SOECIALE 100 ANNI – Arrivano nuove caravelle

Terra di contrasti stridenti: «favelas»
e grattacieli, dittature e democrazie, denunce
e omertà, guerra e pace, bianchi e neri,
indios e… Però l’America Latina
è anche un laboratorio missionario straordinario: alimenta grandi speranze,
specie dopo il Concilio ecumenico Vaticano II.
Accoglie i missionari della Consolata
e… ricambia il favore donando i propri figli
ai continenti più bisognosi.

I missionari della Consolata annunciano il vangelo anche in America Latina. Al loro arrivo, dopo la seconda guerra mondiale, il continente non presenta i tratti tipici della missione ad gentes: infatti, sino dalle caravelle della colonizzazione spagnola e portoghese, i paesi latinoamericani hanno raggiunto lo status di «chiesa autonoma» con vescovi, sacerdoti e istituzioni religiose locali.
I missionari delle «nuove caravelle» non trovano situazioni simili a quelle incontrate, per esempio, fra gli oromo dell’Etiopia o i wahehe del Tanzania. Pertanto lo scopo principale nel Nuovo Mondo non è la prima evangelizzazione, bensì di inserirsi nelle strutture ecclesiali esistenti; intanto formano missionari locali ad gentes e acquisiscono aiuti per le regioni più bisognose.
Tuttavia la «Consolata» in America Latina raggiunge anche territori eminentemente missionari: in Brasile gli indios macuxí e yanomami, in Argentina gli aborigeni tobas, in Colombia quelli nasa, in Ecuador i quichua, in Venezuela i guajiros e yequana. È la scelta dei più poveri tra i poveri, mentre soffia il vento di rinnovamento del Concilio ecumenico Vaticano II.
Inoltre la «Consolata» entra nelle baraccopoli delle metropoli o nelle regioni degli afroamericani, discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. I problemi sono drammatici.
L’articolo si sofferma su alcune situazioni missionarie in Brasile, Argentina e Colombia.

Brasile:
La scelta degli indios
È la prima nazione dell’America Latina a ricevere i missionari della Consolata nel 1937. Il paese appare loro (e ai successori) una soluzione transitoria, in attesa di trovare qualche altra missione sullo stile africano. L’Istituto è qui perché ha bisogno di vocazioni e mezzi per sostenere altrove la sua vasta e complessa attività. Nessuno crede che l’ultima sponda della missione sia l’abbastanza prospero sud del Brasile, fra le piantagioni di caffè. Tuttavia dagli stati di Paraná, Santa Catarina, Rio Grande do Sul, grazie all’animazione missionaria, sono sorti annunciatori del vangelo brasiliani, oggi in azione in diversi continenti…
L’interrogativo è: esiste nel paese maior do mundo un territorio che richiami le missioni d’Africa? Ed ecco la regione di Roraima, altamente di missione. I padri della Consolata vi mettono piede nel 1948.
Il territorio, da tempi immemorabili patria degli indios, agli inizi degli anni ’50 si presenta quasi come esclusiva proprietà dei bianchi: questi occupano vaste fattorie, dove gli indigeni sono costretti a vivere come residenti abusivi e in stato di servitù. È una situazione di ingiustizia insostenibile, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II.
I missionari, sorretti dalla scelta evangelica dei poveri, fanno causa comune con gli indios macuxí, wapichana, ingarikó e taurepang. E, per la prima volta dalla conquista portoghese del 1500, l’indio al cospetto del bianco incomincia a non chinare più la testa sottomessa, ma a fronte alta risponde «nossignore!».
Inizia una grande battaglia per la salvaguardia dell’identità culturale indigena e la riappropriazione delle terre contro il potere anche politico locale. È in tale contesto che viene lanciata la Campagna mondiale «Una mucca per l’indio», sottoscritta pure da tanti lettori di Missioni Consolata.
L’11 dicembre 1998 il Ministero della giustizia del Brasile decreta la demarcazione dell’area indigena Raposa-Serra do Sol, ma non arresta i latifondisti bianchi: costoro, forti dell’appoggio di alcuni politici di Roraima, sono disposti a difendere le loro pretese sul territorio anche con la violenza.
I missionari «scelgono» poi i yanomami, che vivono allo stato tradizionale (fermi a circa 12 mila anni fa) e rischiano il genocidio-etnocidio. Figli della foresta amazzonica, «il polmone del mondo», gli indios sono esposti alle malattie dei bianchi che ne invadono il territorio per cercare oro e legname prezioso. Tra lotte incessanti nasce il «parco dei yanomami». Il governo brasiliano riconosce agli indios il diritto alla proprietà e a vivere sulla propria terra. Ma la vittoria è tutt’altro che certa.
Non c’è promozione umana senza scuola. Ma l’alfabetizzazione dei yanomami è problematica. Una missionaria laica e tre padri, nel 1990, iniziano nel Catrimani una educazione scolastica speciale. Cosciente che la scuola nelle aree indigene è stata uno strumento di dominazione e distruzione culturale, l’équipe opta per un insegnamento slegato dal sistema statale e incarnato nella cultura locale. È un’alfabetizzazione etnologica, bilingue (yanomami e portoghese), biculturale, globale.
E l’evangelizzazione? «I yanomami – scrivono Guglielmo Damioli e Giovanni Saffirio – sono ancora un popolo neolitico (in gran parte illetterato) di cacciatori, raccoglitori e orticoltori, la cui storia evolve verso “la pienezza dei tempi” (plenitudo temporum): condizione necessaria per la scoperta e comprensione del messaggio cristiano».
Il missionario «sia coerente con le proprie convinzioni religiose – afferma l’enciclica Redemptoris missio, 56 – e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza chiusure e dissimulazioni, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno».
Ebbene i missionari della Consolata evitano ogni manipolazione della vita yanomami. Fin dal loro primo contatto, adottano semplici regole di convivenza, ma suggeriscono mutamenti culturali con la pratica palese e specifica di valori cristiani: il perdono, la valorizzazione di tutte le forme di vita, la generosità con tutti, le cure mediche tradizionali e allopatiche, l’istruzione, senza chiedere compensi o adesione alla fede cristiana (1).

(1) L’attenzione agli indios dei missionari si esprime anche attraverso importanti pubblicazioni:
– Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apiaù, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967; Massacre, Cimi, São Paulo 1998;
– Guglielmo Damioli – Giovanni Saffirio, Yanomami, Il Capitello, Torino 1996;
– John Saffirio, Ideal and kinship terminology among the Yanomama Indians of the Catrimani river (Brazil), University of Pittsburg, 1985 (tesi di laurea).

Argentina:
«descamisados»
e «desaparecidos»

Il generale Juan Perón è progressista, radicale, anticlericale. Grazie al favore dei descamisados (scamiciati), nel 1946 vince le elezioni in Argentina. È una vittoria contro la borghesia e inaugura una dittatura a larga base popolare, che governa il paese secondo la dottrina del justicialismo. Ma Perón, a modo suo, protegge i lavoratori attraverso il populismo e il dirigismo economico. Quanto basta per attirargli le simpatie delle masse, alienandole dalla chiesa.
Non è facile per i missionari della Consolata operare in Argentina dal 1947 (anno del loro arrivo) durante il peronismo. Un cattolicesimo nazionalista contende il potere a stato e chiesa, mentre i capi politici e religiosi si fronteggiano, con pari acredine, per accaparrarsi il favore del popolo e trascinarlo dalla loro parte.
Però è lo stesso Perón che sollecita i missionari a recarsi nella disagiata regione del Chaco… per risolvere il problema degli indios tobas. L’iniziativa è meritevole. D’altra parte che cosa aspettarsi da un presidente, se non di riparare le ingiustizie accumulate in secoli di colonialismo spagnolo? Ma si rivela propaganda politica.
Infatti, dalla seconda metà del XIX secolo, con la colonizzazione intea e l’impulso all’immigrazione, migliaia e migliaia di aborigeni sono ridotti a poche centinaia, intruppati in riserve (colonias) per coltivare cotone, allevare bestiame o disboscare la foresta. Inoltre, a causa dei loro continui spostamenti, è impossibile per i missionari instaurare un dialogo e sviluppare progetti di promozione umana.
Passato il fugace e illusorio idillio tra peronismo e chiesa argentina, le due società si fronteggiano in campo aperto mettendo in atto le rispettive forze: Peròn i suoi giovani, la sua milizia, le manifestazioni di piazza, le leggi contro la libertà religiosa nelle scuole… la chiesa incoraggiando l’Azione Cattolica, il clero e i fedeli a resistere con coraggio a violenze, arresti e soprusi.
È un braccio di ferro tra due diverse visioni del mondo, destinato a risolversi nel 1955 in un golpe militare, appoggiato da larghi settori del clero e dell’episcopato, da notabili e militanti cattolici.
I missionari della Consolata vivono quei giorni di tensione accanto alle loro comunità parrocchiali. C’è anche chi paga di persona: padre Carlo Motta, nel natale 1955, viene malmenato da un gruppo di scalmanati; padre Ruggero Angheben finisce momentaneamente in carcere; i padri Guido Guerra e Armando Cecconi sono tenuti sotto sorveglianza. Tutti devono ricordare di essere stranieri in terra straniera.
La dottrina sociale della chiesa universale a favore dei diritti umani, scaturita dal Concilio Vaticano II e dalle Conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam), per ovvie ragioni non ha ripercussioni immediate nell’ambiente ecclesiale locale. Tuttavia, al tramonto delle dittature, trova terreno fertile nei Sacerdotes del Tercer Mundo, nella nuova Riflessione teologica sullo sviluppo e nelle Madri di Plaza de Mayo, che recriminano per i «soppressi» dalla dittatura (desaparecidos).
Sul versante politico, la fine della demagogia inaugura un corso che si dibatte tra giunte (risolute a frenare ogni infiltrazione comunista) e governi che tentano di instaurare la democrazia. Il paese è irrequieto, e anche la chiesa lo è, specialmente in alcune sue frange peroniste e di sinistra.
Morto Perón nel 1974, gli succede la moglie Isabelita, travolta nel marzo 1976 dal golpe militare di Jorge Rafael Videla, che ripristina la pena di morte contro i terroristi.
In tale contesto si inserisce l’arresto di padre Gianfranco Testa e la sua drammatica detenzione nei penitenziari del regime (vedi l’inserto «56 mesi nelle galere…»).
Però la missione in Argentina resiste, nella fedeltà alla chiesa locale e all’Istituto, anche se in condizioni sfavorevoli:
1/ un elemento perverso frena la popolazione e, di conseguenza, anche i missionari: è il sistema poliziesco che governa per lunghi anni con la paura, la censura, i desaparecidos, le esecuzioni sommarie, il carcere duro, i controlli capillari, la guerra per le isole Malvinas;
2/ la mancanza di informazione fa erroneamente credere che il paese, già meta di numerosi emigrati italiani in cerca di benessere, sia prospero; ne fanno le spese anche i missionari.
A partire dal 1984, con il faticoso ritorno alla democrazia, i missionari operano in condizioni sociali più favorevoli. Uno dei loro fiori all’occhiello è l’azione fra gli indios tobas.

Colombia: nel vortice
della violenza
«Violencia». È, purtroppo, una delle prime realtà che i missionari della Consolata scoprono giungendo in Colombia nel 1947.
Nelle elezioni presidenziali dell’anno precedente, il leader demagogo Jorge Gaitán viene sconfitto e, nel 1948, addirittura ucciso. Esplode la guerra civile tra liberali e conservatori, passata alla storia appunto come «la violencia».
Il fenomeno divampa per un decennio (1948-57): causa 300 mila morti, l’esodo di 2 milioni di contadini disperati verso le città, con il conseguente sovraffollamento e povertà di periferie (serbatorni dell’attuale criminalità); scatena guerriglie; traumatizza la coscienza del popolo; consolida la mentalità del conflitto come meccanismo di funzionamento della società.
Siamo negli anni ’50. Ma sembra la fotocopia della Colombia odiea, il paese più violento del mondo, che conta 25-30 mila morti ammazzati all’anno…
Però la Colombia vanta pure una lunga tradizione cristiana, dai connotati spagnoleschi, dal culto popolare e dall’arte ridondante. I missionari sono qui «per dare una mano», perché la comunità ecclesiale si sta espandendo senza un numero sufficiente di sacerdoti.
Che la chiesa abbia bisogno di aiuto è lampante. Secondo José Luis Sea, missionario della Consolata colombiano, nel 1964 sulle spalle di ogni sacerdote di campagna grava la responsabilità di circa 8 mila persone: e, fatto ancora più sintomatico, il 51 per cento dei preti che lavorano in missione sono stranieri. Grave è pure la situazione nelle aree urbane.
L’incontro tra i missionari e le parrocchie urbane e rurali comporta un reciproco vantaggio: l’Istituto attinge alle fonti di una pastorale creativa e popolare; la chiesa locale si avvantaggia di una mens missionaria aperta a tutte le culture.
Negli anni ’80 alcuni missionari si avventurano verso regioni più complesse, di «frontiera». Spiccano alcuni padri che piantano le tende tra i campesinos della Cundinamarca, a 40 chilometri da Bogotà, facendo di Tocaima il centro d’interesse: si dedicano ad un progetto basato sull’insegnamento sociale della chiesa: è la Promociòn integral de comunidades rurales. L’obiettivo è di creare in ogni centro rurale le condizioni per una promozione integrale dei contadini, diventati vittime del latifondo e delle monocolture per l’esportazione…
Dopo 15 anni di lavoro nel popoloso quartiere di Blaz de Lezo, nella diocesi di Cartagena de las Indias, i missionari si concentrano sul mondo indigeno e afro della Bahia, lungo la costa atlantica, ricettacolo di popolazioni meticce, forgiate nell’altofoo della schiavitù e messe alla prova da una povertà endemica. Così, dal piccolo centro di Pasacaballos, nel 1983 parte la missione tra i morenos: una missione da inventare e un popolo da scoprire. Nel 1988 sorgono altre due missioni: El Cabrero e Marialabaja (1)…
Quando lo stato non crea posti di lavoro, la popolazione è costretta ad arrangiarsi, spesso emigrando. Allora in Colombia si assiste ad una emigrazione intea che vede migliaia di persone riversarsi verso il Caquetà, nell’Amazzonia. Oltre che dalla mancanza di lavoro, il fenomeno è originato dal bisogno di fuggire dalla guerriglia e dai paramilitari. Dalla violencia, insomma.
Un milione e mezzo di ettari di alberi sono presto abbattuti (siamo in Amazzonia!) per coltivare coca, che nell’arco di 24 ore diventa cocaina: e alimenta il narcotraffico mondiale, procura facile ricchezza ai campesinos, ma li espone alle frequenti incursioni della guerriglia e alle spietate repressioni delle forze governative. Il numero delle vittime non si conta. Però nessuna proposta sociale, capace di dare alla gente una nuova prospettiva di sopravvivenza – denuncia padre Giacinto Franzoi – accompagna l’intervento militare.
La convinzione che, con i dispositivi militari di grandi proporzioni, si possa superare il problema «coca» una volta per sempre è illusoria. A questo quadro, già sconfortante, padre Giuseppe Svanera aggiunge gli effetti degradanti che il commercio della «polvere bianca» produce nelle popolazioni: perdita dei valori umani, caduta del senso religioso, sfiducia, malasanità, corruzione, prostituzione, analfabetismo. Solo l’8% dei ragazzi termina il ciclo delle elementari, e il 60% della popolazione in età scolare non varcherà mai la porta di una scuola.
Dopo aver toccato il fondo, ci si accorge che ogni illusione è crollata e che è urgente trovare una via di uscita: dai gruppi pastorali allargati delle missioni di Solano e Remolino, nel vicariato di san Vicente-Puerto Leguízamo, affiora la volontà di sostituire la coltivazione della coca con altre colture, meno vantaggiose economicamente, ma più sicure socialmente: caucciù, cacao. Il progetto è affascinante, ma non facile.
Nel 1995 il vicariato lancia pure una «pastorale sociale». Il problema di fondo è quello di battere la «narcoscienza», cioè non cadere nella trappola del soldo facile e immediato che la coca assicura. Ai cocaleros (che sono tali perché senza alternative di lavoro), la chiesa propone di convivere con la «loro» Amazzonia, valorizzandola: utilizzare la fauna terrestre e acquatica, la flora fruttifera e medicinale. E commercializzare il tutto. Un’impresa da giganti.
Afferma il cardinale Ersilio Tonini: «La Campagna “Non di sola coca” dei missionari della Consolata e i progetti che essa presenta sembrano piccola cosa di fronte all’immensità del problema; ma il loro significato è molto vasto, più vasto della Colombia e dell’America Latina».

