Suona l'”Angelus”

Egregio direttore,
soddisfi per piacere una mia curiosità. So che la preghiera dell’Angelus fu istituita da Urbano II nel 1095 per le Crociate; ma perché si suonano tre tocchi, poi quattro, cinque e uno finale? Se ci fosse qualche topo di biblioteca per rispondermi…
Gino Scipioni
Montegiorgio (AP)

Spiacenti di deluderla. Degna di nota ci sembra la spiegazione del triplice suono dell’Angelus, data dall’inglese Harleim (1576). La campana del mattino ricorda il Risorto, apparso subito alla madre; quella di mezzodì rimanda alla morte di Gesù sotto gli occhi di Maria; il tocco della sera rievoca l’incarnazione di Cristo nel seno della vergine.

Gino Scipioni




La Del Monte in Kenya

Spettabile redazione,
circa l’articolo «La squadra squadraccia» (Missioni Consolata, maggio 2000), gradirei sapere se il problema da voi sollevato è stato risolto. Se così non fosse, ne direi quattro a chi di dovere.
Quanto a voi, non fermatevi alle critiche di chi ha la pancia piena e cerca sempre l’ago nel pagliaio.
Olivo Cassina
Udine

Il lettore si riferisce ai lavoratori della multinazionale «Del Monte» (proprietaria in Kenya di vaste coltivazioni di ananas), che hanno scioperato a causa del basso salario percepito. Secondo la Commissione «giustizia e pace» dei missionari della Consolata, lo sfruttamento continua… nonostante la promessa della «Del Monte» di venire incontro alle richieste degli operai.

Olivo Cassina




Sono “pazienza”

Mi alzo il mattino, svegliata dal freddo. La pioggia battente ha avvolto, inclemente, tutto il mio corpo con le sue mani. Ho dormito male sotto la tenda, ricavata da pezzi di plastica scartati al mercato.
Devo alzarmi presto, perché – come voi dite – «le ore del mattino hanno l’oro in bocca». Oggi si lavora, come tutti i giorni. «Che lavoro fai?» mi domanderete. Sono mendicante. Mi chiamo «Tighist», che vuol dire «pazienza». Posso assicurarvi che ne sfoggio tanta, mentre le ore scorrono lentamente. Siedo su un sasso, i piedi nel fango e sulla mano destra alcune monete, che faccio tintinnare come richiamo con la solita supplica: «Fate la carità, per amor di Dio». Sono pochi i passanti oggi, perché piove.
Prima del tramonto, raccolgo i proventi del lavoro, sufficienti – spero – per mangiare la sera. Non sono sola: due bimbe mi fanno compagnia, e ai passanti fanno compassione.
È importante nel nostro mestiere.
Poiché i prezzi salgono continuamente, con il cuore in ansia acquistiamo tre pagnotte e un po’ di sugo. Poi, contente, consumiamo la cena, l’unico nostro pasto del giorno. E domani, sotto il sole o il freddo o la pioggia, tenderemo ancora la mano con la speranza di raccogliere gli spiccioli per campare un altro giorno.

N on conosco grandi piaceri. Non so di abbondanza, di mense imbandite di ogni ben di Dio. Ho sentito parlare di bevande pregiate; per gustarle – dicono – occorrono persino coppe ad hoc. Io conosco solo l’acqua che mi porgono e non so nemmeno se sia pulita o sporca, perché
sono cieca fin dalla nascita.
Qualcuno, nel 2000, mi ha parlato di un anno speciale, un anno di grazia indetto da Dio per sollevare i poveri e colmarli di beni… Io vi giuro che, l’anno passato, non ho visto nulla di simile: nulla di speciale si è depositato sulle mie mani; nessuno mi ha offerto un po’ di più… durante l’anno santo!
Allora Dio promette molto, mantiene poco ed è… bugiardo anche lui! O lo sono gli uomini che possiedono tanto e non si curano di chi ha quasi nulla? Rispondete, per favore.
Mi dicono che siamo in quaresima e che, fra poco, sarà pasqua. Auguro a tutti una bella festa.
Quel giorno io e le due bimbe saremo sulla strada fin dal primo mattino, come le donne che andarono al sepolcro di Gesù. Passerà la gente, vestita a festa: molti andranno in chiesa, per festeggiare Gesù risorto con interminabili «alleluia». Passeranno davanti a noi in fretta, senza guardarci, senza rendersi conto che Gesù, nei mendicanti, continua a trascinare la croce e a morire.
Non è ancora risorto, povero Cristo!
Pazienza ci vuole!
Al termine della giornata, mangeremo la solita pagnotta. La mangeremo adagio, pensando:
«È pasqua. Succede una volta all’anno».
Tighist

Tighist




SPECIALE 100 ANNI – Il nuovo che ci aspetta

Missionari anche domani nell’annunciare Gesù Cristo,
nella testimonianza della vita, per rendere «felici anche su questa terra»,specialmente gli «esclusi».
Ma «ci vuole fuoco per essere apostoli»
(beato Allamano).

«Il 2001 ci ricorda il primo secolo di vita dei missionari della Consolata. Chiediamo al Signore che, durante le celebrazioni giubilari, sappiamo recuperare una sempre più chiara coscienza della nostra responsabilità verso la chiesa e il mondo da evangelizzare».
Con queste parole padre Piero Trabucco, superiore generale, annunciava le celebrazioni per i primi 100 anni di vita dei missionari della Consolata, indicando che non è sufficiente «fare memoria» del passato, ma bisogna pensare al futuro che ci aspetta. Occorre far sì che il «codice genetico» ricevuto dal fondatore continui nelle nuove generazioni di missionari.
Lo Spirito Santo – pare ci voglia dire l’Allamano – soffia dove vuole e perpetua, oggi, gli stessi prodigi che operò agli albori della nostra famiglia missionaria. Il ricordarli non diventa solo un insegnamento per noi, ma può trasformarsi in sorgente di vita e ardore apostolico, secondo i bisogni del tempo nuovo che ci attende.
Essere missionari della Consolata nel terzo millennio significa camminare in due direzioni irrinunciabili: siamo stati voluti per «evangelizzare» e questa azione è per i popoli che ancora non conoscono il vangelo. Siamo, cioè, «ad gentes».
UNA consegna
precisa
«Evangelizzare è la grazia, la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare»: ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi.
Per noi missionari questo è e rimarrà sempre l’elemento essenziale e costitutivo della nostra vocazione, una consegna esplicita del fondatore Allamano, che diceva: «Datevi con tutto il cuore all’opera dell’evangelizzazione. È per questo speciale fine che sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro istituto a tante altre congregazioni che attendono ad altri ministeri».
Nel Nuovo Testamento «evangelizzare» è una realtà dai molti volti: annuncio con un linguaggio comprensibile, testimonianza, guarigioni, amore, perdono, «consolazione». Al cuore di queste espressioni, Gesù colloca (e gli evangelisti lo ricordano) il regno di Dio, che non è un puro concetto, ma il movente di tutta la sua azione.
La chiesa, nell’attuare la missione ricevuta da Cristo, ha sviluppato il tema dell’evangelizzazione accentuandone l’uno o l’altro aspetto. Se un tempo aveva un solo scopo (andare, annunziare, convertire, battezzare e fondare la comunità cristiana), oggi si apre a un ventaglio più vasto e l’esperienza dei missionari sul campo lo conferma.

In questa ampiezza e ricchezza di significati del termine «evangelizzazione», ci piace sottolineare alcuni aspetti:
n Scoprire i «semi del Verbo» (come dicevano i padri della chiesa) nel contesto in cui il vangelo viene predicato. Oggi, più che mai, i missionari riconoscono che Dio parla all’umanità intera attraverso il creato, il popolo della «prima alleanza», le religioni e culture di altri popoli.
n Annunciare esplicitamente il vangelo e Gesù Cristo come unico salvatore; che è molto di più dell’insegnamento di una dottrina, una morale, un insieme di verità alle quali aderire. L’annuncio mira a cambiare le persone dal di dentro e condurle a vivere, pensare e operare secondo gli ideali del regno di Dio, fino alla formazione di chiese locali.
n Testimoniare la verità della Parola con la vita degli annunciatori e la trasformazione dei suoi destinatari. La testimonianza dello stile di vita di Gesù, da lui proposto ai suoi discepoli, anche senza annuncio esplicito della sua parola, è già evangelizzazione.
n Promuovere lo sviluppo autentico delle persone e dei popoli, nella giustizia e nell’amore, con la cooperazione di tutte le forze (anche di coloro che non credono o hanno fedi diverse) verso il bene comune, cioè il Regno.
n Rivolgere il messaggio evangelico non solo agli individui, ma anche alle comunità. Il contenuto dell’evangelizzazione non si può capire senza il contesto di una comunità che lo vive e lo comunica in modo significativo. È ciò che l’Allamano chiamava «elevazione dell’ambiente».
n Evangelizzare anche le culture, le strutture e i modelli di vita, per purificare ciò che è in contrasto con la parola di Dio e favorendo l’inculturazione del messaggio evangelico.
non solo geografia
I missionari della Consolata sono nati in un tempo in cui la missione si confondeva con la geografia. Rivolgersi ai non-cristiani significava uscire dal proprio paese, per andare in altri continenti: un elemento carismatico ritenuto ancora valido. Per l’Allamano era assolutamente chiaro che la peculiarità dei suoi missionari stesse nell’uscire dalla propria terra, nell’incontro con popoli, culture e religioni differenti e nell’annuncio del vangelo a chi non ne era venuto a conoscenza.
Inoltre il nostro istituto è nato per l’Africa. A questo continente era rivolto il sogno dell’Allamano che si ispirava a un «modello africano», il Massaia, per indicare la meta ai suoi missionari. Per tutta la vita il fondatore pensò e lavorò per le missioni d’Africa, per la quale egli stesso affermava di aver sempre avuto, senza sapee la ragione, una speciale attrazione. È in Africa che l’istituto ha elaborato la sua strategia e metodologia missionaria e, nella percezione comune, partire e fare missione erano sinonimi di «Africa». Così la fondamentale identità dei missionari della Consolata viene dal cotinente nero, dove è maturata la loro iniziale esperienza e comprensione dell’ad gentes.
Ma questa scelta non è esclusiva. Ha il diritto di «primogenitura», ma si andrà pure altrove, come raccontava il fondatore dopo una visita a Propaganda Fide, aggiungendo di aver fatto una proposta: «Poi andremo dove ci vogliono». Ed è su queste componenti fondamentali dell’identità dell’istituto che si è innestata la linfa vitale della missione in America e, soprattutto, in Asia. La «scoperta» continua ancora e spinge a chiarire sempre meglio ambiti e direzioni del nostro impegno missionario ad gentes.
Non si tratta soltanto di luoghi, ma di persone, situazioni, aree, fenomeni, culture non raggiunti dal vangelo. Si apre, quindi, il grande ventaglio di quelli che il papa, nella Redemptoris missio, ha indicato come i modei «areopaghi».
Per noi, missionari della Consolata, significano concretamente l’Asia, l’islam, le molte forme di ateismo pratico, il fenomeno della scristianizzazione, il mondo delle sètte e dei movimenti religiosi. Come attuazione concreta, c’è l’impegno per una nuova apertura in un altro paese dell’Asia, oltre alla Corea, dove l’istituto ha già alcune presenze, rivolte prevalentemente al dialogo interreligioso, all’animazione missionaria della chiesa, alla pastorale in ambienti disagiati.
In linea con le Costituzioni, che nell’evangelizzazione dei non cristiani danno la preferenza ai «più bisognosi e trascurati», vengono altre due scelte: le povertà urbane (uno dei fenomeni più degradanti del tempo presente ed anche più massicci per il numero di persone coinvolte) e le minoranze etniche (spesso vittime di oppressione, emarginazione e minacciate di distruzione culturale e fisica).
Un impegno non indifferente e significativo rimane quello dell’animazione missionaria di tutte le chiese. Appena nasce, ogni comunità cristiana, per essere veramente tale, deve aprirsi all’intera umanità: all’annuncio del vangelo ai non cristiani del luogo e del mondo. Nostro compito, perciò, sarà quello di aiutare le comunità ad assumere questa dimensione, con slancio e generosità.
Infine l’impegno per la giustizia e la pace. Intitolato alla «Consolata», l’istituto ha ricevuto dal suo fondatore un criterio preciso: abbinare l’annuncio del vangelo con la promozione umana nelle sue diverse forme, la vicinanza e la partecipazione alla sorte della gente.
L’Allamano ha inviato i suoi missionari a portare un «vangelo di consolazione», capace di rendere «felici anche su questa terra». Vogliamo, allora, farci voce degli esclusi di ogni genere e a essi diamo voce, con l’impegno per la difesa e promozione dei diritti e della dignità umana, con la riconciliazione tra persone, tribù, popoli e nazioni, con la salvaguardia del creato. Questi temi sono parte costitutiva dell’evangelizzazione ad gentes ed «espressione odiea di consolazione».
Un’attenzione particolare i missionari della Consolata la riservano ai laici, con i quali vogliono condividere l’evangelizzazione. È la conseguenza della presa di coscienza che ogni battezzato è missionario per natura sua, vero agente di pastorale e di missione, per vocazione. È un cammino aperto, che richiede riflessione, nonché qualche «conversione», per saper collaborare, condividere, programmare insieme.

Tutti questi aspetti portano alla conclusione che le trasformazioni avvenute, nel mondo e nella chiesa, esigono un forte impulso al rinnovamento, ma nel profondo. Puntando quasi a una «rifondazione» dell’istituto, perché vi sia lo «zelo apostolico» di cui parlava il beato Allamano. «Ci vuole fuoco per essere apostoli!»: zelo presente in modo caratteristico nelle prime generazioni di missionari.
Questo, al di là delle strategie e delle proposte per il futuro, ravviva il cammino che i missionari della Consolata vogliono compiere per i prossimi… 100 anni!

Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I martiri

PER LA PACE
padre Quinto Gardetto (1911-1941)

Ne avrebbe fatto volentieri a meno; ma, educato all’obbedienza senza discutere, fu tra i primi missionari della Consolata a vestire la divisa coloniale. A 24 anni (era nato nel 1911 a Bosconero, Torino) padre Quinto Gardetto raggiunse Mogadiscio (Somalia), cappellano della sezione di sanità nelle truppe che si preparavano a invadere l’Etiopia. Insieme ai soldati, nel 1936, entrò in Harrar, dove fu incaricato di dirigere la scuola della cittadina etiopica, che contava 235 allievi. L’anno seguente era a Lekemti, nel vicariato apostolico di Gimma. Così scriveva ai superiori: «Sono contento di essere giunto finalmente in terra della nostra missione».

Capitale della regione del Wollega, centro carovaniero a 330 km da Addis Abeba, Lekemti era stata adocchiata fin dai «tempi di camuffaggio missionario» come centro ideale di evangelizzazione; ma per non dare nell’occhio, i missionari si erano stabiliti a Comto, 5 km dalla cittadina. Dopo la conquista italiana (1936) si poté iniziare a costruire la stazione missionaria.
Padre Gardetto, prima viceparroco e poi superiore, diede grande impulso allo sviluppo della missione: in pochi anni furono costruite le case per i padri e per le suore, scuole governative per 230 alunni, collegio maschile, asilo per 70 bambini, ambulatorio e «scuola clandestina di amarico», senza trascurare la catechesi, visite ai villaggi, cura degli ammalati.
Sopraggiunta la seconda guerra mondiale, le truppe italiane furono impegnate a combattere gli inglesi: i ribelli abissini ne approfittarono per rialzare la testa. Capi e sottocapi della zona di Lekemti, che si erano impegnati a garantire l’incolumità dei missionari, cominciarono a manifestare risentimenti contro l’occupazione coloniale. Il malcontento si trasformò in ribellione.
Il capo Maconnen, fino al 1941 impiegato dal governo per domare i ribelli di altre regioni, si mise alla testa degli insorti. Ai loro massacri e devastazioni, gli ascari assoldati dal governo coloniale rispondevano con rappresaglie indiscriminate, bruciando capanne e raccolti.
Benvisto da tutta la popolazione e dallo stesso Maconnen, padre Gardetto cercò di fare opera di pacificazione tra i ribelli e il presidio di Lekemti, fino a sottoporre ai più alti livelli un disegno di pacificazione, concordato col presidio e il capo degli insorti.

Il 1° aprile 1941, insieme a due autisti italiani e a suor Teodora, il padre partì in auto alla volta di Addis Abeba, per sottoporre l’accordo di pace al governo coloniale. Il rischio era grande: il giorno precedente, a Sirè, c’era stata una feroce repressione e il capo locale aspettava l’occasione per vendicarsi. Infatti, giunta in quella località, a 30 km da Lekemti, l’auto fu bersagliata da una banda di rivoltosi che, ignari della missione che il padre stava compiendo, spararono a vista e uccisero tutti e quattro gli occupanti. Padre Gardetto morì sul colpo, con una pallottola in fronte. Aveva 30 anni. Martire per un atto di alta carità: promuovere la pace e riconciliazione.

DESERTO
INSANGUINATO
padre Michele Stallone (1921-1965)

Anche quel mattino, il 19 novembre 1965, approfittando del passaggio del camion diretto a un club turistico costruito sulla sponda meridionale del lago Turkana, padre Michele Stallone lasciò Baragoi per raggiungere la stessa località. Seduto accanto all’autista, l’italiano De Luca, arrivò a destinazione sull’imbrunire. Il giorno dopo avrebbe dovuto prendere le ultime misure per costruire, secondo le direttive del vescovo di Marsabit, mons. Carlo Cavallera, una scuola e un dispensario a favore della popolazione ol molo, minacciata di estinzione.
Alle nove di sera, terminata la recita del breviario, padre Stallone era seduto a tavola con mister Poole, direttore del club, quando una banda di una trentina di predoni (shifta), armati di fucili, assaltarono il campo, chiusero i due in bungalow e fecero man bassa di tutto ciò che trovarono. Finita la razzia, tornarono dai due prigionieri: li freddarono a colpi di fucile. Risparmiarono De Luca, costringendolo a trasportarli con una Land Rover insieme al bottino. Di lui non si seppe più nulla.
Il pomeriggio del giorno dopo, la notizia dell’assassinio arrivò a Baragoi. Alle 3,30 del mattino seguente, padri e polizia raggiunsero il luogo dell’eccidio: padre Stallone giaceva a terra in una pozza di sangue, le mani ancora legate e due colpi di fucile nella schiena; aveva accanto il breviario; ogni altro oggetto era scomparso.

Aveva 44 anni. Era nato il 13 settembre 1921 a Giovinazzo (Bari). A 13 anni Michele entrò nella casa dei missionari della Consolata di Parabita (Lecce); compì gli studi in varie case dell’Istituto e fu ordinato sacerdote a Casale Monferrato (AL) nel 1947. L’anno seguente raggiunse la diocesi di Nyeri (Kenya) e cominciò il tirocinio missionario a Gatanga.
Di piacevole compagnia, volontà energica e spiccata attività, nel 1953 fu destinato da mons. Cavallera, in quegli anni vescovo di Nyeri, in aiuto ai confratelli che avevano da poco aperto la missione di Baragoi, avamposto nell’immensa e arida «frontiera» a nord del Kenya.
«Dall’infuocata sabbia – scriveva nel 1954 -, come per incanto, uno dopo l’altro si sono innalzati i fabbricati: tre aule scolastiche, case dei padri e delle suore, collegi per ragazzi e per ragazze, magazzino, tre cistee per l’acqua piovana, un ospedale con 30 letti. I lavori non sono ancora ultimati, ma possiamo già dedicarci all’apostolato diretto. Mi è stata affidata l’educazione di 38 piccoli samburu e turkana: due etnie con lingue del tutto differenti. Unico sussidio, finora, è un abbozzo di dizionarietto samburu di circa 1.500 vocaboli da me compilato».
«La chiave per penetrare nell’animo di queste popolazioni è la scuola – scriveva l’anno seguente -. Sebbene ancora indolenti nel lavoro, queste etnie ci danno molte consolazioni. In pochi mesi i miei scolaretti hanno imparato a cantare, a perfezione, la Missa de angelis e altri inni latini e swahili. A sentirli pregare e cantare si crederebbero altrettanti seminaristi, anziché selvaggetti strappati alla brughiera solo ieri».
Diventato superiore (1957), padre Stallone continuò a sviluppare la parrocchia, organizzando la scuola secondaria e disseminando di scuole-cappelle i punti strategici del vasto territorio.

«Il deserto fiorisce» era intitolato un articolo che padre Stallone aveva scritto per Missioni Consolata un anno prima di morire. Quando, infatti, venne costituita la diocesi di Marsabit (1964), Baragoi era ormai la missione più adulta e sviluppata del territorio, centro propulsore di nuove fondazioni, come la missione di South Horr, al cui sviluppo padre Stallone lavorò per vari anni.
Il suo sacrificio ha ritardato di alcuni mesi la fioritura della missione a Loyangalani, ma ne ha fecondato il terreno. Il suo sangue ha irrorato le speranze in cui, lui per primo, aveva fermamente creduto e per le quali aveva dato con entusiasmo tutto se stesso.

TUTTO PER GLI INDIOS
padre Giovanni Calleri (1934-1968)

Bello, alto, forte, spiritoso, estroverso, con una carica che ispirava fiducia a prima vista. Chi lo incontrava per strada o in una riunione lo definiva uno sportivo o un artista. E vedevano giusto.
Nato a Carrù (Cuneo) nel 1934, prete per cinque anni nella diocesi di Mondovì, Giovanni Calleri entrò tra i missionari della Consolata nel 1962. Tre anni dopo partì per il Brasile e raggiunse il territorio di Roraima. E cominciò a organizzare la missione del Catrimani, tra gli indios yanomami.
«Quando giunsi in Brasile non mi importava di morire – scriveva nel 1966 -. Ora no, voglio vivere per amore degli indios. Mie compagne sono a volte la fame e sempre tanta solitudine». Invece morì a 34 anni, per amore degli indios.

Per l’esperienza tra gli yanomami e la ricca personalità, nel 1968 padre Calleri fu scelto dal governo brasiliano per dirigere una spedizione per pacificare gli indios waimirí-atroarí. Dal 1961 era in costruzione la strada BR-174 che, attraverso la foresta dell’Amazzonia, doveva collegare Manaus e Boa Vista a Caracas (Venezuela). Ma per attuare il progetto bisognava fare i conti con gli indigeni che si ritenevano, a diritto, padroni della regione e non intendevano rinunciare al loro sistema di vita.
La spedizione fu preparata seriamente e il piano approvato dal governo. Si doveva adottare la tattica di «avvicinamento indiretto»: cioè accostare prima gli indios non irritati con i bianchi, per farli mediatori presso quelli sul piede di guerra, vicini allo sconquasso prodotto dai lavori della strada. Il piano fu ritenuto da qualcuno troppo lento. Per non fermare i lavori, poteri militari e minerari, nazionali e stranieri, premevano per il confronto diretto con i ribelli waimirí-atroarí, che in fatto d’imboscate sapevano il fatto loro.
All’ultimo momento il piano fu accantonato e padre Calleri dovette accettare, anche sotto minacce, di portare la spedizione su un altro luogo. È l’aspetto più misterioso della faccenda, perché con il cambiamento i rischi di fallimento e morte risultavano enormemente aumentati. Nella spedizione, poi, fu inserito Alvaro da Silva, esperto della foresta, ma ambiguo e senza scrupoli, legato alla Missione evangelica dell’Amazzonia (Meva).
I dipendenti di questa missione protestante, con residenza in Guyana, svolgevano una doppia attività: evangelizzazione e ricerca di miniere per conto degli Stati Uniti. Per cui essi erano troppo interessati che la spedizione diretta da un prete cattolico fallisse.
E così avvenne: il 1° novembre 1968 la spedizione fu massacrata nel cuore della foresta. Delle 10 persone, comprese due donne, si salvò solo Alvaro da Silva. La colpa fu sempre attribuita alla ferocia degli indios.
A 30 anni di distanza, dopo faticose ricerche, padre Silvano Sabatini, che ebbe un ruolo importante nel preparare la spedizione, ha fatto luce sul mistero. Dalle innumerevoli testimonianze da lui raccolte e pubblicate nel libro Massacre, risulta che la spedizione-Calleri fu massacrata da alcuni indios waimirí-atroarí e wai wai, istigati da un manipolo di bianchi, in particolare Alvaro da Silva e lo statunitense Claude Leawitt, funzionario della Meva. I due imposero agli indios, sotto terribili minacce, un assoluto silenzio.
Padre Sabatini denuncia che la BR-174 fu condotta a termine, dopo il massacro della spedizione, con la decimazione degli indios: i waimirí-atroarí, circa 3 mila nel 1968, nel 1982 erano ridotti a qualche centinaio.

CONTESTATORE GLOBALE
padre Guerrino Prandelli (1943-1972)

«Sono molto felice di essere prete – aveva scritto poco tempo dopo l’ordinazione -. Mi piacciono lavoro duro e tempi difficili. In un’epoca in cui il sacerdote è fuori moda, per un giovane come me diventare “servo” fa parte di una “contestazione globale”, la più profonda: quella dell’amore».
Era nato a Brescia nel 1943. Temperamento vivo e quasi scatenato, forte e a volte rude, Guerrino Prandelli lottò contro tutto e tutti per restare fedele alla chiamata della missione. Ordinato sacerdote (1969), gli fu proposto di lavorare un po’ in Italia. La controproposta non lasciava scampo: «O mi mandate in missione, o mi sposo». Fu spedito in Mozambico.
N el 1970 padre Guerrino era nel Niassa. Da Unango passò come vice parroco a Nova Esperança. Lavorava come un forsennato, quasi presago del pochissimo tempo a disposizione. Coglieva al volo esigenze e bisogni della gente, dei più poveri soprattutto, come i lebbrosi. Per questi costruì varie casette, perché avessero un’abitazione più igienica e vita più dignitosa.
Aveva il dono delle lingue: dopo solo due anni di permanenza nel Niassa, padre Guerrino si mise a tradurre in lingua ciyao alcuni testi della messa, per facilitae la partecipazione della gente.
Era felicissimo, nonostante le difficoltà provocate dalla guerriglia anticoloniale. «Nova Esperança è la missione più isolata del Niassa – scriveva -. Ciò è dovuto alla guerriglia. Ultimamente sulle nostre strade hanno messo molte mine. Viaggiare è diventato estremamente pericoloso. Nei villaggi o nella missione non c’è pericolo; ma non possiamo stare sempre fermi; nessuno viene a portarci niente. Abbiamo bisogno di viveri e medicinali; la gente non ha sale, zucchero, olio, sapone, petrolio. Il pericolo di imbattersi in una mina sussiste; chi vi incappa finisce sbriciolato».

A metà ottobre del 1973, i confratelli lo chiamarono a Nova Freixo (oggi Cuamba), per aiutarli in alcuni lavori di traduzione. Terminato il lavoro, padre Guerrino volle tornare subito alla sua missione. Gli fu consigliato di attendere un momento più sicuro. Rispose che non poteva lasciare i suoi lebbrosi senza cibo: i poveri non possono aspettare tempi sicuri. E partì da solo.
Ma a 20 chilometri da Belém, una ruota dell’automezzo urtò una mina anticarro, nascosta nella carreggiata. Lo scoppio violento distrusse l’auto e causò la morte fulminea del missionario.
Un mese prima aveva scritto a un compagno di studi: «Vale più un anno di missione, che cinquant’anni trascorsi nella mediocrità in Italia». Padre Guerrino è morto a 29 anni; in missione ne ha spesi appena tre: una «contestazione globale» a tanta mediocrità.

UNA VITA
PER L’AFRICA
padre Luigi Graiff (1921-1981)

«Un giorno o l’altro mi accopperanno» ripeteva da un anno come un ritornello. Anche quel venerdì padre Luigi Graiff si recò a Parkati con cibo e medicinali: sentiva il fiato della morte ormai sul collo. Lasciando 40 metri di cotonata blu a una famiglia turkana, disse alla signora Veronica: «Taglia dieci pezze per adulti e bambini, ma tieni da parte una misura grande per avvolgere il mio cadavere».
Due giorni dopo, domenica 11 gennaio 1981, finita la messa a Parkati, padre Luigi caricò sulla Land Rover il catechista anziano, cinque ragazzi e un diciottenne aspirante catechista, per celebrare l’eucaristia a Tum, a una ventina di chilometri. A metà strada vide all’orizzonte una ciurma di uomini, oltre duecento, armati di panghe (coltellacci), lance e fucili automatici. Intuì subito il pericolo: erano gli ngorokos, bande di razziatori, che da tempo infestavano la zona, rubando bestiame, distruggendo villaggi e uccidendo centinaia di persone.
Tentò di invertire la marcia, ma alcuni spari bloccarono la Land Rover. Il padre e il catechista corsero ad aprire lo sportello posteriore dell’auto, perché i ragazzi si mettessero in salvo. Furono subito accerchiati. «Non ci resta che pregare» disse il missionario. S’inginocchiarono. Il tempo di iniziare il Padre nostro e il padre stramazzò a terra in una pozza di sangue, insieme al giovane e un ragazzo; gli altri quattro, approfittando del trambusto, riuscirono a fuggire, inseguiti dalle fucilate.
Il catechista riconobbe alcuni degli assalitori e implorò pietà. Percosso e spogliato di tutto, fu mandato ad avvertire la missione. La notizia del massacro arrivò a South Horr alle cinque della sera. I confratelli partirono immediatamente; arrivarono sul luogo dell’eccidio a notte fonda e trovarono una scena raccapricciante: tre corpi ignudi, orrendamente crivellati di proiettili e sfigurati dai colpi di panga, cotti e tumefatti, giacevano accanto alla carcassa dell’auto ancora fumante.

A veva 60 anni, metà dei quali spesi in Africa: era nato a Romeno (Trento) nel 1921; in Kenya dal 1951. Destinato alla diocesi di Nyeri, padre Graiff lavorò a Gatanga, poi a Mugoiri, durante gli anni difficili della rivolta mau mau.
Nel 1964 chiese di passare alla nuova diocesi di Marsabit. Mons. Carlo Cavallera lo accolse volentieri e lo nominò parroco di Laisamis: una savana desolata, tutta pietre, sabbia e cespugli spinosi. Per 10 anni padre Luigi lavorò come un forsennato, costruendo uno dei più bei complessi della diocesi: chiesa, case per padri e suore, ospedale, scuole e… cristiani.
Gli anni 1965-70 furono particolarmente duri e pieni di tensione: gli shifta imperversavano; una notte assaltarono la missione; il padre scampò dalla morte per miracolo. Ma continuò a lavorare, nonostante la paura.
Coraggioso e spavaldo solo in apparenza, padre Graiff aveva paura della morte: la notte si svegliava di soprassalto al minimo rumore; imbracciava il fucile e correva da una finestra all’altra, pronto a respingere gli intrusi.
Dietro una scorza ruvida e autoritaria si nascondeva un cuore di bambino. Lo avevano capito subito gli africani: venivano a chiedere aiuto nei momenti più importuni. Egli si arrabbiava, ma poi cedeva, soprattutto se dicevano di avere fame. Ottenuto un po’ di cibo, i questuanti si nascondevano dietro un cespuglio, mangiavano felici e ridevano a crepapelle, imitando gesti e boccacce del burbero benefico.
Come un bambino odiava stare solo. Eppure la solitudine fu il suo pane quotidiano: prima a Laisamis, poi a Loyangalani (1973-78); gli ultimi due anni a Parkati, avamposto della missione di South Horr. In quella squallida regione abitavano i nomadi turkana, minacciati periodicamente da fame, malattie e, ultimamente, dalle razzie dei banditi. Nonostante il pericolo, padre Graiff vi si recava tutte le settimane, portando viveri, medicinali, vestiario, materiale da costruzione e tutto ciò che poteva servire alla sopravvivenza della gente. Era riuscito ad aprire la scuola e avviare piccole comunità cristiane.
Per gli ngorokos quella di padre Graiff era una presenza scomoda, quasi una sfida. Il loro banditismo era fomentato da rivalità etniche e politiche, con misteriose ingerenze straniere: lo dimostravano le armi sofisticate in dotazione. Il governo non interveniva; le forze di polizia stavano alla larga per paura. Solo i missionari avevano il coraggio di stare accanto a quelle popolazioni martoriate e prendee le difese. Per questo padre Graiff fu messo a tacere barbaramente.

CON LA GENTE
PER SEMPRE
padre Ariel Granada Sea (1941-1991)

Non aveva compiuto 50 anni. Era nato a Marulanda (Colombia) nel 1941. Dopo l’ordinazione (1968), padre Ariel Granada lavorò per alcuni anni nel vicariato di Florencia; poi svolse vari incarichi nelle case di formazione. Nel 1988 fu destinato al Mozambico. Partì sereno, contento di cominciare, a 47 anni, una nuova avventura missionaria.
Si trovò catapultato a Mecanhelas, una sperduta missione nel sud del Niassa. «Mancano luce elettrica, posta, telefono, acqua – scriveva a un amico -. Stiamo scavando un pozzo con la speranza di trovae un poco. Sono contento e sto facendo programmi per aiutare questa povera gente. Ma la guerra non vuole cessare. Sembra che ai guerriglieri arrivino armi sufficienti per uccidere tutti se volessero».
Imperversava la guerra civile tra l’esercito regolare del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e i ribelli della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana). Attoo alla missione si erano ammassati migliaia di sfollati. Costante e metodico, padre Ariel stava loro vicino, con iniziative materiali e spirituali, per riaprire un futuro di speranza. Altrettanto faceva con le comunità che poteva visitare. Intanto continuava a ritmo serrato la formazione di animatori e catechisti. Aveva iniziato la costruzione di una decina di belle capanne per i lebbrosi.

Tanti segni di consolazione furono troncati il 15 febbraio 1991. Padre Ariel stava per tornare in Colombia, per le vacanze e per la morte della mamma. Era in viaggio verso Lichinga, con padre José Rocha Martins, una suora indigena, una ragazza e una donna con tre bambini, quando la vettura fu bersagliata da una furia di proiettili.
«Non sparate! Siamo missionari!» gridarono i padri. Troppo tardi! Ariel fu colpito in fronte e morì all’istante. José fu ferito a una gamba. Pur riconoscendo i missionari, gli assalitori cominciarono a rubare quanto trovarono nella vettura; cavarono perfino le scarpe ai padri e un maglione alla suora. Quando videro il sacco di pane, cominciarono a divorarlo avidamente. Alle proteste di padre José e della suora, restituirono qualche oggetto e liberarono la ragazza, che volevano portare nella foresta.

Padre Ariel è morto sulla strada, accanto a un confratello ferito e alcune delle tante persone fatte oggetto di violenza indiscriminata. Egli sapeva che, per camminare insieme alla sua gente, doveva mettere in conto la condivisione degli stessi rischi, compreso quello della morte senza un apparente perché. Il suo sacrificio è solo l’ultimo atto di una presenza di speranza e solidarietà, con la conseguenza drammatica ma logica che tale scelta evangelica comporta.

UNA MARCIA IN PIÙ
padre Luigi Andeni (1935-1998)

Sono le 22.30 del 14 settembre 1998, festa dell’«Esaltazione della croce». Terminato l’incontro di programmazione pastorale, le suore tornano a casa, 200 metri distante, e spengono il generatore di elettricità. Padre Luigi Andeni e il diacono africano Williams Othieno si fermano sotto la veranda per una boccata d’aria fresca.
Cinque minuti dopo, tre loschi figuri sbucano dalle tenebre, travestiti da militari. «A terra!» ordinano imperiosi, puntando i fucili e facendo cigolare i caricatori. Padre Andeni si alza e domanda: «Chi siete? Cosa volete?». I malviventi indietreggiano. Inizia una colluttazione. Uno sparo lo ferisce di striscio al braccio destro; il polso sinistro è colpito ripetutamente con la panga; un’altra pallottola dirompente lo colpisce alla schiena ed esplode sul davanti. Gli assassini fuggono.
Stringendosi il ventre con le mani e aiutato dal diacono, padre Luigi riesce a rialzarsi e raggiungere la casa delle suore. Gli aprono la porta; cade a terra in una pozza di sangue. Alla luce di una torcia, suor Matilde cerca di tamponare la ferita, mentre il padre recita l’Atto di dolore; la voce si indebolisce, fino a diventare un impercettibile bisbiglio.
Vista la gravità delle ferite, le suore caricano il ferito sulla loro auto e lo portano all’ospedale di Wamba. I 70 km di strada ghiaiosa e sconnessa diventano un autentico calvario. «Pole!» (adagio) invoca il padre a ogni sobbalzo, mentre non cessa di pregare. Dopo tre ore di via crucis, a 5 km da Wamba, padre Andeni affida la sua vita nelle mani di Dio e della Madonna: sono le prime ore della festa dell’Addolorata.

N ato nel 1935 a Barbariga (Brescia), è in Kenya dal 1970. Gioviale ed entusiasta, semplice e tenace, pieno d’iniziative e generoso, padre Andeni sembra avere una marcia in più. Dovunque passa (Moyale, Sololo, Archer’s Post, Sukuta Marmar, di nuovo Archer’s Post), lascia la sua impronta: forma catechisti responsabili; costruisce chiese e cappelle con fiorenti comunità cristiane e folti catecumenati; stimola la gente a contare sulle proprie forze, aiutandola a costruire asili, scuole elementari e secondarie, laboratori di arti e mestieri, dispensari medici, pozzi e un’infinità di altri progetti di sviluppo economico e sociale. Dappertutto si fa apprezzare per il cuore aperto a tutti: aiuta centinaia di studenti poveri a pagare le tasse scolastiche; procura cibo a migliaia di affamati, senza distinzione di etnia o religione; semina la pace nei momenti di tensione e lotte tribali.
Perché lo hanno ucciso? Le autorità civili cercano di ridurre la sua morte a una rapina finita male, anche se non gli è stato rubato neppure l’orologio. Ma la gente è convinta che si tratti di un delitto su commissione. Il mandante sarebbe un pezzo grosso del villaggio, politicamente molto influente: uno che, pochi giorni prima del crimine, aveva avuto un’accesa discussione col padre, che accusava il capoccione di aver intascato i milioni raccolti dalla gente per lo sviluppo della scuola locale.
Dietro il sorriso cameratesco, padre Andeni nasconde un carattere forte, trasparente, senza compromessi. Ama e aiuta tutti, senza distinzione; ma non sopporta pigri, lazzaroni e imbroglioni. Rispettoso e cornoperativo con l’autorità, non ha peli sulla lingua di fronte a ingiustizie e corruzione. I cristiani lo conoscono e lo capiscono; i leaders politici, suscettibili e gelosi, sentono i suoi rimproveri come una minaccia alla loro autorità. Da qui la decisione di cucirgli la bocca.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I profeti

Dire missionario è dire anche «profeta», cioè un uomo non solo aperto al nuovo, ma portatore di novità. Chi partiva (qualche decennio fa) per le missioni sapeva bene che avrebbe dovuto spalancare gli occhi, adattarsi e mettersi a imparare di fronte a una realtà completamente sconosciuta: quasi una rinascita, che lo avrebbe portato a parlare una lingua diversa, comprendere tradizioni e costumi differenti dai suoi, sforzarsi di cambiare atteggiamenti e modi di pensare. Una novità assoluta, anche se riusciva a ritagliarsi qualche angolo del suo vecchio mondo, lasciato alle spalle. La novità era soprattutto ciò che il missionario annunciava, cioè la «buona notizia» di Gesù Cristo: l’annuncio originale di un Dio fatto uomo, un messaggio compendiato nella sola legge di un amore senza limiti, uno stile di vita capace di superare tradizioni e leggi venerande.
È possibile essere «nuovi nella novità», annunciare il vangelo con una marcia in più, con uno sguardo capace di vedere «oltre», con intuizioni e gesti ancora inediti? Anche tra i missionari c’è chi ha preceduto gli altri e si è distinto come pioniere non tanto nella missione, ma nel modo di portarla avanti. Per questo ha rischiato di non essere compreso, di dover «frenare» i suoi slanci e attendere che idee troppo innovative diventassero… ortodosse!

COME IL TAFANO
padre Ferdinando Viglino (1902-1969)

«Ho conosciuto padre Ferdinando Viglino in una parrocchia molto povera dell’Argentina: un uomo di grande umiltà. Aveva un’imponente biblioteca e, in quell’epoca, scriveva perfino a Maritain. M’impressionò la sua povertà, il suo vestito sgualcito, l’ambiente disadorno. Era una persona che spaziava in un mondo così vasto e viveva in un posto così povero e lontano. Aveva un’intelligenza chiara e penetrante e mi stupiva il suo coraggio nell’affrontare le questioni nuove e inedite. Celebrava la messa in spagnolo, non in latino: fu il primo sacerdote nella mia vita, molto prima del Concilio, che vidi celebrare rivolto al popolo. Ho conosciuto molta gente, grandi oratori, trascinatori di masse, ma non erano come lui. Padre Viglino veniva dal futuro e fu uno straordinario profeta, un uomo di frontiera che apriva il cammino, che anticipava… Se fosse tornato in Argentina nel ’69 e nel ’74, o se ne sarebbe andato o l’avrebbero ucciso per la sua scelta dei poveri».
La citazione è un po’ lunga, ma è troppo bella per mortificarla, sia perché delinea bene il nostro personaggio, sia perché l’autore è Enrique Dussel, grande storico dell’America Latina.
Già, padre Ferdinando Viglino: un missionario fragile, quasi sempre malato, ma che lasciava il segno. Piemontese di origine, fu accolto nell’istituto dallo stesso fondatore e ricevette l’ordinazione dalle mani di mons. Filippo Perlo, pochi giorni prima della morte dell’Allamano. Ebbe vari incarichi nei seminari. Nel 1938 fu mandato in Etiopia, dove rimase 5 anni e conobbe i disagi della prigionia ad Harar.

Nel 1948 partì per l’Argentina dove divenne parroco a Mendoza, nel barrio San José. Non c’erano né chiesa, né casa, né soldi, ma solo tanta gente, molti dei quali immigrati dalla Bolivia e dal Cile. Il giorno della sua entrata ufficiale, presente il vescovo, padre Ferdinando si paragonò «a un tafano, posto su un nobile cavallo per pungerlo e tenerlo sveglio». E per 18 anni non permise che il suo gregge si addormentasse. Andava di casa in casa visitando i malati, ascoltando e consigliando, portando viveri e medicine. Soprattutto si dava da fare per venire incontro ai poveri, rianimandone la fede e moltiplicando iniziative per difendere i loro diritti: per questo sperimenterà perfino la prigione.
Non riuscì mai ad avere una chiesa nuova, anche perché diceva: «In certi posti è più importante costruire la sede di un sindacato che un tempio». Nel 1953 fondò la JOC (Gioventù Operaia Cattolica): primo e unico gruppo esistente in tutta la diocesi. Invece del tempio, padre Ferdinando costruì un salone-cappella, ricavato da due stanze attigue abbattendone il muro divisorio. Ne approfittò per allestire l’altare rivolto al popolo.
Precursore di molte idee conciliari, fu motivo di risveglio per tutta la diocesi mendozina: preti e seminaristi lo avevano scelto come direttore spirituale, laici impegnati ricercavano i suoi consigli. La novità del suo stile apostolico contagiava altri parroci, tanto da avviare una «pastorale d’insieme» con le parrocchie confinanti. Le sue innovazioni nel campo liturgico (letture bibliche in spagnolo, omelia dialogata, paramenti, altare rivolto al popolo e, soprattutto, quel suo modo inconfondibile di legare la parola di Dio alle realtà quotidiane) attiravano cittadini d’ogni estrazione sociale nella cappella di periferia.
Quando «l’ora del Concilio» arrivò anche a Mendoza, padre Ferdinando si trovò involontariamente in un’atmosfera di tensione e pressioni finché, nel 1963, rinunciò all’incarico di parroco e tre anni dopo ritoò in Italia. Testimone tutto d’un pezzo, se ne dovette andare come un «tafano» scomodo e da scrollarsi di dosso. Ma l’impronta da lui scolpita nei cuori dei parrocchiani (e in tutta la diocesi) rimase indelebile fino ai giorni nostri.
Trascorse gli ultimi suoi anni nel seminario teologico di Bravetta, a Roma, dove continuò con il suo stile umile e provocatorio. Morirà, travolto da una macchina, il 15 dicembre 1969.

Delineare in poche righe il volto di padre Ferdinando non è cosa semplice, anche se dai pochi cenni abbozzati la sua statura spirituale e apertura al nuovo appaiono senza incertezze. Le sue idee e gesti spesso inquietavano e sconcertavano. Ma era un missionario della Consolata e, dunque, stava dalla parte della missione e degli ultimi. Amando la chiesa, anche quando il suo cuore traboccava di critiche e indignazione. Un giorno a Mendoza, durante la visita pastorale, il vescovo rimproverò davanti all’assemblea il parroco, per l’uso della lingua spagnola durante la messa. Padre Ferdinando non aprì bocca e, a chi gli chiedeva perché non avesse obiettato al vescovo, rispose: «Bisogna volere molto bene alla chiesa, anche quando ci castiga».
Conosceva alla perfezione la storia delle missioni, con le sue luci e ombre; per questo non voleva che se ne ripetessero errori o lentezze. Ripeteva spesso la frase del card. Costantini: «Noi abbiamo voluto far passare l’Oriente per la porta dell’Occidente e l’Oriente non è passato!». Vincent Lebbe, l’apostolo della Cina, era una delle figure missionarie che più lo affascinava, perché aveva saputo separare, con forza e chiarezza, l’annuncio missionario dalla sua europeizzazione.
Essere dalla parte di padre Ferdinando significava non avere vita facile. Durante la dittatura militare in Argentina, alcuni suoi amici furono perseguitati proprio perché suoi amici. Un fascicolo dattiloscritto, da loro pubblicato e dal titolo significativo («P. Ferdinando Viglino profeta y apostol de nuestra epoca»), era diventato un testo «sovversivo» e chi ne era trovato in possesso doveva rispondee davanti alle autorità di polizia; ci fu anche chi lo sotterrò nel giardino, aspettando tempi migliori.
Strana sorte per un missionario gracile di salute e mite di cuore. Veniva dal futuro, perché l’indignazione e la speranza non potevano farlo arrendere al presente. E vengono in mente le parole di Beanos: «Ci sono alcuni che vedono le cose come sono e si domandano: perché? Altri vedono le cose come non sono e si chiedono: perché no?». Padre Ferdinando apparteneva a questo ultimo drappello.

IL DIFFICILISSIMO
padre Giovanni Bonzanino (1927-1983)

«Ero un ragazzotto sui 25 anni, mezzo biellese e mezzo foggiano, un misto di nord e sud, con quel tanto di taglio piemontese da rendermi ostinato calcolatore, nonché battagliero e cocciuto, e quel tanto di taglio pugliese che rivelava la mia personalità poetica e fantasiosa». Così si raccontava padre Giovanni Bonzanino, con il suo stile brillante e un po’ provocatorio, specchio di una personalità dalle mille sfaccettature e imprevedibili risvolti. Era un missionario tutto d’un pezzo, senza mezze misure e, soprattutto, innamorato della «sua» Africa di cui parlava continuamente nei suoi libri: un amore profondo, viscerale, incontrollato per questo continente dove rimase per quasi 30 anni, «amando la terra che Dio gli aveva additato e, avendola trovata bella, l’aveva sposata, celebrandone le nozze fino all’ultimo giorno».
Il Kenya fu la prima tappa di lavoro apostolico, dove passò dalle esperienze pastorali dirette (parroco a Meru e Nkabone) fino a ruoli di responsabilità, come incaricato dell’Azione cattolica diocesana e vicario episcopale della «parte desertica del Meru».

Nel 1975 gli fu chiesto di lasciare il Kenya per l’Etiopia e fu proprio in questo paese che padre Giovanni diede il meglio di sé, consumandosi nel lavoro e moltiplicando iniziative per sostenere le opere missionarie in favore di orfani, handicappati, ciechi, affamati: una vera «fiumana di carità» che, grazie a lui, permise di lenire sofferenze, guarire malati, sostenere i bisognosi. Fu anche nominato superiore dei missionari della Consolata nel paese e presidente della Conferenza dei religiosi. Il tutto in un contesto politico (il regime socialista-marxista di Menghistu) non certo favorevole alla chiesa e tantomeno alle missioni!
Logorato da tanta fatica ed esausto per le numerose opere che pesavano sulle sue spalle, si spense, dopo pochi giorni di malattia, a 56 anni lasciando tutti sconsolati: non solo amici e confratelli, ma soprattutto gli «ultimi» che da lui erano stati accolti e amati con affetto di padre nella Città dei ragazzi a Mandera (Kenya), nel centro per handicappati di Gighessa e l’ospedale di Gambo (Etiopia).
Seppe anche leggere con attenzione la realtà, capire ciò che stava succedendo, comunicarlo attraverso i suoi scritti, proporre piste e cammini nuovi.
In occasione del suo 25° di sacerdozio scriveva: «Delle cose ne abbiamo viste e vissute in questi anni. In Africa abbiamo assistito e partecipato al morire del colonialismo e alla nascita di nuove nazioni. Abbiamo sperimentato diversi tipi di rivoluzione. Abbiamo pure visto crescere la violenza nel mondo, diventare andazzo comune la droga, entrare di moda il sequestro di persona. Nei paesi dove sono in corso rivoluzioni marxiste, abbiamo visto esplodere efferate repressioni e massacri di innocenti. Eppure, non mi dispiace di essere nato e vissuto nel mio tempo, di essere diventato prete e missionario».
Davanti a queste situazioni non restò certamente con le mani in mano, aspettando tempi migliori o soluzioni collaudate. Sapeva essere critico non solo verso gli altri («le crociate furono l’impostura più grande della storia, perché una guerra santa che usa Dio per giustificare la violenza e l’assassinio è inconcepibile»), ma partendo da se stesso, impietosamente: «Io ero un giovane missionario, sbalestrato in una zona lontana, con una fede entusiasta, uno zelo apocalittico e il tormento anti-protestantico… Oggi ritengo questa rivalità non solo anti-ecumenica, ma anti-cristiana».

Portava nel sangue l’urgenza della corsa, il gusto per le cose originali, l’attesa del domani, il tocco creativo dello scrittore e la determinazione di chi non si rassegna facilmente alle difficoltà. Lo stile frizzante non lasciava indifferenti i lettori dei suoi libri, dove, pur con certo umorismo scanzonato, sapeva mettere il dito sulla piaga. La capacità di affrontare il futuro con grinta e novità si rivela soprattutto nel suo libro «Missionari nella rivoluzione», un vero manuale apostolico per situazioni di emergenza e persecuzione. Scriveva, ad esempio: «Il missionario deve convincersi che le possibilità apostoliche del passato forse non toeranno mai più. Di solito è attaccato a certe forme di proclamazione, mentre deve attaccarsi non alle forme, ma all’annuncio. In questo senso il “tempo difficilissimo” può persino diventare un tempo propizio, un tempo di salvezza. La possibilità di farcela verrà ritardata o anche eliminata per il missionario se egli rimarrà un sottosviluppato nel campo della pastorale della rivoluzione».
Lui seppe vivere nel tempo difficilissimo della missione con la speranza di chi sa attendere l’aurora, oltre il buio della notte, e affrontare le nuove sfide con coraggio e senza rimpianti.

NON SPEGNERE
padre Francesco Babbini (1932-1984)

Quando fu richiamato in Italia per l’animazione missionaria, gli sembrò di morire. Confesserà più tardi che partire dal suo paese natale gli era costato molto, eppure mai avrebbe immaginato che lasciare la missione sarebbe stato così duro. La gente, la terra, il deserto, perfino le capre gli erano entrate dentro e, quando i suoi indios della Guajira (Venezuela) lo tempestavano di lettere scriveva loro: «Non lasciate spegnere il fuoco: cerco altri missionari, cerco legna e toerò. Aspettatemi!». Ma laggiù padre Francesco non ritoerà più. Stroncato improvvisamente, a poco più di 50 anni. Bruciati da un fuoco che gli ardeva dentro e lo spingeva oltre.
Padre Francesco Babbini era romagnolo di origine e torinese di adozione. A soli 13 anni (scatenati) si ritrovò in seminario per diventare missionario e vi rimase non senza difficoltà. Più di una volta fu sul punto di mollare tutto e tornarsene a casa, ma inspiegabilmente non riuscirà mai a prendere quella decisione; quasi una forza misteriosa che non gli permetterà di mollare i missionari. Lo capirà più tardi quando, alla vigilia dell’ordinazione, sua madre gli rivelerà il segreto.
A sei mesi era ridotto in fin di vita, dato ormai per spacciato a causa di una malattia inspiegabile. La madre (con una fede che solo le mamme possono avere) lo aveva portato in un vicino santuario e, con la forza della disperazione, aveva messo il fagottino sull’altare, gridando verso la statua della Madonna: «Se vive, è tuo; se muore, è tuo!». Poi, con il suo fardello, era ritornata a casa sul calesse e, quando sollevò la copertina, il piccolo, dentro, sorrise beato. Guarito. Da allora la Madonna non lo lascerà più e, senza sapere il perché, Francesco scoprì che la sua vita veniva dipanata da un’invisibile mano matea.
Sapendo di essere «un miracolo di Maria», non tenne neanche più un minuto per sé, ma tutto donò a lei che lo aveva chiamato sulla strada della missione. Non riuscirà ad essere un prete mediocre o di mezze misure: tutto al massimo, intensamente e con una carica che sapeva trasmettere a chiunque lo avvicinasse. Non fu mai un uomo ripetitivo e scontato, ma sempre alla ricerca del nuovo, del meglio, con fantasia e anticonformismo.

Era diventato padre spirituale nel seminario di Bevera (CO) e i suoi confratelli facevano fatica a stargli dietro: programmi, celebrazioni, iniziative… una dietro l’altra per non lasciare assopire l’impegno e lanciare i giovani sulle strade della radicalità evangelica che lui, senza mezzi termini, chiamava santità. Un padre spirituale… astronautico! Erano, infatti, i tempi delle prime imprese spaziali e lui proponeva la missione con il fascino dell’avventura, il gusto di una vita dalle dimensioni più ampie degli spazi siderali e per gente coraggiosa, vivace, senza misura. Missionari nuovi, plasmati dal Concilio che stava sconquassando la chiesa, ripulendola da incrostazioni secolari.
Dopo una parentesi di cinque anni in Spagna, finalmente, la missione. Quella vera, sognata: il Venezuela, gli indios guajiros. Terra di petrolio, ma in cui si moriva di sete, tra un popolo povero, monolitico, con tradizioni profonde e complesse, quasi impenetrabili. Lui ci mise il fuoco: un vulcano di iniziative sempre nuove, sempre diverse. Volle entrare in profondità, appassionarsi alla gente, scuotere i missionari troppo tranquilli o ancorati a stili del passato (era stato nominato superiore del gruppo), impedire di scoraggiarsi davanti agli insuccessi. Si tenta e ritenta, perché la missione è la tua patria, la tua casa, la tua gente, il tuo sogno.
Venne richiamato bruscamente in Italia, per portare anche qui entusiasmo e novità nell’animazione missionaria. Nonostante fosse un «maestro della missione», si rimise a imparare e ascoltare per capire, sfondare e rivoluzionare un po’ tutto. Ma in fretta, subito, perché per lui la missione era «la professione» più esaltante, più appetibile. E gli sembrava incredibile che i giovani incontrati non rimanessero affascinati da quello che diceva essere «il mestiere più bello del mondo», l’unico che offrisse la possibilità di dare sfogo alle qualità migliori dell’uomo. Diceva: «Ringrazio commosso e ringrazierò sempre Dio e la Madonna di avermi voluto missionario. Ho centuplicato la mia vita, ho cento patrie, migliaia di bambini mi chiamano padre e lo sono per aver dato scuole, ospedali, e tutto quello che solo noi missionari sappiamo. Mi sono arricchito di moltissimi valori umani e divini, a contatto con altre culture. Questo mi ha messo dentro una passione infinita, la vocazione missionaria, gli uomini, il mondo; soprattutto per i più poveri, i più lontani».
Si accorgeva, invece, che i giovani avevano paura: di scegliere, di osare il nuovo, uscire dagli schemi… Una sofferenza che gli bruciava dentro e lo faceva ripiombare nella tentazione di mollare l’animazione in Italia e tornarsene in missione.
Ma tutto improvvisamente si arresta. Il 19 marzo 1984, festa di s. Giuseppe, tenta di alzarsi dal letto, cade a terra. E così, silenziosamente parte per il cielo. Mentre sognava di poter ripartire, magari per un altro campo… per l’Asia. Inguaribile! Mai soddisfatto di ciò che già aveva realizzato, proteso sempre in avanti. Verso l’inedito, il nuovo.
Un uomo sempre in marcia verso il futuro.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Gli infaticabili

Per i fratelli coadiutori l’Allamano nutriva speciale predilezione; riteneva il loro contributo all’«elevazione dell’ambiente» indispensabile nell’evangelizzazione. Anche per gli aspiranti al sacerdozio il lavoro manuale è sempre stato materia di formazione. Il motto benedettino: «Ora et labora» (prega e lavora) è stato e continua a essere una caratteristica dei missionari della Consolata, padri e fratelli.

CAPOSTIPITE
fratel Benedetto Falda (1882-1969)

«Non piangere! Se vuoi bene a tuo fratello, pensa a raggiungerlo in Africa e lavorare insieme con lui per la salvezza di quei popoli» disse l’Allamano a Benedetto Falda, mentre questi salutava il fratello Luigi in partenza per il Kenya.
«Ero lontano mille miglia da una simile idea – racconterà fratel Benedetto -. Meccanico di precisione, a rimorchio dei compagni di lavoro, in gran parte socialisti e sovversivi, nutrivo avversione per tutto ciò che sapeva di chiesa. Ero affezionato a mio fratello, ma la sua scelta mi sembrava nient’altro che una teatralità.
Dopo alcuni mesi, mi recai alla “Consolatina”, come veniva chiamata la prima sede dell’Istituto, per avere notizie di mio fratello. L’Allamano mi ricevette come un vecchio amico. Mi mostrò lettere e fotografie appena arrivate dal Kenya… Mi disse che c’era bisogno urgente di tecnici per impiantare una modea segheria. Si pensava di impiegare operai disposti a prestare la loro opera al servizio della missione dietro un equo compenso. Discutemmo del progetto per due ore. A un certo punto sbottai: “Senta, reverendo, io sono un meccanico. Se crede, sono pronto a partire. Potrei essere il tecnico che lei cerca. Però intenderei fare parte dell’Istituto e non andare in Africa come salariato”. Le parole mi bruciavano le labbra. Si erano dileguati nubi e preconcetti. Sembrava che un altro parlasse in me. Seguirono altri colloqui. Il 6 dicembre 1902 entravo alla Consolatina».
Aveva 20 anni: era nato a Torino il 6 giugno 1882.

Sei mesi dopo fratel Falda era in Kenya. Raggiunse Tuthu, per impiantare la segheria nella fitta e umida foresta dell’Aberdare. Era una situazione da pioniere: viaggi estenuanti a piedi, lavori senza fine, mezzi e materiali limitati, oltre all’assillo della lingua per capire e farsi capire dagli indigeni e vincere la loro diffidenza.
Dalla segheria uscirono un’infinità di materiale per costruire case per padri e suore, chiese e altre strutture dei centri di missione. Finché anche in Africa inglesi e tedeschi cominciarono a combattersi per il dominio coloniale. Fratel Benedetto seguì padri e suore negli ospedaletti militari per curare i «carriers» (portatori africani), arruolati in massa dagli inglesi e sottoposti a immani fatiche e spostamenti.
Finita la guerra, fratel Benedetto ricominciò a costruire un’altra segheria a Nyeri. Quella di Tuthu, requisita dal governo e venduta agli indiani, era un ammasso di capannoni. Per l’energia furono usati i pezzi ricavati e adattati di tre locomotive messe fuori uso dalla guerra. Il lavoro riprese a tutto vapore.
Nel 1921 fratel Benedetto si seppellì nuovamente nella foresta di Oringo, a nord-est del monte Kenya: impiantò una seconda segheria e cominciò a fornire legname per costruire case, scuole, cappelle, mobilio e le suppellettili necessarie al lavoro missionario nel Meru.
Terminata l’opera (1927) il fratello fu chiamato a dirigere il reparto di falegnameria annesso alla scuola centrale della missione di Nyeri. Efficienza e qualità dei lavori, molto ricercati dai coloni inglesi, attirarono l’attenzione dell’ispettore del Dipartimento dell’educazione, che divenne grande ammiratore e amico di Benedetto e gli ottenne un salario da istruttore.
La fama della scuola attirò anche giovani protestanti. Molti di essi vollero presto seguire anche le lezioni di catechismo che fratel Benedetto teneva ogni sera. Più tardi furono ricevuti nella chiesa e, tornati ai luoghi di origine, diventarono a loro volta missionari tra i propri paesani. Attraverso di loro fu possibile aprire missioni e scuole in zone rimaste per anni impenetrabili, come quelle di Tumutumu, Ngandu e Karatina.

I n mezzo alle più svariate e pressanti occupazioni, fratel Benedetto non dimenticò mai di essere missionario. Oltre a insegnare un mestiere con cui vivere dignitosamente, cercava di trasmettere a operai e studenti l’entusiasmo della sua fede, mediante il catechismo serale e, soprattutto, con la testimonianza della vita.
Nel 1940 ritoò in patria e gli fu affidata la formazione degli aspiranti fratelli. A lui e ai suoi allievi si deve, tra l’altro, l’allestimento di parte degli infissi usati nella ricostruzione della casa madre, distrutta dai bombardamenti del 1942, e della mobilia per arredare le stanze.
Col passare degli anni, il cuore dell’anziano fratello cominciò a dare segni di cedimento. Chiamato nella casa madre (1954), trovò lavoro nell’ufficio stampa, aggioando lo schedario degli abbonati a Missioni Consolata, felice di essere ancora utile. Sempre attivo e vegeto, continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1969.
Ma la sua figura è ancora viva. Pioniere eroico e leggendario, Benedetto Falda è il capostipite di una lunga schiera di missionari fratelli che hanno contribuito a forgiare generazioni di uomini e cristiani, con naturalezza e dedizione, con l’operosità del cuore e delle mani.

IL ROSARIO
DEL GAUCHO
padre Domenico Viola (1906-1990)

Era nato nel 1906 a Buchardo, una sperduta fattoria nella pampa argentina, dove il prete arrivava due volte all’anno. Quando la famiglia Viola toò in Italia (1921), Domenico fu mandato a studiare nel seminario di Giaveno: a 15 anni, aveva fatto la prima (e unica) comunione e andato a messa tre volte. Buono e spassoso, un palmo più alto dei compagni, insegnava loro i segreti del gaucho: sapeva prendere al laccio il piede di un ragazzo in corsa a 15 metri di distanza.
Cominciò a divorare il vangelo e riviste missionarie. Nel 1925 entrò fra i missionari della Consolata; nel ’32 era prete e missionario in Etiopia.
La guerra italo-abissina, costrinse padre Domenico a rifugiarsi in Somalia. Toò in Etiopia con le truppe di occupazione (1936) e si stabilì a Guder. In quattro anni trasformò la missione: costruì la chiesa e organizzò la Scuola agraria. Visitava i villaggi con zelo instancabile. Gli sembrava quasi di essere nella pampa, con la differenza che il territorio era più accidentato, i viaggi interminabili e il mulo più scomodo del cavallo. Poi la guerra mondiale fermò mani e piedi del missionario, costretto a rimpatriare (1943).

In Italia padre Domenico fu incaricato di dirigere due fattorie dell’Istituto; passò alla formazione dei fratelli; nel 1946 fu nominato amministratore regionale.
Le case dell’Istituto avevano bisogno di tutto, sia per lo sviluppo che per mantenere i seminaristi che le affollavano. Padre Viola si trasformò in agricoltore e camionista, pur di provvedere il necessario a tante bocche da sfamare. In tuta da facchino, caricava e scaricava dagli automezzi viveri e materiali vari; nei viaggi le dita sgranavano rosari.

Destinato all’Argentina (1959), paese di cui aveva conservato la nazionalità, padre Domenico raggiunse Pirané, sperduta parrocchia nell’immensa regione del Chaco. Aveva 53 anni. Dal volante del camion passò al manubrio della bicicletta, con cui raggiungeva le comunità più sperdute. Spesso veniva sorpreso dalla pioggia; ed erano guai: il fango bloccava le ruote della bici, che bisognava trascinare come una slitta.
Padre Viola sfoderò subito le sue doti di muratore, geometra e architetto, insieme al gusto per le cose belle, fatte bene e a buon mercato. E le inculcò nella gente del paese e delle comunità rurali, con le parole e con l’esempio. Era convinto che il progresso materiale è il piedistallo di quello spirituale. Ancora oggi Pirané è costellata di edifici pubblici e case private che si assomigliano come gocce d’acqua per lo stile dei muri, travature e lesene bianche e verdi, simili a quello della chiesa parrocchiale e di varie cappelle rurali.
Le mani callose alternavano cazzuola e rosario. Ma anche sul lavoro cuore e mente continuavano a sgranare «ave marie». Negli ultimi anni di vita dovette mettere da parte la cazzuola: diventò una preghiera vivente. Un giorno, in una delle rare confidenze, disse di aver recitato oltre cento rosari: alcuni interi, altri mentalmente. Aveva trasformato tale devozione mariana in contemplazione.
Era da tutti venerato come un santo, sia per l’esempio di preghiera e laboriosità, che per il suo cuore umile e generoso. Morì a Buenos Aires, il 16 febbraio 1990. Stava per essere interrato nel cimitero della capitale, quando la gente di Pirané lo reclamò con forza. Durante il funerale, il vescovo di Formosa disse senza esitazione: «Padre Domenico è un santo; un grande santo. Deve essere sepolto nella sua chiesa. Sono sicuro che la gente non lo lascerà in pace: dovrà ancora intercedere per noi».

IL SOGNO
CONTINUA
fratel Ugo Versino (1918, vivente)

A 82 anni (è nato nel 1918 a Coazze, Torino) fratel Ugo Versino sogna ancora l’Africa come da bambino. Suo padre aveva conosciuto il cardinal Massaia in Etiopia e parlava spesso delle meraviglie compiute dal grande missionario. Ugo ne era rimasto affascinato. Conseguito il diploma nell’istituto tecnico salesiano (1936), a 18 anni, entrò tra i missionari della Consolata.
Tre anni dopo emise la professione religiosa: sarebbe voluto partire subito per l’Africa; solo alla fine della guerra poté imbarcarsi e raggiungere il Mozambico.

Spese cinque anni in varie missioni del Niassa, finché nel 1951 fu chiamato a Massangulo. Insieme ai fratelli Bartolomeo Peretti, Lorenzo Baroffio, Giuseppe Benedetto, Ugo organizzò un vero istituto tecnico professionale, da cui uscirono centinaia di falegnami, ebanisti, muratori, carpentieri, meccanici, calzolai, conciatori, sarti, agricoltori… e soprattutto bravi cristiani. Ne ricorda ancora i nomi; può raccontae vita e miracoli, soprattutto le persecuzioni che subirono per restare fedeli ai valori cristiani imparati dalla sua scuola e dal suo esempio.
Massangulo brulicava di quasi mille alunni; metà dei quali collegiali, quando venne la rivoluzione marxista, che nazionalizzò tutte le opere e proprietà della missione e proibì ogni manifestazione religiosa. Dapprima tollerati, i padri furono definitivamente allontanati. Fratel Ugo riuscì a restare più a lungo. «Ero venuto in Africa per stare con gli africani – racconta -; decisi di andarmene solo se mi avessero cacciato».

Fu sottoposto a inaudite umiliazioni. Per aver venduto le sue galline, prima che fossero anch’esse «nazionalizzate», fu accusato di boicottare la rivoluzione e il progresso del popolo: in pubblico processo fu condannato a sei mesi di reclusione in un campo di rieducazione socialista. Un amico lo salvò dal lavaggio del cervello.
Gli fu tolta ogni responsabilità diretta nella scuola, lasciandogli solo l’insegnamento del disegno. Faceva vita comune con i ragazzi: sveglia alle quattro del mattino; lavoro comunitario nell’orto o nella manutenzione della scuola; pulire i cessi dei ragazzi. «Fino ad oggi – dicevano i caporioni agli alunni – voi avete servito i colonialisti; è ora che anche costui impari cosa significhi servire».
La sera doveva sorbirsi, insieme ai ragazzi e insegnanti, interminabili lezioni di socialismo: ne sentiva di tutti i colori, specialmente contro i missionari. A volte, quando stavano per spararle più grosse, lo esoneravano dal resto della lezione: «Ora il colonialista può andare».
Più delle umiliazioni personali, era la distruzione sistematica della coscienza degli alunni che faceva soffrire fratel Ugo. Molti ragazzi erano confusi e gli domandavano perché ce l’avessero tanto contro la chiesa e i missionari. Rispondere apertamente era rischioso. Ma fu trovata la soluzione: mentre un ragazzo era a colloquio col fratello, altri stavano di guardia e, appena si avvicinava uno spione, dava l’allarme. Per cinque anni fratel Ugo resistette in quell’inferno, continuando a illuminare la mente dei giovani sulle falsità del marxismo e aiutarli a restare fermi nella loro fede.
Ma un giorno ricevette l’ordine di andarsene da Massangulo, con questa motivazione: «Indesiderato religioso». Era l’anno 1979. Come religioso, silenzioso, laborioso e discreto, fratel Ugo era una rovina per la propaganda rivoluzionaria.

Dopo un breve periodo di riposo in Italia, toò nuovamente fra i suoi mozambicani. Raggiunse Lichinga e riprese il solito lavoro di formazione tecnica e cristiana dei giovani. In alcuni locali messi a disposizione dalla Caritas diocesana, con macchinari racimolati facendo appello ad amici italiani, fratel Ugo riaprì una piccola scuola professionale per una trentina di giovani.
Scoppiata finalmente la pace (1992), il ministro dell’istruzione del Niassa gli propose di riaprire la scuola professionale di Massangulo. Declinò l’invito per motivi di salute. Era vero: il cuore non avrebbe retto al vedere lo scempio operato dai rivoluzionari.
Di salute, infatti, ne aveva da vendere ai più giovani di lui. Ogni giorno percorreva più volte i tre chilometri di strada che separano la missione dalla scuola, e sempre in bicicletta. Una volta una guardia municipale voleva multarlo per «eccesso di velocità».
A 82 anni suonati, fratel Ugo si è arreso alle conseguenze del tempo che scorre inesorabile per tutti. Dalla casa di riposo di Alpignano (TO) continua a sognare l’Africa, come da bambino.

MANI PER LA VITA
padre Oscar Goapper (1951-1999)

«Le nostre lacrime dicono ciò che sentiamo, perché noi non abbiamo parole per dirti grazie» diceva la gente di Neisu (Repubblica democratica del Congo) il giorno del funerale di padre Oscar Goapper. Aveva 48 anni. Era nato nel 1951 a Venado Tuerto (Argentina).
Entrato tra i missionari della Consolata, venne in Italia per il noviziato e i corsi di teologia. Ordinato sacerdote nel 1976, toò in patria per dirigere il seminario di Buenos Aires. Al tempo stesso frequentò un corso da infermiere, in attesa di partire per le missioni.
Nel 1982 raggiunse lo Zaire (oggi R. d. Congo) e si buttò senza esitazioni nel lavoro apostolico e pastorale tra i mangbetu della nascente missione di Neisu.

Il primo natale, una bambina gli morì tra le braccia per mancanza di assistenza medica: per la prima volta gli venne l’idea di diventare medico. Cominciò a frequentare un medico-chirurgo di Isiro, da cui apprese i rudimenti della medicina e i segreti delle malattie tropicali. Il piccolo dispensario della missione, sotto la sua guida, iniziò a funzionare e ad ampliarsi.
Nel 1985 chiese ufficialmente di studiare medicina. Superate le iniziali titubanze dei superiori, padre Oscar si iscrisse all’Università di Milano dove, ogni tanto, arrivava per dare alcuni esami. A Neisu, intanto, costruiva un piccolo ospedale e, con pochi mezzi e tanto coraggio, curava la gente come e più di un esperto professionista.
Seguirono anni stracolmi di lavoro, pieni di difficoltà, ma anche di tante soddisfazioni. «L’ospedale è sempre pieno – scriveva nel 1991 -. Crescono gli ammalati di Aids: i protestanti dicono che sono mie invenzioni; anche la gente dice che sono bugie e noi gridiamo nel deserto! La notte di natale, dopo la messa di mezzanotte, ho fatto un cesareo a una poverina, portata a spalle dal fratello catechista per più di 40 km. È tornata a casa sana e salva. Gesti che la gente non dimentica: è la propaganda giusta che il vangelo fa di se stesso».

D al 1992 al ‘94, padre Oscar si fermò a Milano per terminare gli studi: conseguì il dottorato (110 e lode) in medicina e chirurgia. Tornato a Neisu, cominciò il dramma della guerra civile: nel natale del 1997, missione e ospedale furono saccheggiati; pochi mesi dopo, arrivarono i soldati sbandati dell’esercito zairese: padri, suore e volontari dovettero rifugiarsi nella foresta.
Invitato a Roma in un convegno sulle malattie infettive in Africa, descrisse le sue «Esperienze nella selezione e uso di piante medicinali» e poté divulgare i progressi fatti nella cura della malaria mediante l’Artemisia annua; annunciò la scoperta di un’erba che migliora notevolmente la qualità di vita dei malati terminali di Aids. «L’abbiamo chiamata Spes Neisu (speranza di Neisu). Recenti pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato che è la stessa pianta utilizzata dagli scimpanzé per curarsi da schistosomiasi, paludismo, ferite infette».
In quell’occasione parlò a lungo dei suoi progetti: ampliamento dell’ospedale, produzione di siero per fleboclisi, sviluppo dell’omeopatia, miglioramento delle condizioni sanitarie nei villaggi, programmi di vaccinazione e nutrizione per bambini poveri, formazione di personale medico e tecnico, costruzione di una strada nella foresta, pista di atterraggio…
Mille progetti, alcuni già realizzati e altri appena iniziati, animavano il cuore del giovane missionario, sempre teso a «dare la vita per la sua gente». E fu preso in parola: all’inizio sembrava una semplice influenza e continua a fare interventi chirurgici, fino a 24 ore dalla morte. Donò l’ultimo respiro il 18 maggio 1999.
Mupe Oskari, così lo chiama la gente, è sepolto davanti alla sua casa, l’ospedale, secondo il costume mangbetu, che lo considerano uno di loro.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Illustrissimi

Li potremmo chiamare «i missionari con la penna», pur essendo abilissimi anche con strumenti meno nobili. Hanno messo a servizio della missione le loro doti intellettuali, spesso eccellenti e brillanti. Mossi da affetto e simpatia per la gente, si dedicarono allo studio della lingua, tradizioni, costumi, arte, modi di vivere, folclore. Pur non avendo sempre la patente di specialisti, sono diventati linguisti, etnografi, cartografi, scrittori, romanzieri, esperti di scienze naturali. Oltre a portare alla ribalta, spesso per la prima volta, popolazioni e ambienti sconosciuti, sono stati educatori di generazioni di altri missionari.

CAPIRE L’ANIMA
padre Costanzo Cagnolo (1887-1961)

Scoccava la mezzanotte del 6 luglio 1961 quando, a Nyeri, padre Costanzo Cagnolo chiudeva la sua giornata terrena, durata 74 anni, 48 dei quali sul campo missionario. Nato a Draguignan (Francia) nel 1887, a un anno rimase orfano di madre e fu educato a Spinetta (Cuneo) da una zia matea. Entrato nell’Istituto nel 1906 e ordinato prete nel 1912, partì per il Kenya nel 1913.
Missionario geniale e polivalente, padre Cagnolo fu carrettiere e carovaniere, muratore e cappellano militare, direttore di seminario e vicario generale della diocesi; parroco e fondatore dell’Azione cattolica, direttore di tipografia e scrittore di articoli e libri; etnologo e musico. Costruì scuole-cappelle in paglia e fango e la prima chiesa in muratura della diocesi di Nyeri. Fu chiamato a svolgere incarichi di fiducia in India, Somalia e Sud Africa. Ma il cuore rimase sempre tra i kikuyu, dei quali conosceva la lingua kikuyu come le sue tasche: ciò gli permise di penetrare nell’anima di quel popolo.
È soprattutto nel campo culturale che padre Cagnolo profuse intelligenza e zelo missionario. Fu incaricato di ordinare il materiale raccolto da vari missionari che, fuso con i frutti della sua esperienza, venne pubblicato in inglese, nel 1933, col titolo: The Akikuyu. Questo studio etnografico, il primo del genere su costumi e tradizioni, folclore e religione dei kikuyu, riscosse grande interesse e fu altamente apprezzato in ambienti scientifici. Un estratto della monografia fu pubblicato in italiano nel 1954 col titolo: Kikuyu e mau mau.
Oltre ai numerosi articoli di carattere etnografico e missiologico, pubblicati in Missioni Consolata e altre riviste, padre Cagnolo compose un’infinità di articoli e libri di argomento religioso in kikuyu, come Athure a Eklesia: profili di santi per tutti i giorni dell’anno.
Spese gli ultimi anni della vita nel settore stampa della diocesi di Nyeri; diresse la tipografia e la pubblicazione del Wathiomo Mokinyu (amico vero), mensile che giocò un ruolo fondamentale nella formazione religiosa, civile e culturale del popolo kikuyu.
Anche il suo estro musicale si rivelò prezioso per l’evangelizzazione: studiò motivi ed elementi dei canti kikuyu e su di essi compose inni sacri e canzoni che incontrarono larga popolarità.

«Sovente muore l’uomo, ma non la sua idea» aveva scritto nel 1938 nella prefazione al direttorio dell’Azione cattolica. Mettere tutta l’intelligenza a servizio della missione, per incarnare il vangelo nella cultura locale, fu l’ideale perseguito da padre Cagnolo e lo vide realizzato: in punto di morte ricevette la prima benedizione del primo vescovo kikuyu, mons. Cesare Gatimo. Per tale evento, nel lontano 1915, aveva raccolto i primi seminaristi a Tuthu e poi, per tanti anni, era stato formatore nel seminario di Nyeri.

COME UN OROLOGIO
padre Giovanni Chiomio (1889-1979)

«Se si perdesse il libro delle regole – diceva l’Allamano – ognuno di voi ne sia una copia vivente». Padre Giovanni Chiomio lo prese alla lettera, fino a sconfinare abbondantemente nella pedanteria. Non perdeva occasione per abbordare i confratelli, specie i seminaristi, per ripetere le parole del fondatore, con precisi dettagli su giorno, ora e luogo in cui erano state pronunciate. E continuava per ore, finché qualche smaliziato accennava al suono del campanello. Sordo come un battaglio di campana, padre Chiomio si chiudeva la bocca con la mano e diceva: «È la voce di Dio!».
Alto e solenne come un monumento, barba bianca e bastone in mano, incuteva riverenza. Passo sicuro e misurato, un metro esatto, con 33 falcate raggiungeva il suo posto in refettorio e rimetteva a posto la sedia che i chierici burloni avevano spostato di qualche centimetro.
Il beato fondatore gli aveva detto che sarebbe morto a 90 anni. L’orologio della sua vita si fermò con appena due mesi di ritardo: era nato a Garzigliana (Torino) il 19 ottobre 1889; morì il 13 dicembre del 1979.

Poliedrico, metodico, esatto come un orologio svizzero, padre Chiomio è una figura eccezionale e irripetibile: «Dio lo ha fatto e poi ha gettato via lo stampo». Fu esploratore e cartografo, etnografo e linguista.
Arrivato in Kenya nel 1919, fu incaricato dell’amministrazione del vicariato di Nyeri e ispettore delle scuole. Nel frattempo tracciò una stupenda serie di mappe dei territori e attività dell’Istituto: presentate alla Esposizione missionaria vaticana dell’anno santo 1925, egli meritò la «medaglia di benemerenza» da parte della S. Sede.
Nel 1925-26 fu incaricato di esplorare le regioni del Mozambico comprese tra i fiumi Rovuma e Zambesi. Fibra robusta, inquisitore pignolo, pedometro a una gamba, notes e matita in mano, teodolite e strumenti vari nella borsa, percorse a piedi migliaia di chilometri, misurando distanze e rilievi, percorsi di fiumi e torrenti, registrando nomi di popolazioni e località, flora e fauna e quant’altro attirava il suo sguardo indagatore. Tutto si trasformava in schizzi e pagine di diario preciso e minuzioso fino all’inverosimile.
Fece altrettanto nel 1927-28, insieme a padre Giovanni Ciravegna, nell’esplorazione delle regioni dell’Etiopia meridionale, Kaffa, Alto Giuba e Uebi Shebeli.

Alla fine del 1928 padre Chiomio si stabilì a Torino e cominciò a sistemare materiale e dati raccolti in quegli anni. Sotto la sua direzione, la scuola cartografica dell’Istituto produsse un impressionante numero di carte geografiche, elogiate da vari enti e andate a ruba nei ministeri italiani, specie in quello militare.
Fioccarono i riconoscimenti. Nel 1938 il re d’Italia lo nominò commendatore dell’Ordine coloniale d’Italia «per benemerenza geografico-etnica, in seguito all’esplorazione del Sud Etiopia». L’anno seguente ricevette la medaglia d’argento dalla Società geografica italiana.
Altrettanto impressionante è il numero di studi sulle lingue dei popoli incontrati nelle sue esplorazioni: kaffina, wollana, galla, amarica, magi, hadiya (Etiopia), somala (Somalia), kemeru (Kenya), kibena (Tanzania), ronga, elomwe, chopi, citswa (Mozambico). Ogni studio, spesso consistente di centinaia di pagine, comprende introduzione etnografica, grammatica e dizionario.
Tanto lavoro aveva uno scopo preciso: scegliere i luoghi più adatti per la fondazione di stazioni missionarie e aiutare i confratelli a inserirsi con maggiore facilità ed efficacia nelle popolazioni a cui erano destinati.
Ciò non toglie che le sue opere trascendano il semplice scopo missionario. «Relazioni e disegni di padre Chiomio – affermò il governatore della Somalia, dr. Guido Coi – sono un lavoro veramente interessante e ancor più sta a dimostrare le grandi benemerenze che l’Istituto ha saputo acquistarsi non solo nella propaganda missionaria, ma oltresì nel campo della scienza».

Se Chiomio fu una copia ambulante della regola dell’Istituto, Vittorio Merlo Pich fu una icona vivente del padre fondatore. Ne ereditò lo spirito e calda umanità; lo amò profondamente e si sentì da lui amato fin dal giorno in cui la madre lo presentò all’Allamano: aveva appena 10 anni. Era nato a Nole Canavese (Torino) nel 1899. Fu un amore che si trasformò in venerazione e durò tutta la vita.
Ordinato sacerdote nel 1921, padre Vittorio raggiunse il Kenya nel 1923. Studiò per un anno lingua, usi e costumi kikuyu e fu subito lanciato nel lavoro missionario: a 24 anni, era superiore (da solo) di Kianyaga, la più isolata missione del vicariato di Nyeri. Continuò a farsi le ossa alla direzione di una fattoria agricola; poi come aiutante e superiore della missione di Limuru, finché furono scoperte le sue doti di intelligenza e preparazione culturale.
Nel 1931 fu nominato preside della scuola elementare e media di Nyeri. Venne quindi nominato «segretario per l’istruzione», con la responsabilità di rappresentare la diocesi di fronte al governo. Due anni dopo fu eletto membro del «Comitato per fissare l’ortografia della lingua kikuyu». Il suo valido contributo gli attirò la stima e simpatia delle autorità locali. Al tempo stesso si sentì stimolato ad approfondire lo studio delle lingue bantu. Nel 1938 pubblicò Elementi di grammatica kikuyu.
Per quasi 20 anni, salvo quelli passati in campo di concentramento, padre Vittorio fu responsabile dell’organizzazione scolastica della diocesi di Nyeri. Un lavoro intenso e delicato: si trattava di imprimere un contenuto religioso alla formazione laica proposta dal governo coloniale. Non mancarono le reazioni acerbe da parte dei protestanti, superate con la sua proverbiale bontà, ma senza cedimenti.
Alla fine del mandato di consigliere generale (1949-59), avrebbe voluto ritornare in Africa; il suo nome era apparso nella «rosa» per diventare vescovo del Kenya, ma la salute lo fermò in Italia: nel 1953 si era ammalato gravemente; ma riuscì a guarire (secondo la sua profonda convinzione) per grazia speciale del padre fondatore.

In Italia continuò la sua missione mettendo a disposizione degli altri la profonda conoscenza di lingue e culture africane. Nel 1953-54 portò a termine un lavoro iniziato già in campo di concentramento: la compilazione e pubblicazione della Grammatica della lingua swahili e il Dizionario kiswahili-italiano e italiano-kiswahili: due opere aggiornate a più riprese che, ancora oggi, rimangono strumenti insuperabili per lo studio di tale idioma. Aprì a Torino un corso di lingua e cultura swahili, il primo in Italia, che continua tutt’oggi.
Con la padronanza delle lingue, padre Vittorio era penetrato nell’anima del popolo. Lo testimoniano i numerosi articoli e libri di carattere etnografico, tra i quali: Miti e leggende kikuyu (1967); Favole kikuyu (1967); Ndai na gikandi – Kikuyu enigmas – Enigmi kikuyu (1973), raccolta di proverbi pubblicati in tre lingue; Cultura e letteratura kikuyu, in Africa (1968).
Nel 1974 fu insignito della massima onorificenza del Kenya dallo stesso presidente Kenyatta, che riconobbe nei suoi studi sulla cultura bantu un ponte di comunicazione tra l’Italia e l’Africa.
Un missionario linguista è anche il titolo della tesi di laurea con cui Adriano Bianco ha conseguito il dottorato in Scienze politiche presso l’università di Torino nel 1996: presentando le vicende missionarie di padre Merlo Pich e della sua copiosa produzione letteraria, il neo dottore non esita a definirlo uno dei massimi esponenti della cultura kikuyu.

MISSIONARIO
MONELLO
padre Ottavio Sestero (1901-1980)

Vivace, brioso, amante del gioco e un po’ sbarazzino; ma intelligente e buono come il pane: così lo ricordano quanti lo conobbero dal giorno in cui entrò tra i missionari della Consolata. Aveva 13 anni. Era nato a Chiusa S. Michele (Torino) nel 1901.
Socievole e arguto, zelante e di piacevole compagnia lo definiscono i confratelli che condivisero con lui la vita missionaria. Arrivò in Kenya nel 1926 e vi rimase per 40 anni, lavorando in varie parrocchie delle diocesi di Meru e di Nyeri. «Artista» è la parola che riassume la sua vita e personalità.

Artista nel cuore e nella fantasia, padre Ottavio Sestero maneggiava con la stessa facilità la zappa e la penna, il pennello e l’aspersorio, il flauto e la cazzuola.
Nella pittura non era un Michelangelo, eppure molti devoti africani s’infervoravano davanti alle sue madonne e santi che oavano le chiese. Molti amici custodiscono gelosamente un suo acquerello, rappresentante una scena di villaggio o il balzo di un leone che ghermisce un’antilope in fuga. Molti ufficiali inglesi di guardia ai campi di concentramento conservano nei loro salotti in Inghilterra la loro caricatura, eseguita dal simpatico missionario prigioniero. L’originalità e senso umoristico dei suoi disegni servivano soprattutto per rendere più attraenti i suoi scritti.
Padre Sestero è stato, infatti, un missionario scrittore, ricco di concetti e molta verve; sapeva cogliere nella vita quotidiana del missionario quei particolari che, tratteggiati dalla sua penna, formano una piacevole lettura. Nei suoi scritti manifesta le risorse inesauribili della sua mente, comunica la sua allegria semplice e ingenua, insieme al suo amore per l’africano.
Oltre ai Fioretti di padre Cencio (vita di padre Vincenzo Dolza), padre Sestero scrisse una quindicina di libri, pubblicati in collane dai titoli accattivanti: «I romanzi del brivido», come L’inafferrabile Dan (un generale della mau mau) e «I racconti della brughiera».
Ma quelli che lo resero famoso tra i giovani lettori, e anche meno giovani, furono i «Racconti per la gioventù», vivi, allegri, eroicomici, pubblicati a mo’ di romanzo d’appendice su Missioni Consolata dal 1947 al 1961. La sua creatività pareva inesauribile.
A conclusione seguiva la Storia di un missionario monello, una specie di autobiografia in cui raccontava le birichinate giovanili e qualche monelleria combinata «nonostante il duro lavoro di apostolato in terra africana». «Oggi – scriveva -, con la barba e i pochi capelli bianchi che mi sono rimasti, continuo a essere allegro: missionario allegro, anche se non più monello».

FORGIATORE DI UOMINI FORTI
padre Olindo Pasqualetti (1916-1996)

«La mia data di nascita l’avrò scritta centinaia di volte, in ogni occasione in cui la burocrazia civile, ecclesiastica, scolastica e accademica lo richiedeva: 12 settembre 1916; giorno di una delle tante feste della Madonna che, liturgicamente costellano (costellavano) i mesi dell’anno; quindi giorno di buoni, anzi, ottimi auspici. Effettivamente è stato ed è tuttora così: la Madonna è decus, clypeus, auxilium, consolatio (decoro, scudo, aiuto, consolazione)». Così inizia il curriculum vitae tracciato dallo stesso padre Olindo Pasqualetti pochi mesi prima di lasciarci.
Nel 1928 iniziò la sua formazione nella casa di S. Maria a Mare. «Ero entrato spiritualmente allo stato brado – continua -: ero soltanto battezzato, senza precise nozioni di catechismo. Ero entrato con il solo scopo di studiare. Ma dopo il primo mese, udendo attentamente le brevi conferenze del padre direttore, mi convinsi che avrei dovuto scegliere: andarmene o rimanere solo a condizione di seguire, rendendolo sempre più esplicito, il cammino della vocazione. E fin d’allora (avevo compiuto appena 12 anni) della vocazione non ebbi più dubbi, se non in qualche momento oscuro, in cui mi faceva velo la ricerca di un certo perfezionismo.
Anche le prime elementari nozioni di linguistica erano in sintonia con la vocazione: mi suscitò interesse l’etimologia di missionario e apostolo, che sentii dal padre rettore. Sicché il primo accostamento al latino e greco, che in seguito sarebbero state le due lingue antiche da me più conosciute e… professate, passò attraverso un richiamo missionario, sia pure a solo livello linguistico. Di più; la prima frase latina che cominciai a capire fu: «Ite: ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos» (andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi). La curiosità per il latino continuava, dunque, a passare attraverso l’interesse missionario».
A Torino, durante il biennio di filosofia, approfondì per conto suo lo studio del greco e cominciò quello della lingua ebraica, che continuò negli anni di teologia. «Leggevo e capivo gran parte della bibbia scritta in questa lingua. E oggi sono contento solo a pensare di essermi accostato alle fonti della rivelazione attraverso la lingua in cui furono concepite e scritte, e non attraverso la mediazione di un qualsiasi interprete antico o moderno.
Cominciai a studiare l’arabo e il siriaco, lingue di cui purtroppo ora leggo solo l’alfabeto; lo stesso mi succederà per il sanscrito, appreso molto bene durante i due ultimi anni di università e poi rimasto anch’esso allo stadio di pura lettura d’alfabeto».

Ordinato sacerdote nel 1940, fu destinato alla casa di Montevecchia (Como), come insegnante alle medie. «Iniziava la lunghissima serie dei miei anni d’insegnamento. L’anno successivo ero professore nel nostro liceo di Cereseto (AL), dove mi preparai per gli esami di maturità classica (1943), sostenuti da privatista nel senso più stretto della parola: non avendo alcun attestato civile di studi antecedenti, venivo ammesso agli esami per età, ma con la qualifica di analfabeta.
L’anno seguente m’iscrissi all’Università cattolica di Milano: portai in segreteria il diploma di maturità avvolto nella pompa della bicicletta per non sgualcirlo. Nei primi due anni di sporadica frequenza universitaria, mi servivo della bicicletta per recarmi da Cereseto a Milano».
Conseguita la laurea in lettere classiche (1948), padre Olindo cominciò a insegnare latino e greco nel liceo di Varallo Sesia. A partire dal 1959, fu chiamato a tenere corsi di esercitazione presso l’Università cattolica. «Il duplice insegnamento, al liceo e all’università, durò fino al 1970, quando, dopo aver vinto il concorso di assistente ordinario, attesi soltanto all’attività didattica e scientifica presso l’Università cattolica.
In 53 anni d’insegnamento, sono stato professore di tutti gli ordini e gradi di scuola a base umanistica: ginnasio inferiore e superiore, liceo classico privato e statale, teologia biblica, università, istituto di filologia classica.

A partire dal 1950 circa, ho pubblicato oltre un centinaio di saggi in varie riviste: Latinitas, Aevum, Euphrosyne, Vox Latina, Latina Lingua, Gymnasium (di Torino e Bogotá), Hermes Americanus, Commentarii curante Instituto Studiis Romanis provehendis, Gioale Filologico Ferrarese. Sono composizioni poetiche e prose saggistiche in lingua latina e italiana, commenti a scrittori antichi per le scuole medie superiori, liriche greche, voci per l’Enciclopedia Virgiliana, Fondazione Treccani.
Molti sono i premi in medaglie d’oro o d’argento, publicarne e magnae laudes, in concorsi nazionali e inteazionali di prosa e poesia latina: Certamen Hoeufftianum (Amsterdam), Certamen Vaticanum, Certamen Capitolinum, Certamen Vergilianum, Certamen Catullianum, Certamen Avenionense, Certamen Pascolianum, primi premi Fermo, Montalto (AP), Popoli (CH)».

Padre Olindo è stato uno dei massimi latinisti del secolo. I suoi capolavori di poesia greca e latina, raccolti in due volumi dal titolo Gemina Musa, sono presenti in quasi tutte le università italiane e in molte straniere.
È stato e rimane, soprattutto un missionario della Consolata «speciale» per la formazione impartita a generazioni di missionari e laici, che continuano a nutrire per lui stima e venerazione. «Sì, venerazione, perché per noi, già suoi alunni sparsi in tutto l’orbe terracqueo, egli era il professore per eccellenza, il dotto umanista, padre, guida – affermava un ex alunno nel discorso di addio -. Sapeva mutare l’aula scolastica nella sacra officina dello spirito, dove si temprano e si forgiano gli uomini forti. Era l’uomo di valore, il “forgiatore”, il docente per antonomasia, che formava carattere e cultura.
Ti rivedo sulla cattedra, ma senza atteggiamenti cattedratici, col tuo sorriso aperto e cordiale, la tua figura quasi dimessa, ma piena di umanità, fratello maggiore o padre, a spiegarci e farci gustare le bellezze della lingua di Roma; ricordo la tua gioia, intima commozione, quando qualcuno di noi si affermava nella scuola o nella vita» (Gabriele Nepi).
Padre Olindo se ne è andato in punta di piedi, con la modestia che gli era propria, il 21 novembre 1996, festa della presentazione della Vergine Maria: un giorno mariano come quello della sua nascita.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – I generosi

FINO ALL’ULTIMO
RESPIRO
padre Giovanni Borra (1900-1986)

Domenica al tramonto. Dalla gradinata della chiesa della Consolata di Iringa (Tanzania) i cristiani sciamano, dilagando sul piazzale antistante. Appoggiato al bastone, un anziano missionario fende decisamente la folla, aggredito da un vespaio di marmocchi affettuosi e scoccianti che implorano una caramella. La scena è da gustare. Sul volto asciutto e forte del missionario, temperato da uno sguardo dolce e penetrante, vi sono tracce di stanchezza e soddisfazione: è padre Giovanni Borra, 86 anni, 62 dei quali trascorsi in Africa, felice di essere ancora sulla breccia.
Così lo ricorda un gruppo di amici toscani: «Volto dolce, occhi penetranti, sorriso sereno e cuore grande come l’Africa. Siamo subito commossi e conquistati da questo patriarca, nel quale generosità, affabilità e simpatia si fondono armoniosamente. Mente viva, voglia di lavorare, nonostante gli acciacchi degli anni, gli si legge sul volto la serenità di un uomo realizzato, che con fede, perseveranza e carità ha vinto tutte le battaglie».

Era nato il 26 luglio 1900 a Benevagienna (Cuneo). Entra nell’Istituto a 15 anni. Dall’inizio del 1918 all’aprile del ’19 cambia la tonaca con il grigio-verde, arruolato in fanteria come aiutante infermiere: di giorno fa il soldato; di notte studia filosofia, che «ovviamente ne uscì piuttosto malconcia e sbrindellata» affermerà egli stesso.
Nel 1924 è in Tanzania. A Bihawana (presso Dodoma) Giovanni subisce il primo shock umano e missionario: incontra spettri affamati e consunti da siccità e carestia. Immagine raccapricciante che ricorderà tutta la vita.
La trasferta a Tosamaganga (300 km) avviene su carri trainati da buoi: 15 giorni di carovana estenuante; per compassione delle bestie spesso si va a piedi. Un mese dopo padre Giovanni è di nuovo in marcia: altri sei giorni per raggiungere Mchombe, nella regione dell’Ulanga. Rimasto solo a reggere la missione, con una infarinatura su usi e costumi, si sente sperduto. Gli basta un anno per comunicare con la gente e non sentirsi più un pivello.
«Ulanga» significa «regno delle acque». Il territorio è una ragnatela di fiumi, torrenti e pantani; la vegetazione è lussureggiante; la terra fertilissima: sono possibili almeno due raccolti all’anno. Ma è anche il regno delle zanzare, che si accaniscono contro padre Giovanni. La malaria lo coglie spesso, con fremiti violenti, cefalee, nausee e dolori di ossa paralizzanti.
Durante un attacco malarico più irruente e prolungato del solito, il padre invia un giovanotto a Tosamaganga per implorare un po’ di chinino. Il superiore gli risponde: «Chinino non ne abbiamo. E poi, se sarai ancora vivo quando toerà quest’uomo, il chinino non sarà più necessario. Ti benedico». Quando la febbre è più vertiginosa, il missionario cerca sollievo dentro un fusto da benzina pieno d’acqua fredda: accovacciato, si fa versare secchi d’acqua fresca sulla testa scottante.
Solitudine e difficoltà finanziarie non permettono di fare grandi sogni. Con illimitata fiducia nella Provvidenza e rimboccandosi le maniche, padre Giovanni riesce a dotare la missione con un minimo di strutture e sostenee le varie attività: scuola, dispensario, catechisti, catecumenati. E non si scoraggia davanti agli insuccessi, come quello capitato col primo gruppo di giovani raccolti alla missione per prepararli al battesimo. Erano una trentina; per sfamarli ha procurato alcuni sacchi di granoturco, riso e fagioli con grandi sacrifici. Tutto procede bene, fino a quando il padre va a Tosamaganga per gli esercizi spirituali: al ritorno i 30 catecumeni sono spariti insieme alle vettovaglie. «Santa pazienza!» esclama il missionario e ricomincia da capo.

Dal 1930 al 1933 padre Giovanni deve ricominciare da capo spesse volte, cambiando missione: Taweta, Madibira, Ujewa, Mdabulo e finalmente Wasa. Qui rimane per 37 anni, spendendo tutto se stesso: intelligenza, lavoro, salute e soprattutto il suo grande cuore. Provate a pronunciare il suo nome con qualsiasi abitante del posto: il suo volto si illuminerà; molti di essi diranno con orgoglio: «Sono stato battezzato da padre Borra».
Nel 1952 è nominato superiore provinciale. Non c’è missionario che non abbia goduto della sua squisita umanità. Finito il mandato, ricomincia a Wasa, Ulete, Makalala, Mafinga, Tosamaganga, Iringa; magari come vice parroco, purché gli permettano di restare sulla breccia, fino all’ultimo respiro, esalato a Iringa, il 24 luglio 1986.

UN UOMO TUTTO CUORE
padre Vincenzo Dolza (1880-1946)

Ragioniere, impiegato con un buon salario, una ragazza già adocchiata… A 22 anni si presentò all’Allamano, chiedendo di andare in Kenya come fratello coadiutore. Il fondatore gli disse di studiare il latino per diventare prete. Alla vigilia dell’ordinazione chiese di rimanere diacono. «Vai avanti!» gli rispose l’Allamano. Nel 1910 Vincenzo Dolza diventò prete. Aveva 30 anni. Era nato a Novara nel 1880.

G li fu chiesto di fare il «missionario in patria» come aiutante economo di Giacomo Camisassa nelle multiforme attività dell’incipiente Istituto. Padre Vincenzo cominciò a scarpinare per Torino, per provvedere il necessario alla vita della casa madre e alle missioni. Per 12 anni i suoi sogni rimasero chiusi in casse e cassoni che spediva in Africa dopo accorati addii.
Esuberante ed estroverso, non gli era facile accontentare il meticoloso e precisissimo canonico; ma era uno specialista nell’imbonire i creditori con battute spiritose e aneddoti di missione, convincendoli a pazientare, fare sconti e perfino diventare padrini dei «moretti» abbandonati nella foresta.
Un giorno, in un ufficio pubblico, s’imbatté in una segretaria carina, ma «imbranata»: padre Vincenzo le sedette accanto, le mise in ordine i registri e le insegnò come tenere la contabilità, sotto gli occhi sgranati dei presenti. La notizia arrivò fino alle orecchie dell’Allamano, che, tra il serio e il faceto, lo rimproverò: «Caro figliolo, sei sempre lo stesso: tutto cuore e niente testa».

Nel 1922 Vincenzo poté partire per il Kenya. Arrivato in vista di Mombasa, afferrò con ambo le mani il crocifisso che gli pendeva sul petto e benedisse tutta l’Africa; rimettendolo a posto, la mano sfiorò una tasca rigonfia. «L’Africa si converte con la croce, non col denaro» esclamò: estrasse il portafoglio e lo gettò in mare.
Destinato al Meru, svolse la sua attività in varie missioni: Mikinduri, Oringo, Ighembe, Egoji. Di soldi ne ebbe sempre pochi, ma suppliva con la vita spartana, inarrestabile operosità e fiducia sterminata nella Provvidenza. La sera, davanti al tabeacolo e alla Consolata, raccontava crucci e problemi: iniziava sospirando «ma!» e continuava ad alta voce finché non avesse vuotato il sacco. A volte, vinto dalla stanchezza, si accasciava sulla predella dell’altare e vi dormiva tutta la notte.
Pioggia o sole, distanze e asperità dell’ambiente, niente lo fermava nella brama di donarsi, dovunque ci fosse un dolore da condividere e sollevare. E poiché con i motori era una frana, termina i suoi viaggi col cavallo di s. Antonio, cioè facendo decine di chilometri a piedi, sfinito dalla canicola e spesso con la febbre.
Ma sapeva parlare una lingua comprensibile da tutti: quella dell’amore, bontà e comprensione. La sua parola, ricca di arguzia e comicità, gli conciliava stima e affetto e riusciva sempre ad attirare recalcitranti e impenitenti.
Gli africani si accorsero subito del suo cuore vulnerabile: a nessuno rifiutava mai un aiuto. Venivano anche gli «scrocconi». Pur leggendo loro in fronte le bugie, dopo un lungo tira e molla, tra borbottamenti in piemontese, padre Vincenzo metteva la mano in tasca e consegnava i pochi scellini che vi erano rimasti.
I confratelli dicevano che padre Dolza aveva le mani bucate. Ma con se stesso egli era spartano fino all’indigenza. «Per andare avanti – scriveva in una lettera del 1935 – ho venduto anche la mia macchina fotografica, i vestiti di lana e il fucile».
R ientrato in Italia per riposarsi e riprendersi in salute, nel 1935 partì per il vicariato di Gimma (Etiopia). Mentre imparava l’amarico, fece il cappellano dell’ospedale italiano di Addis Abeba. Sulla porta dell’ufficio aveva scritto: «Avanti! Sempre aperto!». Civili e militari, sani e malati, europei e africani, cristiani e «mangiapreti» lo definirono: «Figura magnifica di missionario».
Passato alla missione di Cengia, sulle rive del lago Margherita, padre Dolza riprese a lavorare senza risparmiarsi: in sei mesi furono costruiti la casa dei padri e cinque capannoni per ospitare collegiali, catecumeni e bambini dell’asilo. Qui lo colse lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva ribellione degli indigeni. Rifugiatosi ad Addis Abeba, seguì i connazionali nel campo di concentramento di Mandera, fino al rimpatrio (1943). Ridotto a pelle e ossa, continuò a prendersi cura dei dolori altrui. Benché riuscisse sempre a nascondere la ricchezza del suo cuore sotto una coltre di facezie. Un giorno confessò senza avvedersene: «Mai ho dovuto asciugare tante e tante lacrime come nel campo di inteamento e sulla nave».

A Torino, sebbene malandato in salute, trovò un nuovo campo di lavoro tra i soldati dell’ospedale militare. Finita la guerra ritoò in comunità; ma un tumore alla vescica lo costrinse a sottoporsi a un intervento chirurgico nell’ospedale del Cottolengo. Visitato dai confratelli e dalle suore vincenzine che avevano condiviso con lui le fatiche missionarie nel Meru, seguitava a scherzare sul suo male e a far progetti per il futuro. Spesso però finiva dicendo: «Sono un povero crocifisso».
Moriva il 7 ottobre 1946.

NEL CUORE DEI POVERI
mons. Antonio Torasso (1914-1960)

«Non mi darò pace finché vedrò un infelice che piange, finché non vi sarà pace in tutta la regione, finché non vi sarà gioia in tutti i cuori». Con queste parole, pronunciate nella chiesa di Florencia nel primo incontro con la popolazione del vicariato del Caquetá (Colombia), mons. Antonio Torasso sintetizzò il suo programma missionario e la sua vita.
Zelante senza riserve, organizzatore intelligente e dinamico, era il più giovane vescovo di quei tempi. Aveva 38 anni. Era nato a Verolengo (Torino) nel 1914. Entrato tra i missionari della Consolata a 12 anni e ordinato sacerdote nel 1940, svolse varie attività in Italia fino al 1947, quando fu scelto come superiore del primo gruppo di missionari destinati al nuovo campo di lavoro affidato all’Istituto nella regione del Rio Maddalena in Colombia.

Fermatosi a Bogotá per meglio provvedere allo sviluppo dei centri del Rio Maddalena, a padre Torasso fu affidata anche la nuova parrocchia del rione Vergel, alla periferia della capitale. In breve tempo portò a termine la chiesa-santuario della Consolata e residenza dei padri; costruì le strutture necessarie per le prime suore della Consolata: casa, noviziato, collegio femminile e scuola professionale.
Bastarono cinque anni per farsi conoscere e apprezzare: nel 1952 padre Torasso fu nominato primo vescovo del vicariato di Florencia, che Propaganda fide aveva da poco creato e affidato ai missionari della Consolata.
Il vasto territorio (102.000 kmq), che comprendeva la regione del Caquetá e parte del Putumayo, era teatro di immigrazione disordinata, con una presenza dello stato quasi nulla. A cavallo, in canoa o a piedi monsignore cominciò subito a visitare il vicariato e continuò fino alla morte, per portare a tutti, missionari e popolazione, il conforto della sua parola e l’amore del suo cuore.
Senza guardare in faccia ai politicanti e ai loro partiti, si schierò dalla parte della gente, difendendone strenuamente i diritti, specie di coloro che non potevano far udire la loro voce: poveri, deboli, sofferenti, malati, abbandonati e indios. Questi, soprattutto, amò con speciale attenzione e fu da essi tanto stimato.

Fedele al motto scritto sul suo stemma episcopale, «sicut palma florebit» (fiorirà come palma), con la collaborazione dei missionari, suore e laici, mons. Torasso disseminò il vicariato di numerose opere di carattere religioso, educativo e sociale. Per offrire un punto di riferimento alle famiglie sparse lungo i fiumi e nella selva amazzonica, fece costruire numerose chiese in muratura, attorno alle quali fiorirono grandi centri abitati fino allora inesistenti.
In una regione dove i governanti si facevano vivi solo in occasione delle elezioni, mons. Torasso organizzò una formidabile rete di scuole primarie e secondarie, curandone l’amministrazione e la formazione degli insegnanti, radunandoli spesso per corsi di aggioamento; nei centri più popolati e strategici fece costruire grandi collegi maschili e femminili e istituti professionali; per la gente sperduta nella foresta organizzò scuole radiofoniche.
Non meno importanti furono le opere sociali fiorite per sua ispirazione, tra le quali il barrio «La Consolata» in Florencia, un intero rione di casette per un centinaio di famiglie indigenti; la tipografia «Allamano», con annessa scuola tipografica; un ospedale in Villa Fatima; 52 km di strada per congiungere i fiumi Orteguaza e Caquetá.
Non è esagerato affermare che lo sviluppo civile e sociale di tutto il Caquetá è opera dei missionari e del loro ispiratore e guida.

Dopo otto anni di infaticabile attività, qualcuno cominciò a mettere il bastone tra le ruote delle iniziative di mons. Torasso. Ne parla lui stesso in una lettera dell’aprile 1960. «Quanti nemici hanno cercato di dividere il nostro popolo! L’ultimo attacco fu sferrato dai comunisti, protestanti e libertini; con una propaganda subdola e calunniosa cercavano di imbrattare tutto: vita e intenzioni, azione e successi dei missionari. Una vera tempesta, presto placata dal sole di verità e giustizia».
Fu una dura prova per il vescovo missionario. Le sofferenze morali si aggiunsero a quelle causate dallo stato di salute. Sottoposto a esami clinici, gli fu scoperta una «leucemia all’ultimo stadio». Sentì tutta la gravità del momento. Alla ribellione della natura sensibile oppose la forza della sua fede: «Voglio ciò che vuole lui! – scriveva a un suo amico -. Mi sento bene, con Gesù, in Croce. Forse il Calvario durerà poco, forse vedrò presto la Madonna: i miei occhi si riempiono di lacrime di gioia».
«Vieni, Signore Gesù!» furono le sue ultime parole. E fu un placido incontro: il 22 ottobre 1960.
Sulla sua tomba, nella cattedrale di Florencia, la gente continua a portare fiori freschi, chiedendo di continuare nella sua promessa, poiché nella regione per cui ha dato la vita molti infelici piangono ancora e la pace fatica a farsi strada.

TUTTO PER I POVERI CRISTI
padre Eugenio Menegon (1912-1996)

«Gesù, Gesù!» esclamava quando ingranava la marcia sbagliata della Land Rover. La caricava di materiali, persone e animali da farla schiattare. Spesso rimaneva in panne. E continuava il viaggio a piedi, arrivando a destinazione distrutto dalla stanchezza, ma sempre allegro e gioviale come d’abitudine. Erano leggendarie le sue camminate lungo i sentirneri accidentati delle missioni di Cobué e Metangula, nell’estremo nord del Niassa, per raggiungere la gente dovunque si trovasse.
Padre Eugenio Menegon era fatto così: con i motori non aveva dimestichezza né misericordia; di fronte alle necessità della gente non aveva pietà neppure per se stesso. Un esercizio cominciato presto. Nel 1940, con in tasca la destinazione al Mozambico, fu chiamato sotto le armi come cappellano in vari ospedali militari. «Arrivano direttamente dal fronte feriti gravi e leggeri, tutti bisognosi di qualcosa: telegrammi da compilare, denaro da cambiare, lettere da scrivere, piccole spese da fare – scriveva ai superiori -. E devo fare tutto subito. In fatto di adattabilità tengo come principio d’essere napoletano con i napoletani, toscano coi toscani, piemontese coi piemontesi». E sognava di farsi africano con gli africani.
Finita la guerra, fu fermato in Italia per svolgere il compito di animatore missionario in varie case, finché nel 1949 poté partire per il Niassa (Mozambico). Aveva 37 anni. Era nato a Montebelluna (Treviso) nel 1912.

«Signore, dammi due vite; una non basta» ripeteva spesso a mo’ di cantilena. Avrebbe voluto fare mille cose allo stesso tempo; e si lamentava che gli altri non facessero altrettanto. Forte come un leone, tenace come una quercia, instancabile, i giovani missionari stentavano a tenergli il passo. Per lui non esistevano tempi e orari, quando qualcuno ricorreva a lui per chiedere aiuto o semplicemente per essere ascoltato. Il suo cuore era aperto a tutti, piccoli e grandi, bisognosi e imbroglioni, ubriachi e senza bussola. Donava senza risparmio. Per sé non riservava nulla.
Durante la lotta contro il potere coloniale, non esitò ad affrontare la polizia segreta portoghese per liberare dalla prigione varie persone sospettate di appoggiare la guerriglia. Neppure le pallottole dei ribelli riuscivano a intimorirlo, finché, in un agguato, fu ferito a una gamba, mentre si recava in visita ai suoi cristiani. All’ospedale ci fu una processione mai vista di visitatori.
Indipendenza del paese (1975) e rivoluzione marxista gli resero più difficile la vita: le opere della missione nazionalizzate; restrizione dei movimenti dei missionari e fame per tutta la popolazione del Niassa. Padre Eugenio non poteva rassegnarsi di fronte alle sofferenze della sua gente: racimolava dappertutto un po’ di sapone, sale, cibo, vestiario da distribuire ai più poveri. A Metangula i rivoluzionari lo sorpresero mentre dava a un poveraccio un pezzo di sapone: fu accusato di candongueiro (contrabbando) e condannato a domicilio coatto nella casa del vescovo a Lichinga; poi espulso dal Niassa (1979).
Toò in Italia per qualche settimana; poi eccolo di nuovo a Maputo, la capitale del Mozambico.

«Gesù, Gesù! Cosa ho mai visto! Non te lo dico!» diceva spesso. E cominciava a raccontare, sia perché il suo cuore non reggeva alle miserie incontrate, sia per chiedere aiuto. Non gli restava mai un soldo in tasca; ma tutti dovevano aiutarlo, perché potesse aiutare tutti.
A Maputo padre Eugenio cominciò una seconda vita a servizio dei poveri, ammalati e carcerati. Per raggiungerli più rapidamente, a 70 anni suonati, diede l’esame di patente per guidare il motorino. Ogni giorno, zaino da alpino sulle spalle, attraversava la caotica città e raggiungeva le sue mete.
Era proibita qualsiasi assistenza religiosa agli ammalati, tanto più ai carcerati. Ma quando poliziotti, vigili, dottori, membri del partito lo vedevano, non potevano fare altro che sorridere e lasciare passare quel vecchietto, diventato segno vivente della carità. Si fermava accanto a tutti, credenti o non credenti. Arrivava carico di ogni cosa, anche giornali e riviste, che elemosinava nelle case, ambasciate, negozi, «perché – diceva – non si sentissero abbandonati e tagliati fuori dalla vita».
Molti poveri venivano a casa per chiedere un aiuto. Di fronte al via vai di estranei nell’abitazione, qualche confratello borbottava. Un giorno il superiore sorprese nell’atrio della casa un povero in mutande che, sotto gli occhi innocenti del missionario, provava un vecchio paio di calzoni; e gli espresse il suo disappunto. «Padre, ma è Gesù!» disse candidamente padre Eugenio.
Se padre Menegon vedeva Gesù in tutti i poveri, questi vedevano il volto di Cristo in quello del missionario.

«I poveri danno fastidio – soleva dire -, ma non a chi ha un cuore misericordioso». Lui stesso era un uomo scomodo per tutti. Per le autorità civili, prima di tutto, che nel Niassa vedevano nel suo amore verso i poveri un atteggiamento «controrivoluzionario». Per i confratelli e per la chiesa in generale era coscienza critica: la sua carità senza calcoli e barriere metteva in discussione le loro «strategie e cammini di liberazione». Quando sentiva parlare di azione politica, educativa… il padre soffriva: «La carità troppo programmata non era più carità, perché fagocitava i più poveri» ripeteva.
Non pensiate, però che padre Eugenio fosse un rompiscatole. Era, invece, un uomo di grande compagnia. Divoratore di giornali e riviste, si interessava di tutto e sapeva parlare su qualsiasi argomento. Aveva un cuore di fanciullo, che si incantava e commuoveva per qualsiasi cosa, come gli capitava quando vedeva il tricolore sventolare davanti all’ambasciata italiana di Maputo. Amava la vita, con tutte le sue giornie e dolori. Bisognava vederlo seguire alla televisione le partite di calcio: a 80 anni sembrava un tifoso da curva nord.

«Che sbaglio ho fatto lasciare il Mozambico!» gli sfuggì una volta: era rientrato in Italia all’inizio del 1996, perché l’età e gli acciacchi non gli permettevano più di guidare il motorino e non voleva essere di peso ai confratelli. Nei pochi mesi di vita che gli restarono (morì il 2 ottobre 1996), continuò a stare vicino ai suoi poveri, con la preghiera. Passava lunghe ore davanti al tabeacolo, dimenticandosi dei pasti. Bisognava andarlo a chiamare. «Padre, è ora di mangiare!» gli disse una sera un confratello. «È quello che sto facendo», rispose seraficamente padre Eugenio.

Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti




SPECIALE 100 ANNI – Ieri e sempre…

PIONIERI

INOSSIDABILE
mons. Filippo Perlo (1873-1948)

Partito col primo drappello di quattro missionari destinati al Kenya, alle dipendenze dei padri dello Spirito Santo, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.
Superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo: l’anno seguente fu nominato superiore.
Intelligente e pratico, lavoratore instancabile, salute di ferro, era nato per comandare. L’esperienza militare l’aveva formato a quel tipo di autorità che dà ordini senza troppe spiegazioni ed esige obbedienza assoluta. Per la profonda conoscenza del territorio, acquisita con numerosi e difficili viaggi, i suoi giudizi sul lavoro e scelte da fare erano spesso insindacabili; nel suo frenetico dinamismo indicava la strada e la percorreva per primo. Tutte le incipienti missioni del territorio affidato all’Istituto portano l’impronta della sua fatica, ispirazione e propulsione.
Sapeva servirsi delle autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con intelligenza, diplomazia e qualche sotterfugio, riusciva a ottenere il massimo e concedere l’indispensabile.

Sognava una rete di missioni, distanti una giornata di cammino una dall’altra, entro cui abbracciare tutta la regione dei kikuyu per evangelizzarla e impedie l’accesso ai protestanti. Da qui la sua strategia: «occupare» i punti nevralgici, con strutture ridotte all’osso, da cui partire per la penetrazione capillare nel territorio. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni, un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricolo-pastorizia in embrione.
All’inizio del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati, visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri, formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino ai nostri giorni.
Nel progetto iniziale dell’Allamano, l’impresa missionaria in Kenya doveva servire come prova temporanea, in attesa di spostarsi tra gli oromo (galla) dell’Etiopia. Ma padre Perlo convinse l’Allamano a chiedere a Propaganda fide di separare il territorio kenyano dal vicariato apostolico di Zanzibar e affidarlo ai missionari della Consolata. Il 14 settembre 1905, con grande disappunto dei padri dello Spirito Santo, fu creata la missione indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il consolidamento del lavoro tra i kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative, vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei meru.
Nella sua inesauribile strategia, il vescovo sarebbe voluto andare dappertutto; talvolta senza misurare le forze dei missionari. Già nel 1902 scriveva nel diario un piano di evangelizzazione per i nomadi masai: «Ancora da nessuno tentata, si presenta a noi in condizioni certamente favorevoli. Però il sistema di evangelizzazione sarà alquanto differente da quello dei kikuyu, popolo agricoltore e stabile. Come i missionari che evangelizzano i beduini, bisognerà seguirli nelle loro peregrinazioni, abitando nei loro kraals, in tende o casette mobili con ruote!». Il piano cominciò a realizzarsi solo nel 1963, quando a mons. Cavallera fu affidata la regione di Marsabit.

Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania (1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e ne controllava strettamente l’esecuzione. Tre di esse costituirono il fiore all’occhiello della sua geniale attività: tipografia (1916) e pubblicazione del mensile Wathiomo mukinyu, diventato strumento indispensabile per lo sviluppo delle scuole e consolidamento dell’attività catechetica; seminario di Nyeri per il clero locale (1919); congregazione delle suore indigene della Immacolata Concezione (1920).
Ritenendo la donna indispensabile nella evangelizzazione, il Perlo aveva voluto le suore fin dall’arrivo in Kenya, «prestate» dal Cottolengo; poi insistette perché l’Allamano estendesse la sua pateità anche al ramo femminile: nel 1910 nacque l’Istituto delle missionarie della Consolata. Egli sapeva quanto una missione dipendesse dalle suore. Non fu sempre tenero con loro, ma per lui contavano quanto i missionari, a volte anche di più.
Nel 1924 il vescovo dovette tornare in patria per seguire da vicino e a tempo pieno la vita dell’Istituto. Alla morte dell’Allamano divenne superiore generale. Durante la visita apostolica si ritirò dalla carica (1930). Avrebbe voluto tornare nel suo vicariato. Ormai con la nomina del nuovo vicario, mons. Giuseppe Perrachon, i ponti erano tagliati. Si ritirò a Roma, dove morì nel 1948.

Dall’antico vicariato apostolico del Kenya, sono nate l’arcidiocesi di Nyeri, con le suffraganee di Meru, Murang’a, Embu, Marsabit, Garissa e vicariato di Isiolo. Tali chiese locali restano la migliore testimonianza che l’opera, avviata e guidata per 22 anni da mons. Perlo, aveva radici profonde, capaci di portare frutti abbondanti.

INAFFERRABILE
mons. Gaudenzio Barlassina (1880-1966)

Era il sogno dell’Allamano: continuare il lavoro del Massaia in Etiopia. Turbolenze per la successione al trono, opposizione del clero copto, intrighi inteazionali rendevano impossibile l’entrata ai missionari.
Dal vicariato dei galla, affidato ai cappuccini francesi, nel 1913 Propaganda fide staccò la prefettura del Kaffa e nominò prefetto padre Gaudenzio Barlassina. «Trovata chiusa la porta, non mi resta che la finestra» decise il missionario: travestito da mercante, cavalcando un mulo, la sera di natale del 1916 entrò in Addis Abeba; affittò una casetta annessa all’Hotel Bollolakos e cominciò a studiare la situazione, oltre alla lingua e costumi del paese.
«Guardare senza copiare; sentire senza parlare; fare senza dire; procedere senza curarsi degli apprezzamenti umani…» era la strategia adottata per riuscire nella sua complicatissima missione. Per non dare nell’occhio, si dedicò a minuscoli commerci; lavorò come traduttore nella Banca Abissina; diventò socio della falegnameria dell’italiano Felice Gullino, col quale cercò i contatti giusti per raggiungere i suoi scopi.
Riuscì a farsi ricevere da ras Tafari, reggente al trono dell’impero etiopico. Questi apprezzò il progetto sociale e umanitario proposto da Barlassina; ma non concesse alcun permesso esplicito, per non provocare la suscettibilità del clero copto, sostenuto dalla regina Zauditù.
Gli andò meglio con alcuni ministri imperiali e capi locali, dai quali ottenne un lasciapassare per entrare nella regione del Kaffa per svolgere attività commerciali.

Alla fine del 1917 arrivarono i primi rinforzi, anch’essi camuffati da mercanti. Non potendo agire allo scoperto, Barlassina progettò scuole agricole e laboratori industriali, con cui entrare in contatto con la gente, soprattutto con i giovani: nasceva la stazione missionaria di Ghimbi, 500 km a ovest di Addis Abeba.
L’anno seguente, scoppiata un’epidemia di spagnola, i missionari si mobilitarono per soccorrere i malati: allacciarono relazioni con «molti cattolici abissini», residui delle cristianità del Massaia, cacciati dai paesi d’origine dalla persecuzione.
Con una fitta serie di leggendarie carovane mons. Barlassina perlustrò il territorio a lui affidato, strinse amicizie con i capi locali, studiò posizioni strategiche dove aprire nuovi centri commerciali-missionari. Nella prima carovana (1919) ebbe una stupenda sorpresa: a Giren incontrò abba Mattheos, ultimo superstite dei sacerdoti ordinati dal Massaia, costretto a domicilio coatto in mezzo ai musulmani. Si riannodava così l’ultimo filo che legava le gesta del grande cappuccino alle avventurose iniziative dei missionari della Consolata.

Era il tempo delle «catacombe». I missionari circolavano in incognito, chi con una vecchia Singer, cucendo tuniche e braghe per la gente dei villaggi; chi con pentole per raccogliere cera da fondere; chi fabbricando per capi, capetti e benestanti porte, finestre, divani, tavolini, casse per i vivi e per i morti. Intanto incontravano vecchi cristiani del Massaia e li accoglievano in segreto nelle loro capanne.
In due anni sorsero cinque stazioni missionarie. «Niente visibili monumenti di religione – scriveva monsignore -. Tutto è ancora piccolo: piccole cappelle, piccole scuole, piccoli ambulatori, piccoli catecumenati e piccole cristianità. I sacramenti sono amministrati all’ombra delle aziende e laboratori. Viaggiamo da poveri; ci stabiliamo come onesti lavoratori. Tra un lavoro e l’altro puramente materiale, trova comodo passaggio l’annuncio nascosto del vangelo».
Nel 1921 mons. Barlassina ottenne da ras Tafari la concessione di sfruttare la foresta di Sayo, ai confini col Sudan; fu allestita una falegnameria dove si costruiva di tutto, fino a case smontabili e trasportabili a distanza. La regina Zauditù e ras Tafari ordinarono due palazzine, completamente arredate. Il trasporto del materiale fino alla capitale, oltre 700 km, richiese 80 giorni di viaggio, due carovane di 3.600 portatori ciascuna e la collaborazione di 22 governatori, obbligati dall’autorità imperiale a procurare il ricambio del personale. L’impresa leggendaria aprì definitivamente i cuori dei sovrani nei riguardi di Barlassina: nel 1924 ottennero il permesso di fare entrare in Etiopia le prime suore della Consolata.
Era un tacito riconoscimento dell’attività religiosa dei missionari. Accanto ai laboratori, dispensari e bazar sorsero opere di autentica missione. Nel 1927 il Kaffa contava 11 stazioni missionarie, disseminate in un territorio esteso come l’Italia continentale, un seminario e un convento di suore indigene: le Ancelle della Consolata.

Negli anni di presenza in Etiopia Barlassina si era fatto etiope con gli etiopi, tanto che grandi studiosi di cose abissine si rivolgevano a lui come fonte esperta in materia. Non meno benemerita fu l’attività di mons. Barlassina per combattere la piaga della schiavitù. Oltre a raccogliere fondi per affrancare gli schiavi, studiò un progetto per restituire loro dignità, organizzando i «villaggi della libertà». Per liberare la gente da epidemie e malattie, fondò ospedali nella capitale e nell’interno del paese, chiamando a dirigerli medici italiani.
Nel 1932, alla posa della prima pietra dell’ospedale italiano di Addis Abeba, mons. Barlassina aveva accanto a sé l’amico ras Tafari, diventato imperatore col nome di Hailé Selassié. Era un riconoscimento esplicito di 16 anni di instancabile attività, condotta con eroica abnegazione e mirabile prudenza.
Quando la prefettura del Kaffa era ormai consolidata, nel 1933 mons. Barlassina fu eletto superiore generale, carica riconfermata nel capitolo del 1939. Per 17 anni guidò l’espansione dell’Istituto in Europa e America Latina. Nel 1949 fu nominato procuratore generale presso la Santa Sede, ufficio che rivestì fino alla morte (1966).

INARRESTABILE
padre Pietro Calandri (1893-1967)

Da piccolo sognava di fare il «bandito». Entrato nel seminario diocesano, non sapeva come conciliare sogni di avventura e vocazione; «ed eccoti saltar fuori la chiamata alla missione» racconterà lui stesso. E fu una vita al cardiopalmo.
Dopo cinque anni di esperienza in Kenya, nel 1925 padre Pietro Calandri fu inviato in Mozambico, con i primi missionari della Consolata destinati alla missione di Miruru. In tasca, però, aveva l’ordine di recarsi nella regione del Niassa insieme a padre Amiotti. Si stabilì a Mandimba, ai confini con il Malawi. Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i dovuti permessi.
Invece dell’autorizzazione, il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, intimò di uscire immediatamente dal paese, sotto pena di sospensione da ogni attività religiosa. Da Torino arrivò l’ordine di restare. Per padre Calandri seguirono due anni di «purgatorio»; «una situazione così terribile» da farlo piangere giorno e notte.
Nel 1928 la proibizione del prelato fu revocata e padre Calandri cominciò immediatamente la costruzione della missione di Massangulo. Ma non ebbe vita facile: appena iniziati i lavori, il governatore del Niassa gli ritirò il permesso di residenza. Due anni dopo, il delegato apostolico gli ordinò di chiudere la missione. Per chiarire la faccenda, il padre dovette correre prima a Porto Amelia, poi a Beira, migliaia di chilometri con mezzi sgangherati e sentirneri da capre.
Altre minacce venivano da ladri, leoni e capi musulmani. «La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso e i lavori continuarono frenetici. Con l’arrivo delle suore furono avviate le scuole elementari, la visita sistematica ai villaggi, la cura dei malati in missione e a domicilio.
Progettava altre missioni, ma dom Rafael negava ogni permesso di espansione. Padre Calandri concentrò i suoi sforzi per ingrandire Massangulo: collegi e scuole per oltre 200 alunni; laboratori di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle nei villaggi, affidate a maestri formati alla missione; formazione dei primi nuclei di famiglie cristiane.

Tensioni e scontri tra il missionario e il vescovo durarono fino al 1936. Da Roma dom Rafael si sentiva dire che l’evangelizzazione del Mozambico «era indietro di 300 anni», per cui egli aveva bisogno di personale. A Lisbona si vedevano con sospetto i missionari stranieri, specie italiani, visti come la lunga mano di Mussolini. Torino inviava missionari più del richiesto. E il vescovo scaricava il suo imbarazzo su Calandri.
Per eliminare l’equivoco, Roma sostituì dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; il superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, spedì Calandri a São Manuel (Brasile), per dipingere la chiesa di Santa Teresina.
Oltre alla pittura, Calandri si dedicò anima e corpo al lavoro missionario. La gente lo adorava. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma nel cuore sentiva quella destinazione come un castigo immeritato. Una ferita che lo fiaccò fisicamente, fino ad ammalarsi. A liberarlo dalla «terribile oppressione e agonia», che da quattro anni lo stavano consumando, arrivò il permesso di ritornare nella sua missione.
A Massangulo trovò come superiore provinciale un missionario della sua statura, ma di mentalità totalmente differente: interveniva in ogni decisione presa da Calandri. Dopo una serie di scontri e arrabbiature indescrivibili, il provinciale ebbe la bella idea di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità: la missione cresceva, fino ad accogliere oltre 500 alunni.

Nel 1948 padre Calandri fu richiamato in Italia; ma il vescovo di Nampula gli ordinò di restare al suo posto fino alla visita canonica del superiore generale. «Che cosa ho fatto di male?» si domandava il padre.
Da tempo lo si criticava per aver fondato la missione in una zona totalmente musulmana; perché perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; per la sua ospitalità, che avrebbe trasformato la missione in un albergo… A distanza e senza vedere la realtà, le critiche diventavano macigni.
Arrivato il superiore generale per la visita canonica padre Calandri fu chiamato a Mitucué: l’incontro si trasformò in «una bufera con tuoni e lampi». Ma quando mons. Barlassina arrivò a Massangulo, cambiò totalmente atteggiamento: non finiva di meravigliarsi per lo splendore e numero delle opere e attività della missione. Per il resto della vita monsignore continuò a definire Massangulo «una meraviglia».

Toata la bonaccia, padre Calandri continuò a lavorare col solito entusiasmo e determinazione, realizzando i sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, e la costruzione della chiesa dedicata alla Consolata, subito definita «cattedrale del Niassa».
E continuava a battagliare contro le ingiustizie: prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedevano terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Seguirono gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona gli appuntò sul petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; il governo italiano lo nominò Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice.
Nel 1967, tre mesi dopo aver celebrato il 50° anniversario di sacerdozio, morì nell’ospedale di Nampula. Fu sepolto nella sua «cattedrale», secondo il suo ultimo desiderio: «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo».

U na vita tutta in salita; ma non si arrese mai. Padre Calandri fu pioniere, eroe, gigante, artista, antropologo… ma soprattutto educatore, difensore e padre degli africani, specie degli ultimi. Cuore sincero e sensibile, li amò tutti, senza distinzione, cristiani e musulmani. E fu riamato.

TRAVOLGENTE
padre Giovanni Battista Bisio (1903-1947)

A 21 anni (era nato a Garessio, Cuneo, nel 1903), ancora studente, Giovanni Battista Bisio dirigeva i lavori per la costruzione della cattedrale di Mogadiscio, dove fu ordinato sacerdote nel 1926. Amministratore della scuola di arti e mestieri e delle attività agricole, fece appena in tempo a farsi le ossa: nel 1930 il vicariato della Somalia fu consegnato ai cappuccini. Il padre toò in Italia e passò alla formazione dei fratelli coadiutori.

N el 1937 padre Bisio fu inviato in Brasile per studiare la possibilità di raccogliere mezzi e vocazioni. A offrire un piede a terra era il vescovo di Botucatú, chiedendo in cambio di assumere la responsabilità della parrocchia di São Manuel e portare a termine la costruzione del santuario di s. Teresa di Lisieaux.
A poche settimane dall’arrivo, padre Bisio era già sui ponteggi per dirigere i lavori, tra la meraviglia dei muratori: l’anno seguente il santuario fu inaugurato. Con l’arrivo di due confratelli iniziò a rinnovare la vita della parrocchia, guadagnandosi stima e amore della gente.
Entusiasta e intuitivo, vide nel Brasile enormi potenzialità vocazionali e cominciò a sognare qualcosa di impensabile in quei tempi: l’inteazionalità dell’Istituto. Tenace e pratico, faceva progetti dettagliati e chiedeva l’approvazione dei superiori, insieme all’invio di personale per la formazione degli aspiranti. Suggeriva di cercare un campo di prima evangelizzazione, di cui il paese era ricco, per mandarvi i futuri missionari brasiliani.
A sostenere il suo entusiasmo arrivò padre Domenico Fiorina, con visioni più avanzate: missionari della Consolata brasiliani inviati ad altri popoli e continenti.
A Torino, però, si consigliava di procedere con i piedi di piombo, finché l’avventura brasiliana non fosse passata al vaglio del capitolo straordinario del 1939. All’assemblea capitolare partecipò anche padre Bisio. La sua relazione fu accolta con favore, anche se furono poste restrizioni più di forma che di sostanza.

A capo di sei missionari, padre Bisio martellava i superiori per avere altro personale. La guerra in corso ne aveva assottigliato la disponibilità. Gli fu risposto: «Arrangiatevi come potete». «Fecero miracoli di abnegazione e buona volontà» come testimoniava il superiore del gruppo. Il 16 febbraio 1940, adattando ambienti già esistenti, venivano inaugurati due seminari «embrionali», l’uno ad Aparecida, nei pressi di São Manuel, l’altro mille chilometri lontano, a Rio do Oeste, stato di Santa Catarina, affidato a padre Domenico Fiorina.
Nel 1942, quando il Brasile entrò in guerra al fianco degli alleati, i missionari si trovarono dalla parte sbagliata e furono annoverati tra i nemici. I massoni di São Manuel cercarono di tirare padre Bisio per la giacca; il suo nome comparve in una lista di spie. Ma riuscì a difendersi e scagionarsi totalmente. Ma più logoranti furono l’isolamento in cui erano costretti i missionari in Brasile e le difficoltà di comunicare con i superiori in Italia, per ricevere chiare direttive ed evitare incomprensioni.

Finita la guerra, padre Bisio riprese a stendere progetti sorprendenti per l’espansione dell’Istituto in Cile, Argentina e altri paesi sudamericani. Ne illustrava i vantaggi con dovizie di particolari. Ma Torino frenava i suoi bollori e centellinava il personale.
Nel 1946 il padre rientrò in Italia per un periodo di riposo e per riaffermare l’attaccamento all’Istituto: lo sforzo di autosostenersi economicamente aveva destato in qualcuno il sospetto che il gruppo del Brasile fosse diventato troppo autonomo. Padre Bisio non ebbe difficoltà a dimostrare la lealtà all’Istituto e ai superiori. Continuò a battere il chiodo del personale e toò in Brasile con la nomina di superiore provinciale e una decina di missionari e altrettante suore.
Con i nuovi arrivati si poteva consolidare la formazione di oltre 100 aspiranti missionari, aprendo noviziato e seminario filosofico, e assumere la responsabilità di nuove parrocchie. Mentre le suore, oltre a collaborare con i lavori in corso, accoglievano nel noviziato una ventina di aspiranti, già preparate spiritualmente da padre Fiorina.
Nel 1947 i missionari espulsi dall’Etiopia e quelli che non poterono tornare nelle colonie inglesi, furono dirottati in Brasile. «Troppa grazia, sant’Antonio!», pensò padre Bisio, che dovette sobbarcarsi a interminabili trasferte per cercare nuovi campi di lavoro.
Dopo 10 anni di attività intensa, viaggi spossanti, responsabilità sempre crescenti, il padre si sentiva stanco e chiese ai superiori di passare la responsabilità di guida a padre Fiorina. Da Torino lo si riteneva ancora necessario: era l’uomo giusto al posto giusto.
Ma il 17 maggio 1947, ricoverato all’ospedale di Jahù per una banale appendicite, padre Bisio morì a causa di una misteriosa complicazione.

«Muoio giovane, a 44 anni, per andare a vivere la vita vera. Muoio contento: mi è forza e gioia il pensiero di aver compiuto il mio dovere di sacerdote, religioso e cristiano. Per primo venni in Brasile, per primo devo morire» furono le ultime parole.
Una vita breve, ma vissuta intensamente. Il seme da lui piantato e coltivato ha maturato decine e decine di missionari della Consolata brasiliani, inviati in tutti i continenti. I suoi sogni sono stati superati dalla realtà: oltre ai vari stati brasiliani, l’Istituto si è esteso ad altri quattro paesi dell’America Latina.

benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti