io credo vi siano concetti di base del buddismo, come quello di interdipendenza,
che possono essere di grande interesse per gli occidentali. Per interdipendenza noi
intendiamo dire che nulla sussiste indipendentemente da altri fenomeni. Quando si verifica
un evento, di solito si è portati a cercare una causa particolare, mentre secondo noi
bisogna considerare piuttosto il complesso delle cause e degli eventi che l’hanno
generato, l’insieme delle interdipendenze e delle interrelazioni.

Circa l’apporto che l’Occidente ha dato all’Oriente, mi
è facile pensare ad esempio a papa Giovanni Paolo II: il suo insegnamento è stato di
fondamentale importanza sia per il messaggio di riconciliazione fra le diverse religioni
(che ha portato incessantemente in giro per il mondo), sia per il suo chiedere perdono per
eventi avvenuti nei secoli passati. Vorrei anche aggiungere che, ad un livello più
generale, non esiste una radicale distinzione fra occidentali e orientali: dopo tutto
siamo tutti esseri umani chiamati a condividere questa terra. E l’unione di genti
diverse produce bimbi bellissimi!".

 

Da quanto diceva poco fa, sembra di capire che vi sono rapporti
diretti fra clero cattolico e buddista.

"I rapporti esistono ormai da vent’anni. Monaci buddisti
vanno a vivere per qualche tempo nei monasteri in Occidente e, viceversa, vi sono
religiosi cattolici che visitano monasteri buddisti.

In generale, ciò che maggiormente colpisce i monaci buddisti è il
lavoro sociale svolto dai religiosi in Occidente. Da noi pochissimi monaci operano
all’interno della società. Da questo lato, ne abbiamo tratto un importante
insegnamento. Noi invece possiamo far conoscere ai religiosi occidentali le tecniche di
concentrazione e di mediazione, e i metodi per sviluppare un comportamento improntato alla
gentilezza".

 

Non crede che si stia diffondendo un atteggiamento di
"consumismo della spiritualità" e che esso interessi oggi anche il buddismo,
con conversioni spesso un po’ superficiali, anche da parte di attori, uomini di
spettacolo e così via?

"L’attrazione esercitata dal buddismo dipende da fattori
molto vari. Tuttavia in linea di massima è meglio che ognuno segua la tradizione nella
quale è inserito.

Cambiare religione è una cosa complicata e difficile, e può creare
dei problemi. Certo è possibile che su milioni di persone ve ne siano alcune che hanno
una predisposizione particolare per una religione diversa rispetto a quella con la quale
sono cresciuti. Ma le conversioni di massa non sono né possibili né auspicabili.

In ogni caso, chi decide di cambiare religione è bene che mantenga
sempre nei confronti della religione che ha abbandonato un atteggiamento di
rispetto".

 

Santità, in questi ultimi anni si è parlato molto di
globalizzazione, anche in termini molto critici. Lei pensa che globalizzazione e difesa
delle tradizioni dei popoli, compreso il popolo tibetano, siano conciliabili?

"Credo che la globalizzazione sia un fenomeno che riguarda
soprattutto l’ambito economico. Quindi è l’economia a causare anche quella che
definirei la "diffusione di abitudini simili", a cominciare dal mangiare e dal
bere. In verità, a questo livello non credo che produca cambiamenti profondi, se una
cultura è già forte e consapevole di sé. Certo, può cambiare certe abitudini, ma solo
ad un livello superficiale.

L’importante, ripeto, è vedere quanto le culture abbiano una
radice profonda. Il pericolo esiste per le culture che non hanno radici forti, o per le
persone che non conoscono a fondo la propria cultura di riferimento.

Quando noi tibetani chiediamo l’Autonomia, naturalmente
rivendichiamo il nostro diritto a preservare e sviluppare lo "spirito tibetano".
Ma questo non significa che vogliamo continuare a mangiare la tsampa (pietanza
tradizionale tibetana, ndr)! I tibetani che oggi vivono in Svizzera hanno assimilato molte
abitudini svizzere: vestono o mangiano come gli svizzeri. Ma non significa che non abbiano
conservato la loro tibetanità. I nomadi che un tempo si nutrivano solo dei proventi
dell’allevamento oggi hanno i thermos per il tè e mangiano anche verdura. Non è una
cosa negativa.

Penso che si possa godere delle cose di un altro paese o di
un’altra cultura – ad esempio del cinema o della musica occidentale – senza
tuttavia rinunciare alle proprie tradizioni, soprattutto spirituali".

 

Questo sotto il profilo culturale. Ma qual è la sua idea di
globalizzazione sul piano economico e delle politiche poste in essere da soggetti come il
G8?

"Riguardo alla globalizzazione come fenomeno puramente economico,
un pericolo esiste: quello che le economie più forti, a livello sia di nazione che di
singola multinazionale, operando nei paesi poveri possano soffocare lo sviluppo delle
economie locali. Questo è un pericolo reale sul quale bisogna vigilare.

Riguardo al G8, io penso che abbia un ruolo importante e, dunque,
bisogna che continui a riunirsi. Ma esistono questioni, in merito ad esempio al degrado
ambientale o al rapporto fra sistemi economici forti e sistemi deboli, che debbono essere
affrontate. Quindi, è giusto che ci siano persone che ricordano queste questioni ai
grandi della terra; se non c’è altro modo, anche con manifestazioni di piazza,
purché siano rigorosamente non-violente".

 

In Trentino lei si è confrontato con un moderno statuto di
autonomia. Quali speranze ci sono per una pace duratura in Tibet e per il conseguimento di
un’autonomia che soddisfi veramente le esigenze del popolo tibetano?

"Se si guarda la situazione specifica del Tibet e, in particolare,
quello che sta avvenendo in quest’ultimo periodo, si dovrebbe dire che per il Tibet
non c’è più speranza. Se poi si analizza come il mio paese e la mia gente siano
arrivati a trovarsi in questa situazione, si scopre che ciò che è accaduto e sta
accadendo è dovuto all’intervento della Cina, che ha chiamato questo intervento,
iniziato nel 1949, con un nome attraente come "liberazione", ma che in realtà
ha provocato enormi sofferenze nel mio popolo. Sofferenze che durano da ormai tanti anni.

Possiamo dunque dire che un cambiamento del Tibet dipende direttamente
dal cambiamento della Cina. Ora, se osserviamo la Cina, ci accorgiamo che essa sta in
effetti cambiando. Si può dire anche che, dato che quel paese sta diventando sempre di
più una grande potenza, non potrà cambiare in un modo discordante dal resto del mondo.
Quindi, se consideriamo inevitabile il cambiamento della Cina, ecco che si può dire che
esiste una grande speranza per il mio paese. Quando questo cambiamento avrà luogo, allora
si apriranno dei concreti spiragli di speranza anche per il Tibet".

 

E il ruolo della comunità internazionale?

"Dopo i pronunciamenti dell’Onu fra la fine degli anni
’50 e l’inizio degli anni ’60 in favore del popolo tibetano, il governo
tibetano in esilio ha smesso di chiedere l’appoggio della comunità internazionale,
perché pensava che fosse meglio cercare di intavolare relazioni dirette con la Cina.

Nei primi anni ’80 sembrò che questa strategia potesse avere
successo; ma poi la Cina è tornata ad irrigidirsi. Nel 1987 ho proposto un piano di pace
in cinque punti, che però il governo cinese si è rifiutato di prendere in
considerazione. Così, siamo tornati a rivolgerci alla comunità internazionale, che ci ha
espresso più volte il suo sostegno. Vede, è molto difficile trattare con la Cina, non
solo per noi tibetani, ma anche per altre realtà presenti all’interno del paese.

L’anno scorso siamo venuti in possesso di un documento riservato
del viceministro della cultura cinese, trasmesso agli studiosi cinesi di tibetologia, nel
quale si diceva che il Dalai Lama pronuncia solo menzogne, che purtroppo gli occidentali
scambiano per verità. Com’è possibile che la comunità internazionale sia così
ingenua da credere per trent’anni di seguito a delle menzogne? Voi qui che mi state
ascoltando siete forse usciti di senno?".

 

Così parlò il Dalai Lama. Da segnalare, nell’economia di una
visita complessivamente gratificante per tutti, un solo episodio spiacevole: la bufala
dell’inviata de la Repubblica, la nota orientalista Renata Pisu, che ha attribuito al
Dalai Lama una dichiarazione favorevole all’uso della violenza nei confronti del G8.
Quando si dice etica professionale…

 

(*) Alberto Faustini è responsabile dell’Ufficio stampa della Provincia
Autonoma di Trento. Marco Pontoni è redattore nella medesima struttura.

Le foto del Dalai Lama sono dell’agenzia AgF-Beardinatti Foto
(Tn).

 

I rapporti tra Tibet e Cina

PAZIENZA, CORAGGIO, DETERMINAZIONE

 

Il Tibet si è costituito in entità sostanzialmente unita e
politicamente organizzata circa nel VII secolo d.C., all’epoca della diffusione del
buddismo sull’altopiano (ma il Dalai Lama ha parlato a Trento di reperti archeologici
che attesterebbero la presenza di una lingua e una cultura tibetane già 3000 anni fa).
Esso non è mai stato tout court una provincia cinese.

Tra Tibet e Cina vi sono stati, com’è ovvio, stretti rapporti
culturali, economico-commerciali e politico-diplomatici, talvolta pacifici, talaltra
conflittuali. Entrambi i regni furono inoltre soggetti all’invasione mongola, che
comunque non cancellò le peculiarità religiose e culturali del popolo tibetano, il quale
anzi le trasmise in buona parte agli invasori.

Agli inizi del XX secolo la situazione cominciò a cambiare, anche a
causa della crescente attività britannica in Asia centrale, che veniva vista come
minacciosa da Pechino. Così, subito dopo la conquista del potere, nel 1949 i comunisti
cinesi stabilirono il proprio controllo diretto sul paese, lasciando inizialmente al Dalai
Lama e alla sua aristocrazia un certo controllo sugli affari interni. Questa politica
relativamente moderata ebbe termine con la rivolta del 1959, a cui seguì una durissima
repressione.

In seguito a questi eventi drammatici, le Nazioni Unite approvarono tre
risoluzioni sul Tibet (nel 1959, 1961 e 1965), nelle quali si invocava la cessazione di
pratiche contrarie ai fondamentali diritti umani e di libertà, incluso il diritto
all’autodeterminazione. Come molte altre risoluzioni dell’Onu, anche queste non
ebbero alcun esito.

A partire dal 1966, e per quasi un decennio, in Cina si scatenò la
cosiddetta "Rivoluzione culturale", causa di violenze inenarrabili. In Tibet
essa ha comportato, oltre all’incarcerazione e all’uccisione di migliaia di
persone, anche alla distruzione sistematica di gran parte del patrimonio religioso e
artistico (come testimoniato, ad esempio, dalla documentazione fotografica contenuta in
Segreto Tibet dell’orientalista Fosco Maraini, uno dei "classici" in lingua
italiana sul Tibet pre-occupazione). Nel periodo successivo si sono alternati momenti di
liberalizzazione e "giri di vite". Date le difficoltà politiche che incontrava
in Tibet, il governo di Pechino ha cercato, soprattutto nell’era del dopo-Mao, di
migliorare lentamente la propria immagine nei confronti della popolazione locale,
ricorrendo ad un intenso sforzo di modeizzazione e di sviluppo economico. La conseguenza
è stata però anche, assieme a nuove forme di sfruttamento del territorio tibetano, un
sempre più massiccio afflusso di non tibetani sull’altopiano. Oggi, secondo fonti
del governo tibetano in esilio (con sede a Dharamsala, in India), i tibetani che vivono in
Tibet sono poco più di sei milioni, mentre i coloni cinesi circa sette milioni. I
tibetani in esilio sono intorno ai 130 mila; oltre all’India, uno dei paesi nei quali
sono presenti in maggior numero è la Svizzera.

Recentemente il Dalai Lama ha sintetizzato così la sua posizione.
"Io mi batto per una vera autonomia dei tibetani, convinto che una soluzione del
problema porterà soddisfazione al popolo tibetano e contribuirà alla stabilità e
all’unità della Repubblica popolare cinese. Finora il governo cinese si è rifiutato
di accettare la mia delegazione, sebbene, tra il 1979 e il 1985, avesse accettato di
incontrare sei delegazioni tibetane dall’esilio. Questo è un chiaro segnale che
l’atteggiamento di Pechino si è indurito, e manca la volontà politica di risolvere
la questione. Pazienza, coraggio e determinazione sono essenziali per noi tibetani in
questa sfida. Credo fermamente che in futuro ci sarà occasione di discutere seriamente il
nostro problema e guardare in faccia la realtà, perché non ci sono alternative, né per
la Cina né per noi".

 

Ma.Po.

 

Chi è? DALAI LAMA

Quello di Dalai Lama non è un titolo ereditario. Secondo la tradizione
tibetana – resa popolare in Occidente dal film di Bertolucci Piccolo Budda – vi sono
alcuni illuminati o Bodhisattva i quali, anche dopo avere raggiunto il Nirvana, la
beatitudine eterna della buddità, decidono di restare tra gli uomini, per sostenerli
sulla via dell’illuminazione. Uno di essi è Chenrezig, chiamato in sanscrito
Avalokitesvara (il Budda della compassione), che si incarna nel Dalai Lama, massima
autorità religiosa dei tibetani. Il Dalai Lama è quindi espressione di un amore per il
genere umano che è anche consapevolezza dei limiti dell’umana esperienza, idea
quest’ultima che rimanda al primo discorso pronunciato dal Budda storico, Sakyamuni,
dopo avere raggiunto l’Illuminazione.

Nella prassi avviene che, dopo la morte di ogni Dalai Lama, bisogna
trovare il suo successore, che è all’apparenza un bambino come tutti gli altri. Per
questo vengono effettuate vaste ricerche in tutto il Tibet, e i presunti successori
vengono sottoposti ad una serie di prove – come ad esempio riconoscere degli oggetti
appartenuti al precedente Dalai Lama, mescolati ad altri del tutto identici – al fine di
fugare ogni possibile dubbio.

"Dalai" è un termine mongolo, e sta per "oceano".
"Lama" è il termine tibetano per "maestro spirituale". "Dalai
Lama", quindi, può essere tradotto approssimativamente come "oceano di
saggezza".

L’attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è nato a
Taktser, in un piccolo villaggio dell’altopiano tibetano il 6 luglio 1935,
originariamente con il nome di Lhamo Thondup. Dopo il suo riconoscimento, si è insediato
a Lhasa, la capitale del Tibet, nel 1939. All’epoca il governo del paese era in
sostanza una teocrazia; sotto il profilo economico e tecnologico, esso era parimenti molto
arretrato, e del tutto refrattario alla tradizione scientifica occidentale.

Dopo l’occupazione cinese, e in particolare dopo la repressione
dei moti nazionalisti di Lhasa (10 – 15 mila tibetani uccisi in tre giorni), il Dalai Lama
scelse, con circa 85 mila seguaci, la via dell’esilio. In seguito ha eletto a sua
nuova dimora Dharamsala, una cittadina dell’India del nord, dove oggi ha sede il
governo tibetano in esilio. Dopo avere lasciato il Tibet, il Dalai Lama ha
progressivamente laicizzato le istituzioni di governo, che ora sono elettive. Naturalmente
ciò ha un significato molto limitato, non potendo esercitare il governo in esilio alcun
potere reale sul Tibet.

Ma.Po.

Alberto Faustini Marco Pontoni




MACAO (CINA): segni di speranza per la chiesa. PRENDERE IL LARGO

 

Qualcosa si muove
nel continente cinese: a Macao, colonia portoghese da poco passata sotto la sovranità
cinese, la consacrazione del vescovo coadiutore si è svolta senza interferenze di
Pechino; nelle province settentrionali della Cina fioriscono le comunità religiose
femminili.

 

Sono le nove del mattino. Nella cattedrale di Macao, edificio
barocco neoclassico, una cinquantina di persone, in prevalenza anziane, recitano
devotamente il rosario davanti alla Vergine del Perpetuo Soccorso, tradizione sabbatica
fin dai tempi passati. Accanto all’altare, una statua della Madonna di Fatima con
l’iscrizione "Regina del mondo, madre del Portogallo e rifugio di Macao"
rivela una traccia evidente di secoli di storia portoghese.

Dal dicembre del 1999 l’ex possedimento portoghese è passato
sotto la sovranità e agli ordini di Pechino. Conoscendo la situazione di precarietà
della chiesa cinese e dei rapporti tra governo comunista e Vaticano, si temeva che tale
tensione si sarebbe riflessa anche sulla chiesa di Macao. Invece la diocesi sta vivendo un
momento unico: José Lai Hong-Seng è stato nominato e consacrato vescovo coadiutore
secondo i dettami del Vaticano, senza alcun intervento da parte del governo cinese.

È la prima volta, da oltre mezzo secolo, che succede una cosa del
genere in territorio cinese. Nella vicina Hong Kong, due nuovi vescovi sono stati
consacrati un anno prima del cambiamento di sovranità. È stata, senza dubbio, una prova
del fuoco, per verificare la tenuta dell’accordo politico tra Portogallo e Cina:
accordo in cui, secondo lo slogan "un paese, due sistemi", la legge
basilare garantisce le libertà e il sistema che Macao ha goduto in passato.

Non solo non vi è stata alcuna interferenza nella nomina episcopale da
parte del governo, ma lo stesso capo esecutivo di Macao, Ho Hau Wa, ha seguito la
consacrazione episcopale, avvenuta il 2 giugno scorso nella cattedrale. Il fatto che né
il governo né l’Associazione dei cattolici patrioti abbiano interferito implica un
tacito riconoscimento dell’autorità del papa su questo territorio cinese.

In una diocesi ancorata, negli ultimi 13 anni, a incarichi
amministrativi, economici e giuridici, ma poco pastorali, la nomina del nuovo vescovo
coadiutore segna anche un cambiamento di rotta per la chiesa di Macao. In una breve
intervista, mons. José Lai ha tracciato le linee pastorali e spirituali che orienteranno
il rinnovamento della vita della chiesa a lui affidata.

Quali sono le priorità della diocesi di Macao?

C’è bisogno di una maggiore collaborazione fra clero e laicato,
per costruire assieme il regno di Dio. È necessario creare un’associazione che
impegni i laici, secondo le loro forze e capacità, nei compiti pastorali della diocesi e
nel settore educativo, sociale, caritativo, sanitario, catechetico e pastorale. Sono molte
le attività che essi possono e devono portare avanti. Per poterlo fare, è necessaria una
profonda spiritualità, che sostenga e ispiri il loro operato e vada al di là del
"fare perché mi piace".

D’altra parte, è necessario favorire la pastorale vocazionale
nella diocesi. È il momento di riflettere e prendere iniziative fra la gioventù e i
cattolici battezzati recentemente, poiché il clero di Macao è in prevalenza anziano e il
seminario è vuoto da 7 anni.

A livello pastorale, quali problemi la diocesi deve
affrontare?

A parte le priorità già menzionate, bisogna impegnarsi in tre
settori: con gli immigrati cinesi del continente, che rappresentano la metà della
popolazione di Macao; con la comunità filippina, composta di circa 6 mila persone; con i
milioni di turisti che ogni anno visitano la città: si deve andare incontro anche alle
loro necessità religiose. Questo potrebbe essere fatto nella Igreja da Penha, luogo di
visita obbligato. Ma bisognerà adattare gli impianti, creare una zona per la preghiera e
presentare la storia della diocesi di Macao, attraverso materiale audiovisivo: di ciò
potrebbero occuparsi i laici.

Qual è il significato dello stemma episcopale da lei
scelto?

Quando seppi dell’elezione a vescovo, passai un momento difficile;
l’ho superato mediante la preghiera, meditando un brano del vangelo di Luca, dove
Gesù invitava i discepoli a remare, spingendosi in alto mare e confidando in lui. Allo
stesso modo ho sentito la sua chiamata che mi invitava a prendere il largo, credendo nella
sua parola; da qui ho ricavato il motto del mio episcopato, con un tema eminentemente
pastorale e missionario: "Prendi il largo".

Esso significa lasciare la parrocchia e andare in diocesi. Gesù mi
invita a gettare le reti non solo nel mare di Macao, ma anche in quello della Cina, dove
in passato molti missionari hanno seguito la stessa chiamata di Cristo. La stella dello
stemma simboleggia Maria, alla cui protezione affido la mia missione; il fiore di loto
rappresenta la città di Macao; tutto questo sullo sfondo di quell’alba in cui Gesù
disse ai discepoli di gettare le reti per pescare.

Qualche parola ai cattolici di Macao…

Innanzitutto rendo grazie a Dio, alla mia famiglia, a quanti mi hanno
aiutato in seminario e nelle parrocchie in cui ho lavorato. E poi ho bisogno di imparare e
ascoltare, per conoscere il parere dei laici e del clero e poter così camminare insieme.
Dovremo anche formare un direttivo che pianifichi e cornordini le attività diocesane.

Come vede le relazioni fra la chiesa di Macao e
l’amministrazione cinese?

Sono relazioni di rispetto e apprezzamento reciproco; non credo che ci
saranno problemi in futuro. Il 17 maggio scorso mi sono incontrato con il capo esecutivo
di Macao: l’ho invitato alla cerimonia di consacrazione ed ha accettato con piacere.

Come si sente a pochi giorni dalla consacrazione
episcopale?

Ho grande fiducia nello Spirito Santo: non per caso ho scelto la
domenica di pentecoste per l’ordinazione. Spero che mi dia la forza necessaria per
realizzare i compiti episcopali, secondo il disegno di Dio e per servire la chiesa e
società di Macao.

Come vede le relazioni fra la diocesi di Macao e la
chiesa in Cina?

La diocesi di Macao aveva relazioni ufficiali con la chiesa in Cina fin
dal 1949. Da quell’epoca i contatti sono diminuiti; ma consideriamo i cattolici
cinesi nostri fratelli: sono sempre nel nostro cuore. Sebbene nessun vescovo del
continente sia stato presente alla mia consacrazione, più di uno mi ha inviato le proprie
felicitazioni. È auspicabile che un giorno il governo cinese e il Vaticano giungano a
stabilire relazioni diplomatiche, in modo che si possano avere maggiori rapporti con la
chiesa in Cina.

 

 

Nel deserto della Cina fiorisce la vita religiosa

 

Nella provincia Shanxi, a est del Fiume Giallo, nella Cina
settentrionale, in parte desertica, stanno fiorendo delle comunità di vita religiosa,
anche se molti dei loro membri, in maggioranza giovani, sono ancora in fase formativa. In
alcune diocesi, come quella di Taiyuan, sono presenti alcune missionarie anziane del
periodo precedente alla rivoluzione comunista. In molti dei nuovi conventi sono state
proprio queste suore anziane a ricominciare la vita religiosa. Ma la maggior parte delle
comunità sono formate da sole giovani. Quelle di Datong, con 40 religiose, di Hong Dong e
Changzhi, con oltre 60, sono casi esemplari della rinascita, al di là della cortina di
bambù comunista, di una vita religiosa femminile ricca di entusiasmo, spirito di fede e
sacrificio.

Il fatto di essere comunità giovani dà luogo a nuove forme di
espressione liturgica, vita comunitaria e forme di preghiera. Cambiamenti e riforme
introdotte dal Vaticano II stanno penetrando a poco a poco, come una fresca brezza che
ogni tanto arriva da fuori, tra le giovani suore assetate di conoscere e attualizzare la
vita religiosa.

Le giovani religiose sono consapevoli di una mancanza di formazione
adeguata alle necessità, poiché non hanno né i mezzi né le opportunità, ma vi pongono
rimedio con zelo e interesse nel ricercare nuove forme che possano colmare questo vuoto.
Di solito, utilizzano qualche libro che è giunto loro da fuori, cassette che ascoltano
attentamente e ripetutamente, o si fanno aiutare da qualche religioso o religiosa
proveniente dall’estero che, in occasione di una visita, possa condividere la sua
esperienza di vita religiosa.

L’orario comunitario dà ampio spazio alla riflessione e studio
della bibbia: un’ora al mattino e una al pomeriggio. E anche durante la celebrazione
eucaristica nel convento, le suore condividono la parola di Dio con il sacerdote. Ciò che
colpisce maggiormente è l’austerità dello stile di vita. In uno di questi conventi,
il vescovo diocesano, piuttosto anziano e con scarsi mezzi economici, può dare loro
soltanto 60 renminbi al mese (circa 13 mila lire italiane) per portare avanti il convento.
Di conseguenza, esse devono fare un po’ di tutto: lavorare nell’orto, preparare
i pasti e altri lavori manuali che consentano loro di sopravvivere.

È curioso osservare che il governo comunista cinese, con la sua
politica di oppressione, ha fatto sì che la chiesa sviluppasse delle caratteristiche in
consonanza con il vangelo di Gesù. I 50 anni di persecuzione comunista e di apparente
distruzione di qualsiasi traccia di vita religiosa, hanno portato a un tipo di chiesa e di
vita religiosa che possiamo definire:

1) indigena: durante mezzo secolo di comunismo, la chiesa in
Cina è stata ed è guidata da una gerarchia e da un clero esclusivamente cinesi;

2) povera: espropriata di tutti i beni dal saccheggio e
vandalismo del governo, la chiesa si è ritrovata con una povertà assoluta di strutture
e, in parte, di personale. La ricostruzione dei conventi e la creazione di nuove comunità
religiose risente degli effetti di questa usurpazione. Le residenze dei vescovi, in Cina,
sono molto dimesse; sulle pareti dei "palazzi" sono ben visibili crepe e
umidità e, all’interno, l’unico mezzo consentito dalle scarse risorse per
ripararsi dalle fredde temperature invernali sono piccole stufe a legna;

3) martiriale: nel rifiutare di sottomettersi alle imposizioni
del sistema maoista, la chiesa ha pagato attraverso molti dei suoi membri, che hanno
patito condizioni disumane: nelle prigioni e carceri sono stati sottoposti a torture e
interrogatori estenuanti. Non essendosi rassegnata e non avendo ceduto alle imposizioni
del governo, la chiesa in Cina ha una lunga lista di martiri, molti dei quali ancora in
vita.

Nonostante le austere condizioni di vita, le difficoltà e il controllo
costante da parte del governo, la chiesa in Cina è fortemente radicata nella fede.
Gradualmente la corrente si sta formando il proprio alveo, si stanno aprendo le porte
all’evangelizzazione, compito nel quale le religiose sono attivamente impegnate. I
credenti, d’altra parte, possiedono una fede saldamente fondata su quella dei loro
antenati, e sia essi che il clero e le religiose sono molto orgogliosi nel portare in alto
il nome di cristiani. Perciò non hanno paura del rischio, quando si tratta di continuare
a ricercare i modi di essere presenti nella società con le loro posizioni di fede. Si
tratta di una chiesa che fiorisce nel deserto: un deserto reale, dato che la zona
settentrionale della Cina è in parte desertica, e morale, perché nella società cinese
la vita religiosa è minacciata dalla persecuzione comunista, dal materialismo e sete di
denaro, che fanno della Cina di oggi un vero e proprio deserto di valori morali.

Anche se alcune delle comunità religiose della provincia vivono in
zone molto povere, i vescovi, che hanno affrontato sacrifici e persecuzioni con santa
semplicità, rispondono con un certo senso di umorismo alla domanda se sia sintomatico
vedere che nel deserto continuino a fiorire più che mai le vocazioni femminili alla vita
religiosa. Sono un motivo di speranza per la chiesa in Cina: come diceva Tertulliano, il
sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani e, senza alcun dubbio, di nuove vocazioni
alla vita religiosa. I martiri dell’epoca comunista, sia quelli ancora vivi oggi, in
Cina, sia quelli canonizzati il primo ottobre 2001, saranno fonte di ispirazione per
fortificare la vita nei conventi che continuano a sorgere con forza sempre maggiore in
molte diocesi della Cina.
D.C.R.

Daniel Cerezo Ruiz




YOKKOK (COREA DEL SUD): contesti e sfide in evoluzione DI SOGNO IN SOGNO

Iniziato 13 anni fa, il "sogno coreano" dei missionari
della Consolata è diventato realtà consolidata. I 10 missionari che vi lavorano ne hanno
tracciato un’analisi delle situazioni culturali, sociali ed ecclesiali, raccogliendo
le sfide che tali contesti pongono al loro carisma ad gentes.

 

Chiusa all’influenza occidentale fino al secolo XVII, la Corea è
stata definita "stato eremita". Anche se, risalendo alle origini, si trovano
migrazioni di cinesi, mongoli e giapponesi, il popolo coreano ha conservato storicamente
una profonda omogeneità e identità culturale, tanto da incontrare difficoltà
nell’accettare ciò che è diverso.

Molte cose, però, sono cambiate negli ultimi decenni. Dopo
l’umiliante esperienza dell’invasione giapponese (1910-1945), il paese è stato
spaccato dalla divisione ideologica tra il Nord (comunista) e il Sud (filo occidentale),
fino a sfociare in guerra aperta (1950-1953). L’armistizio ha fermato le armi, ma non
si è ancora firmato un trattato di pace. Mentre il Nord è ancora fermo alla situazione
di stallo di mezzo secolo fa, la Corea del Sud, dove lavorano i missionari della
Consolata, ha conosciuto una profonda e veloce evoluzione in ogni settore della vita del
paese, con conseguenze difficili da comprendere e valutare.

 

DAL CAMPO ALLA CITTÁ

Con oltre 46 milioni di abitanti, su una superficie di 99 mila kmq
(meno di un terzo dell’Italia), la Corea del Sud è uno dei paesi del mondo con la
più alta densità di popolazione, per lo più concentrata nelle città. Il fenomeno si è
evoluto negli ultimi quattro decenni: nel 1960 viveva in città il 28% della popolazione;
nel ’95 è passata al 79%. Seoul, la capitale, conta 10 milioni di abitanti, quasi un
quarto della popolazione totale. Eminentemente agricola, la società coreana è diventata
urbana e industriale: ciò ha provocato profondi cambiamenti culturali, pur rimanendo vivo
il riferimento alle tradizioni millenarie. Dinamico per natura, sotto la spinta ossessiva
della competitività, efficienza, consumismo, scalata a uno stato sociale più alto, il
popolo coreano è alle prese con un ritmo di vita che causa preoccupazione e angoscia e ne
trasforma profondamente l’anima e l’identità religiosa. Non c’è più
tempo né libertà per cercare la pace, l’armonia, la vita interiore. D’altra
parte, rimangono nella gente il riferimento alle forti tradizioni e, nei gruppi religiosi,
la coscienza e il desiderio di dare una risposta alle nuove problematiche. L’anima
coreana è ancora intrisa e sostenuta da una religiosità tradizionale, soprattutto dallo
sciamanismo.

Immersi tutti i giorni nel mondo della tecnologia, molti coreani
frequentano i riti sciamani per trovare una risposta immediata ai propri quesiti. Buddismo
e confucianesimo hanno ancora molto peso nelle relazioni familiari e sociali. Sètte,
movimenti religiosi e mercati spirituali che offrono facili risposte sono onnipresenti.

 

FAMIGLIA CHE CAMBIA

Il passaggio dall’organizzazione contadina a quella della
mentalità industriale e tecnologica ha scardinato il sistema della famiglia tradizionale:
il numero dei membri è ridotto, con uno o due figli per coppia; le famiglie sono
massificate e concentrate in condomini-alveari; i ritmi di lavoro prolungano
l’assenza dei genitori; spesso il padre è presente solo la domenica. Tutto ciò ha
effetti deleteri sulle relazioni familiari e crea problemi di solitudine e
incomunicabilità tra genitori e figli. Eppure la famiglia rimane il peo della società
coreana. La struttura familiare è basata sui valori confuciani: senso dell’autorità
e gerarchia, disciplina e pietà filiale, corresponsabilità, sacrificio per gli altri e
ricerca del benessere della famiglia-gruppo-nazione. Tale struttura continua ad orientare
con forza la condotta degli individui. Il senso di dipendenza dalla famiglia è molto
vivo: il distacco da essa è sempre difficile e doloroso. Il popolo coreano ha un forte
senso di gruppo, aggregazione, organizzazione e distribuzione dei ruoli. È parte
dell’identità nazionale. "Il nostro" è mentalità comune ed è stata la
forza motrice per lo sviluppo della società. La persona dipende dal gruppo; è debitrice
verso i "suoi", siano essi amici, azienda, nazione. Lo stare insieme, però, non
si traduce più in profondità di comunicazione.

 

GIOVANI D’OGGI

Le nuove generazioni coreane, uomini e donne, hanno raggiunto un ottimo
livello di educazione. Ma il sistema scolastico tradizionale, rigido nella disciplina e
tendente alla massificazione e "militarismo", caratterizzato dall’uso della
violenza come mezzo di disciplina, comincia a essere largamente contestato e denunciato
dagli ambienti didattici e dagli stessi giovani. Anche il governo, da parte sua, ha
annunciato piani di ristrutturazione del sistema educativo, per renderlo più rispondente
al processo di apertura, globalizzazione e inteazionalizzazione della Corea.

I giovani coreani sono al tempo stesso eredi delle tradizioni e
protagonisti delle trasformazioni in corso. I programmi televisivi loro destinati sembrano
procedere su due culture parallele: in superficie i giovani sembrano uguali ai loro
coetanei occidentali (moda, balli, divertimenti, uso di bevande alcoliche); generalmente,
però (ed è la seconda cultura), non consumano droghe, non hanno esperienze sessuali
precoci; rispettano autorità e disciplina, non fanno grandi domande; mancano di spiccato
spirito critico e sono facilmente influenzabili. L’80% dei giovani frequenta
l’università e fino all’ultimo anno della scuola secondaria essi hanno un ritmo
di vita impressionante. Il loro orizzonte è racchiuso in tre verbi: studiare, avere un
buon lavoro, sposarsi. La famiglia fa l’impossibile perché il figlio abbia la
migliore educazione possibile: l’ammissione a una università rinomata è una
garanzia per il futuro, anche se al termine degli studi non è sempre facile avere
un’occupazione immediata; ciò acuisce la competitività. La maggioranza si sposa tra
i 25 e 35 anni.

Allegri e responsabili, immersi nel mondo della tecnologia e internet,
i figli della nuova Corea, aperta al mondo, sono più disponibili della generazione
precedente a imparare nuove lingue e andare all’estero. Ma conservano un grande senso
di appartenenza alla propria terra, popolo e cultura. Si riscontra in loro un forte senso
di "coreanità" e nazionalismo, anche se non hanno la stessa intensità delle
generazioni che, negli ultimi 30 anni, hanno sacrificato la propria vita lavorando per la
patria.

 

POVERI COREANI

Per promuovere lo sviluppo del paese, nel passato il governo coreano
favorì l’affermarsi di grandi gruppi finanziari e industriali; le masse contadine in
cerca di lavoro hanno fatto pullulare grandi agglomerati urbani con sacche di povertà
più o meno grandi, ma evidenti. La dittatura ha instaurato un clima di sospetto,
soprattutto a causa della fobia della Corea del Nord, e spinto la gente a
un’obbedienza cieca ai capi politici. Ancora oggi sono in vigore le leggi di
sicurezza nazionale, la pena di morte e molti prigionieri politici sono in carcere. In
fatto di giustizia, diritti umani e pacificazione la Corea ha ancora tanta strada da
percorrere. La chiesa cattolica ha giocato un ruolo determinante nei movimenti per
l’affermazione della democrazia (1987); impegno premiato dalla crescita di
conversioni e rispetto agli occhi della popolazione. Con la democrazia sono apparsi anche
molti gruppi impegnati nel sociale.

Per le olimpiadi del 1988 lo stato ha rimodellato le zone povere delle
città, specie quelle vicine alle sedi delle gare, adottando criteri occidentali
nell’organizzazione e architettura, senza tenere conto della situazione e del futuro
della gente. In tale contesto è pure iniziata l’immigrazione di filippini, cinesi,
indiani, impiegati nei lavori più umili. E il fenomeno continua: molti stranieri entrano
nel paese clandestinamente in cerca di lavoro. Il miracolo economico ha ravvivato
l’orgoglio nazionale, finché la crisi del 1997 cominciò a provocare licenziamenti e
disoccupazione, aumentando il numero dei poveri. Le riforme economiche e la demolizione
dei quartieri più degradati non sono riuscite a nascondere la povertà. Spesso i
senza-tetto assistono impotenti alla distruzione delle loro casupole; i più fortunati
usufruiscono degli appartamenti sociali o vivono nei sottoterra degli edifici-alveari.

In città i poveri si notano meno, ma il loro numero è in continuo
aumento; si prevede che in futuro, quando le due Coree saranno riunificate, il fenomeno
sarà aggravato da un probabile flusso di nordcoreani che verranno nel sud per occupare i
posti di lavoro più umili e malpagati.

 

PLURALISMO RELIGIOSO

La cultura e le strutture sociali coreane sarebbero incomprensibili
senza le loro tradizioni religiose millenarie. Alla base c’è lo sciamanismo, sul
quale si sono innestate altre religioni, come buddismo (IV secolo) e confucianesimo (XII
secolo). Il cristianesimo ha iniziato la sua presenza circa 200 anni fa con la chiesa
cattolica e i protestanti, arrivati 100 anni dopo. Tra il XIX e XX secolo sono nate altre
religioni, come ch’ondokyo e buddismo won, caratterizzate da forte spirito
nazionalista e sincretismo. Da alcuni anni si stanno affermando vari movimenti religiosi,
ispirati a taoismo e new age, integrati a elementi della religione popolare coreana.

Il contesto religioso coreano è caratterizzato da un grande
pluralismo. In tutte le religioni l’opera di proselitismo è molto forte, specie tra
i protestanti. Di regola c’è armonia fra le diverse religioni, che coesistono
pacificamente nella stessa famiglia o gruppo sociale. Negli ultimi anni, però, si sono
verificati alcuni incidenti, provocati soprattutto da fondamentalisti protestanti e
sfociati in incendi di templi e distruzioni di statue di Budda e Tangum.

A livello gerarchico esiste una buona collaborazione tra i leaders nel
campo del dialogo interreligioso e nella ricerca di risposte comuni ai diversi problemi
sociali. Tra i fedeli, invece, mancano contatti e conoscenza reciproca; ognuno tende a
chiudersi nel proprio gruppo. Benché il popolo coreano sia profondamente religioso,
normalmente non si sente parlare di religione in pubblico. Anzi, metà della popolazione
si dichiara senza religione, specie i giovani. Ciò non significa che i coreani siano
"atei" o totalmente secolarizzati, ma che non appartengono ad alcuna tradizione
religiosa organizzata. Quasi tutti i coreani compiono periodicamente qualche pra- tica
religiosa e, quando sorgono problemi o difficoltà, sperano di ricevere aiuto dal cielo o
dagli antenati. Nella mentalità religiosa coreana, infatti, vita presente e aldilà sono
strettamente legati, senza netta separazione. Per cui c’è una influenza mutua fra
vivi e antenati, i quali hanno un ruolo fondamentale nella vita dei viventi, soprattutto
nelle relazioni familiari.

Nella forma di vita coreana esiste una specie di dualismo: da una parte
la corsa permanente verso il materialismo e consumismo; dall’altra
l’inquietudine interiore, tesa alla ricerca di qualcosa di più profondo e
spirituale, della "pace del cuore" soprattutto. Per raggiungerla il coreano non
si fa scrupolo di prendere dalle diverse religioni quegli elementi che lo possono aiutare
a trovarla.

 

UNA CHIESA DA SMUOVERE

Negli ultimi decenni la chiesa in Corea è passata attraverso diverse
tappe: negli anni ’50-60 ha affrontato l’urgenza dei poveri e degli affamati;
negli anni ’70-90 ha collaborato alla ricerca della libertà e democrazia. Ciò le ha
procurato una forte crescita del numero di conversioni. Non sempre, però, ha corrisposto
altrettanta partecipazione alla vita ecclesiale. La frequenza alla messa domenicale, per
esempio, si aggira attorno al 30% dei battezzati. Ora ci si interroga su come dovrà
essere la chiesa del terzo millennio. Si parla di maggiore impegno nel campo della
formazione, educazione e catechesi. Fortemente sentito è pure il bisogno di una più
profonda spiritualità. La vita ecclesiale, infatti, è fortemente centralizzata attorno
all’organizzazione parrocchiale: la mentalità confuciana sottolinea il ruolo
gerarchico; lascia poco spazio al laicato e ne mortifica lo spirito d’iniziativa.

Quella coreana è una chiesa della classe media, dove i poveri non si
trovano a proprio agio e la figura del prete diocesano ha un posto preminente e
rappresenta un vero status. Ne deriva che le congregazioni religiose (con il voto di
povertà) sono poco apprezzate, specialmente quelle maschili. Talvolta i consacrati sono
visti come persone che non sono riuscite a diventare sacerdoti diocesani. Anche gli
istituti femminili di vita consacrata non riscuotono simpatie. Le molte religiose inserite
in parrocchia, per esempio, sono spesso viste come semplici assistenti del parroco o
sacrestane. Ciò è dovuto, probabilmente, all’organizzazione sociale, che non lascia
molto spazio pubblico alla donna.

La relativa abbondanza di preti locali sembra chiudere la chiesa alla
presenza di religiosi stranieri e l’orgoglio nazionalistico ne affievolisce la
sensibilità universale. Di conseguenza, quando la chiesa coreana pensa e parla della
missione, la concepisce quasi esclusivamente rivolta all’interno del paese, alla
ricerca di nuovi fedeli. Negli ambienti ecclesiali, infine, c’è poco interesse per
il dialogo interreligioso. Esistono strutture destinate a questo compito; in pratica,
però, non sono rilevanti e significative per la gente.

 

SFIDE E SPERANZE

Povertà urbane, dialogo interreligioso e animazione missionaria della
chiesa locale sono le sfide che i missionari della Consolata hanno accolto in 13 anni di
presenza in Corea e alle quali rispondono con il loro carisma ad gentes. Di proposito, non
hanno voluto assumere la responsabilità diretta di parrocchie, per essere disponibili ad
offrire la loro collaborazione nei campi in cui la chiesa locale sembra meno attenta.
Poveri urbani e lavoratori stranieri è una sfida costante per la chiesa locale: i
missionari della Consolata hanno offerto fin dall’inizio la loro collaborazione. Per
alcuni anni essi sono stati presenti in un quartiere alla periferia di Inchon. La loro
esperienza si è conclusa nel 1999, ma stanno studiando la possibilità di aprire una
nuova presenza tra i baraccati nella periferia di Seoul. Questa comunità avrà anche il
compito di seguire e cornordinare le attività con movimenti e associazioni operanti in vari
ambiti: Giustizia e Pace, riunificazione delle due Coree, difesa dei diritti umani, lotta
alla corruzione e allo strapotere delle multinazionali.

Speciale attenzione è rivolta al mondo giovanile, in cui i missionari
esercitano prevalentemente la loro attività di animazione missionaria e vocazionale. Per
fare ciò è di fondamentale importanza conoscere i problemi educativi dei giovani,
relazioni familiari e cambiamenti in corso, per offrire loro una formazione cristiana che
tenga conto della mentalità e della cultura locale. La sfida più grande e, in qualche
modo, nuova per i missionari della Consolata è costituita dalla presenza di tante
religioni nel paese. Quasi tutte in generale e il confucianesimo in particolare esercitano
un certo influsso anche sul cristianesimo cattolico: lo si riscontra nel senso della
gerarchia, nella strutturazione ecclesiale, nelle relazioni intee e perfino a livello
teologico.

Nella mentalità coreana Dio è concepito come un essere lontano,
separato dagli umani, con il quale è difficile stabilire una relazione d’intimità.
Idea che porta a rafforzare la presenza e importanza dei mediatori. In tale contesto non
è facile presentare il volto e l’esperienza di un Dio solidale e vicino. La
frateità vissuta dai 10 missionari della Consolata, provenienti da sei nazioni,
costituisce, più delle parole, una importante testimonianza del Dio
dell’incarnazione e della consolazione. Al tempo stesso, vivendo in mezzo ai poveri,
essi testimoniano la predilezione di Dio per i più emarginati. Per 13 anni essi hanno
studiato la cultura sociale e religiosa del popolo coreano e hanno compreso che il dialogo
interreligioso è parte integrante della loro attività di evangelizzazione. A tale scopo
è stata aperta, tre anni fa (ed è in piena attività) la comunità di Ok-kil-dong,
centro di spiritualità e punto di riferimento per la gente coinvolta nelle iniziative di
dialogo ecumenico e interreligioso.

Sogni e sfide non finiscono qui. Mentre mantengono vive la cooperazione
e comunicazione con la chiesa locale, i missionari della Consolata attendono la
riunificazione delle due Coree, con la prospettiva di aprire un altro campo di
evangelizzazione nella Corea del Nord.

Missionari della Consolata in Corea del Sud




Russia: la testimonianza di un missionario italiano. Chi sogna le cipolle del comunismo?

 

La metropoli di San Pietroburgo
consente anche di incontrare dei missionari: don Pietro Scalini, per esempio. Aspri gli
scogli religioso-ecumenici. Lo sa pure Giovanni Paolo II, che ha cercato di dialogare con
i leader cristiano-ortodossi di un ex paese sovietico: Ucraina (23-27 giugno). Acute e
complesse sono soprattutto le difficoltà politico-sociali. Emerge costante la domanda:
perché la Russia, fino a ieri superpotenza, oggi annaspa nella povertà? Mentre la
libertà…

 

A San Pietroburgo
  si parla anche…italiano

San Pietroburgo. Alloggiamo davanti al "monumento della
liberazione": un complesso mastodontico, non bello, enfaticamente nazionalista, che
tuttavia rimanda ad una tragedia immane: l’assedio della città da parte
dell’esercito nazista dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1945. Nei 900 giorni
di accerchiamento morirono di fame e stenti 470 mila civili. Si dice che rappresenti il
"record mondiale" degli assedi. Una vergogna…

Un italiano a San Pietroburgo si trova quasi a casa. Idioma a parte
(ostico anche per i caratteri cirillici), numerosi e splendidi palazzi "parlano
italiano". Sono le opere degli architetti Domenico Trezzini (1670-1734), Francesco
Rastrelli (1700-1771), Giacomo Quarenghi (1744-1817), nonché Carlo Rossi (1775-1849). Lo
zar Pietro il Grande e la zarina Caterina II erano innamorati di questi artisti, quasi
sconosciuti in Italia, ma celebri in Russia. E non furono gli unici.

C’è poi l’Ermitage, il museo mozzafiato in cinque vasti e
sontuosi padiglioni, di fama mondiale anche per i dipinti di Leonardo e Tiziano o le
sculture di Michelangelo e Canova. Per non parlare dei capolavori di Simone Martini,
Filippo e Filippino Lippi, Giorgione. San Pietroburgo è l’"Atene russa"
anche per la letteratura: si pensi a Puskin, Tolstoj, Dostoevskij, Gogol. Capitale della
cultura, dunque. E capitale della politica per oltre 300 anni, fino alla rivoluzione di
ottobre del 1917, allorché fu rimpiazzata da Mosca. L’ex capitale si chiamò
"Leningrado", in onore del padre della rivoluzione comunista. Ma nel 1991, con
lo sfascio dell’Unione Sovietica, ritoò ad essere San Pietroburgo…

È il 27 maggio. La metropoli festeggia il suo compleanno (è nata nel
1703 da Pietro I) con rievocazioni in costume e spettacoli di prosa e musica. Ma piove
quest’anno a San Pietroburgo, tra raffiche gelide di vento e persino qualche spruzzo
di nevischio. Il termometro segna 2 gradi, mentre in Italia scavalca i 30. Verso sera
bussiamo alla porta di Pietro Scalini, un giovane prete della diocesi di Cesena, da
quattro anni missionario fidei donum in Russia. Attraverso corridoi polverosi, scale
dissestate e portici scrostati, tra sacchi di cemento, mattoni, piastrelle, carriole,
secchi e cazzuole, il missionario ci introduce nell’unico locale in grado di offrire
un po’ di accoglienza. È una modesta chiesetta.

 

Da atei a seminaristi

San Pietroburgo, nella giurisdizione ecclesiastica cattolica, fa parte
della diocesi di Mosca: non perché la metropoli non ne meriti il titolo, ma perché i
cattolici sono "mosche bianche". Tuttavia anche a Mosca si contano quasi sulle
dita. "L’intera Russia, che comprende territori europei e asiatici (cioè la
sterminata Siberia, fino a Vladivostock e al Mare di Bering), è divisa in appena quattro
diocesi, con altrettanti vescovi, proprio perché i cattolici sono scarsissimi: in media
lo 0,3, su 150 milioni di abitanti". È don Pietro che spiega, dall’altare della
cappella, e prosegue: "Questo è il seminario cattolico; vi si preparano a diventare
sacerdoti giovani di tutta la nazione. Inoltre ci sono ragazzi della Georgia, della
Moldavia e del Kazakistan. Complessivamente 44 seminaristi, che studiano filosofia e
teologia. I futuri preti saranno di rito latino".

Il seminario di San Pietroburgo riaprì (timidamente) i battenti nel
1993, dopo il lento disgelo religioso avviato nel 1991. Ma era operante già nel 1850. Nel
1918 fu requisito dallo stato, subito dopo l’avvento dei bolscevichi. Al primo piano
si installò una banca con vari uffici. Nei locali adiacenti si montavano motori o si
costruivano pezzi di ricambio… Al presente resistono una officina meccanica e
un’azienda che fa esperimenti chimici. "Dal seminario, riaperto, partiranno i
nuovi annunciatori del vangelo nell’ex impero sovietico, esclusa Bielorussia e
Ucraina". Ma con gravi difficoltà. "Entrando nel seminario – continua don
Pietro – avete notato il disordine: polvere e calcinacci ovunque. Stiamo ristrutturando il
complesso, incamerato a suo tempo e ora restituito (dietro nostra richiesta) in pessime
condizioni. Nel 1993 la prima sede del seminario furono dei containers, piazzati sul
sagrato della chiesa dell’Immacolata".

Fino al 1917 a San Pietroburgo operavano 18 chiese cattoliche, di cui
10 parrocchiali. Ora se ne contano cinque, tutte malandate: quindi in ristrutturazione.
Durante l’era sovietica nella Russia europea rimasero aperte soltanto due chiese
cattoliche (la "Madonna di Lourdes" a San Pietroburgo e la "San Luigi"
a Mosca), solo perché sotto la protezione dell’ambasciata di Francia. Quanto ai
sacerdoti, se esistevano, erano pochissimi e clandestini; per cui quasi nessuno sapeva di
loro.

I 44 seminaristi di San Pietroburgo sono in maggioranza adulti di 25
-30 anni, con una minoranza sui 20 anni. È interessante la storia della loro vocazione,
che dipende dall’incontro con un prete, dall’entrata casuale in una chiesa, dal
fascino della liturgia. Pochi sono cresciuti in una famiglia credente, ma senza ricevere
il battesimo; altri sono stati battezzati secondo il rito ortodosso. Molti provengono da
un ambiente ateo. "Ma il buon Dio – commenta don Pietro – ha voluto che incontrassero
ugualmente la chiesa".

 

Proselitismo, ricchezza,
missione

Don Pietro, la chiesa cattolica in Russia è un’esigua
minoranza. Eppure è molto temuta dai cristiani ortodossi per un presunto proselitismo.
Voi, come vi sentite di fronte a tale accusa? È rimbalzata anche in Italia con vasta eco.

"L’accusa non coglie per niente la realtà. San Pietroburgo,
ad esempio, conta 5 milioni di abitanti, di cui 2.500-3.000 cattolici. Che proselitismo
può fare tale infimo gruppo?".

Chi sono gli accusatori?

"L’accusa è dell’alta gerarchia ortodossa. Però la
gente non vede nei cattolici un pericolo, anzi! Noi abbiamo molti amici ortodossi anche
fra i preti; qualche sacerdote insegna persino nel nostro seminario. Ripeto: i russi,
nella grande maggioranza, non ci sono ostili, anche perché non sanno chi sia Gesù
Cristo, né cosa sia la chiesa cattolica".

In Russia, parlando di chiesa, si intende quella ortodossa. Perché?

"Perché, se sei cristiano, devi per forza appartenere alla chiesa
ortodossa. C’è una identificazione etnica tra la nazionalità russa e
l’appartenenza alla religione ortodossa. Così si perde di vista la missione
universale della chiesa. E (fatto non meno grave) la gente resta priva di punti di
riferimento: non sa quale sia il senso della vita. In compenso, si offre una predicazione
moralistica, avulsa dalla realtà. La chiesa ortodossa, invece di accusare quella
cattolica di proselitismo, dovrebbe aiutare la popolazione ad incontrare Cristo salvatore.
Qualche prete cattolico può anche avere una mentalità di occupazione. Ma non è la
regola".

Si dice che le gerarchie ortodosse temano i cattolici, perché
dispongono di notevoli mezzi economici. È vero che siete ricchi?

"Disponiamo dei mezzi che ci offrono. E lei ha l’esempio del
nostro seminario. Abbiamo anche mezzi, perché i giovani arrivano qui senza un rublo e
ricevono tutto, dalle scarpe al cibo, dai libri ai vestiti. Per la ristrutturazione del
seminario, facciamo dei progetti, che vengono finanziati dalle organizzazioni Renovabis, Aiuto
alla chiesa che soffre,
ecc. Ma dire che siamo ricchi…

Quasi tutti i parroci cattolici in Russia sono polacchi, assai modesti
economicamente. Io posso contare sul "sostentamento del clero" in vigore in
Italia, ho degli amici che mi aiutano. I polacchi, invece, si mantengono recandosi
d’estate in patria: sostituiscono qualche prete in vacanza e, così, raccolgono i
soldi per vivere, ricostruire la chiesa, la canonica o la casa delle suore.

Ho in mente don Celestino, parroco a Kharovsk. Due anni fa ha avuto
l’incarico di recarsi in questa cittadina, a circa 350 chilometri da San Pietroburgo:
non avendo un’abitazione, ha dormito per un mese in stazione. Durante il giorno,
indossata la veste e la croce, girava lungo le strade per far vedere che esisteva un prete
cattolico. A poco a poco ha conosciuto qualche fedele. Oggi, di sabato, affitta una chiesa
ortodossa per cinque ore e vi celebra la messa, fa catechismo o l’unzione degli
infermi. Non è certamente ricco.

Chi invece ha parecchi denari sono i Testimoni di Geova: organizzano
incontri negli stadi e a chi entra danno un dollaro, che è abbastanza in Russia. Questo
sì che è proselitismo!".

Un’altra accusa che gli ortodossi rivolgono ai cattolici è:
"Voi in occidente siete tutti materialisti, avete perso la fede, mentre noi
l’abbiamo conservata!".

"Se l’occidente ha perso la fede, la Russia è sulla stessa
barca, o peggio. L’amoralità è a livelli altissimi: l’assenza della famiglia,
per esempio, fa paura. Molti nostri seminaristi non hanno il papà: o perché è stato
cacciato dalla mamma (essendo sempre ubriaco), o perché la madre stessa vive con un altro
uomo. Per una donna russa l’importante è avere figli; con chi, è secondario".

Se per le gerarchie ortodosse voi, cattolici, siete come il fumo
negli occhi, come venite giudicati dall’autorità politica?

"Molto dipende dai rapporti personali che si instaurano. Noi
stranieri, ad esempio, incominciamo ad avere difficoltà per il visto, cioè il permesso
di soggiorno; soprattutto i preti polacchi hanno grossi problemi. Le parrocchie possono
invitare qualche sacerdote, ma solo per "affari religiosi"; il visto viene
rilasciato per tre mesi, alla scadenza dei quali bisogna lasciare il paese; poi magari si
ritorna, se il visto è rinnovato. La situazione, però, sta diventando psicologicamente
pesante, oltre che costosa. Io, come insegnante, sono più fortunato, perché il mio visto
dura un anno. Ma il mio telefono è sotto controllo".

Don Pietro, prescindendo dal suo lavoro in seminario, che significa
essere missionario in Russia?

"Essere presente, servire, testimoniare la fede in Gesù Cristo
quasi in un… deserto. Quest’anno la pasqua è stata celebrata da tutti nella stessa
data. A Mosca, fra ortodossi, cattolici e protestanti, ha fatto il 4% della popolazione.
Davvero poche gocce in un oceano".

Giovanni Paolo II, il provocatore

Il 23-27 giugno (pochi giorni dopo il nostro viaggio) Giovanni Paolo II
era in Ucraina. Il pellegrinaggio è stato duramente criticato sia dalle gerarchie
ortodosse ucraine sia da quelle russe. Pomo della discordia, anche gli "uniati"
(termine dispregiativo) o "uniti". Si tratta dei cristiani dell’Ucraina
(separatisi dal pontefice di Roma con lo scisma del 1054), la cui gerarchia nel 1595, a
Brest-Litovsk, decise di ritornare alla comunione con il papa, conservando però la
liturgia orientale e l’identità etnica e culturale. Ma non tutti aderirono
all’"unione". E tuttora, fra "uniti" e "non uniti"
permangono aspri contrasti. Inoltre, per la gerarchia ortodossa di Mosca, gli
"uniti" sono dei traditori e rinnegati. D’altro canto, sono stati pure un
po’ emarginati dalla gerarchia cattolica di rito latino, perché non sarebbero né
carne né pesce. Giovanni Paolo II è andato in Ucraina per porgere a tutti la mano di
padre e fratello. Però in Russia la gerarchia ortodossa ha ritenuto la visita una
provocazione e ha minacciato di rompere ogni dialogo ecumenico. Ancora una volta, il
problema investe i gerarchi, non l’uomo della strada. In vista del pellegrinaggio del
papa in Ucraina, si è svolto a Mosca un incontro tra ortodossi, cattolici e protestanti.
Durante il dibattito un giovane ha dichiarato: "Io sono fedele alla chiesa ortodossa
e al patriarcato di Mosca. Tuttavia al rappresentante della mia comunità domando: circa
la visita del papa, mi è lecito pensarla diversamente dal patriarca?". Un silenzio
tombale è calato sull’assemblea. Muto e imbarazzato è apparso, soprattutto, il
rappresentante del patriarca di Mosca. "Nonostante le difficoltà in corso – commenta
don Pietro -, io nutro speranza, a patto che i leader cristiani superino le gelosie, non
cerchino il privilegio, bensì vengano incontro alle vere esigenze della popolazione, che
è disponibile ad un messaggio nuovo. Tuttavia, dopo oltre 70 anni di propaganda
materialista, gli individui sono distrutti nell’anima. Quasi tutti sono cresciuti con
il ritornello "Dio è un nemico". Anche in famiglia erano sottoposti a severi
controlli. E questo non è facile da dimenticare. Lo si può fare con il vangelo di
Cristo, e non solo con le prescrizioni e i riti (pur affascinanti) degli ortodossi".

Neppure l’oro conta

Un breve soggiorno in Russia è sufficiente per sollevare un quesito
cruciale: perché la nazione, fino al 1991 superpotenza militare, politica e tecnologica
(in grado di lanciare il primo uomo nello spazio) oggi è povera? "Probabilmente già
nel 1991 la Russia era allo sfascio – risponde un po’ titubante don Pietro -. Inoltre
il cambiamento è avvenuto troppo in fretta: ha abbattuto tutto, senza costruire nulla.
Ecco perché la gente non stima Gorbaciov. Fino al 1991 l’economia era organizzata…
e molti d’estate potevano prendere l’aereo e trascorrere le vacanze sul Mar
Nero, perché costava poco. Lo stato garantiva l’indispensabile: un tipo di
salsiccia, un tipo di farina, e ognuno riceveva la sua parte, pur facendo pazientemente
lunghe code davanti ai negozi.

Di colpo ogni cosa muta, per una decisione presa a tavolino. Lo scontro
di mercato trova tutti impreparati… Nell’agosto 1998 la svalutazione del rublo è
pazzesca: dalla sera alla mattina si bloccano tutti i conti in banca, impedendo alla gente
di ritirare i propri soldi. E se uno ieri aveva i denari per comprarsi un alloggio, oggi
la stessa somma basta solo per un salame. Subito la mafia entra nell’economia: dilaga
la grande criminalità, mentre ad alto livello imperversa la corruzione… In seminario
abbiamo un ragazzo siberiano; nel suo paese gli stipendi si pagano tuttora in oro; ma non
se ne fa nulla, perché non è commerciabile…".

Oggi in Russia le strutture produttive sono in coma. La gente continua
a lavorare, ma spesso senza stipendio. "A San Pietroburgo un docente universitario di
fisica, dopo l’insegnamento, non ricevendo più alcun salario, raccoglie bottiglie
vuote di birra sui marciapiedi; le vende e ricava qualche rublo". In tale situazione,
c’è rimpianto per il comunismo? "Forse sì, specie fra i giovani – mormora
sottovoce il nostro interlocutore -, anche se non per quello di Stalin o Breznev…".
Intanto fra gli oligarchi le lotte di potere sono tante e spietate. Quanto a libertà, lo
"zar" Putin oggi chiude un giornale, domani una televisione e dopodomani… La
scusa è: non ci sono soldi. Ma la libertà è denaro?

Ci congediamo da don Pietro. Sono le 22.30, ed è ancora crepuscolo a
San Pietroburgo, perché è prossimo il fenomeno delle "notti bianche",
allorché il sole quasi non tramonta, ma si adagia un po’ sotto l’orizzonte.

Per ritornare al "monumento della liberazione", prendiamo la
metropolitana. Sulle lunghe, ripide e velocissime scale mobili non mancano ragazzi e
ragazze con bottiglie di birra. All’uscita, forse, abbandoneranno i vuoti sul
marciapiede, che saranno raccattati dal professore di fisica al verde.

Rimpiangono anch’essi il comunismo? Come gli ebrei nel deserto
che, stanchi della fatica di essere liberi, sognavano le cipolle e l’aglio della
schiavitù in Egitto? (cfr. Num 11, 5).

 

(*) L’articolista è in Russia con l’associazione "Amici
Missioni Consolata" di Torino e la guida Delfina Boero (della fondazione "Russia
Cristiana").

 

Il "Va’ pensiero" per Maria

Il "Museo etnografico" di San Pietroburgo raccoglie alcuni
reperti sui popoli dell’ex Unione Sovietica. Si tratta, soprattutto, di reperti
attinenti alla vita tradizionale nei villaggi: strumenti agricoli, reti per la pesca,
arredi di casa, borracce, candelieri ed anche altarini domestici ortodossi, con
l’immancabile icona di un santo o della Madre di Dio, oati di drappi ricamati e
multicolori. Il museo fu allestito in epoca sovietica.

Al termine della visita, ci si imbatte in una gigantografia stilizzata,
che raccoglie in forma circolare (quasi attorno ad una mensa) tutti i rappresentanti delle
varie popolazioni. È evidente la propaganda della presunta armonia fra le 15 nazioni che
costituivano l’impero sovietico. Un ideale smentito dalla realtà.

Un tardo pomeriggio entriamo nel "Museo etnografico" in
gruppo, costituito dagli "Amici Missioni Consolata", guidato da Delfina Boero.
Il tempo a disposizione non è molto, perché la chiusura è prossima. In compenso, non
c’è ressa e la visita è più tranquilla. Tra i sorveglianti del museo, una signora
ci avvicina: si chiama Maria. Ha intuito che siamo italiani e, avvalendosi della nostra
interprete, non lesina apprezzamenti per il patrimonio artistico italiano. Maria è sulla
sessantina e veste in modo dimesso. Interrogata, accetta di rispondere a qualche domanda.
È di San Pietroburgo e ricorda benissimo l’assedio della città da parte dei
tedeschi durante il secondo conflitto mondiale, avendo allora 16 anni. "Sono stati
mesi e anni terribili – dichiara -. Noi pietroburghesi resistevamo al nemico con tutte le
nostre forze, sopportando i bombardamenti, la fame e il freddo. Voi non potete immaginare
cosa sia l’inverno nelle case russe, senza riscaldamento, specialmente in tempo di
guerra. Ho visto anche morire mio padre e un fratello minore". Lo sguardo di Maria è
dolce, ma un po’ inquieto, e il tono della voce pacato ed affannato ad un tempo.

"Signora Maria, com’è la vita oggi in Russia?".
"Economicamente stavamo meglio ieri" risponde guardandosi intorno, dopo un
istante d’imbarazzo.

"Dobryj vjecir, udaci! (buona sera e buona fortuna!)" la
salutiamo con un sorriso, ostentando il nostro russo striminzito. Stiamo per allontanarci.
Ma Maria prende la mano di Delfina, la trattiene e dice: "Stasera, dopo il lavoro,
andrò ad un concerto. Amo la musica classica, compresa quella italiana. Per piacere,
cantatemi "Va’ pensiero" di Verdi!". L’attacco del famoso pezzo
del Nabucco è molto artigianale, perché nessuno di noi è un Pavarotti. E (sorpresa!),
all’acuto "arpa d’or dei fatidici vati", si intromette con forza una
donna, più giovane di Maria e certamente con maggiore potere. Con accenti sibilanti
apostrofa la collega: "Ma sei impazzita? Non sai quello che ti può succedere?".

Sul volto spettrale di Maria scorrono le lacrime.

Quel "volto spettrale" ci ha riportati all’impietoso
sistema di intimidazione psicologica in vigore nell’Unione Sovietica, magistralmente
analizzato dallo scrittore Solzenicyn, che annientava la persona prima ancora di finire in
un gulag. Chi sospettava il proprio arresto viveva per settimane e settimane
nell’incubo; ne era così stremato che, quando finalmente scattava l’ora del
prelievo, "il sentimento dominante era il sollievo e addirittura… la gioia!"
(1).

Anche se il peggio doveva ancora venire.

F.   B.

 

1) Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag, vol. I, Mondadori,
Milano 1978, p. 30. Il "maiuscolo" è dell’autore russo.

Francesco Beardi




Giustizia infinita?

 

New York e Washington.
Mi è impossibile esprimere il dolore e l’orrore provati di fronte alle stragi, a
sette giorni dalla tragedia. È un evento che segna per sempre la storia di un individuo,
e non solo di una nazione. Non c’è chirurgia plastica che possa sanare la
coltellata-sfregio, inferta dall’atto terroristico dell’11 settembre. Un
abisso fisico e morale.
Presto avremo la conta definitiva delle vittime. Saranno
troppe: una cifra superiore alla capacità umana di sopportazione, come ha ricordato il
sindaco di New York, Rudy Giuliani.

Inizieremo a conoscere le storie di manager, commessi, pompieri,
poliziotti, donne delle pulizie, turisti… che si sono "persi"
nell’inferno di cristallo del World Trade Center. Che vigliaccheria schifosa è mai
questa? Eppure chi l’ha commessa vi ha sacrificato la vita! Ma ha ammazzato migliaia
di innocenti. Quale Allah è così sfrontato da richiedere tanto sacrificio?

Qualcuno pagherà il conto. Speriamo che si individuino i responsabili
giusti e non capri espiatori. Il timore è che a versare il dazio siano innocenti di altra
bandiera, di altro credo religioso. La parola "guerra" echeggia sempre più
forte nelle dichiarazioni dei politici americani. Ma contro chi? Si respira aria da
legge del taglione.

Perdono? Sembra irrispettoso oggi, a week after. Sembra
offendere la sensibilità di tanti che non hanno più lacrime. Giustizia… infinita
allora? La CNN ha mostrato un giovane prete che si aggirava fra le rovine delle torri
gemelle, sporco al punto da sembrare nudo. Girava come chi sa che quello era il posto in
cui Dio lo chiamava, senza capire la ragione. Era silenziosamente presente
nell’oceano della morte. "Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada;
se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si
aggirano per il paese e non sanno che cosa fare" (Ger 14, 18). Ma padre Judge,
cappellano dei vigili del fuoco, sapeva cosa fare: si è sacrificato dando la vita nel suo
servizio sacerdotale.

I vescovi statunitensi hanno provato ad incoraggiare i cristiani alla
pace; invitano tutti a rinnovare la fiducia in Dio, a rifiutare la tentazione
dell’odio,
la vera causa della tragedia. Che la caccia ai responsabili
dell’atto scellerato non si tramuti in una spirale di violenza, in cui i poveri
pagano il prezzo più alto! Come sempre.

Leggo su internet che Francesco Cossiga avrebbe dichiarato:
"Adesso ci sarà certamente qualcuno che dirà: gli americani se la sono
meritata!".
Purtroppo qualcuno ci sarà, perché la madre dei cretini è
sempre gravida…
Preghiamo che i morti servano, almeno, a renderci conto del disagio
mondiale che i sistemi politici non controllano più. La politica statunitense non si è
dimostrata particolarmente illuminata sul rapporto Nord-Sud del mondo. Gli americani (che
ora chiamano a raccolta tutti gli alleati contro il terrorismo) dimenticano le loro prese
di posizione unilaterali,
che li hanno esposti a critiche anche da parte degli amici
europei. C’è stata arroganza nelle scelte riguardanti l’ambiente, il nucleare,
gli armamenti, per non parlare dell’embargo contro Iraq e Cuba. È davvero così
strano che qualcuno non ami l’America?

Tutti siamo consapevoli che molto, nell’immediato futuro del
mondo, è nelle mani degli Stati Uniti. Una leadership illuminata tiene conto di chi
lavora a fianco, lo promuove, lo guida per ottenere i risultati migliori nel bene comune.
Questa è la leadership che il mondo si aspetta dagli Usa a livello economico, politico e
militare. Tale è la leadership che potrà sconfiggere con successo ogni tentativo
terrorista di minare i valori della democrazia e libertà, di cui gli Stati Uniti si
dichiarano paladini.

A Washington e New York il mondo intero è stato colpito
l’11 settembre. Ciò che unisce tutti i popoli di fronte a quell’eccidio è il
male, che colpisce l’innocente. E quanti morti innocenti in ex Jugoslavia, Rwanda,
Burundi, Congo, Liberia, Sierra Leone, Timor Est, Sudan, Medio Oriente!…
Ad essi si
aggiungono le vittime del disinteresse o interesse di chi vuole mantenere
intatti i suoi privilegi.

Suggerirei agli amici statunitensi di cogliere l’esempio splendido
di alcuni loro giovani, che in questi sette giorni hanno offerto la vita per salvae
altre. Se chiamati alle armi, faranno anche la guerra. Ma quanto sarebbe più bello se
questi ed altri ragazzi, in ogni parte del mondo, avessero l’opportunità di provare
quanto valgono sul terreno della pace e della solidarietà internazionale!

La chiesa ha il difficile compito di creare ponti di pace fra
"distanze grandi" e "terreni impervi". Non si può prescindere da una
presenza di consolazione in questi giorni di disperazione. È necessario il
dialogo con le altre fedi religiose, in primis con la comunità islamica ed ebraica.

Preghiamo perché il mondo rifiuti ogni violenza e ognuno apra
(finalmente) mente e cuore. Che Dio accolga le vittime delle stragi di New York e
Washington, consoli le loro famiglie!

padre Ugo Pozzoli




Ma la violenza e le bugie non fermeranno i sognatori

Genova, 21 luglio.
"Vedrete, domani saremo tutti dei criminali". Sul pullman che ci riporterà a
casa si respira un’atmosfera pesante. Delusione, sconcerto, malinconia sono i
sentimenti più diffusi. Qualcuno è più ottimista: "Ma no. Sapranno distinguere. Le
violenze di certe multinazionali non fanno dimenticare che altre imprese lavorano con
coscienza. Le esecuzioni capitali degli Usa non fanno dire che tutti gli statunitensi sono
dei barbari. I teppisti degli stadi non vengono confusi con i tifosi veri. Sì, sapranno
dividere chi è venuto per contestare con una maglietta colorata, uno striscione, uno
zainetto pieno soltanto di acqua e panini".

Alcuni di noi sono stati in cima al corteo dei duecentomila (o più) manifestanti,
venuti da ogni regione d’Italia e da decine di altri paesi (Francia, Grecia, Spagna,
Inghilterra, ecc.). "Il corteo si è trovato spezzato in due tronconi. Piovevano
candelotti lacrimogeni sulla gente. Molti, impauriti, indietreggiavano, incrementando il
panico. Altri riuscivano a mantenere il controllo, alzando le mani imbiancate e gridando
"Calmi, calmi. Non scappate". Abbiamo visto gruppetti di tute nere, sbucati
all’improvviso da chissà dove, dare l’assalto a banche e negozi. Con sassi,
spranghe, bastoni, calci. Chi doveva fermare questi teppisti scatenati? Dove erano le
forze dell’ordine?".

"A tirare i loro lacrimogeni sui pacifisti", grida qualcuno dal fondo del
bus; "a difendere George il texano", aggiunge un altro; "ad ammirarci
dall’alto", ironizza amara una signora, riferendosi agli elicotteri che, per
tutto il giorno, hanno volteggiato sulle teste dei manifestanti.

Il pullman entra a Torino poco dopo la mezzanotte. I saluti sono veloci. Stremati nel
fisico e nello spirito, tutti vogliono tornare a casa. Ma – questo è certo – nessuno si
è pentito della scelta operata, né smetterà di sognare un mondo diverso
dall’attuale.

Domenica, 22 luglio. Le previsioni si stanno avverando. Alcuni
quotidiani e diverse televisioni si scatenano in un impudico travisamento dei fatti. Che
tristezza leggere: "Vogliono cambiare il mondo. Così hanno cambiato Genova"
(prima pagina de il Gioale). E Libero di Vittorio Feltri rincara la dosa: "Sono
solo dei criminali. I pacifisti devastano e incendiano Genova". Si dà fondo al
dizionario degli insulti: lanzichenecchi, nazi-comunisti, terroristi, rivoluzionari
deliranti, mandria allo sbando, catto-comunisti, turisti della violenza, pessimi alunni di
cattivi maestri. Chissà come si sentirà la ragazza di Mani Tese, l’ambientalista
del Wwf, l’iscritto della Fiom, la signora francese di Attac, il comunista greco o il
missionario della Consolata?

Sui canali televisivi scorrono le devastazioni del "popolo di Seattle" e i
sorrisi di circostanza degli otto cosiddetti "grandi" che, nei palazzi della
città proibita (la famigerata "zona rossa"), raccontano alla stampa mondiale
cosa hanno deciso in questa tre giorni di discussioni. "Abbiamo lavorato per il bene
dell’umanità". Ci sarà un fondo per la lotta all’Aids, alla malaria, alla
tubercolosi (3 mila miliardi di lire, poco più di un’elemosina). Per ridurre la
povertà (e aumentare i profitti delle multinazionali), i commerci saranno ancora più
liberi. C’è l’ennesima promessa di aiutare l’Africa. Nessun accordo,
invece, sul trattato di Kyoto, sullo sviluppo diseguale, sulle energie rinnovabili, sullo
scudo stellare di George il texano, sulla cancellazione totale del debito. Della finanza
speculativa e della "Tobin Tax" non si è parlato perché, come si dice, non
erano temi in agenda. Insomma, ancora una volta, tante chiacchiere, ma pochissimi
risultati. Ma che importa? I cattivi sono gli altri. Le banche devastate, le vetrine
infrante, le auto bruciate, la città messa a ferro e fuoco sono lì a dimostrarlo. Il
mondo può andare avanti così.

Paolo Moiola




Lettere: cari missionari

Era…

extra-comunitario!

Cari missionari,

ho 16 anni. Scrivo a voi perché non so a chi altro manifestare il mio sconforto e la
mia rabbia. Missioni Consolata è un mensile che si occupa di popoli stranieri, delle loro
situazioni complicate e spesso drammatiche.

Vi parlo del mio disagio nei confronti degli extra-comunitari in Italia, sperando che
pubblichiate il mio e-mail.

Stasera mi è capitata una vicenda, forse banale, ma che mi ha veramente sconvolta. Ero
uscita con gli amici e, al ritorno, i genitori sono venuti a prendermi. Camminavamo per
raggiungere la macchina: dovevamo attraversare una strada abbastanza trafficata e nessuno
ci lasciava passare. Mio padre ha fatto cenno a un’auto di fermarsi, ma questa ha
tirato dritto; allora si è "buttato" in strada. La macchina ha frenato
bruscamente: l’autista (un extra-comunitario) è sceso, ha cominciato ad insultarci e
stava per fare a botte. Io tremavo di paura. Ma avrei voluto dire: "Lo sa anche la
mia sorellina che ci si deve fermare e lasciar passare i pedoni!".

Come possiamo fidarci degli extra-comunitari? La scena ricordata è solo una delle
tante dimostrazioni della loro stupidità. Con ciò non voglio dire che noi italiani siamo
perfetti, anzi! Ma loro sono un pericolo in più.

Anna Turatello

Selvazzano (PD)

Tutti possiamo essere un pericolo in più, ma anche una ricchezza! Intanto non
lasciamoci plagiare da "luoghi comuni discriminatori"… Anna, data la tua
giovane età, forse ti può aiutare la seguente riflessione di Adriana, che titoliamo…

 

Ritrovare

i sentimenti

Quando ci viene chiesto di raccontare un’esperienza, ci si limita spesso a fatti
di cronaca. Per me "esperienza" è ciò che rimane come patrimonio nel cuore,
ciò che modifica il mio modo di pensare e vivere.

L’"esperienza-risurrezione" ha cambiato la vita degli apostoli. Come
loro, sulle vie del mondo, operano i "missionari": persone che devono essere
povere e libere per stare con la gente e condividee il cammino.

"Fuori sulla strada Gesù è esposto, malconcio, malato…", ed è
l’amore che risolverà ogni dubbio: il dubbio soprattutto che "tutto è
inutile". Proprio perché mi manca l’esperienza del Risorto, "tutto è
inutile". Ma con Lui, la mia vita cambia, come quella dei fratelli poveri,
emarginati, sfortunati.

Devo dare quel poco che ho a chi ha meno di me. Il non avere ciò che è essenziale per
la vita è una sofferenza non per chi lo possiede, quanto invece per chi vuole amare… e
nulla può donare!

Quando penso che ho l’indispensabile, non posso nascondere il mio disagio; esso
diventa più grande allorché mi rendo conto che, purtroppo, poche volte ci penso a
questo. Ma il povero, l’umile, il semplice lo si trova sempre… ed è lui a far
rifiorire in me sentimenti annebbiati: accettazione, rispetto, condivisione, tenerezza.
Quando sento di possederli, ringrazio il Padre Nostro… E lo può chiamare così chi non
mi fa odiare i nemici, ma mi sprona ad amare tutti gli esseri creati e mi fa desiderare la
giustizia e carità.

Vorrei che fossero sempre questi i sentimenti a determinare le mie azioni.

sr. Adriana Prevedello

Mazara del Vallo (TP)

Adriana, missionaria francescana di santa Elisabetta in Kenya e poi in Sicilia tra
mafia, prostituzione e immigrati clandestini, è ripartita per il paese africano.

 

Lacrime

e quisquiglie

Spettabile redazione,

avevo visto a suo tempo la foto della donna sulla copertina di Missioni Consolata,
gennaio 2001, e già allora volevo scrivervi che la didascalia non era giusta.
Naturalmente avevo indovinato che la foto era stata fatta al funerale di padre Andeni.

Non conosco personalmente la donna della foto, ma penso che sia farle torto definirla
"musulmana", semplicemente perché ha il velo in testa. Ritengo che sia una
delle nostre cristiane, con molta probabilità una kikuyu, non una samburu o una turkana.
In Kenya la maggioranza delle donne nelle nostre missioni usa il velo e, a Maralal, i veli
più belli nei negozi sono di foggia musulmana, anche perché diversi negozianti sono
musulmani.

Tenendo conto che la donna sta piangendo, è naturale che cerchi di nascondere la
faccia. Però non facciamo dire alla foto quello che non dice, cioè partecipazione
musulmana al dolore cattolico…

Non sono d’accordo con la lettera che vi hanno scritto, specie con
l’offensiva parte finale.

p. Gigi Anataloni

Nairobi (Kenya)

Caro direttore,

ha suscitato in me molta indignazione la lettera "Lacrime di una musulmana",
apparsa su Missioni Consolata di maggio, non per il titolo, ma per il contenuto. Da quanto
ho potuto leggere, trovo la lettera grossolana e poco rispettosa sia del vostro lavoro sia
del personale che opera in redazione.

Il discordare da un articolo o una foto è legittimo, ma non dà diritto ad illazioni o
supposizioni sul direttore della rivista, anche perché le sue scelte sono dettate da
sensibilità professionale… che non tutti i lettori posseggono.

Gli autori della lettera hanno tentato di "classificare e bocciare" una
persona solo perché è "musulmana". Questo è razzismo o, meglio,
fondamentalismo religioso, che pian piano sta penetrando anche nei nostri ambienti
cattolici.

Invito gli autori della lettera a rispettare le persone, anche se non sono
d’accordo con il loro pensiero, perché, solo rispettando l’altro, si è degni
di rispetto.

p. Gianfranco Graziola

Roraima (Brasile)

Ecco i precedenti della piccola polemica.

In Missioni Consolata di gennaio 2001 pubblica in copertina una donna che piange, con
la didascalia "lacrime samburu (Kenya)". Nient’altro.

n La rivista di maggio ospita una lettera dal Kenya, secondo la quale la donna in
questione non è samburu, ma musulmana. Sorge spontanea la domanda: i samburu non possono
essere musulmani?

n Oggi, ancora dal Kenya, si replica: la donna non è musulmana, ma probabilmente
kikuyu.

E i kikuyu non possono essere musulmani?

Chiudiamo la querelle con dati certi: la foto fu scattata il 18 settembre 1998 a
Maralal (Kenya) durante i funerali di padre Luigi Andeni, quattro giorni dopo la sua
uccisione; l’immagine mostra una donna con il velo che piange, senza nascondersi.

Quelle lacrime ci hanno impressionato. Non il resto.

 

La forza del perdono

Cari missionari,

ho 17 anni. Sentendo il telegiornale o ascoltando le notizie di cronaca, vengo a
conoscenza di eventi che sconvolgono il mio mondo ristretto. L’interrogativo più
frequente che mi pongo è se le azioni-reazioni dell’uomo siano serene o furiose, non
pensate o dettate dalla ragione…

Si potrebbe tracciare un percorso storico circa fatti ed eventi, generati da quel senso
di vendetta che acceca, senza lasciare uno spiraglio di luce e razionalità. È il buio
dovuto alla mancanza di raziocinio a renderci simili agli animali.

A partire da Abele e Caino fino ai nostri giorni, passando attraverso gli scontri di
religione, le guerre mondiali e locali, la pace è sempre stata un tormento. A livello
personale, i casi peggiori sono quelli in cui il sopruso diventa stile di vita, il modo di
prevaricare la giustizia per difendersi dal mondo esterno e celare le proprie debolezze. E
si diventa vendicativi.

A volte, quando la parola "punizione" diviene sinonimo di istituzione
pubblica e politica, neanche le maggiori organizzazioni umanitarie sono in grado di
fermare lo scempio. L’esempio più lampante è, oggi, rappresentato dalla pena di
morte. Questa sanzione, così primitiva, è praticata in molti stati, e non solo dai più
sottosviluppati. Non esiste ragione, difesa, possibilità di riscatto per un errore
compiuto, ma solo la vendetta.

Faccio un ragionamento: se lo stato stesso pratica la pena di morte, pratica pure la
vendetta; perché che cos’è la pena di morte se non una vendetta? In tal caso, molti
omicidi sarebbero giustificabili.

Nel corso dei secoli anche la religione è divenuta causa di conflitti scoppiati tra
fazioni opposte, che, gridando il nome del proprio Dio, si uccidevano a vicenda. Ma,
certo, nessun Dio ha mai voluto né vorrà che i suoi fedeli ne uccidano altri per
dimostrare la superiorità di un credo.

I kamikaze che si fanno esplodere con carichi di tritolo, dopo aver indossato il
sudario bianco, dovrebbero farci riflettere sulle parole che un profeta ha lasciato in
eredità… ma anche non bombardare la nazione di coloro che credono di meritare il
paradiso, morendo per la propria fede.

Potrebbe rivelarsi un ottimo spunto di riflessione l’"essere o non
essere" di Amleto. Con altre parole: ha più valore una vita in cui non mi lascio
prevaricare dai soprusi altrui, o sono più forte nel momento in cui riesco a reprimere le
passioni i sentimenti violenti che mi turbano l’animo?

Federica Medda

Roma

Cara Federica, le tue considerazioni ci fanno venire in mente le parole di Giovanni, il
battezzatore e precursore della Salvezza: "Dopo di me verrà uno più grande, al
quale io non sono degno neppure di portargli i sandali (cfr. Mt 3, 11). È essenziale
credere in un "dopo" diverso dal presente, che però incomincia ora.

Inoltre, Federica, ti auguriamo di non scordare queste tue parole: "Il perdono non
è una debolezza di molti, ma una forza di pochi". Specialmente quando non avrai più
17 anni.

 

"Noi"

e le altre religioni

Egregio direttore,

sono un cristiano-cattolico e seguo fin dalla nascita la religione che nostro Signore
Gesù Cristo ha rivelato a tutto il mondo.

Ci sono però altre religioni, quali l’islam, l’induismo, lo scintornismo…
con il loro Dio e un programma di vita etico-religioso. Chiedo: quale religione vera ed
autentica dobbiamo seguire per ottenere la vita eterna? Dobbiamo accettare solo la
religione cristiano-cattolica, la legge di Mosè, la fede di Abramo, Isacco e Giacobbe che
credono in un solo Dio?

Giuseppe Monno

Bari

Anche a Gesù fu chiesto: "Che devo fare per avere la vita eterna?". E il
Maestro rispose confermando la legge di Mosè e attualizzandola con la parabola del
"buon samaritano" (cfr. Lc 10, 25-37).

Circa la salvezza nelle religioni non cristiane, il Concilio ecumenico Vaticano II è
esplicito: "Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa e,
tuttavia, cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere
le opere e la volontà di Lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono
conseguire la salvezza eterna" (Lumen gentium, 16).

Su tale argomento si rilegga il dossier "L’alta teologia e il buon
senso" (Missioni Consolata, gennaio 2001).

 

Super-impegnati, ma…

Cari missionari,

da anni riceviamo Missioni Consolata, indirizzata ai figli Giorgio ed Elena: erano
ragazzini quando l’abbiamo ricevuta per la prima volta. Ora sono adulti e
super-impegnati. Io, che ho sempre letto la rivista con grande interesse, oggi per
problemi agli occhi mi devo limitare solo ai titoli. Ne sono dispiaciuta. Oltretutto, non
sono riuscita a trovare qualcuno che voglia leggerla.

Pertanto vi chiedo di sospendere l’invio del giornale. Ma non dimenticheremo i
missionari della Consolata, anche perché abbiamo un ricordo vivissimo di padre Domenico
Zordan.

Vi ringrazio perché, leggendo la vostra rivista, in questi anni mi sono
"arricchita" molto.

Giuseppina Kral

Zugliano (VI)

Carissima signora Giuseppina, faccia ancora un tentativo! Se i figli Giorgio ed Elena
sono veramente impegnati, non possono non seguire l’esempio della mamma e… leggere
anche Missioni Consolata.

 

"Yanomami"

e "macuxí"

Carissimi padres italianos Giorgio Dal Ben, Giacomo Mena e amigos indios yanomami e
macuxí, dalle rive del Sinni di Potenza a quelle del Rio Blanco di Boa Vista (Brasile) si
ode un solo grido: "Tenete duro!".

Franco Mele

Francavilla (PZ)

In altri termini: a luta continúa. Con speranza. Ne abbiamo parlato pure nel dossier
di luglio "Anche gli angeli perdono le ali".

 

I figli missionari?

Che gioia sarebbe!

Carissimi missionari,

siamo una famiglia con due bambini di nove e due anni e uno di quattro mesi. Il Signore
ci ha donato queste creature che, pur nella fatica del quotidiano, rappresentano la nostra
gioia.

Da tempo condividiamo le nostre povere cose con chi è più sfortunato di noi, con
coloro che hanno avuto solo la "colpa" di nascere con un colore diverso dal
nostro o in paesi piagati da guerre, fame e miseria.

Abbiamo anche sostenuto un’iniziativa di "adozione a distanza" con
un’organizzazione umanitaria, portata avanti fino a quando le nostre condizioni
economiche ce l’hanno consentito. L’interruzione, necessaria quanto dolorosa, di
questo tipo di aiuto non ha però spento in noi il desiderio di riprendere al più presto
il sostegno nei confronti di bambini in difficoltà.

Ed ecco il motivo della nostra lettera: ci rivolgiamo a voi, missionari, per avere
indicazioni e ragguagli al fine di iniziare nuovamente un sostegno a distanza,
possibilmente in un paese dell’Africa. Riteniamo che non esista modo migliore di
impiegare le proprie risorse economiche, in tempi in cui molti (troppi) ricercano sistemi
più o meno leciti per arricchirsi in una forma sempre maggiore.

A costoro vorrei umilmente ricordare che solo Gesù Cristo ha promesso interessi
esorbitanti: addirittura il centuplo! Sfido qualunque banca a promettere di più.

Una cosa ci farebbe particolarmente piacere, se rientra nelle normative che regolano le
adozioni a distanza: intrattenere con il bambino o la bambina adottati un rapporto
epistolare. Tale rapporto con i bimbi di un altro paese contribuirà a creare in famiglia,
soprattutto nei nostri figli, un’atmosfera di aspettazione e gioia, nonché la
consapevolezza che in un posto lontano c’è "un altro fratellino", che ha
bisogno delle medesime cose di cui hanno bisogno loro, con le loro stesse aspirazioni e
desideri.

E chissà! Forse un giorno i nostri figli potrebbero "farsi prossimo" in modo
ancora più concreto, non solo con aiuti economici, ma donando interamente se stessi ai
poveri e agli afflitti partendo come missionari.

Che gioia sarebbe!

Ultima richiesta: visto che non siamo ancora abbonati a Missioni Consolata
(l’abbiamo conosciuta in parrocchia), vi preghiamo di inviarci tutto il materiale per
riceverla regolarmente.

Mario Manescotto

Revello (CN)

Di tanto in tanto, attraverso la rubrica "provocazioni missionarie" della
rivista, lanciamo qualche invito esplicito alla missione. Ma il signor Mario ci ha
nettamente superati.

AAVV