N on si può concludere questo rapido (ed incompleto) excursus sulla presenza della «Consolata» in America Latina senza, almeno, ricordare i suoi missionari locali. Sono 151, fra cui quattro vescovi: José L. Sea, Luis A. Castro e Francisco J. Munera, della Colombia, nonché Walmir A. Valle, del Brasile.
Alcuni padri, fratelli e suore della Consolata, divenendo missionari al di là delle loro frontiere nazionali, hanno saputo «dare dalla loro povertà», ricambiando così il «favore» ricevuto dai missionari europei delle prime caravelle.
Ad esempio: i brasiliani Elio Rama e Luiz Emer, rispettivamente in Mozambico e Corea del Sud; Alonso Alvares nella repubblica democratica del Congo e Armando Olaya in Costa d’Avorio, entrambi colombiani. Senza scordare padre Oscar Goapper, argentino, schiantato dalla fatica nel suo ospedale di Neisu nel Congo in guerra.

(1) Padre Vincenzo Pellegrino ha approfondito i problemi degli afro-colombiani della costa atlantica nel volume La campana di Balbino, Emi, Bologna 1999.

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Soffia il vento del cambiamento

Nel 1960 Harold MacMillan, primo ministro dell’impero britannico,annuncia «il vento del cambiamento» in Africa.
E cambiamento è, cioè indipendenza, «uhuru». Parola magica.
Nei primi anni ‘60 elettrizza tanti paesi del continente.
Segna «il risveglio dell’Africa nera»?
Serenità in Tanzania, sofferenza in Kenya, guerra e pace in Mozambico.

Tanzania,
9 dicembre 1961
«Nel 1950 il bozzolo del colonialismo incomincia a rivelarsi angusto per la “crisalide” Tanganyika – annota padre Alessandro Di Martino -. La crisalide si rende conto di avere le ali sviluppate: preme contro l’involucro e lo rode, smaniosa di librarsi in volo in piena sovranità».
Nel mandato britannico del Tanganyika il processo verso l’indipendenza è abbastanza spedito. Forse non si sa quanto sia stato assecondato dai missionari della Consolata.
La chiesa d’Iringa, che opera fra i wahehe, wasangu e wabena, non assiste al processo con la neutralità del forestiero. È in gioco l’avvenire del proprio «gregge». Promuovendo lo sviluppo sociale (in particolare la scolarizzazione), non si prefigge forse di formare l’élite della nascente nazione?
Senza fare «il tifo per atleti particolari», la chiesa responsabilizza la popolazione. Però non ama atteggiamenti da prima donna. È prodiga di stimoli meditati.
Nell’agosto 1951 si delinea l’atteggiamento verso il movimento nazionalistico: «limitarsi ad osservazioni sui requisiti necessari perché possa reggersi da sé». Con un particolare: eliminare ogni residuo razzista, «evitare attentamente che la nostra condotta dia l’impressione che ci atteniamo alla policy del colour bar; non chiamare più gli abitanti “neri”, bensì africani; trattare tutti con la dovuta considerazione».
Si privilegia la coscientizzazione dei cristiani di fronte ai doveri civili. Nel 1951, alle elezioni del primo Consiglio distrettuale, composto da africani, si raccomanda: «stare attenti che i cristiani se ne interessino e siano debitamente rappresentati da individui adatti… formare i fedeli al sentimento cristiano non solo come individui, ma anche come membri della società».
Ma nel 1951 l’obiettivo non è ancora l’indipendenza piena. Nel paese si ha in mente un governo confederale, esteso all’Africa orientale britannica del Kenya-Uganda-Tanganyika. «Sembra che il bene sia la costituzione di una forte federazione dei vari territori, nella quale ogni paese ritenga la propria indipendenza negli affari interni, dove tutti (europei, asiatici e africani) coesistano cogli stessi diritti e doveri. Per il bene delle popolazioni è opportuno orientare l’opinione pubblica a tale scopo… Mai prescindere dal fine soprannaturale per cui ci troviamo in questi paesi» (1952).
Passano due anni, un tempo sufficiente perché il Tanganyika focalizzi il suo scopo. Ora si esige piena indipendenza. Il primo passo concreto è nel 1954, allorché nasce il Tanu (Tanganyika African National Union), il partito che porterà il paese all’indipendenza nell’ordine e nella tolleranza razziale. Scendono in lizza anche altri partiti, ma nella votazione finale del 1960 il Tanu ottiene 70 seggi su 71. Tutti gli altri partiti si sciolgono senza traumi.
Il vescovo di Iringa, Attilio Beltramino, incoraggia i suoi stretti dipendenti a partecipare alle elezioni: «È mia intenzione che gli aventi diritto (sacerdoti, fratelli, suore, seminaristi) si facciano registrare come elettori» (28 giugno 1960). Anticipa le direttive generali emanate dalla Conferenza episcopale: «È dottrina della chiesa che il voto non sia solo un privilegio ma un dovere, e un cattolico non può facilmente esimersi dal partecipare alla scelta dei propri rappresentanti… Ma ciò non implica che ci debba essere un cosiddetto partito cattolico».
Il 3 settembre 1960 l’euforia galvanizza la popolazione all’approssimarsi del traguardo finale dell’uhuru (indipendenza). Tuttavia l’atmosfera è contenuta in una accettabile festosità. Le tragiche turbolenze del vicinato (Congo e Kenya) consigliano il vescovo di indicare alcune precauzioni.
Si fissa il giorno dell’indipendenza per il 9 dicembre 1961. Monsignor Beltramino ne predispone la celebrazione religiosa nella festa dell’Immacolata, il 7 dicembre. In questo giorno il paese viene consacrato al cuore immacolato di Maria, con una preghiera inviata da Giovanni XXIII, il papa buono.
Iringa, 9 dicembre 1961: la nuova bandiera del Tanganyika indipendente si dispiega sovrana. Padre Francesco Sciolla, vicario generale, di fronte ad esponenti politici e religiosi, nel silenzio assoluto della folla, ringrazia Dio e augura a tutti prosperità e pace.
«Sotto le stelle, dal santuario della Consolata di Iringa dilaga il tripudio delle campane. A Tosamaganga, il fragore di mortaretti»: è il tocco letterario di padre Di Martino.

kenya,
12 dicembre 1963
Fin dall’inizio, i missionari della Consolata in Kenya si impegnano nello studio della cultura dei kikuyu, nella promozione dell’uomo, nell’evangelizzazione. Non fanno politica… Tuttavia, agli occhi degli africani, amano distinguersi dagli inglesi che hanno conquistato il paese con la forza; però non ne contestano il colonialismo. Solo con il tempo recepiscono le istanze d’indipendenza politica, raggiunta il 12 dicembre 1963.
Qual è l’atteggiamento dei missionari, nel 1952-54, di fronte al movimento di autonomia dei mau mau? Al riguardo spicca la figura di Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, nel cuore del ciclone dei mau mau che, secondo lo storico Ki-Zerbo, hanno causato la morte di 8 mila civili africani, 68 europei, 460 soldati e 100 mila prigionieri.
Quando Cavallera può valutare la minaccia costituita da quell’associazione clandestina, ritiene doveroso condannarla: lo fa dopo un’inchiesta fra i missionari e gli stessi cristiani. Dalle loro risposte non c’è dubbio: il movimento mau mau è anticristiano e incita all’apostasia chi ha abbracciato il cristianesimo. Eloquente, per il vescovo e i missionari, è il «giuramento mau mau»: esso impone l’abbandono della chiesa, il rifiuto dei sacramenti, l’odio verso tutti i bianchi; d’altro canto, il giuramento sprona gli africani a ritornare alla loro divinità tradizionale.
Quindi i missionari condannano i mau mau per ragioni religiose.
Ciò non equivale a condanna politica tout court. Il vescovo Cavallera prende le distanze dagli europei che invocano il coprifuoco contro i «terroristi». «Bisogna fare sempre distinzione tra la parte religiosa e quella politica» raccomanda il vescovo ai missionari. Nel frattempo, incurante dei pericoli e delle minacce subite, percorre in lungo e in largo la sua vasta diocesi, per esprimere solidarietà alle vittime della violenza. Ed è quasi miracoloso che monsignor Cavallera ne esca indenne.
Se i mau mau volessero eliminare quel «vescovo impiccione», i suoi frequenti viaggi gli offrirebbero occasioni d’oro per farlo. Ma anch’essi con ogni probabilità «distinguono»: politicamente il vescovo non è una minaccia, pur essendo bianco; religiosamente non lo capiscono; umanamente lo ammirano, perché non lesina soccorsi ai bisognosi.
Questo però non risparmia le missioni da attacchi intimidatori e mortali: padre Edmondo Cavicchi viene ferito e resta psicologicamente menomato per il resto della vita; suor Eugenia Cavallo è assassinata. Due i martiri africani: le suore Rosetta Njeri e Cecilia Wangechi, nonché l’eroica testimonianza di sangue di semplici cristiani come Aloisio Kamau.
La fine dell’emergenza dei mau mau (durante la quale molti battezzati abbandonano la fede) segna l’inizio di una spettacolare ripresa cristiana. Quale la causa?
«L’esperienza dei missionari è che, ovunque, vi sia un risveglio inspiegabile. Io – conclude monsignor Cavallera – l’attribuisco al sangue dei nostri martiri».

Mozambico,
25 giugno 1975
«L’annuncio del vangelo nel Niassa, specie nella prima fase, è opera quasi esclusiva dei missionari della Consolata. Circa gli inizi, basti ricordare l’opera di padre Pietro Calandri e di suor Franca Cavicchi. In queste figure comprendiamo tutti i missionari e le missionarie della Consolata» dichiara nel 1988 Luis Gonzaga Ferreira da Silva, vescovo di Lichinga.
Siamo in Mozambico, dove i missionari della Consolata operano dal 1925, non solo a Lichinga, ma anche a Maputo, Inhambane e Nampula. Il paese non è facile.
È colonia del Portogallo da circa cinque secoli. E, mentre negli anni ’60 in quasi tutte le nazioni dell’Africa sventolano le proprie bandiere, in Mozambico imperano ancora Salazar e amici. Ma soffia, rabbioso, il vento del cambiamento: ed è guerra per un decennio.
Durante la lotta armata per l’indipendenza, la chiesa (connivente con il colonialismo) è soggetta anche ad una contestazione intea: ad esempio, nel 1971 i Padri Bianchi lasciano per protesta il paese. I missionari della Consolata, pur approvando il gesto, decidono di restare. Tuttavia in precedenza, il 24 dicembre 1970, padre Celio Regoli è accusato (ingiustamente) dal governo portoghese di collaborazione con i ribelli e viene espulso…
Il 25 giugno 1975 il Mozambico è indipendente. Ma, quasi subito, ripiomba in guerra: una guerra civile tra le forze governative del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i guerriglieri della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Il Frelimo gode dell’appoggio dell’Unione Sovietica e la Renamo si avvale del Sudafrica. Quindi è scontro tra marxismo e capitalismo: «due elefanti che lottano, a scapito dell’erba che calpestano». L’«erba» non cresce più.
Così è morte violenta per oltre un milione di mozambicani e fame nera per tutti. Per non parlare degli innumerevoli profughi interni: fuggono dai loro villaggi, sperando di trovare altrove una situazione migliore; ma cadono dalla padella alla brace.
La violenza è anche contro le fedi religiose, perché «la religione è l’oppio dei popoli». La chiesa cattolica è la più bersagliata, giacché i colonialisti portoghesi sono… cattolici.
Alcuni fatti:
– il 21 luglio 1977, con motivi assolutamente pretestuosi, la Repubblica popolare del Mozambico decreta l’espulsione, entro 48 ore, dei padri Armanno Armanni e Mauro Calderoni;
– novembre 1978: padre Severino Bordignon è rinchiuso per due mesi in carcere e poi espulso. Il capo di accusa è: «Sovversione contro lo stato, avendo mobilitato il popolo per la catechesi e per aver insegnato a pregare ed assistere alla messa»;
– dicembre 1978: padre Eugenio Menegon è condannato a domicilio coatto.
Sul fronte della Renamo, anche i guerriglieri non scherzano:
– 19 luglio e 16 settembre 1982: rapimento dei padri Giuseppe Alessandria e Adelino Francisco, con quattro suore della Consolata. Rimangono in mano ai ribelli sino a fine novembre;
– 15 febbraio 1991: in una terribile imboscata cade ucciso padre Ariel Granada Sea, mentre padre José Feando Martins da Rocha è ferito (resterà zoppicante per sempre);
– 1 marzo 1992: un’altra imboscata durante la quale padre Joao Coelho resta brutalmente ferito e quattro giovani che l’accompagnano uccisi. Il missionario è ostaggio dei guerriglieri per un mese;
– 22 marzo 1992: assalto notturno al Centro catechistico di Guiùa, diretto da padre Andrea Brevi e massacro di 24 persone, con rapimento di 9 bambini…
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo firmano a Roma il «cessate il fuoco». È pace. Una pace da costruire tra rovine materiali e umane infinite. Aleggia pure lo spettro che il Mozambico sia come l’Angola: cioè che ritorni al bazooka, giacché i trattati sono solo pezzi di carta. Ma la pace regge. E il Mozambico è oggi un segno di speranza per l’intera Africa.
Fra le macerie, accumulatesi durante quasi un trentennio di guerre, tutti si rimboccano le maniche. I missionari della Consolata puntano in alto: suggeriscono all’episcopato cattolico la creazione di una università. Padre Francesco Ponsi realizza il sogno. L’università cattolica del Mozambico viene inaugurata il 10 agosto 1996, con sedi a Beira e Nampula. Il rettore è padre Filipe J. Couto, primo missionario della Consolata locale.

LA FAMILGIA ESTESA DELLO STATO

Dopo l’indipendenza, l’azione dei missionari della Consolata in Tanzania avviene in un contesto diverso da quello di altri paesi africani, essendo condizionata da un particolare socialismo. È una specie di «fai da te», codificato nella Dichiarazione di Arusha (1967), che prende a modello dello stato la famiglia africana estesa, ujamaa, nella quale ognuno vive per gli altri e dove l’individuo esiste perché esistono gli altri.
L’idea, pur vicina al vangelo, si colloca in realtà agli antipodi della dottrina sociale della chiesa e dei diritti umani, in quanto riconosce al gruppo prerogative proprie del singolo, concede allo stato la proprietà dell’individuo e priva la persona di ogni incentivo al proprio sviluppo.
Naturale conseguenza di questa visione di società è la creazione forzata di «villaggi socialisti», accettata da alcuni ambienti religiosi e rigettata da altri. Non manca, anche, chi sposa la scelta e se ne fa propagatore, come il vescovo Christopher Mwoleka di Rulenge, che alterna l’attività episcopale con il lavoro manuale nei campi a fianco della gente. Quanto ai missionari della Consolata, le loro opinioni variano.
Padre Egidio Crema, studioso dei wahehe, nel 1968 non ha dubbi sulla riuscita del socialismo tanzaniano, espresso dalla politica di Nyerere e del Tanu. «In base alla loro linea di azione – sostiene – credo che non sia difficile comprendere e giustificare gli stessi atteggiamenti apparentemente contrastanti e confusi della politica intrapresa dal presidente in Tanzania».
Padre Alessandro Di Martino, storico dei missionari della Consolata nel paese, nel 1979 ravvisa nel villaggio dell’ujamaa una condizione ideale per la formazione delle comunità ecclesiali di base. «La creazione di tali comunità – scrive – ha trovato in Tanzania un contesto politico e culturale provvidenzialmente favorevole. I villaggi dell’ujamaa o comunitari, sorti sotto la spinta del socialismo dal raggruppamento delle capanne, fino a ieri sparse ai quattro venti, offrono a tutti la possibilità di incontrarsi e riunirsi con estrema facilità. Mentre lo spirito di fratellanza e solidarietà è inculcato dal partito in ogni villaggio; visto in chiave evangelica, questo si presenta ai battezzati come un punto di partenza per una testimonianza cristiana in campo politico e sociale».
Padre Franco Cravero è lieto di dare, nello spirito dell’ujamaa, un contributo per lo sviluppo costruendo una scuola di falegnameria per i ragazzi e un’altra di economia domestica per le ragazze (1979).
Nel 1990 padre Giulio Belotti nutre dubbi che la donna tanzaniana, su cui poggia gran parte dell’ujamaa, possa un giorno arrivare a gestire la propria crescita.
Di opinione abbastanza negativa è padre Luis Jiménez Feandez, per il quale l’ujamaa ha favorito il crescere della corruzione e l’abuso di cariche pubbliche. E, dopo aver propagandato l’istruzione per tutti i cittadini, in realtà ha garantito l’accesso all’università solo allo 0,5% e gli studi secondari solo al 3% della gioventù. Non meno carenti sarebbero i risultati nella sanità, occupazione, casa, ecc.
Ma tutti i missionari sono concordi nel valutare i grandi obiettivi raggiunti dall’ujamaa, come il dialogo inter-tribale, l’unificazione linguistica e la nascita di una nazione: valori che hanno favorito anche l’evangelizzazione.

LIBERTA’ E CRISTIANESIMO

«Uhuru, uhuru, uhuru!». Non si sente altro oggi in Kenya, 12 dicembre 1963.
Il mattino è stato ecumenico. Il metodista Valender, uno sceicco musulmano in un grosso turbante ed io in cotta e stola, all’aperto e attorniati da migliaia di persone, abbiamo pregato per il Kenya e la sua indipendenza. L’atmosfera era carica di gioia ed emotività.
Ognuno ha recitato una preghiera. A me pareva che persino gli angeli si arrampicassero sugli sgabelli per ricevere una benedizione protestante, una cattolica e una musulmana. Ho chiesto a Dio che fecondasse con la pioggia delle sue benedizioni l’uhuru.
Che la libertà scaturita in Kenya cresca, come crescono i raccolti nelle stagioni delle piogge, e si rinnovi come le piante di banana. Gli uomini che guidano il paese ottengano luce per vagliare la libertà, come si vaglia il granoturco, liberandola dalle erbe parassite e dalle gramigne che vegetano e danneggiano.
Una libertà senza nubifragi e siccità, con tutti i membri dei clan che vivono in una grande famiglia, dove gli anziani guidano con saggezza, gli uomini lavorano, le donne tengono linda la casa, i figli studiano e tornano dalle sorgenti con secchi di acqua limpida. Così benedica Dio il Kenya e i suoi abitanti.
Dall’applauso ho capito che la mia preghiera è stata la più azzeccata. Il vicepresidente del partito Kanu mi ha detto che l’intervento deve essere stampato, perché è bello. Quando un popolo parla così di preghiere nel giorno della sua indipendenza, probabilmente la realizzerà.
Nel pomeriggio i ragazzi hanno cantato l’inno nazionale. È un motivo mistico, che esce dalla foresta e si allarga lentamente e benedicente su tutta la nazione.

O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi,
ci sia scudo la giustizia
e noi si viva in frateità,
pace e libertà.
Svegliamoci, fratelli,
lavoriamo in alacrità,
in servizio virile
alla nostra patria Kenya.
Amiamola con fermezza,
difendiamola con prontezza.
Costruiamo la nostra nazione…
Diamoci la mano,
lavoriamo insieme
ogni giorno grati a Dio.

Poi tutti si sono dati convegno nella cattedrale di Meru: politici, ex mau mau, protestanti, musulmani, i nuovi borghesucci, la massa di contadini. Qualcuno è svenuto.
Ho iniziato l’omilia della messa con: «uhuru na ukristu» (libertà e cristianesimo). Silenzio di tomba. Come un prete si sente ascoltato in certe occasioni!
Ho svolto l’idea di libertà nella Bibbia e della liberazione portataci da Cristo, che ci fa popolo di Dio. Ho parlato del colonialismo degli egiziani, che tenevano prigionieri gli ebrei. Ho continuato dicendo che il Kenya salutava Kenyatta, protagonista della sua indipendenza, e Gesù Cristo, fautore della libertà di ogni uomo. E ho concluso pregando per il Kenya e il suo presidente.
Mi sono sentito un po’ inorgoglito, come se avessi fatto un discorso alla camera dei lords. Saverio, un kenyano, mi ha detto: «Padre, pareva che parlassi della libertà della tua nazione». È stato un complimento.
S tasera sono stanco nella solitudine della mia camera. La finestra è spalancata sotto le stelle, che sembrano essere state lucidate apposta per questo giorno. Mi ritrovo a canticchiare l’inno nazionale:
O Dio, nostra forza,
benedici tutti noi…

p. Giovanni Bonzanino

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – L’Etiopia è italiana

Per il «trionfo» dell’Italia in Etiopia del 1936, nelle sedi del fascio si raccolgono fedi di mogli, medagliette
di senatori, croci pettorali di vescovi e si fondono campane: l’evento catalizza il consenso della maggioranza del popolo e, persino, di molti antifascisti.
I cattolici si allineano con «ingenuoentusiasmo»; c’è qualche eccezione.
Compromessi con il fascismo anche i missionari. Pochi i «distinguo».

«È scoccata l’ora di Dio!»

«Anche il sangue, anche le lacrime degli araldi di Roma in terra etiopica ottengono oggi il loro esaudimento. La giustizia, invocata dalle sacre ossa di tanti eroi di verità ed amore, finalmente trionfa. Il glorioso compimento dello sforzo immane, la trionfale riuscita della più grande spedizione coloniale che la storia ricordi, viene ad incastonare la più fulgida gemma nella corona di Roma imperiale».
È sempre la rivista Missioni Consolata (giugno 1936) a manifestare gli ideali politici degli omonimi missionari. E sono ideali fascisti.
«Il tricolore d’Italia, che si alza nel cielo d’Etiopia a sventolare sulle rovine d’una barbarie finalmente disfatta, intona una peana immortale alla gloria dell’urbe eterna, faro di fede e civiltà – incalza il periodico missionario -. L’Etiopia è italiana! E alla irrevocabile parola del duce, un fremito di fierezza scosse tutta la fiorita penisola; un delirio di commozione pervase tutti i cuori.
Inchiniamoci riconoscenti all’uomo provvidenziale, al duce del fascismo, a questo acuto conoscitore delle nostre necessità e forze, a questa adamantina tempra di lottatore e dominatore, che questa impresa ispirò, volle e condusse alla mèta».
«L’Etiopia è italiana! Quale smagliante visione di gloria latina si profila davanti allo sguardo del mondo attonito!… Chi, più dei campioni del Vangelo e della civiltà, ha diritto di vivere questo trionfo, l’alba di un’era di libertà e di pace, di luce e di amore?
No! Non più un apostolato di catacomba, una vita randagia tra continui rischi (1)! Ma, nella chiarità del torrido sole equatoriale, parta la parola eterna ad annunziare ai mansueti la Buona Novella, a curare i contriti di cuore, a bandire franchigia agli schiavi e liberazione ai prigionieri.
No! Non più in un sudicio tukul, ma nelle ampie chiese, dalle eccelse cuspidi, che il genio latino innalzerà a dentellare quell’azzurro fatto nostro, potran le anime redente pregare e cantare al Dio, Padre di tutti i popoli!
A Lui e alla nostra soave Patrona, regina di pace e consolazione, il nostro umile, inesprimibile ringraziamento per la sovrabbondanza di benedizione con cui premiano i sacrifici dei nostri missionari d’Etiopia.
Appena il successo delle armi italiane ci fu annunciato, sentimmo il bisogno di gridare forte la nostra gioia, riuniti nella cappella pubblica coi nostri amici e benefattori. E, la sera del 7 maggio 1936, partecipammo all’imponente cerimonia di ringraziamento tenuta nel santuario della Consolata, coll’intervento di tutte le autorità cittadine…
“L’angelo di Dio vi condurrà” aveva detto il Papa Pio X a padre Barlassina, affidandogli la prefettura del Kaffa. E l’angelo del Signore ha veramente ricondotto, dopo pochi mesi d’esilio, gli ardenti paladini della fede nelle terre delle loro fatiche.
Già i nostri missionari, cappellani militari dei combattenti, avevano fatto il loro ingresso ad Addis Abeba coll’esercito glorioso. E al più presto anche gli altri illustri proscritti raggiungeranno i loro posti d’avanguardia religiosa e italiana, per riprendere, con nuovo ardore di forze e nuova volontà d’amore, la loro sublime missione, sotto l’egida d’un nuovo impero d’umanità e di civiltà, “immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro”».

Il missionario
in Colonia. Che fare?
Tra i missionari «fascisti» che operano nell’«Etiopia italiana», sono interessanti le linee d’azione suggerite da padre Giovanni Gaudissard. Questi, pur allineato alla politica del tempo, sa compiere importanti distinzioni.
«Il missionario – ragiona padre Gaudissard – ha a cuore di mantenere presso gli indigeni il prestigio della sua patria e dei suoi compatrioti. Però il tacere davanti alle ingiustizie rischierebbe, di fronte agli indigeni, di fare causa comune coi loro oppressori. Ma il missionario, se si decide a parlare e difendere i diritti degli indigeni, si espone il più delle volte ad alienarsi la simpatia dell’autorità e a privarsi dei suoi appoggi ufficiali. Che fare?».
Padre Gaudissard suggerisce alcuni comportamenti.
1) Il paese dove il missionario opera è per lui una seconda patria. Tuttavia deve essere prudente, astenendosi da interventi personali su questioni spinose… «Le questioni politiche non ci riguardano, noi dobbiamo predicare il Vangelo. È però dovere del missionario, in territorio soggetto a colonia, aiutare l’élite indigena ad elevarsi fino alla concezione cristiana di un governo a base di giustizia per tutti».
2) «Il missionario è il pioniere di Dio. Non è suo compito far l’avanguardista agli eserciti conquistatori. Tuttavia la patria ha qualcosa da aspettarsi da lui? Sì, ma per altra via e con mezzi più sublimi. Stima, rispetto, simpatia e confidenza: ecco ciò che il missionario con la sua condotta guadagna alla patria. Ed ottiene tutto questo senza ricercarlo, per il fatto stesso che egli appartiene alla tal nazione e che come tale è conosciuto. Essendo suo dovere far del bene alle anime e ai corpi con la dedizione, il buon esempio, i buoni consigli, le opere di misericordia e l’insegnamento, fa conoscere il suo paese in quello che esso ha di meglio…».

L’autocritica
di padre Vladimiro
Con la sconfitta dell’Italia in Etiopia nel 1941, i missionari della Consolata devono lasciare il paese. Il loro fine ultimo è stata l’evangelizzazione, «elemento indispensabile per la vera trasformazione degli indigeni», che hanno amato e per i quali hanno dato la vita in maniera silenziosa e, talora, cruenta. «Senza la mediazione dei missionari – scrive Alberto Trevisiol -, molti etiopi sarebbero periti nella conquista coloniale italiana».
D’altro canto, hanno accompagnato la penetrazione militare italiana ritenendola «morale e civile».
Eloquente, al riguardo, è l’autocritica postuma di padre Vladimiro Bazzacco (1992). «L’onore? – si chiede il missionario – L’avevamo perso con l’illusione di avere portato civiltà e benessere. Doveva essere un posto al sole. Doveva essere la liberazione degli schiavi, che in realtà furono liberati. Si fece del nostro meglio per seguire le vie del Vangelo e portarlo alle genti».
«Con quali mezzi? Con i militari, al servizio di un esercito conquistatore: ecco l’accusa. Anche noi eravamo patrioti e sovente autoritari, nella convinzione di essere persone superiori. Eravamo dotati di cultura e tecnica. Insieme ai militari, eravamo, agli occhi di molti, degli invasori. Avevamo due volti: missionari sì, ma anche figli dell’Italia che conquistò l’Etiopia. Dovevamo andarcene. Però, a prescindere dalla conquista, in genere i vecchi etiopici hanno un buon ricordo degli italiani, specialmente dei missionari».
Il «sogno dell’Etiopia», iniziato con l’Allamano stesso, ha sempre riscaldato il cuore dei missionari della Consolata… a tal punto che nel 1970 ritornano nel paese. Si stabiliscono temporaneamente in alcune missioni del vicariato di Harar, per assumere nel 1980 la prefettura apostolica di Meki.

(1) Allusione alla presenza clandestina dei missionari della Consolata in Etiopia dal 1916 al 1924. Durante questo periodo era vietata ogni conversione al cattolicesimo di cristiani ortodossi.

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – L’Etiopia è italiana

Per il «trionfo» dell’Italia in Etiopia del 1936, nelle sedi del fascio si raccolgono fedi di mogli, medagliette
di senatori, croci pettorali di vescovi e si fondono campane: l’evento catalizza il consenso della maggioranza del popolo e, persino, di molti antifascisti.
I cattolici si allineano con «ingenuoentusiasmo»; c’è qualche eccezione.
Compromessi con il fascismo anche i missionari. Pochi i «distinguo».

«È scoccata l’ora di Dio!»

«Anche il sangue, anche le lacrime degli araldi di Roma in terra etiopica ottengono oggi il loro esaudimento. La giustizia, invocata dalle sacre ossa di tanti eroi di verità ed amore, finalmente trionfa. Il glorioso compimento dello sforzo immane, la trionfale riuscita della più grande spedizione coloniale che la storia ricordi, viene ad incastonare la più fulgida gemma nella corona di Roma imperiale».
È sempre la rivista Missioni Consolata (giugno 1936) a manifestare gli ideali politici degli omonimi missionari. E sono ideali fascisti.
«Il tricolore d’Italia, che si alza nel cielo d’Etiopia a sventolare sulle rovine d’una barbarie finalmente disfatta, intona una peana immortale alla gloria dell’urbe eterna, faro di fede e civiltà – incalza il periodico missionario -. L’Etiopia è italiana! E alla irrevocabile parola del duce, un fremito di fierezza scosse tutta la fiorita penisola; un delirio di commozione pervase tutti i cuori.
Inchiniamoci riconoscenti all’uomo provvidenziale, al duce del fascismo, a questo acuto conoscitore delle nostre necessità e forze, a questa adamantina tempra di lottatore e dominatore, che questa impresa ispirò, volle e condusse alla mèta».
«L’Etiopia è italiana! Quale smagliante visione di gloria latina si profila davanti allo sguardo del mondo attonito!… Chi, più dei campioni del Vangelo e della civiltà, ha diritto di vivere questo trionfo, l’alba di un’era di libertà e di pace, di luce e di amore?
No! Non più un apostolato di catacomba, una vita randagia tra continui rischi (1)! Ma, nella chiarità del torrido sole equatoriale, parta la parola eterna ad annunziare ai mansueti la Buona Novella, a curare i contriti di cuore, a bandire franchigia agli schiavi e liberazione ai prigionieri.
No! Non più in un sudicio tukul, ma nelle ampie chiese, dalle eccelse cuspidi, che il genio latino innalzerà a dentellare quell’azzurro fatto nostro, potran le anime redente pregare e cantare al Dio, Padre di tutti i popoli!
A Lui e alla nostra soave Patrona, regina di pace e consolazione, il nostro umile, inesprimibile ringraziamento per la sovrabbondanza di benedizione con cui premiano i sacrifici dei nostri missionari d’Etiopia.
Appena il successo delle armi italiane ci fu annunciato, sentimmo il bisogno di gridare forte la nostra gioia, riuniti nella cappella pubblica coi nostri amici e benefattori. E, la sera del 7 maggio 1936, partecipammo all’imponente cerimonia di ringraziamento tenuta nel santuario della Consolata, coll’intervento di tutte le autorità cittadine…
“L’angelo di Dio vi condurrà” aveva detto il Papa Pio X a padre Barlassina, affidandogli la prefettura del Kaffa. E l’angelo del Signore ha veramente ricondotto, dopo pochi mesi d’esilio, gli ardenti paladini della fede nelle terre delle loro fatiche.
Già i nostri missionari, cappellani militari dei combattenti, avevano fatto il loro ingresso ad Addis Abeba coll’esercito glorioso. E al più presto anche gli altri illustri proscritti raggiungeranno i loro posti d’avanguardia religiosa e italiana, per riprendere, con nuovo ardore di forze e nuova volontà d’amore, la loro sublime missione, sotto l’egida d’un nuovo impero d’umanità e di civiltà, “immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro”».

Il missionario
in Colonia. Che fare?
Tra i missionari «fascisti» che operano nell’«Etiopia italiana», sono interessanti le linee d’azione suggerite da padre Giovanni Gaudissard. Questi, pur allineato alla politica del tempo, sa compiere importanti distinzioni.
«Il missionario – ragiona padre Gaudissard – ha a cuore di mantenere presso gli indigeni il prestigio della sua patria e dei suoi compatrioti. Però il tacere davanti alle ingiustizie rischierebbe, di fronte agli indigeni, di fare causa comune coi loro oppressori. Ma il missionario, se si decide a parlare e difendere i diritti degli indigeni, si espone il più delle volte ad alienarsi la simpatia dell’autorità e a privarsi dei suoi appoggi ufficiali. Che fare?».
Padre Gaudissard suggerisce alcuni comportamenti.
1) Il paese dove il missionario opera è per lui una seconda patria. Tuttavia deve essere prudente, astenendosi da interventi personali su questioni spinose… «Le questioni politiche non ci riguardano, noi dobbiamo predicare il Vangelo. È però dovere del missionario, in territorio soggetto a colonia, aiutare l’élite indigena ad elevarsi fino alla concezione cristiana di un governo a base di giustizia per tutti».
2) «Il missionario è il pioniere di Dio. Non è suo compito far l’avanguardista agli eserciti conquistatori. Tuttavia la patria ha qualcosa da aspettarsi da lui? Sì, ma per altra via e con mezzi più sublimi. Stima, rispetto, simpatia e confidenza: ecco ciò che il missionario con la sua condotta guadagna alla patria. Ed ottiene tutto questo senza ricercarlo, per il fatto stesso che egli appartiene alla tal nazione e che come tale è conosciuto. Essendo suo dovere far del bene alle anime e ai corpi con la dedizione, il buon esempio, i buoni consigli, le opere di misericordia e l’insegnamento, fa conoscere il suo paese in quello che esso ha di meglio…».

L’autocritica
di padre Vladimiro
Con la sconfitta dell’Italia in Etiopia nel 1941, i missionari della Consolata devono lasciare il paese. Il loro fine ultimo è stata l’evangelizzazione, «elemento indispensabile per la vera trasformazione degli indigeni», che hanno amato e per i quali hanno dato la vita in maniera silenziosa e, talora, cruenta. «Senza la mediazione dei missionari – scrive Alberto Trevisiol -, molti etiopi sarebbero periti nella conquista coloniale italiana».
D’altro canto, hanno accompagnato la penetrazione militare italiana ritenendola «morale e civile».
Eloquente, al riguardo, è l’autocritica postuma di padre Vladimiro Bazzacco (1992). «L’onore? – si chiede il missionario – L’avevamo perso con l’illusione di avere portato civiltà e benessere. Doveva essere un posto al sole. Doveva essere la liberazione degli schiavi, che in realtà furono liberati. Si fece del nostro meglio per seguire le vie del Vangelo e portarlo alle genti».
«Con quali mezzi? Con i militari, al servizio di un esercito conquistatore: ecco l’accusa. Anche noi eravamo patrioti e sovente autoritari, nella convinzione di essere persone superiori. Eravamo dotati di cultura e tecnica. Insieme ai militari, eravamo, agli occhi di molti, degli invasori. Avevamo due volti: missionari sì, ma anche figli dell’Italia che conquistò l’Etiopia. Dovevamo andarcene. Però, a prescindere dalla conquista, in genere i vecchi etiopici hanno un buon ricordo degli italiani, specialmente dei missionari».
Il «sogno dell’Etiopia», iniziato con l’Allamano stesso, ha sempre riscaldato il cuore dei missionari della Consolata… a tal punto che nel 1970 ritornano nel paese. Si stabiliscono temporaneamente in alcune missioni del vicariato di Harar, per assumere nel 1980 la prefettura apostolica di Meki.

(1) Allusione alla presenza clandestina dei missionari della Consolata in Etiopia dal 1916 al 1924. Durante questo periodo era vietata ogni conversione al cattolicesimo di cristiani ortodossi.

Francesco Beardi




SPECIALE 100ANNI – Tra popoli e problemi

La follia due terribili conflitti mondiali

DOV’ERA L’UOMO?

Due guerre devastano il mondo nella prima metà del 1900:con lo scontro franco-tedesco di Verdun (1916),
la disfatta italiana di Caporetto (1917),i bombardamenti sulla città inglese di Coventry (1940), la sconfitta americana di Pearl Harbor (1941),la bomba atomica su Hiroshima (1945)… Anche i «lager» nazisti, con l’olocausto di 6 milioni di ebrei, sollevano domande inquietanti. Dov’era Dio? E dov’era l’uomo?

Seminaristi all’arma bianca

«Dieci lunghi mesi (benché ancor fuori dell’ambito della guerra) noi siamo vissuti sotto l’incubo della conflagrazione gigantesca, inaudita nella storia delle nazioni, per cui “sulla misera Europa incombe tanta ruina”, va sconvolta ormai ogni regione della terra, e paiono vacillare gli stessi cardini fondamentali del diritto e del consorzio delle genti».
È l’amaro commento dei missionari della Consolata sulla prima guerra mondiale, riportato dalla loro rivista La Consolata, giugno 1915 (1).
«Le quotidiane notizie di combattimenti incessanti – prosegue il mensile -, di terribili stragi sui vari teatri di guerra, di crescente desolazione nei paesi belligeranti… ci son venuti penetrando di dolorosa compassione; mentre la carità di Cristo, che “a prezzo del suo sangue tutti gli uomini rese fratelli”, ci poneva sempre più accorata sul labbro la preghiera per la pace».
Il conflitto scoppia nell’agosto 1914. L’Italia vi entra il 24 maggio 1915. E La Consolata continua:
«Coll’entrar dell’Italia in guerra è iniziata pure per noi la terribile prova. Adoriamo i decreti imperscrutabili di Dio, il quale, se nella sua giustizia permette i flagelli, nella sapientissima sua misericordia sa da essi trarre il maggior vero bene delle sue creature; e quanto più è grande la calamità, tanto più si fa vicino a coloro che in Lui sperano.
La nostra fede di veri cattolici ci faccia forti a compiere il dovere di buoni cittadini… sia quelli che son chiamati alle armi, sia quelli che con inevitabile strazio e sacrificio, spesso più eroici dei soldati stessi, debbono darli alla patria.
Preghiamo con viva fede che il sacrificio sublime dei soldati d’Italia, come delle loro madri, delle spose, degli innocenti loro figlioletti, sia l’ultimo tributo che impetri dalla divina misericordia la cessazione dell’orrendo flagello della guerra, l’avvento della sospiratissima pace»…
Tra i militari si contano pure missionari della Consolata. Non solo: anche «una parte notevole degli alunni del nostro Istituto ci sono stati tolti – precisa La Consolata, agosto 1915 -. Separati d’improvviso dai superiori e compagni, essi ebbero rinnovato lo strazio provato nell’abbandonare i parenti; dalla casa dove, tra l’indefessa attività di studio e lavoro, tutto era serenità e raccoglimento, sono stati sbalestrati nelle caserme e nelle piazze d’armi. L’obiettivo di pacifiche conquiste tra gli infedeli, colla croce, s’è cambiato in quello di contribuire alle vittorie col fucile, col cannone e all’arma bianca».
È un lamento, ma anche una denuncia.
Quell’Ecatombe
di ignari Kikuyu
La prima guerra mondiale sconvolge anche il continente nero. In Africa orientale l’apporto delle colonie inglesi al conflitto è ingente. Per combattere i tedeschi in Tanzania (2), si arruolano persino africani. Più che militari, urgono portatori (carriers), che rifoiscano di vettovaglie e munizioni i soldati inglesi al fronte. In tale compito viene impiegato oltre mezzo milione di persone.
In Kenya, all’inizio, le autorità inglesi invitano i kikuyu ad «offrirsi» per la gloria dell’impero britannico. Ma l’ideale non attecchisce. Allora si ricorre alla coscrizione forzata.
Per sfuggire alla leva, i kikuyu si nascondono nella foresta durante il giorno; ma, al tramonto, rientrano nelle loro case. È questo il momento giusto, per i policemen bianchi, di sparpagliarsi nel villaggio, entrare nelle capanne e, armi in pugno, reclutare nuovi rifornitori di bombe.
Non potendo eludere la chiamata, i kikuyu si affidano ad un rimedio estremo: lo stregone. Costui, alla vigilia di una partenza per la guerra, presiede un drammatico sacrificio, alla presenza persino dei bambini. La vittima sgozzata è un montone nero, con strane chiazze sul pelo. Il tutto indica malaugurio.
Secondo una cronaca dell’epoca, al tempo stabilito, il partente avanza risoluto verso l’assemblea radunata; afferra la testa dell’animale ucciso e, roteandola in ogni direzione, lancia la maledizione: «Io andrò e morirò, ma che i bianchi siano maledetti!». «Maledetti e maledetti!» grida ostile la comunità…
I portatori kikuyu vengono distribuiti in diversi campi di concentramento. Si marcia dalle 6,00 alle 11,30 e dalle 14,00 alle 17,00; e se il passo rallenta, ecco subito l’ufficiale che, munito di scudiscio, ridà lena alla marcia. Dopo pochi giorni di cammino, il portatore si ammala e, sovente, è già cadavere nella fossa.
La causa di tanti decessi non è solo fisica, ma psicosomatica: fatica e malattia, unite alla nostalgia per la terra d’origine lasciata. Secondo V. Harlow, 127 mila kikuyu periscono in quell’infausta esperienza.

Uno Strano bottino
di Guerra
Poiché i carriers muoiono come mosche, già nel 1914 il governo coloniale decide l’allestimento di alcuni ospedali militari in Kenya: a Nairobi, Mombasa, Voi. Nel corso del conflitto gli inglesi ne installano altri anche in Tanzania, colonia tedesca.
Dal Kenya il vescovo Filippo Perlo offre i missionari della Consolata per l’assistenza spirituale e medica negli ospedali, ritenendola un’opera altamente umanitaria. Da Torino l’Allamano, il fondatore, approva, purché i missionari non si schierino con alcuno dei belligeranti, ma servano solo gli africani.
In un triennio 45 missionari, tra padri e suore, sono destinati alla cura dei malati. Ce la mettono tutta nel dedicarsi ai bisognosi. Grande è la carità.
Eroica la testimonianza di suor Irene Stefani, che opera nell’ospedale di Kilwa (Tanzania). Il suo bottino di guerra – scrive Gian Paola Mina – sono 3 mila battesimi conferiti a morenti (cfr. l’inserto «L’estrema pazzia»). Non è la sola a sentirsi missionaria oltre che infermiera. Gli altri credono negli stessi ideali, tanto che il 98% degli africani morti negli ospedali riceve il battesimo.
L’attività assistenziale si rivela efficace e riscuote il pubblico plauso anche delle autorità inglesi.

(1) La Consolata, fondata nel 1899, diventa Missioni Consolata nel 1928.
(2) La Tanzania si chiamò «Tanganyika» fino al 1964.
Kenya: Se L’inglese
ti Controlla
Il 10 giugno 1940 i missionari della Consolata in Kenya diventano nemici degli inglesi e sono allontanati dalle loro sedi. In un diario di missione si legge: «Si sente alla radio la dichiarazione di guerra dell’Italia e poche ore dopo, alle 21, veniamo sottratti alle nostre missioni dalle forze armate. Lasciamo ogni cosa nelle mani di Dio: chiesa e casa, cristiani e catecumeni, scuole e maestri». Analoghe scene si ripetono nell’intero vicariato di Nyeri e nella prefettura di Meru.
I missionari vengono deportati nel campo di Koffiefontein, in Sudafrica, dove condividono la sorte di altri 1.200 italiani. Almeno sono insieme e qualcosa riescono a fare: aiutare tutti, alimentare la speranza, fino a procurare l’insalata zappando un lembo di cortile. I padri Giovanni Casolati e Bartolomeo Favaro compilano anche una grammatica e un vocabolario kimeru e traducono il Nuovo Testamento.
Grande la nostalgia, soprattutto delle missioni sulle quali è sceso il silenzio. Nel Meru, più che nel Nyeri, l’abbandono è totale…
Il 14 agosto 1944 un telegramma annuncia il ritorno dei missionari in Kenya. «Toano – commenta Missioni Consolata, settembre 1944 – a riunire i figli dispersi. Toano a ricominciare e a ricostruire. Salutati dai trilli festosi dei cari aghekoio e bameru, tornano a rivedere le giovani cristianità, a far sorridere i bimbi, a riaprire catecumenati e ambulatori. Toano. E con essi la vita riprenderà il ritmo normale».
Però le autorità inglesi non esultano: esigono che sui missionari italiani sia esercitato il controllo di un britannico, che li tenga lontani da ogni attività illecita. Un’imprudenza diventa motivo per il rimpatrio sia dal Nyeri sia dal Meru.
La tensione è tale da esigere la visita del pro-delegato apostolico, padre MacCarthy, che incontra le autorità politiche britanniche del Meru. Giustizia vuole che si ascolti anche l’altra parte. Pertanto il pro-prefetto raggiunge le missioni per incontrare i padri: molti cadono dalle nuvole dinanzi all’ostilità nei loro confronti. In ogni caso, se errori sono stati commessi (ad esempio, coltivazione non autorizzata di terreni), essi sono pronti a rimediare.
Però sono false le accuse, secondo le quali la gente (anche cattolica) si lamenta dei missionari. Gli africani, invece, recriminano sia contro l’autorità coloniale che quella locale.
Lo conferma lo stesso MacCarthy.

Tanzania: «Ai nemici italiani stranieri»
Un cataclisma? Troppo poco, se non si aggiunge che è mondiale. E non è un disastro da addebitare all’incontrollabilità della natura o al destino, ma voluto da uomini contro uomini.
Il primo contraccolpo dell’entrata italiana in guerra piomba drasticamente sui missionari della Consolata in Tanzania. Essi si vedono stravolta la ragione della loro presenza nel paese. Ogni dispaccio del governo coloniale britannico (1) reca il marchio: «Ai nemici italiani stranieri». Stranieri? Anche gli inglesi lo sono. Nemici? Per nulla!
Il 16 giugno 1940 scatta l’ostracismo. «Tutti i nemici stranieri italiani» debbono radunarsi a Tosamaganga. L’esodo deve compiersi in cinque giorni. Le missioni dell’Iringa, sparse su un vasto territorio, vengono evacuate.
È il momento del primo distacco: i missionari-fratelli, caricati su un camion, vengono trasferiti al boma, il forte che comprende il quartiere della polizia e le prigioni. Fratel Eesto Viscardi, sulla sponda dell’autocarro, dà fiato alla fisarmonica… con qualche lacrima.
Il 18 giugno compare l’arcivescovo Edgar Maranta, vicario apostolico di Dar Es Salaam, cappuccino svizzero. Qual buon vento lo porta? Nella cronaca di Tosamaganga l’apparizione è motivata da «buoni uffici» da assolvere.
Il 20 giugno, come se nulla fosse, si solennizza la festa della Consolata. Ma la cristianità è in ansia. «La Vergine trionfa in una interminabile processione – recita la cronaca -. Alcuni poliziotti inglesi sorvegliano quasi con devozione».
Il giorno seguente, il vescovo Maranta parte per Mbeya, sede del governo provinciale da cui dipende il distretto di Iringa. Al suo ritorno, dopo due giorni di colloqui, a Tosamaganga deflagra la gioia: lo svizzero è accettato dagli inglesi come garante dei «nemici stranieri italiani». I missionari non sanno come ringraziarlo.
Dunque non ci sarà deportazione! «Fra il tripudio della gente le campane suonano fino a sera».
Intanto il vescovo Attilio Beltramino, missionario della Consolata, accetta la «garanzia» dell’arcivescovo Maranta. Essa si fonda sulla «parola d’onore» e impegna i missionari con clausole vincolanti:
– non allontanarsi oltre un miglio dalla missione;
– vietato ogni spostamento di personale missionario;
– controllo della corrispondenza;
– nessuna parola con estranei su politica, movimento di truppe, località strategiche;
– vietato contattare i prigionieri.
Che cosa ha indotto gli inglesi ad una mite decisione? Certamente le ottime relazioni tra i governanti, lo svizzero Maranta e l’italiano Beltramino, nonché l’amicizia tra i due vescovi. È lecito pure supporre un intervento del giovane sultano A. Sapi Mukwawa, musulmano, stimato dagli inglesi e fedele amico dei missionari della Consolata.
Infine non è detto che alcune personalità britanniche non abbiano apprezzato il lavoro dei missionari.

(1) La Tanzania (Tanganyika), colonia tedesca, diventa «mandato britannico» dopo la seconda guerra mondiale.

TRA I CADAVERI ACCATASTATI

Un mattino del 1917, all’ospedale di Kilwa (Tanzania), suor Irene non trovò più Athiambo, che aveva istruito il giorno prima e si riprometteva di battezzare quel giorno stesso. «Athiambo è morto – disse l’infermiere -. Verso mezzanotte è stato buttato sul carro e portato alla spiaggia». «Athiambo morto, e senza battesimo!» ripeteva inconsolabile suor Irene.
Ci volevano 20 minuti per giungere in spiaggia. Irene ne impiegò 10, tanto corse. Eccola di fronte all’Oceano Indiano, al cospetto di cadaveri accatastati alla rinfusa: nudi, enormi, oppure sparsi sulla sabbia ardente; chi con la fronte a terra, chi riverso supino, immobile, pauroso. «Dio, che orrore!». La suora rabbrividì. Aveva sempre avuto un ribrezzo sommo per i morti, ed ora tutti quei cadaveri…
Era sola con il suo rosario, la sua fede. Non aveva chiesto a nessuno di accompagnarla, perché nessuno avrebbe accettato di venire con lei. Meglio così: sarebbe stata sola a compiere l’estrema follia. Guardò l’oceano, le cui onde si facevano sempre più alte e vicine: fra poco avrebbero inghiottito i cadaveri, compreso Athiambo… Perché cercarlo? «E se non fosse morto? Si tratta di un’anima, Signore, un’anima!» si disse suor Irene.
Con gli occhi sbarrati da ansia e paura, si accostò ai morti: cominciò da quelli sparsi qua e là, scrutando i volti di chi giaceva supino e rivoltando gli altri. No, non era Athiambo. Athiambo si trovava nel mucchio. Ma se era lì, in mezzo o sotto gli altri, era di certo morto soffocato. «E se non fosse morto?».

S enza più esitare, suor Irene s’accostò alla catasta e rimosse i cadaveri uno ad uno, in cerca di Athiambo. Pesavano enormemente quei corpi rigidi, anche nella magrezza a cui erano stati ridotti dagli stenti. Pesavano e nauseavano. Erano sozzi di sangue e le imbrattavano di rosso le mani e il vestito bianco.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» ansimava la suora. Aveva già riconosciuto Luigi, Giovanni, Giuseppe, Ugo… tutti quelli battezzati ieri e avant’ieri. Ma Athiambo non c’era. Avanti ancora. Aveva le braccia e la schiena che le si spezzavano, il cuore in gola. Si sentiva svenire, morire come loro, in un incubo. L’oceano rumoreggiava a pochi passi, e avanzava minacciandola. In fretta! O sarà troppo tardi.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» singhiozzava ora la missionaria. Avanti ancora. Ne aveva contati 46, 47… e Athiambo non compariva. Solo otto cadaveri attendevano di essere passati in rassegna, e lei cominciava a domandarsi se per caso non l’avesse riconosciuto tra quelli già esaminati. Allora avrebbe dovuto ricominciare da capo. Ultimo cadavere: era Athiambo, seppellito sotto tutti, morto anche lui.
Morto? Con sforzo enorme lo trascinò lontano, là dove la marea non poteva raggiungerlo, e gli s’inginocchiò vicino. S’era accorta che il corpo era flessibile. Forse… «Ave Maria, Santa Maria… O Dio, salvatelo!».
Sperando contro ogni speranza, gli praticò la respirazione artificiale, distendendogli le braccia ritmicamente per 10, 20 minuti. Non sentiva più la stanchezza. Eppure era sfinita, il sole e la sabbia scottavano tremendamente. Il tempo passava. Ma lei continuava a massaggiare Athiambo, a sollevargli le braccia, spiandolo amorosamente, pregando con fiducia.

Avvenne l’incredibile: Athiambo sbatté le palpebre, emise un gemito impercettibile. Era ancora vivo… Poi tutti dissero che suor Irene l’aveva risuscitato!
Gian Paola Mina

Francesco Beardi




SPECIALE 100 ANNI – Straordinari nell’ordinario

Giuseppe Allamano nacque 150 anni fa, a Castelnuovo d’Asti, il 21 gennaio 1851. Sua madre Marianna era sorella di s. Giuseppe Cafasso. Dopo le elementari, frequentò gli studi ginnasiali nel collegio di don Bosco a Torino. Questi lo avrebbe voluto salesiano, ma lo studente scappò, lasciando di stucco il grande conoscitore dei giovani.
Nel 1866 entrò nel seminario di Torino e nel 1873 fu ordinato prete. Avrebbe voluto tuffarsi nel lavoro pastorale. «Vuoi fare il parroco? Bene! Ti affido la parrocchia più importante della diocesi» gli disse il vescovo. E don Giuseppe rimase in seminario come assistente e direttore spirituale.
Nel 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata: si mise subito al lavoro per restaurae i fabbricati, ravvivae la devozione e riaprire il convitto ecclesiastico, dove i giovani preti completavano la preparazione al ministero pastorale.
Nel frattempo cominciò a progettare la fondazione di un istituto missionario. Ma nel 1900 una grave malattia sembrava troncare il progetto. Ne uscì miracolosamente. L’Allamano vide in quella guarigione un segno per accelerare i tempi.
Il 29 gennaio 1901 fondò ufficialmente l’Istituto Missioni Consolata per l’evangelizzazione dei popoli. L’anno seguente partirono per il Kenya i primi missionari. Nel 1910 diede vita all’Istituto delle missionarie della Consolata.
Spese tutta la vita nella cura del santuario e formazione delle due famiglie missionarie, fino al giorno della morte: 16 febbraio 1926.

Una vita ordinaria, quindi,
in cui l’Allamano diede tutto se stesso al servizio della chiesa e società. Non ci fu attività a cui non partecipò, lavorando per oltre 50 anni al cuore della diocesi di Torino e sempre in collaborazione con il vescovo. «Nessuna opera di bene – affermerà di lui un contemporaneo – sfuggì all’irradiazione della Consolata», cioè di quel santuario mariano di cui fu rettore per 46 anni. «Tutto per Gesù, niente senza Maria» era uno dei suoi motti.
Dal santuario della Consolata, senza uscire dai confini dell’Italia, abbracciava tutto il mondo. Sarebbe voluto partire missionario, ma la salute glielo impedì; allora fondò i missionari e missionarie della Consolata. Ma guai a chiamarlo «fondatore»: lo proibiva esplicitamente. «La Consolata è la vera fondatrice» ripeteva.
Tuttavia è fondatore. E lo fu senza ricercare forme straordinarie di ispirazione per le due famiglie missionarie. Ciò che stupisce nell’Allamano, infatti, è la semplicità dei principi sui quali ha impostato la vita: «Essere, prima di fare»; «fare bene il bene»; «essere straordinari nell’ordinario». Direttrici di fondo che ne hanno fatto un grande uomo d’azione.
Che egli vivesse così lo confermano le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto: «Aveva l’arte di non farsi avanti»; «rifuggiva in tutti i modi da qualsiasi esibizionismo»; «compiva il bene nascondendosi». «Non volle mai chiasso attorno a sé». «Tutto ciò che ci diceva – attesta padre Sales – lo vedevamo praticato in lui in modo superlativo».

«Fragile come un cristallo,
resistente come un diamante», lo definiscono quanti lo hanno conosciuto. E tracciano altri lineamenti della sua figura umana: un leggero sorriso risplendeva abitualmente dal suo volto; lo sguardo dolce e penetrante degli occhi lampeggianti, che andavano oltre il viso degli interlocutori e leggevano nelle pieghe delle coscienze; intelligenza intuitiva, sintetica, che arriva subito all’essenza delle questioni; innata capacità di rianimare, confortare, guidare al bene.
«Mentre era sempre calmo e misurato in tutte le sue azioni, quando parlava di Dio e del suo amore, s’infiammava talmente da trasfigurarsi. Tanto che molti dei suoi uditori temevano per la sua salute». Parlare dell’amore di Dio era per lui la cosa più spontanea e naturale; anzi, sentiva il bisogno di comunicare agli altri il fuoco che gli ardeva dentro.
L’intensità spirituale si traduceva in straordinaria capacità contemplativa: «Dominus est» (è il Signore) ripeteva di fronte a tutti gli eventi, cose, persone. Una volta scoperta la presenza di Dio e la sua volontà, la perseguiva con serenità e tenacia, anche nelle situazioni più critiche e dolorose, superando ogni ostacolo, confidando totalmente nell’aiuto divino.
La sua capacità contemplativa lo rendeva consigliere. Non solo i seminaristi, quando ne era direttore spirituale, e poi i suoi missionari, ma anche vescovi, sacerdoti, fondatori di istituti e gente comune si rivolgevano a lui per consiglio; e aiutava tutti a scoprire la volontà di Dio, dissipando dubbi, dissolvendo illusioni, infondendo coraggio.
«Avanti nel Signore!». «Coraggio nel Signore». Sono alcune delle espressioni usate frequentemente dall’Allamano, specialmente nelle lettere ai suoi missionari. Tre parole che racchiudono e trasmettono la sua incrollabile fiducia in Dio e nella Consolata. «Non bisogna mai stare fermi, ma andare sempre avanti – diceva -. Non starsene come automi, per paura di sbagliare; non lasciarsi rimorchiare; mai dire non tocca a me».
La forte umanità dell’Allamano, arricchita dalla sua intensità spirituale si esprimeva in un profondo senso di pateità. La figura di padre è quella che ha maggiormente contagiato quanti l’hanno conosciuto. Essi ricordano il primo incontro con lui, le sue parole, i gesti, il sorriso e le attenzioni…
Essere padre era il suo stile di educare e formare. Per lui l’istituto è una famiglia. Si sentiva padre dei suoi missionari e missionarie, non solo perché li amava con tutto se stesso, ma perché sapeva infondere in loro il suo spirito: cioè quel modo di percepire e vivere il vangelo che è tipico dei santi. Uno spirito che l’Allamano è cosciente di possedere e trasmette con intensità nell’insegnamento e contatti personali. Ne è geloso. Non permette interferenze. «Qui lo spirito lo do io – ripeteva con fermezza -. Chi non lo condivide vada pure altrove. Meglio pochi, ma radicati».

N ominato rettore del santuario della Consolata, l’Allamano volle don Giacomo Camisassa come collaboratore: «Faremo d’accordo un po’ di bene», gli aveva scritto. Lavorarono insieme per 42 anni come fratelli e amici.
Nato a Caramagna (CN) il 26 settembre 1854, Camisassa fu anch’egli alunno di don Bosco; poi entrò nel seminario diocesano e fu ordinato sacerdote nel 1878.
Membro aggiunto della facoltà di teologia della diocesi di Torino, professore di morale, diritto civile ed ecclesiastico al convitto dei giovani sacerdoti, rivelò doti superiori al comune; possedeva ed esponeva la materia in modo chiaro e preciso, sintetico. Avrebbe potuto fare una gratificante carriera; fu proposto per l’episcopato; ma preferì restare «sacrestano della Madonna», a fianco dell’Allamano, felice di essere secondo come vice-direttore del santuario e del convitto della Consolata e poi dell’istituto dei missionari e missionarie della Consolata. E lo fu fino alla morte: 18 agosto 1923.
Statura bassa, ma robusto e ben piantato, intelligenza rara e perspicace, volontà ferrea, organizzatore nato, il Camisassa era un uomo pratico, attivo, intraprendente, sempre in moto. «Ha la smania di lavorare: vorrebbe saper tutto, fare tutto; è tutto attività» confessava l’Allamano.
Troncata la carriera di professore, rivelò doti di praticità e abilità nel campo della tecnica e finanza, progettazione ed esecuzione dei lavori, scrivere articoli e redigere relazioni, saldare parcelle e far quadrare i bilanci. Di tutto era pratico e di tutto voleva darsi ragione.
Non badava a nessuno, né a chiacchiere né ad altro. Quando controllava i lavori dei restauri del santuario o saliva sui ponteggi, seminava il terrore: dava ordini, faceva rifare lavori, cambiava progetti, provocando qualche attrito, che toccava all’amico Allamano comporre.
La dedizione al lavoro è la caratteristica principale del Camisassa. Efficienza che l’Allamano completava con i suoi principi altrettanto pratici e ordinari: «Fare bene il bene», salvaguardia del buon nome e dignità, comprensione delle persone e attenzione alla loro crescita umana e spirituale. L’abilità del Camisassa si sposa al cuore dell’Allamano.

È definito «fedele collaboratore»,
«braccio destro» dell’Allamano, «confondatore». Eppure erano molto diversi. Diversità complementari, tanto che l’Allamano poté dire: «Se abbiamo fatto qualcosa di buono, è perché eravamo tanto diversi; ma abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto; se fossimo stati uguali, non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli in più».
La collaborazione con l’Allamano non si limitava alla parte materiale. Ambedue affermano di aver studiato assieme ogni progetto, lettera, documento, con lunghe riflessioni e anche «notti di preghiera».
Tanta meravigliosa operosità aveva un’anima. In un breve scritto spirituale il Camisassa si propose di «voler essere tutto di Dio». Alla fine della sua vita potrà dire: «Mi consola il pensiero che non ho mai fatto nulla per me stesso, ma solo per la gloria di Dio».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




SPECIALE 100 ANNI – Un parto lungo dieci anni

Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata.
Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento
e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte.
In compenso, l’Istituto dei missionari della Consolata
ha messo solide radici in quattro continenti.
Questo è il racconto della sua travagliata nascita.

Mons. G. B. Ressia, compagno di corso ed amico dell’Allamano, afferma di lui: «Questo delle missioni fu il tormento santo della sua giovinezza».
Nominato rettore del santuario della Consolata di Torino, già tra il 1887-88, l’Allamano sembra avere in mente di fondare qualcosa in relazione alle missioni.
Forse la prima idea è semplicemente di dare inizio ad un’opera missionaria simile a quella esistente a Genova (Collegio Brignole-Sale), consistente nel raccogliere giovani sacerdoti, prepararli convenientemente e poi metterli a disposizione di Propaganda Fide per essere inviati nelle missioni.
Di certo l’Allamano, con la collaborazione determinante di don Giacomo Camisassa, dopo mesi di studio, ai primi di aprile del 1891, ha pronto lo statuto o regolamento di un nuovo istituto missionario.
I passi da compiere egli sa che sono in due direzioni: anzitutto a Roma presso Propaganda Fide e a Torino col suo vescovo, che in quegli anni era il card. Gaetano Alimonda. Per vari motivi pensa di dover trattare in modo informale prima con Roma e, in caso di parere positivo, con il proprio vescovo.
A Roma, il card. Simeoni, non soltanto si dichiara favorevole, ma fa sapere all’Allamano che converrebbe addirittura accelerare i tempi. Così stando le cose può presentarsi al suo vescovo. Il card. Alimonda a fine aprile si era recato a Genova per una cura alquanto impegnativa. L’Allamano gli scrive, esponendogli dettagliatamente il piano.
Da Genova non giunge alcuna risposta. Solo dopo due settimane un laconico biglietto del segretario gli comunica che il cardinale per ragioni di salute non è in condizioni di occuparsi del suo affare. Il cardinale è ammalato, ma il vero problema è che le persone che lo attorniano gli hanno presentato il progetto in cattiva luce. Facendo anche i mezz’offesi. Anzitutto perché l’Allamano ha interpellato prima Propaganda Fide e solo dopo il vescovo: vuole forse mettere quest’ultimo di fronte al fatto compiuto? E poi è proprio il caso di pensare ad un Istituto missionario a Torino data la scarsità di clero? Inoltre perché a pensarci deve essere l’Allamano che, come rettore del Convitto ecclesiastico, può sottrarre alla diocesi soggetti preziosi?
Nel frattempo, il 30 maggio 1891 il cardinale Alimonda muore.
POCHI O TANTI?
L’Allamano nel presentare a Roma il suo progetto scrive: «Preposto da molti anni all’educazione del giovane clero nella nostra archidiocesi, incontrai sovente dei seminaristi e dei giovani sacerdoti che mi manifestarono il desiderio di dedicarsi alle missioni…».
La scarsità di clero, continuamente addotta per bloccare l’iniziativa, è un semplice pretesto. Nel secolo 1800-1900 vengono ordinati a Torino 3.759 sacerdoti. Da aggiungere che dal 1880 al 1900 sono ordinati anche 362 religiosi. Nessun dubbio che la scarsità del clero, tanto temuta, è pretestuosa e nei riguardi dell’Allamano anche maligna.
Su questo tipo di difficoltà l’Allamano dirà: «Si fanno tanti lamenti sulla scarsità del clero: il che per altro non è così vero tra noi»; «Io dicevo sempre: “Se in Torino vi fosse un terzo o anche la metà di sacerdoti, si andrebbe avanti lo stesso’’». E il Camisassa: «Il tentativo della fondazione fu visto male e lo si volle bloccare col pretesto che il clero diocesano era già troppo scarso».
Di fronte ad una situazione del genere l’Allamano scrive a Roma: «Devo attendere un vescovo che sappia elevarsi sopra le idee che generalmente predominano». L’aspettativa fu di dieci anni!
IL DIBATTITO
SULLE NUOVE IDEE
Siamo all’epoca della Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, con i tentativi dei cattolici di aprirsi ai problemi sociali, particolarmente gravi a Torino, città di lavoratori.
Ci si interroga quale dovesse essere la strategia dei cattolici: cattolicesimo sociale, corporativismo cattolico…, per sfociare nelle accese discussioni sul concetto stesso di democrazia, democrazia cristiana, socialismo cristiano. Problemi grossi che, mentre entusiasmano i giovani sacerdoti, mettono in ansia i più anziani e parecchi vescovi.
L’Allamano in quanto rettore del Convitto ecclesiastico, a contatto con giovani sensibili a questi problemi, non si pone dalla parte dei sacerdoti bloccati su posizioni superate, ma neppure dalla parte dei più agitati. Egli diffidò sempre delle polemiche, sterili e laceranti, di quel discutere confuso su questioni non sufficientemente mature. C’è qualcosa da fare? Bisogna farlo, ma non in un polverone che acceca, operando invece delle sintesi superiori.
È in questo contesto di accesi dibattiti e contrasti che l’Allamano pensa ad un istituto missionario, e lo pensa come qualcosa che sia di più di una semplice valvola di sicurezza per un clero giovane, esuberante e troppo numeroso, che rischia di pestarsi i piedi o di esaurirsi in discussioni inutili sui «massimi sistemi».
IL PIEMONTE TRASCURATO
Nel 1891 i tempi sono maturi anche per altri motivi. Il movimento missionario in Italia è fiorentissimo. È un periodo in cui si riorganizzano gli antichi Ordini e le antiche Congregazioni religiose, ma è soprattutto il periodo in cui sorgono nuove istituzioni con finalità esclusivamente missionarie.
In ordine cronologico il primo istituto missionario italiano è quello delle «Missioni estere» di Milano, sorto per iniziativa dei vescovi lombardi (1850). Seguono il Collegio Brignole Sale Negroni per le Missioni Estere di Genova (1852-1855), le Missioni Africane di Verona o Figli del Sacro Cuore di Gesù (1867), il Pontificio Seminario dei SS. Pietro e Paolo per le Missioni Estere di Roma (1867, 1871), la Pia Società di S. Francesco Saverio per le Missioni Estere di Parma (1895).
E l’Allamano si chiede: «Perché soltanto il Piemonte, dove lo spirito missionario è fiorentissimo, non doveva avere un suo centro, senza dover ricorrere ad istituzioni straniere o a congregazioni religiose con voti»?
Fiorenti erano in Piemonte e anche a Torino l’Opera della Propagazione della Fede (specie dopo il 1822), la Società dell’Apostolato Cattolico dal 1835, l’Opera del Riscatto dal 1838, la Società antischiavista d’Italia dal 1888, l’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari cattolici italiani all’estero, fondata dal senatore e prof. Eesto Schiaparelli (1928).
Anche sfogliando i giornali e la stampa missionaria è possibile documentare la vivacità del risveglio missionario. Basti ricordare che il primo giornale a lanciare un appello in favore delle Missioni è l’Amico d’Italia, fondato a Torino nel 1822 dal marchese Cesare Taparelli d’Azeglio.
Il movimento missionario è, dunque, molto sviluppato anche in Piemonte e nella diocesi di Torino, ma manca di un’istituzione che convogliasse le vocazioni missionarie locali. Gli elementi positivi per una realizzazione del genere sono molti.
COLONIALISMO,
NAZIONALISMO, EGOISMI
Ci sono però anche delle contro- indicazioni di un episcopato non sufficientemente aperto e sempre timoroso per la mancanza di preti. C’è un alone di romanticismo missionario da epopea e leggenda che poteva entusiasmare per le missioni. Ma per contrapposto c’è un diffuso senso di pessimismo per il modo in cui gli europei consideravano il «mondo pagano», con «selvaggi» abbruttiti in crudeltà e superstizioni, con poco o nulla da valorizzare e conservare.
C’è soprattutto, come conseguenza di questa vantata superiorità europea e allargamento di orizzonti dovuto alle esplorazioni, una buona dose di colonialismo e di nazionalismo.
Inoltre nei territori missionari, soprattutto africani, pesa un’altra specie di gravissimo monopolio, attuato da alcuni ordini religiosi che nelle regioni loro affidate la fanno da «padroni», resistendo in tutti i modi alla sola eventualità che Propaganda Fide pensi di smembrarli affidandone una parte alle nuove forze missionarie che stanno sorgendo.
Le difficoltà maggiori che l’Allamano deve superare all’inizio sono, infatti, di natura politica (nazionalismo francese e anche italiano; meno quello inglese) e religiosa (resistenza di ordini francesi alla divisione dei loro immensi territori).
VIA DALLE BEATITUDINI
DI UNA VITA COMODA
A favorire l’Allamano nella fondazione c’è anzitutto il Camisassa, in perfetta complementarietà di funzioni, senza del quale nulla sarebbe stato possibile.
C’è anche il fatto di essere l’Allamano rettore del santuario della Consolata, luogo d’incontro delle forze più vive della diocesi. Egli era riuscito a intessere attorno a sé una rete fittissima di conoscenze, con persone appartenenti ai vari ceti sociali, e con quasi tutti i sacerdoti della diocesi, con uomini e donne del popolo, della borghesia e anche dell’aristocrazia. Di qui una concezione del tutto nuova di istituto missionario, non sempre evidenziata, costituita da questa ampia base di persone che, in vario modo, avrebbero accompagnato e sostenuto il corpo dei missionari.
Altro elemento positivo è il fatto che l’Allamano, come rettore del Convitto ecclesiastico, è a contatto con numerosi giovani sacerdoti, parecchi dei quali desiderano dedicarsi alle missioni. L’Allamano lo andava ripetendo: «Ho attorno a me gioalmente giovani sacerdoti che mi sollecitano».
Tra tutte le premesse di riuscita ce n’è una alla quale l’Allamano non pensa, ma che è la più importante: lui stesso, la sua personalità e quella del Camisassa. L’Allamano era un uomo dalla salute debole, ma dal carattere e dalla volontà forti; uomo ordinato, metodico, riflessivo, buon piemontese, che come diceva l’Antonelli, non si mettono due mattoni dove ne basta uno, amante delle montagne, che sa come superare le difficoltà, rispettando le stagioni e l’umore del cielo, con vedute larghe, almeno quanto basta per capire se nell’albero i frutti sono maturi e se in una diocesi i sacerdoti si potevano ritenere più che sufficienti o scarsi o male impegnati.
Soprattutto si è fatto sacerdote per lavorare, e non per adagiarsi nella beatitudine di una vita comoda. Egli stesso descrive come avrebbe potuto passarsela da «canonico signore»! In modo piacevole e tranquillo: «Dire il breviario, passeggiare, leggere il giornale, sedersi a tavola senza preoccupazioni, fare il pisolino dopo pranzo; starmene in pace come rettore della Consolata, protetto da un comodo orario, osservato scrupolosamente…». Convinto però che una vita del genere l’avrebbe portato diritto alla… «perdizione».
LIBERTÀ E STABILITÀ
Nel 1891 l’Allamano e il Camisassa scrivono il Regolamento del loro Istituto. Esso è corredato da una prefazione dal titolo Indole, natura e scopo dell’Istituto, che presenta allo stato puro l’idea originaria dell’Istituto in questi termini: «[…] si è venuti nel pensiero [si noti il plurale] di istituire una Società nella quale fossero conciliati per quanto possibile: la libertà di azione dei sacerdoti secolari [quindi non si tratta di una congregazione religiosa] e la stabilità che offrono ai loro individui le corporazioni religiose».
I due elementi fondamentali sono, dunque, la libertà e la stabilità. Quanto alla libertà, essendo l’azione missionaria un apostolato difficile, s’intende che chi, dopo una sufficiente prova non se la sente, può e deve lasciare senza remore di rottura di voti, promesse, giuramenti. I sacerdoti e laici che entrano in questa Società missionaria s’impegnano con una promessa a lavorare in missione per 5 anni, rinnovabili per altri 5 e solo dopo 10 anni possono legarsi definitivamente alla Società.
L’Allamano e il Camisassa non vogliono che ci siano persone legate alle sbarre di un carro per forza, ma solo persone libere, generose e decise: «Se durante il quinquennio – dice il testo del Regolamento – esse vedessero di non poter reggere al nuovo genere di vita, restavano in libertà al termine dei 5 anni di ritornare in Patria, ove la Società li aiuterà con ogni suo mezzo, per ottenere loro un conveniente ufficio nelle loro diocesi». In caso di adesione definitiva, la Società avrebbe assicurato ai suoi membri quella stabilità e sicurezza che le Congregazioni religiose garantivano ai propri membri anche in caso di malattia e vecchiaia.
Altra caratteristica fondamentale è la regionalità: vi possono far parte persone del Piemonte. Si tratta di cosa quasi scontata per gli istituti missionari in Italia, da pochi anni nazione unita, perché ogni regione ha un proprio istituto missionario (Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia, Lazio), ad eccezione, come si è detto, del Piemonte e dell’Italia meridionale. Quanto alla regionalità l’intenzione dell’Allamano è chiarissima: «Lo scopo di questa disposizione – diceva il Regolamento all’art. 13 – è di accrescere fra i missionari quello spirito d’unione e quel vicendevole incoraggiamento che in lontane regioni più si verifica tra coloro che hanno comune la terra».
Inoltre i missionari, membri di questa Società, per gli stessi motivi, non devono essere dispersi, ma operare nelle stesse località, stare insieme ed essere retti da superiori propri.
Tutti coloro che hanno occasione di prendere visione di questo Regolamento, compreso il Prefetto di Propaganda Fide, lo approvano pienamente.
Purtroppo, con la morte del card. Alimonda e le opposizioni esistenti in Curia, il progetto rimane ibeato per 10 anni. Quando nel 1897 ad arcivescovo di Torino viene nominato Agostino Richelmy (1850-1923), compagno di corso e amico dell’Allamano, devotissimo della Consolata e aperto al mondo missionario, il progetto viene ripreso, senza apportarvi nessuna modifica da come era stato concepito nel 1891.
BENEDETTE EREDITÀ!
Il progetto viene ripreso in mano nel 1899, subito con un serio «contrattempo».
Avviene che nel gennaio del 1900 l’Allamano cade gravemente ammalato, tanto da disperare della sua vita. Ne esce in modo inaspettato il 29 gennaio, festa di S. Francesco di Sales.
Dieci anni dopo, l’Allamano stesso, accennando alla sua guarigione, dirà: «Avevo già parlato in precedenza al card. Richelmy dell’Istituto da fondare, e sapevo di dover morire, gli dissi: “Sicché ormai all’Istituto penserà un altro”. E lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi ad un tale peso. Il cardinale però mi rispose: “No, guarirai, e lo fonderai tu” (24 aprile 1910). Aggiunse anche: “Feci, quando ero prossimo a morire, la promessa che, se fossi guarito, avrei fondato questo Istituto. Io intanto per allora non sono morto. Il Signore mi cacciò ancora in terra. Adunque avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale, la fondazione si doveva fare: che fossi guarito non si poteva negare» (24 aprile 1910).
A spingere in questa direzione intervengono altri fattori di una certa importanza. Il 24 ottobre 1898 muore a Torino mons. Angelo Demichelis e nomina l’Allamano erede universale di tutti i suoi beni, che non sono pochi, compresa la sede di un Istituto magistrale in Torino e una villa a Rivoli. Un anno dopo, il 20 novembre 1899, muore l’ing. Edoardo Felizzati, figlio spirituale ed amico dell’Allamano. Avendogli il rettore del santuario della Consolata confidato l’intenzione di dare inizio ad un’opera in favore delle missioni, il Felizzati si era dimostrato pronto a divenire uno dei primi membri. Morendo, non potendo fare altro, lascia l’Allamano erede dei suoi beni!
L’Allamano, oltre al suo patrimonio personale, costituito dall’eredità patea, da quella dello zio, parroco di Passerano, dallo stipendio di rettore e dal beneficio di canonico (nel 1904 verrà in possesso anche dell’eredità dell’abate Luigi di Robilant), con l’eredità di mons. Demichelis e dell’ing. Felizzati, è spinto, quasi per una sorta di legge di gravità che anche i denari possiedono, a fare qualcosa. In più c’era un dovere di riconoscenza per l’ottenuta guarigione e il sentirsi avvolto dalla benevolenza e dalla fiducia di tante persone, dilatato inoltre da quella specie di istinto interiore o di simpatia per le missioni che fin da giovane l’aveva accompagnato.
Convalescente a Rivoli, informa il 24 aprile 1900 il card. Richelmy che intende procedere alla fondazione, sempre che il cardinale sia d’accordo. Più che d’accordo, gli risponde Richelmy.
Sebbene l’Istituto dei missionari della Consolata si potesse ritenere fondato nel 1900, perché i vescovi del Piemonte, riuniti in conferenza presso il santuario della Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900, avevano dato il loro beneplacito e perché il card. Richelmy aveva approvato e benedetto il nuovo Istituto il 12 ottobre 1900, la data ufficiale di fondazione, per volontà espressa dell’arcivescovo di Torino, è il 29 gennaio 1901.
La prima sede dell’Istituto furono i fabbricati lasciati all’Allamano da mons. Demichelis, opportunamente adattati. L’inaugurazione della sede avviene il 18 giugno 1901.
SOGNI AFRICANI
E GELOSIE UMANE
Nel piano originario di fondazione del 1891, rimasto tale e quale nel 1900, c’era che all’atto della fondazione doveva essere definito il campo di apostolato in Africa.
Per prima cosa occorreva riprendere i fili con Roma. Ma dopo dieci anni molte cose erano cambiate. Ora Propaganda Fide, prima di affidare a nuovi istituti un territorio di missione, esigeva un periodo di prova passato alle dipendenze di qualche vicario apostolico.
Il provvedimento è saggio, perché salvaguardava Propaganda Fide da eventuali avventurieri. Di fatto le cose non sono così semplici. Si è detto che una delle «piaghe» dell’attività missionaria di allora (ai giorni nostri inconcepibile) consiste nella «gelosia missionaria» dei grandi Ordini e Istituti missionari, che la fanno da «padroni» nei vastissimi territori loro affidati (quasi con lo stesso stile delle potenze coloniali) e considerano «intrusi» i nuovi istituti, visti come una minaccia alla loro sovranità. Si tratta di un vero e proprio monopolio missionario, aggravato anche da nazionalismo politico.
Questa rappresenta una delle più gravi difficoltà che l’Allamano, il Camisassa e i primi missionari della Consolata devono superare. Una vera «piaga», che solo nel 1926 verrà denunciata da Pio XI nell’enciclica Rerum Ecclesiae. Con tutte le sue indiscusse benemerenze fu, soprattutto, la Francia a cadere in questo pessimo equivoco.
Il 9 settembre 1900 il Camisassa si reca a Roma e ha occasione d’incontrare il nuovo vicario apostolico dei galla (Etiopia), mons. André Jarosseau, anche perché proprio tra quella popolazione, già evangelizzata dal card. Massaia, l’Allamano intende impegnare i suoi primi missionari.
Gli accordi con mons. Jarosseau sono soddisfacenti solo apparentemente. Ben presto i due fondatori devono rendersi conto che nel territorio concesso da mons. Jarosseau la popolazione galla è quasi inesistente per l’aridità del suolo e quella poca dispersa dalle razzie dei somali. Da informazioni prese da varie parti, l’Allamano e il Camisassa devono constatare che mons. Jarosseau, forse condizionato dai superiori francesi del suo Ordine e per non avere intrusi tra i piedi, non è stato del tutto rettilineo, poiché era ben al corrente dell’incertezza dei confini e delle difficoltà per raggiungere e operare in quei luoghi. Ma aveva taciuto.
UNA SOLUZIONE
…DIPLOMATICA
È il console italiano a Zanzibar per il Kenya, Giulio Pestalozza (1850-1930), a dare un contributo essenziale per sbloccare la situazione. Il diplomatico suggerisce di chiedere ai padri dello Spirito Santo, responsabili dell’evangelizzazione del Kenya inglese, di permettere ai nuovi missionari di Torino di stabilirsi nell’alto Kikuyu, per compiervi il rodaggio richiesto da Propaganda Fide e, in seguito, raggiungere le popolazioni galla, procedendo via terra verso nord.
Questa è la strategia seguita, ma ancora una volta tra enormi difficoltà burocratiche: prima la necessità di farsi accettare dai Padri dello Spirito Santo, anch’essi gelosi del loro vastissimo e bellissimo territorio.
Le trattative sono difficilissime. Pur consci di non essere in numero sufficiente e con i protestanti che premono, i padri dello Spirito Santo non vogliono correre il rischio, accettando nel loro territorio un nuovo istituto missionario (per di più italiano) di vedersi sottrarre in seguito una parte di questa proprietà… Alla fine accettano di ricevere in prova i nuovi missionari e di affidare loro una regione ancora inesplorata, tra i kikuyu, ai piedi del monte Kenya. Una zona incantevole.
Però l’Allamano deve pagare un forte pedaggio, che sa di ricatto, impegnandosi per iscritto (e per ben due volte) a non chiedere in seguito alla S. Sede un qualsiasi stralcio di territorio senza un esplicito consenso dei padri dello Spirito Santo.
LA PARTENZA, FINALMENTE
Dopo molte trattative, finalmente l’8 maggio 1902 i primi quattro missionari della Consolata, due sacerdoti (Tommaso Gays e Filippo Perlo) e due fratelli laici (Celeste Lusso e Luigi Falda) partono per il Kenya.
Inizia l’avventura.

ISTRUZIONI PER L’USO

In Kenya la strategia missionaria (messa a punto a Torino dall’Allamano e dal Camisassa) contemplava anzitutto in missione una casa-procura nei pressi della ferrovia, da considerarsi come una specie di «campo base», centro di raccolta di quanto giungeva dall’Italia in personale e mezzi. Venne scelta la località di Limuru, poco oltre Nairobi. Sul luogo dove doveva avere inizio l’apostolato vero e proprio, cioè a Tuthu, un villaggio montano a 2 mila metri (ove dominava il capo Karoli) fu fondata la missione e più a monte, in piena foresta, a lato di uno scosceso torrente, venne impiantato un laboratorio. Più in basso, nella piana, a Nyeri, in un territorio ritenuto fertile, si avviò una fattoria con allevamento di bestiame, per provvedere un vitto adeguato ai missionari.
La strategia missionaria vera e propria venne attuata con una costanza eroica: quasi tutti i giorni i missionari partivano, ovviamente a piedi, in perlustrazione del paese per conoscere la gente, imparare la loro lingua, interessarsi degli ammalati, farsi conoscere e distinguersi dagli agenti del governo… Lo scopo finale di questa strategia era di giungere ad avere in mano il paese, elevarlo anche da un punto di vista materiale, per giungere, non tanto a delle conversioni individuali, ma alla conversione in massa, mirando ai capi e prima che vi giungessero i protestanti, che si sapeva essere alle porte.
Anche a Torino tutto procedeva a gonfie vele. Infatti il 15 dicembre 1902 era già pronta una seconda spedizione; poi nel 1903 altre due. Infine tra il 1904 e il 1911 altre nove. Il 24 aprile 1903 erano partite 8 suore della «Piccola Casa del Cottolengo» e altre 12 partirono il 24 dicembre dello stesso anno.
Nel 1905 l’Allamano acquista in Torino in via Circonvallazione (attuale corso Ferrucci) un terreno di 12.000 mq per la costruzione della casa madre, che è pronta ed inaugurata il 23 ottobre 1909.
Anche in Kenya lo sviluppo dell’attività missionaria è sorprendente, tanto che nel 1905, con decreto di Propaganda Fide, il territorio affidato in prova ai missionari della Consolata è dichiarato «missione indipendente», nonostante l’opposizione dei Padri dello Spirito Santo. Il 6 giugno 1909 la missione indipendente è eretta a vicariato apostolico con padre Filippo Perlo primo vicario apostolico.

1910: ARRIVANO LE MISSIONARIE
Sempre per offrire un maggior appoggio all’attività missionaria dell’Istituto, l’Allamano e il Camisassa fondano nel 1910 l’Istituto parallelo delle Missionarie della Consolata. Le prime missionarie partiranno per il Kenya il 3 novembre 1913 in numero di quindici (dal 1913 al 1922 ne partiranno 56).
Nel 1911 il Camisassa si reca in Kenya (dall’8 febbraio 1911 al 22 marzo 1912), per incontrarsi con i missionari e le missionarie, valutare la consistenza delle opere e la metodologia adottata e constatare se era giunto il momento di attuare il piano primitivo di passare ai galla. A questo scopo, sempre con la presenza del Camisassa in Kenya, viene deciso di estendere le missioni più a nord del monte Kenya, nel Meru (fine giugno-dicembre 1911).
Rientrato in Italia, il Camisassa presenta a Propaganda Fide il piano per il Kaffa (Etiopia). Ma ancora una volta una richiesta del genere suscita le reazioni dei cappuccini francesi e di mons. Jarosseau. Però con decreto del 28 gennaio 1913 Propaganda Fide affida ai missionari della Consolata la regione del Kaffa. Se fu relativamente facile ottenere una missione tra i galla, sarà invece molto più difficile entrarvi, soprattutto per l’opposizione del governo francese ed anche di quello italiano. Solo il 25 dicembre 1916 padre Gaudenzio Barlassina sarà ad Addis Abeba, come prefetto apostolico del Kaffa.

IN TANZANIA, SOMALIA,
MOZAMBICO
Dopo la prima guerra mondiale tutti i missionari tedeschi presenti in Africa vengono espulsi e Propaganda Fide nel 1919 affida ai missionari della Consolata la prefettura apostolica di Iringa nella ex colonia tedesca di Tanganyika (ora Tanzania).
L’Allamano a questo punto della sua vita avverte (il Camisassa muore il 18 agosto 1922) che la troppa carne al fuoco nuoce alle missioni affidate all’Istituto. Ma Propaganda Fide insiste perché l’Istituto accetti altri territori di missione. Nel 1924 (e solo per obbedienza) l’Allamano accetta la difficile missione della Somalia Italiana e nel 1925 (ma pare che l’Allamano non ne fosse al corrente) alcune missioni in Mozambico.
Questo espansionismo, contrario allo spirito dell’Allamano, sbilanciò alquanto l’Istituto sia nel numero dei missionari ed anche per un consistente aggravio finanziario.
L’Allamano muore il 16 febbraio 1926 e ne prende il posto mons. Filippo Perlo, ma con un Istituto affaticato per troppo lavoro. La ripresa fu lenta ma sicura.
I.Tu.

Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – Città di lotta e di cuore

Dall’ingresso in seminario (nel 1866) alla sua morte (nel 1926), Giuseppe Allamano trascorse a Torino 60 anni.
Per il capoluogo sabaudo quello fu un periodo
ricchissimo di avvenimenti, dalla nascita della Fiat
alla crescita della classe operaia. Ma altrettanto
importanti furono le trasformazioni culturali con il diffondersi del positivismo (Cesare Lombroso e Arturo Graf insegnarono a Torino) e delle idee socialiste
(portate avanti da personaggi come
Antonio Gramsci e Piero Gobetti).
Poi arrivò il fascismo, che travolse tutto e tutti.

Le profonde trasformazioni culturali verificatesi a Torino ai tempi dell’Allamano interessarono soprattutto due periodi: l’ultimo trentennio dell’Ottocento, con l’imporsi della egemonia positivista, e l’immediato dopoguerra, con l’irruzione prepotente della cultura politica marxista-gramsciana e con il proporsi di quella gobettiana, caratterizzata da una forte tensione civile.
Sia quella positivista, sia quella marxista-gramsciana erano culture totalizzanti, in quanto assolutizzavano rispettivamente la scienza e la politica, proponendosi l’emarginazione e la eliminazione della religione.
La cultura gobettiana, nel suo giovane fondatore, il torinese Piero Gobetti, era una cultura attenta al fatto religioso e disposta al dialogo; ma nei suoi discepoli, neoilluministi, prevarrà la chiusura alla dimensione religiosa della vita, se non addirittura l’anticlericalismo e l’anticattolicesimo.
Se si considera che il positivismo conquistò il mondo universitario (ma ebbe pure una forte ricaduta sull’economia e sul ceto borghese), che il pensiero marxista-gramsciano ebbe una notevole presa sul mondo operaio e che la cultura gobettiana esercitò un grande fascino sugli intellettuali, non è difficile rendersi conto dei loro dirompenti effetti sulla mentalità e sulla prassi religiosa, nella breve e nella lunga durata.
POSITIVISMO E LIBERALISMO
Il positivismo fece la sua comparsa nella facoltà di medicina. Nel 1861 il ministro della pubblica istruzione Francesco De Santis chiamò sulla cattedra di fisiologia l’olandese Jacob Moleschott, fautore di una fisiologia materialistica, che poneva la materia alla base della vita e dell’agire umano, in contrapposizione a ogni visione teleologica e teologica.
Su questa linea si orientò non soltanto la scuola medica torinese, ma il mondo scientifico. Infatti l’atteggiamento fideistico verso la scienza caratterizzava fisiologi, anatomisti, patologi e zoologi. C’era però, anche all’università, chi era convinto della conciliabilità tra fede e scienza – evoluzionismo compreso – come il canavesano Pietro Giacosa, allievo e ammiratore del Moleschott, amico ed estimatore del Fogazzaro, nonché in rapporto con esponenti del modeismo italiano e straniero. Tenne la cattedra di farmacologia per circa mezzo secolo. Però visse ai margini della vita ecclesiale torinese.
Alla cultura positivista apparteneva Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale e titolare della cattedra di medicina legale. Questi, a sua volta, fece chiamare alla direzione del manicomio e sulla cattedra di psichiatria l’emiliano Enrico Morselli, instancabile propugnatore e divulgatore delle teorie evoluzionistiche di Haeckel, Spencer e Darwin. Infatti, con Firenze e Pavia, Torino era il centro di diffusione del pensiero di Darwin, le cui opere furono tradotte e divulgate da Michele Lessona, ordinario di zoologia e poi rettore dell’università torinese. Il positivismo si impose anche nella facoltà di lettere con la critica letteraria, grazie al trentennale magistero di Arturo Graf, le cui lezioni erano anche un evento mondano, tanto era l’interesse che suscitavano al di fuori del mondo accademico.
Presso il grande pubblico mietevano successo Emilio Salgari, con le avventure di Sandokan (l’autore porrà fine alla sua vita con il suicidio sulla collina torinese nel 1911), e Edmondo De Amicis che, avvicinatosi al movimento socialista, con il suo libro Cuore proponeva un codice di morale laica.
Santuario del liberalismo era la facoltà di giurisprudenza, il cui insegnamento fondamentale era l’economia politica. Il titolare di questa cattedra, Cognetti, fondò nel 1893 l’importante laboratorio di economia politica, che allevò un gruppo di ricercatori di prim’ordine, tra cui Luigi Einaudi. La cultura che vi era elaborata era essenzialmente una cultura per lo sviluppo industriale, che non a caso fu straordinario nella Torino del periodo giolittiano. La nascita del Politecnico nel 1906 era la prova tangibile del successo del binomio cultura scientifica ed industria.
Ma tra fine Ottocento ed inizio Novecento si verificarono tre novità destinate a incidere profondamente nel costume non solo torinese: il calcio, l’automobile e il cinema. Nel 1898 nacque a Torino la «Federazione italiana del football» e si disputò in una sola giornata il primo campionato di calcio. Il 1899 vide la nascita della FIAT, evento gravido di conseguenze per la città. Nel 1901 partiva il primo giro automobilistico d’Italia e si teneva anche il primo salone dell’automobile. Per quanto concee il cinema, Torino costituiva uno dei principali centri della cinematografia italiana.
Non meno importante, anche se di minore durata, fu l’altra svolta culturale, quella gramsciana-gobettiana, nel primo dopoguerra, con Antonio Gramsci dell’«Ordine Nuovo» e con Pietro Gobetti della «Rivoluzione Liberale»: convinto il primo della funzione messianica della classe operaia, il secondo del ruolo guida degli intellettuali nella trasformazione politica, sociale e civile della società. Entrambi, sia pure con accento e taglio diverso, contribuirono a imprimere a Torino rispettivamente l’immagine di città operaia e laica, ponendo l’ipoteca dell’egemonia di due culture: quella marxista e quella laica.
Le culture protagoniste (la positivista, la marxista e la laica), di ascendenza risorgimentale, erano non soltanto anticlericali, ma anche antireligiose e addirittura atee.
LA FIAT E LA DIFFUSIONE
DELLE FABBRICHE
Non meno profonde furono le trasformazioni politico-economico-sociali dal 1860 al 1920, trasformazioni che interessarono l’Italia e Torino in particolare. La classe dirigente liberale, protagonista del risorgimento e dell’unità italiana, proprio nella capitale subalpina dovette, prima, fare spazio ai movimenti popolari emergenti (quello socialista e quello cattolico), poi fu costretta a cedere il potere al fascismo. Torino, capitale del liberalismo, divenne, più o meno suo malgrado, fascista; sul piano economico la città della Mole divenne capitale dell’industria.
Sul piano sociale, prima di precipitare nel calderone del corporativismo fascista, vide successivamente emergere, dopo i tempi dell’egemonia piccolo borghese e artigiana, la media e alta borghesia industriale e poi la classe operaia.
Negli anni ’70, Torino non era ancora città industriale, ma si avviava a esserlo, soprattutto grazie alla crescita dell’industria meccanica con le officine ferroviarie di Porta Susa e Porta Nuova e dell’industria delle armi con le fabbriche del Regio Arsenale, di Valdocco e di Borgo Dora. Sui mercati finanziari, ancora nelle mani dei Rothscild e dei Pereire, cominciarono a fare la comparsa i finanzieri svizzeri (come Geisser).
Il tenore di vita era generalmente basso e molto basso tra gli operai. Le condizioni di lavoro nelle fabbriche erano assai scadenti e gli orari lunghi e massacranti, anche per donne e bambini. Soltanto una legge del 1898 stabilì (ma venne sovente elusa) che le donne non lavorassero oltre le 12 ore giornaliere e proibì il lavoro in fabbrica ai bambini inferiori a 13 anni. A rendere drammatica la condizione operaia contribuivano l’insicurezza del lavoro e la disoccupazione, in un tempo in cui mancavano garanzie assistenziali e previdenziali.
A causa della costante immigrazione dalle campagne, Torino cresceva demograficamente: i 191.500 abitanti del 1868 diventarono 250.000 nel 1881.
Sotto il profilo economico-sociale, gli anni ’80 e ’90 furono molto difficili, sia per i riflessi della gravissima crisi agraria, sia per il crollo dei principali istituti di credito (coinvolti nella speculazione edilizia di Roma), sia per il peggioramento dei sistemi di scambio provocati dalla crisi serica e dalla guerra doganale con la Francia.
Tali fenomeni provocarono forti tensioni sociali, cui cercarono di dare una risposta soprattutto il movimento cattolico, molto vivace a Torino, e il movimento socialista, che, ormai organizzato in partito (fondato a Genova nel 1892), riuscì a portare a Palazzo Civico 17 consiglieri nel 1897. Il loro organo di stampa era, dal 1893, il Grido del Popolo.
Al socialismo aderirono, più idealmente che politicamente, numerosi intellettuali di cultura positivista, come Cesare Lombroso, Arturo Graf e Giuseppe Giacosa, nonché Edmondo De Amicis, ai quali peraltro era estraneo il marxismo.
L’ESPANSIONE SOCIALISTA
E I CATTOLICI
La crescente forza socialista cominciò a preoccupare sia i liberali, che erano al potere, sia i cattolici, che pure continuavano ad astenersi dalla vita politica.
Per questo anche a Torino cominciò a farsi strada un tendenziale clerico-moderatismo (così fu chiamato) che prevedeva un accordo più o meno tacito tra liberali e cattolici (almeno una parte) in funzione antisocialista. La cosa non spiaceva né a Pio X né all’arcivescovo di Torino, Agostino Richelmy, che anche con tale scopo volle nel 1903 il nuovo quotidiano cattolico Il Momento. La disponibilità in quella direzione fu abilmente sfruttata da Giolitti, per dividere sia il movimento socialista sia quello cattolico, mantenendo l’egemonia liberale.
Convinto e fedele sostegno alla politica giolittiana in generale venne offerto da Alfredo Frassati, dal 1900 direttore del quotidiano La Stampa, che a partire da questa data comincerà a condizionare e a orientare le vicende della città di Torino. La vita politica e amministrativa della città fu dominata dai giolittiani (anche grazie all’appoggio deciso, e a volte critico, del Frassati) fino alla grande guerra. La notevole ripresa economica della congiuntura era dovuta soprattutto ai progressi dell’industria elettrica e allo sviluppo dei trasporti.
Nel 1908 fu approvato un nuovo piano regolatore e nel 1912 fu estesa la cinta daziaria da 16 a 34 chilometri, inglobando nella città una buona parte di popolazione agricola. Nel frattempo la periferia si andava infoltendo di fabbriche e di case operaie.
Per facilitare le comunicazioni con le «barriere» e fra il centro e l’antica periferia, si operò la municipalizzazione dei trasporti tranviari. Contemporaneamente la città registrava un marcato incremento demografico, soprattutto in Borgo San Paolo, alla Crocetta ed alle Molinette, ma anche nei vecchi quartieri operai della Barriera di Milano, del Regio Parco e della Barriera di Lanzo.
Alla vigilia della grande guerra la città aveva raggiunto i 450.000 abitanti, di cui un quarto era costituito da operai. Questi erano in gran parte legati alle organizzazioni socialiste, anche ideologicamente, come dimostra tra l’altro la scelta di alcuni nomi di battesimo per i figli: Marxina, Libera, Libera Idea, Ribello, ecc.
GRAMSCI, STURZO
E I FASCISTI
Da parte sua la borghesia registrava un costante incremento di benessere. «L’esposizione internazionale che si tenne a Torino nel 1911, in occasione del cinquantenario dell’unità italiana, fu la consacrazione tangibile dell’ottimismo positivista e degli ideali evoluzionistici che informavano larga parte della borghesia torinese» (V. Castronovo).
Insomma, mentre alcuni intellettuali (come il poeta Guido Gozzano) già avvertivano e denunciavano la crisi del positivismo, la borghesia, meno attenta alle grandi idealità e guidata dall’interesse concreto, continuava a nutrire una grande fiducia nella scienza, nella tecnica e nell’avvenire.
Nonostante la presenza del partito nazionalista, a Torino di fronte alla prima guerra mondiale prevalsero le forze anti-interventiste, che si riconoscevano nella politica di Giolitti, sia che fossero cattoliche o socialiste.
In piena guerra mondiale, nell’agosto del 1917 la città fu sconvolta da una rivolta popolare, occasionata dalla penuria di generi alimentari e dalla mancanza di pane.
Le commesse pubbliche belliche avevano incrementato il settore meccanico, in particolare la FIAT, che dal 1914 al 1918 passò da 4.000 a 40.000, dipendenti (piazzandosi al terzo posto delle industrie nazionali).
Ma, se l’impetuoso sviluppo industriale bellico aveva creato delle fortune, aveva pure inasprito i conflitti sociali. Una delle cause era il carovita: dal 1913 i prezzi erano cresciuti più di 6 volte.
A Torino, più che altrove, lo scontro fu particolarmente duro, soprattutto nelle fabbriche, che furono occupate durante il cosiddetto biennio rosso, 1919-1920, sotto la regia degli uomini di «Ordine Nuovo», con Gramsci in testa, che guardavano ormai ai modelli dei soviet russi. Così, in una atmosfera molto tesa, si svolsero le elezioni politiche del novembre 1919, che a Torino videro la sconfitta dei liberali, la vittoria dei socialisti ed una buona affermazione del partito popolare di Sturzo, che si presentava per la prima volta. A questo punto passarono all’offensiva i fascisti, che nella notte del 25 aprile 1921 assalirono ed incendiarono la Camera del Lavoro.
Nel capoluogo subalpino gli uomini di Mussolini non trovarono terreno facile neppure dopo la marcia su Roma: c’era una robusta opposizione guidata da Alfredo Frassati sulla Stampa. Il padre del beato Pier Giorgio fu costretto a lasciare il giornale nel settembre 1925, che passò nelle mani di Giovanni Agnelli. La Gazzetta del Popolo fu fascistizzata, mentre da alcuni anni il già glorioso quotidiano cattolico Il Momento era su posizioni filofasciste.
IL REGIME
Nel 1926, quando la chiesa torinese era guidata dall’arcivescovo Giuseppe Gamba, si spegneva il canonico Giuseppe Allamano e tramontava ogni forma di democrazia in Italia con l’affermazione del fascismo come regime.
La Torino risorgimentale del 1866 era davvero, sotto tutti i punti di vista, molto lontana.

LA CHIESA TORINESE AI TEMPI DELL’ALLAMANO

Lorenzo Gastaldi (1871-’83)

Carattere forte ed austero, esigente con se stesso, e con gli altri (a cominciare dai sacerdoti), molto attivo, mons. Gastaldi si propose di scuotere la diocesi di Torino da un torpore ventennale, dovuto all’esilio di mons. Fransoni (dal 1850 al 1862) e alla prolungata vacanza della sede episcopale (dal 1862 al 1867).
La diocesi divenne un cantiere di iniziative. Convinto che alla base di una fiorente vita cristiana stesse lo zelo dei sacerdoti, si propose la riforma della vita sacerdotale e dell’attività pastorale a vari livelli.
Cominciò con i sinodi diocesani. Ne tenne ben cinque: i primi tre nel triennio, 1873-1874-1875, con scadenza annuale, gli altri con scadenza triennale, nel 1878 e nel 1881.
Le costituzioni sinodali severe suscitarono opposizione in una parte del clero, specialmente parroci, con relativi ricorsi a Roma, anche anonimi. Indubbiamente le costituzioni contenevano norme molto rigide sul clero: dall’obbligo della talare a quello della tonsura (6 cm. e mezzo!), all’assoluta proibizione ai parroci di assentarsi dalla parrocchia per più di 3 giorni senza l’autorizzazione del vicario foraneo, dall’obbligo degli esercizi spirituali, almeno ogni 3 anni, a quello della confessione almeno ogni 3 settimane, con l’imposizione di presentare nel mese di gennaio in curia l’attestato di frequenza alla confessione.
Va detto, però, che la severità delle norme era comune ad altri sinodi piemontesi contemporanei. Il sinodo Gastaldi tuttavia eccedeva in sanzioni disciplinari come la sospensione a divinis (dall’attività sacerdotale).
La riforma del clero non poteva non partire dai seminari, a cui l’arcivescovo attribuiva una estrema importanza. Riservò la massima cura al seminario teologico. Nel 1874 ne nominò rettore un suo uomo di fiducia, don Giuseppe Maria Soldati, già direttore spirituale (a ricoprire tale incarico sarà chiamato nel 1876 Giuseppe Allamano, sacerdote da 3 anni); compose un nuovo regolamento, nel quale il seminario era concepito ad instar domus religiosae, e con il quale tutta la vita seminaristica era regolamentata anche nei minimi particolari, animata però da grande serietà e da una forte tensione ascetica verso il sacerdozio.
All’arcivescovo Gastaldi spetta senza dubbio il merito del rilancio dei seminari e della ripresa delle ordinazioni sacerdotali. Infatti, dopo il 1848, c’era stato un vero e proprio crollo di vocazioni e ordinazioni sacerdotali, che aveva portato al ridimensionamento e alla riduzione dei seminari da parte dell’arcivescovo Riccardi di Netro nel 1869. Una inversione di tendenza si registrò, nel numero dei chierici teologi sotto l’episcopato Gastaldi, e nel numero delle ordinazioni sotto l’episcopato Alimonda. A partire dal 1893 il numero delle ordinazioni cominciò a superare quello dei decessi. La tendenza durò fino alla prima guerra mondiale.
Anche il giovane clero preoccupava l’arcivescovo, che non era soddisfatto dell’insegnamento morale e della formazione pastorale che venivano impartiti da Giovanni Battista Bertagna al convitto ecclesiastico, che nel 1871 era passato dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi al santuario della Consolata. Le riserve dell’arcivescovo conceevano soprattutto la prassi della confessione, ritenuta troppo indulgente. Dopo richiami personali e un sondaggio presso il clero, risultato in gran parte contrario al Bertagna, il Gastaldi nel settembre 1876 dimissionò il Bertagna dall’insegnamento. Il provvedimento suscitò un putiferio tra il clero e precipitò nella crisi il convitto, dalla quale uscì soltanto con la nomina di Giuseppe Allamano, nel 1880, a rettore della Consolata e del convitto, e direttore della conferenza di morale nel 1882.
La nomina dell’Allamano, nipote del Cafasso, e formatosi alla scuola del Soldati e del Bertagna, rappresentò una soluzione di compromesso, ma saggia, in quanto era forse la migliore possibile, perché sembrava garantire le esigenze delle varie parti.
Maggiore sensibilità si ebbe da parte del mondo cattolico nei confronti della incipiente questione sociale-operaia, sorta dall’avvio della industrializzazione. In questa direzione andava una significativa iniziativa, per certi aspetti pionieristica, pur nei suoi limiti, sorta il 29 giugno 1871, anche per volontà di don Leonardo Murialdo: la «Unione di operai cattolici», che mise in atto tutta una serie di iniziative di carattere formativo, assistenziale e previdenziale per operai ed artigiani. Essa ebbe il pieno appoggio dell’arcivescovo Gastaldi.
Nonostante la diffusione dell’anticlericalismo, persisteva una massiccia pratica religiosa, c’era una grande diffusione delle nuove devozioni e una costante crescita dell’associazionismo cattolico. Segno di vitalità cristiana era la nascita in Torino e diocesi di non poche congregazioni religiose, nonché lo sviluppo di quelle recenti, come la congregazione salesiana, e la ripresa degli antichi ordini religiosi, come i gesuiti, che proprio a due passi dall’arcivescovado rilevavano l’Istituto sociale.
Tuttavia la situazione religiosa era ambigua, nel senso che in profondità le trasformazioni sociali, economiche e culturali, stavano producendo lentamente ma inesorabilmente cambiamenti di mentalità e di costume, con inevitabili cambiamenti anche sulla vita religiosa, a lunga scadenza, e i cui sintomi già venivano avvertiti, sia pure confusamente. Cosa che appare nella relazione sullo stato della diocesi del 1878, nella quale monsignor Gastaldi esprimeva preoccupazione sulla fede degli intellettuali, della borghesia e degli operai. Ottimismo manifestava solo sul conto dei contadini e degli aristocratici.

Gaetano Alimonda (1883-’91)

A succedere al Gastaldi, Leone XIII, d’accordo con re Umberto I, mandò un suo uomo di fiducia, ligure, già vescovo di Albenga, ma da alcuni anni attivo in diverse congregazioni romane: il card. Gaetano Alimonda.
Probabilmente il papa vide in lui, uomo di carattere dolce e remissivo, la persona più adatta per sopire le tensioni esistenti in Torino soprattutto tra il clero.
Nella diocesi torinese la nomina dell’Alimonda fu anche interpretata in funzione antigastaldiana. Così di fatto avvenne. I più vicini collaboratori del predecessore, soprattutto nella formazione del clero, furono rimossi o trascurati: il rettore del seminario di Torino, il canonico Soldati, uomo di fiducia del Gastaldi, fu immediatamente esautorato; il canonico Allamano restò rettore del convitto della Consolata, ma fu privato di fatto, anche se non con atto formale, della cattedra di teologia morale. Su suggerimento di don Bosco e anche di altri antigastaldiani, fu richiamato in diocesi da Asti don G. B. Bertagna.

Davide Riccardi (1892-’97)

Breve ma intenso fu l’episcopato di Davide Riccardi, biellese, vescovo di Ivrea e poi di Novara. La caratteristica di fondo del suo episcopato fu il sostegno incondizionato al movimento cattolico, che si esprimeva soprattutto nell’«Opera dei Congressi», sostenendo e promuovendo una grande quantità di iniziative di carattere sociale.
L’arcivescovo fu anche grande promotore e sostenitore della stampa cattolica. Nel 1892, in seguito al passaggio a Firenze del quotidiano intransigente L’Unità Cattolica, si adoperò per la fondazione di un nuovo quotidiano intransigente L’Italia Reale (anche l’Allamano diede il suo fattivo contributo), che veniva ad affiancarsi all’altro quotidiano cattolico Il Corriere Nazionale, di orientamento moderato. Intanto continuava la sua vita il settimanale La Voce dell’Operaio.
Nel 1896 nasceva il primo circolo «Democrazia cristiana» e don Piovano fondava il settimanale Democrazia Cristiana, per iniziativa di 12 parroci di Torino. Si rivolgeva soprattutto agli operai e polemizzava con liberali e borghesia, sostenendo il diritto di sciopero.
Non mancarono iniziative per il mondo agricolo: nel 1896 nacque la «Unione cattolica agricola torinese» e nell’anno seguente la «Federazione agricola torinese». Quindi tante iniziative, ma anche acque agitate negli ultimi anni dell’Ottocento a Torino.

Agostino Richelmy (1897-1923)

Anche il lungo episcopato di Agostino Richelmy, il vescovo amico del canonico Allamano e suo grande sostenitore nella fondazione dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, fu costretto a misurarsi con gravi problemi: la crisi del movimento cattolico (contrasti tra l’«Opera dei Congressi» e la nascente «Democrazia Cristiana»), intrecciata in parte con la crisi modeista, la tragedia della grande guerra e la crisi politico-sociale post-bellica che portò al fascismo.
In primo luogo la crisi del movimento cattolico. Il 1 gennaio 1898 il settimanale Democrazia Cristiana si trasformò in quotidiano, ma i fatti di Milano (con la repressione del generale Bava Beccaris e con l’arresto di don Davide Albertario e di Filippo Turati), pur non coinvolgendo direttamente i cattolici torinesi, ebbero un contraccolpo, provocando un atteggiamento negativo dell’arcivescovo nei confronti della Democrazia Cristiana, che a Torino era particolarmente viva. Infatti il suo quotidiano, il 15 maggio 1899 pubblicò il Programma di Torino, considerato il primo vero programma politico dei cattolici italiani, che don Sturzo terrà presente non solo nel discorso di Caltagirone nel 1905 ma anche nella stesura del programma del «Partito popolare italiano» del 1919. Tuttavia, anche a Torino divenne prevalente il cosiddetto clerico-moderatismo (accordo tra cattolici conservatori e liberali) caldeggiato su scala nazionale dal nuovo papa Pio X, per contrastare l’avanzata socialista, e fatta proprio a Torino dal card. Richelmy. Per sostenere questa linea l’arcivescovo volle nel 1903 il nuovo quotidiano cattolico Il Momento.
Le questioni politico-sociali nel mondo cattolico italiano si intrecciavano con la crisi modeista, che coinvolse, non il popolo, ma le élites intellettuali del clero e del laicato cattolico.
I cattolici intransigenti vegliavano e colpivano senza riguardo veri e presunti modeisti. L’avanguardia antimodeista a Torino era costituita da gesuiti, che facevano capo allo studentato teologico di Chieri, tra i quali emergeva padre Giuseppe Chiaudano. L’episcopato piemontese e l’arcivescovo di Torino avevano già preso posizione sul modeismo, rispettivamente in una lettera circolare nel 1905 ed in una lettera pastorale nel 1906. Dopo la enciclica Pascendi e la visita apostolica del 1907, furono presi provvedimenti disciplinari da parte del Richelmy, che tuttavia per gli integristi non era abbastanza antimodeista. Fece espellere dal seminario i chierici colpevoli di leggere le opere modeiste e, in quanto responsabile del servizio religioso dell’opera Bonomelli per l’emigrazione, favorì la partenza per l’estero dei sacerdoti ritenuti modeisti o sospettati di modeismo.
Il provvedimento più spettacolare fu imposto da Roma, dopo la visita apostolica ai seminari nel 1911: il dimissionamento del professore di storia ecclesiastica alla facoltà, il canonico Giuseppe Piovano, perché ritenuto non affidabile e irrecuperabile. La crisi modeista resta una pagina drammatica nella storia della chiesa; troppo sovente mancarono discernimento, giustizia e carità.
Non era ancora rientrata la bufera modeistica che ci si trovò inguaiati nella tragedia della prima guerra mondiale.
La crisi post-bellica coinvolse particolarmente Torino, dove la componente operaia era numerosa ed agguerrita, sotto la guida accorta del gruppo dell’«Ordine Nuovo», di Gramsci e Togliatti. Il socialismo faceva paura e si faceva minaccioso anche per il suo aperto ed ostentato anticlericalismo.
I cattolici si organizzarono in campo politico e sociale: la sinistra del partito popolare era particolarmente attiva ed operava attraverso il periodico Il pensiero popolare (diretto da Attilio Piccioni) verso il quale andavano le simpatie di Pier Giorgio Frassati e la disapprovazione dell’arcivescovo che ne proibì la lettura ai chierici, perché propugnava la collaborazione tra cattolici e socialisti in funzione antifascista. Da anni era molto attivo il sindacato cristiano con la «Unione del Lavoro», che aderì alla «Confederazione Italiana del Lavoro», nata a Roma nel 1918, e di cui primo segretario fu G. B. Valente, già esponente della prima Democrazia cristiana torinese.
Negli ultimi mesi di libertà di stampa concessa dal fascismo, cioè nel 1926, Giuseppe Rapelli diresse il battagliero periodico della CIL, Il Lavoratore, apertamente antifascista. Ma ormai anche non pochi cattolici erano saliti sul carro del vincitore. Lo stesso quotidiano cattolico Il Momento era passato su posizioni filo-fasciste, come la destra del partito popolare.

Giuseppe Tuninetti




Dal 1901 al…

All’alba del terzo millennio alcuni missionari della Consolata hanno scritto a Gesù bambino: «Signore, quando toerai sulla terra,
non andare in Brasile, perché dovresti raccogliere canna da zucchero ed avresti le mani sanguinanti per i fusti spigolosi.
Evita il Bangladesh: finiresti nelle fabbriche di mattoni e le tue piccole spalle sarebbero ferite, prima ancora di portare la croce. Sta’ alla larga dai negrieri schiavisti del Sudan, perché ti venderebbero subito per 30 denari. Non varcare nemmeno le frontiere del Pakistan: ti metterebbero a cucire palloni da football, senza mai farti vedere una partita. E il Congo? Non andarci, Gesù, perché dovresti fare la guerra non con soldatini di cartapesta, ma con pallottole ad uranio, le stesse usate dalla Nato in Kosovo…».

E cco alcuni drammi che i coetanei del piccolo Gesù hanno vissuto da protagonisti negli ultimi anni. Per non parlare degli abusi sessuali, delle mine che hanno interrotto per sempre i loro giochi sui prati, dei foi crematori che li hanno ridotti in fumo nauseante.
È successo molto altro ancora nel secolo passato. Secondo il politologo Eric Hobsbawm, è stato «il secolo breve», iniziato nel 1914 (con «la grande guerra») e terminato nel 1991 (con il disfacimento dell’Unione Sovietica). Un secolo breve, e però è stata «l’epoca più violenta della storia dell’umanità».
È saggio, allora, augurarsi
«cento di questi anni»?
N ati nel 1901, i missionari della Consolata compiono 100 anni. Questo numero «straordinario» della rivista verte su di loro. Ma non è tutta la loro storia: perché, se alcuni sono stati «pionieri», «generosi», «illustrissimi», «infaticabili» e «martiri», altri invece…
E poi, se di storia si trattasse, troppo vistose (e ingiuste) sarebbero le lacune.
«Cento di questi anni»
è un sentito grazie al Signore e alla Consolata per il bene che hanno fatto nell’arco di un secolo. Si possono contare le magnalia Dei, cioè le meraviglie di Dio; però, quando ci si vanta dei «successi dell’uomo», si cade in meschinità, ossia nel peccato. In tale senso, «cento di questi anni» non sono certo da augurare.

L a lettera dei missionari a Gesù bambino termina: «Signore, è giusto che andiamo noi nel sud del mondo. Tu, intanto, resta a casa nostra. Qui starai al sicuro, vedrai!…».
E avete «visto» anche voi, cari amici e benefattori dei missionari della Consolata. Avete visto e valutato. Grazie della vostra comprensione, del vostro perdono. Grazie della generosità, che dura da un secolo. È anche contando su di voi che ci auguriamo «cento di questi anni».
Per una maggiore consolazione in un mondo inquinato, violento ed ingiusto, a scapito specialmente dei «piccoli». Eppure il beato Giuseppe Allamano ama la gente di questo pianeta.
p. Gottardo Pasqualetti,
Superiore dei missionari della Consolata in Italia

Gottardo Pasqualetti




Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin