BELGIO – Nella stanza dei bottoni

Le decisioni prese nel Nord si riflettono
sui poveri del Sud del mondo.
Le congregazioni missionarie operanti in Africa hanno costituito la «Rete fede e giustizia Europa-Africa» (Aefjn), per far risuonare la «voce dei senza voce» nei parlamenti dell’Unione europea e dei singoli paesi
che la compongono, stimolando iniziative che promuovano rapporti più giusti ed equi con i popoli africani.

I n un secolo siamo passati dal nazionalismo all’inteazionalismo, alla globalizzazione. Principale veicolo di cambiamento è stato, ed è tuttora, l’ideologia neoliberista: essa penetra ogni aspetto della vita quotidiana della gente in tutto il mondo: economia, comunicazione e informazione, sviluppo tecnologico, cultura, modelli di consumo, crimine, conflitti, epidemie, ecologia, migrazione, politica.
Di fronte a tali mutamenti di cultura e valori, i cristiani devono essere presenti nei dibattiti, non come sociologi o economisti, ma come testimoni dei valori evangelici. È in gioco il nostro ruolo profetico, non solo per indicare le deficienze nella società, ma anche per mostrare, come gli antichi profeti, la strada della riconciliazione col Creatore.
POLITICA SFIDUCIATA
Il mondo ha subìto un cambiamento epocale, ma le istituzioni e l’immagine del mandato politico sono mutati pochissimo. Negli ultimi due secoli, fino ai primi anni ’70, tale mandato era considerato uno dei più alti e nobili servizi al paese. La gente aveva fiducia nei politici e affidava loro il proprio destino, inviandoli come delegati ai parlamenti e governi. La fede nel sistema democratico parlamentare era così forte che né guerre né crisi sono riuscite a cambiarla.
Negli ultimi 40 anni si è capito che la politica non è così pulita e nobile come si voleva far credere. Tre fattori hanno scosso tale fede politica.
– La colonizzazione. La gente ha cominciato ad essere sfiorata dal senso di colpa quando gli storici, basandosi su documenti, hanno dimostrato che la colonizzazione dei paesi africani, presentata come nobile «missione di civilizzazione», era in realtà uno spietato sfruttamento delle loro risorse umane, culturali e materiali per accrescere il benessere dell’Occidente.
– La povertà nel terzo mondo. Dopo due decenni di appelli alla generosità per contribuire ai progetti di cooperazione internazionale, la gente è delusa, vedendo che il divario tra i paesi poveri e quelli industrializzati ha continuato a crescere.
– La corruzione. La lista di scandali in cui sono coinvolti i politici è infinita; con somme da capogiro gli industriali hanno sponsorizzato i partiti politici, fino a renderli strumenti di legittimazione dei propri interessi economici.
Nessuna meraviglia se, negli ultimi 15 anni, la gente è cresciuta nella disillusione e nel disinteresse per la politica: ne è una prova lampante la bassa partecipazione alle elezioni. Il sistema politico è in crisi. In questa confusione, gli unici vincitori sono i protagonisti del mercato globale.
NUOVO CREDO UNIVERSALE
Competizione e mercato è la fede professata dalla globalizzazione. Essa provoca una visione unilaterale della natura e relazioni umane, trasformando la società in un grande palco d’asta, dove perfino le cose sacre, come sangue, organi umani e biodiversità, possono essere comprati o venduti e i cui valori sono rimpiazzati dai prezzi. Tale società richiama la visione raccapricciante dell’Apocalisse: «Essa è diventata covo di demoni e carcere per ogni spirito immondo, carcere per ogni uccello impuro e aborrito» (Ap 18,2). Il credo della globalizzazione è veramente una sfida spirituale e culturale, che i politici non hanno affrontato, o non lo hanno fatto a sufficienza, e oggi ne pagano le conseguenze a caro prezzo.
Il meccanismo del mercato globale rafforza nel ricco un falso senso di «popolo eletto», più preoccupato della conquista del potere che delle necessità della gente e della terra. L’ideologia neoliberista, su cui si fonda la globalizzazione, ha addormentato la gente: il motto di buona parte dei popoli occidentali non è «l’opzione preferenziale per i poveri», ma «opzione preferenziale per chi ha di più». Delusi dai politici, essi si sono innamorati di una società in cui produzione e consumo sono in continua espansione e il potere è in mano a una ristretta e forte élite economica, capace di facilitare il processo di produzione-consumo da cui ci si aspetta tutto il bene della vita.
Ma in un mondo del genere la maggioranza della gente, beata nel suo consumismo, non ha alcuna voce nel modellare la società in cui vive. Ruoli di guida e istituzioni sono ridotti a puri strumenti di convalida di politiche decise molto lontano da potenti corporazioni transnazionali. E così i diritti umani possono essere erosi, la dignità umana calpestata, lo sviluppo impedito e l’ambiente sfruttato indiscriminatamente.
INGIUSTIZIE STRUTTURALI
I mercati possono essere molto utili; la globalizzazione è una spada a due tagli: produce effetti buoni e cattivi. Per la prima volta nella storia, le istituzioni inteazionali (Unione europea, Nazioni Unite, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) danno veramente la possibilità di provvedere pacificamente a un mondo più equo e giusto; ma è un errore pretendere di costruirlo basandosi solo sul mercato.
Negli ultimi 50 anni la speranza di vita, in generale, è salita più che nei precedenti 4.000; trasporto, comunicazione, competitività hanno facilitato la nostra esistenza. Eppure il divario tra ricchi e poveri continua a crescere, sia globalmente che all’interno degli stati. Nel mondo ci sono 360 plurimiliardari che, insieme, possiedono una ricchezza pari alle entrate di 2,5 miliardi di gente più povera del mondo. Quale struttura permette e giustifica tale disparità?
Europei e americani spendono ogni anno oltre 400 mila miliardi di lire in medicine; ma difficilmente trovate nelle farmacie occidentali quelle per curare la malaria, cecità da fiume, malattia del sonno, perché c’è poca domanda. Entrate in un dispensario del Benin, per esempio, e scoprite che tali farmaci sono scarsi anche lì, non perché non ce ne sia bisogno, ma perché nessuno può permetterseli (Si veda «Come sta Fatou?» gennaio 2001).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) calcola che si spendono oltre 120 mila miliardi di lire l’anno nella ricerca sanitaria, ma meno del 10% di tale somma riguarda le malattie che colpiscono il 90% della popolazione mondiale, come malaria, tubercolosi, Aids. E migliaia di africani muoiono ogni giorno perché mancano le medicine più comuni.
Il Nord impone ai paesi del Sud di aprire i loro mercati; eppure gli stati ricchi adottano sistemi protezionisti in molti settori in cui i paesi poveri sono più competitivi, come agricoltura e tessili. Una politica che impedisce la crescita economica in Africa, nega posti di lavoro nelle città e taglia le entrate delle famiglie.
L’Unione europea (Ue) è stata costretta ad abbandonare il regime d’importazione di banane favorevole ai piccoli produttori africani: le grandi compagnie degli Stati Uniti, infatti, sono riuscite a convincere l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che favorire i piccoli produttori è contro le regole del libero mercato. Chiquita e compagni hanno vinto, a scapito degli agricoltori poveri di Ghana, Costa d’Avorio, Benin o Togo, la cui sopravvivenza dipende dalla produzione di banane. Lo stesso vale per l’uso di olii diversi da quelli del cacao nella produzione di cioccolato.
L’indebitamento di 38 paesi africani è tale che questi non riusciranno mai a restituire i prestiti. Le istituzioni finanziarie inteazionali continuano a domandare loro di spendere il 20-40% degli introiti provenienti dalle esportazioni annuali per ripagare gli interessi. Nel 1951, quando alla Germania fu chiesto d’impiegare il 10% delle esportazioni per pagare i suoi debiti di guerra, si disse che era insostenibile e fu abbassato al 3,5%; per i prestiti di guerra del Regno Unito la quota fu elevata al 4%. Politiche del genere, con due pesi e due misure, mantengono coscientemente e volutamente i paesi poveri dell’Africa in stato di schiavitù.
L’Onu sta preparando una conferenza per studiare il commercio illegale di armi leggere in tutti gli aspetti. Titti sanno che una stretta regolamentazione internazionale di tale commercio è un imperativo per arginare conflitti e violenza in Africa. Eppure, negli incontri preparatori, vari paesi ostacolano una nuova convenzione internazionale; dicono che bastano le regole attuali. Così il traffico legale e illegale continua.
Sono solo alcuni esempi di ingiustizie perpetrate dal Nord contro l’Africa. Ma bisogna ricordare che tutte le regole che puntellano tali ingiustizie sono ratificate nei nostri parlamenti e governi dai politici che abbiamo democraticamente eletti come nostri rappresentanti.
NUOVA COSCIENZA CIVILE
Ma non tutti sono pronti a professare il credo del libero mercato. Negli ultimi due anni vari gruppi di pressione hanno organizzato enormi proteste contro i vertici delle organizzazioni inteazionali (G7, Wto, Fmi…) per contestare il modo in cui prendono decisioni senza il coinvolgimento e consenso della gente.
Tali proteste sono troppo estese per essere etichettate come opera di pochi teppisti e teste calde. Sono appena la punta dell’iceberg del crescente scontento della gente. Da due decenni, persone ordinarie, ma bene informate, si uniscono a livello nazionale e internazionale per domandare ai governanti trasparenza, responsabilità e partecipazione nelle decisioni politiche.
È un imperativo morale per i governanti ascoltare tutte le voci della società, indipendentemente dall’affiliazione politica. Se i politici devono rispettare l’opinione del proprio collegio elettorale, hanno pure il dovere d’informare e mettere in guardia gli elettori sulle implicazioni e conseguenze che certe scelte politiche hanno sulla nostra vita e su quella del prossimo.
La voce di organizzazioni non governative, gruppi di pressione, organismi della società civile è un grido profetico per salvare la democrazia; quasi un aiuto divino per i politici nel momento di maggiore bisogno. Voci che indicano come dignità, lavoro, ambiente, valori culturali, trasparenza, corresponsabilità e partecipazione sono parte integrante del benessere e dello sviluppo.
La liberalizzazione sfrenata tende solo al profitto: è inaccettabile sia per la società occidentale che per i nostri fratelli e sorelle del Sud del mondo.
NOSTRA PRESSIONE POLITICA
È finito il tempo in cui analizzare e commentare argomenti conceenti la società era privilegio di accademici, politici e leaders religiosi. Anche noi missionari, con la «Rete fede e giustizia Europa-Africa» (Aefjn), ci siamo organizzati per raggiungere e informare i nostri rappresentanti, funzionari e partiti politici sulle conseguenze di certe politiche che devono votare.
Operiamo a Bruxelles, in sede di Commissione, dove nascono molte iniziative delle istituzioni europee. È il momento ideale: mentre esse sono in stato di progettazione, ci sediamo accanto ai funzionari disposti ad ascoltare i nostri punti di vista.
Quando le proposte della Commissione passano all’esame del Consiglio dei ministri e al Parlamento europeo, le Reti dislocate nei singoli paesi dell’Ue bombardano parlamentari, ministri, funzionari coinvolti nei vari progetti legislativi.
La nostra pressione continua a Bruxelles, quando le proposte passano alla Commissione permanente specifica, incaricata della revisione: presentiamo i nostri suggerimenti ai parlamentari e delegazioni, perché introducano eventuali emendamenti e dibattano e votino tali proposte in prima e seconda lettura.
Tutti questi momenti, a Bruxelles e nei paesi membri, sono occasioni per restituire alla democrazia il valore e l’importanza che merita. Ma non è un messaggio da far digerire facilmente: solidarietà con i poveri implica un cambiamento di stile di vita.
Sappiamo però, e lo sanno anche i politici, che questa è l’unica via per promuovere la giustizia, la pace e una più equa distribuzione dei doni della terra per questa generazione e quelle future.
Come cristiani e missionari, non possiamo fare a meno di essere coinvolti nelle politiche della stanza dei bottoni. Noi non tiriamo pietre, non ci incateniamo ai cancelli delle banche. Facciamo semplicemente ciò che ci dice il vangelo: amare il nostro prossimo come noi stessi. E lo facciamo affermando il diritto di partecipare creativamente nel processo decisionale, soprattutto quando sono in gioco i valori evangelici: i soli che possono portare pace vera e felicità alla società in cui viviamo. Una società non è solo la mia città, provincia o paese, ma il mondo intero.

* Luc Coppejans, della congregazione dei missionari per l’Africa (padri bianchi), è direttore responsabile del Segretariato della Rete fede e giustizia Africa-Europa (Aefjn).

Luc Copeejans




ECUADOR – Un “alito” di salute

È arrivato a buon termine il sogno
di un ospedale,
nato per gli indigeni
e costruito grazie
a un medico generoso.
Piccoli miracoli di ordinaria «provvidenza».

È stato finalmente inaugurato, nel mese di giugno 2000, nella missione di Punín (Ecuador), alla presenza di varie autorità, missionari e indios delle diverse comunità, l’ospedale «La Consolata». E ha avuto pure l’onore della cronaca di vari giornali locali.
Prima della cerimonia, il vescovo, monsignor Victor Corral, ha celebrato l’eucaristia come ringraziamento per la creazione di questa opera veramente necessaria.
Padre Davide Manca, missionario della Consolata, ha spiegato come il progetto, ideato nel 1996, sia diventato realtà grazie alla collaborazione del dottor Riccardo Grifoni. Questi, «scosso» da un articolo pubblicato su una rivista missionaria, si è dato da fare… e sono arrivati i finanziamenti dell’Associazione di volontariato «Alito» di Ancona. I lavori, iniziati nell’aprile 1999, si sono conclusi alcuni giorni prima della festa della Consolata e dell’inaugurazione (20 giugno 2000).
La costruzione, che ha avuto un costo di 65.000 dollari, verrà in aiuto non solo agli indigeni di Punín, ma anche a quelli di San Luis, Cebada, Flores e di altre comunità dei dintorni. Costoro avranno, d’ora in poi, l’opportunità di tenere sotto controllo la propria salute e a costi piuttosto contenuti; inoltre, come ha detto il dottor Carlos Torres, uno degli ideatori dell’opera, «saranno firmati accordi con altre istituzioni per puntare l’attenzione non solo sui malati, ma anche sulla prevenzione delle malattie».
Questi i dati scai di cronaca. Ma, per arrivare al giorno dell’inaugurazione, occorre partire un po’ più da lontano…

I n quel tempo (cioè all’inizio degli anni ’90) a Punín alcune situazioni, tra pazienti e medico, erano un po’ strane. Per ogni sorta di malattia, la meta obbligatoria era Riobamba, capitale del distretto. E lì succedeva che qualche medico, per farsi pagare, qualunque fosse la malattia del malato, riuscisse a far vendere ai poveri indigeni la stessa quantità di animali (unica fonte di sostentamento).
C’è stato chi, venuto in contatto con un anziano di una comunità, malato di cancro allo stadio terminale (e, peraltro, già visitato da un medico locale che gli aveva diagnosticato pochi giorni di vita), lo aveva operato lo stesso; con il risultato che il paziente, poche ore dopo era già spirato, ma intanto aveva sborsato un milione e mezzo di sucres (circa 500 dollari).
Lo stato di cose mi ha fatto pensare alla necessità non di un vero e proprio ospedale, quanto ad un piccolo centro sanitario che avesse funzione di «filtro».
Nel frattempo il medico di Punín, Carlos Torres, e io abbiamo discusso seriamente la questione e ci siamo trovati d’accordo su un punto: bisognava fare qualcosa per quella povera gente, che aveva tutto il diritto (sulla carta) alla salute, come qualunque cittadino di Quito o di Guayaquil. Siamo rimasti d’accordo che, al ritorno dal mio viaggio in Italia, nell’ottobre del 1996, avremmo ripreso le fila del discorso.
In realtà non ho aspettato il rientro in Ecuador. Soggioando in Svizzera, dove vive un mio fratello, ho condiviso con lui la seria preoccupazione per questo problema: e anch’egli ne ha fatto una causa propria, richiedendo il progetto della costruzione (poi modificato) e assumendo accordi con il comune di Losanna per ottenere un finanziamento di circa 5.000 franchi, da inviare a metà dell’opera.
Toai in Ecuador con il piccolo progetto in mano, ma che necessitava qualcosa di più che i 5.000 franchi, pur preziosi. Era necessario continuare a cercare…
La meta fu Quito, la capitale. Il primo tentativo lo feci alla Swissaid, associazione dipendente dall’ambasciata Svizzera; ma, per quell’anno, non erano previste spese per progetti sulla salute e la risposta mi venne data al terzo viaggio che facevo. Altre vie: Fepp, Coopi, Comité Economico de Proyectos, Mlal: tante sigle importanti, ma il tutto si concretizzò solo in una lunga serie di indirizzi e niente di più.
La salvezza arrivò invece (lo credereste?) dall’Africa. O, meglio, da un medico italiano, assolutamente sconosciuto, che ci chiedeva «il favore» di poter collaborare per la costruzione dell’ospedale.
Tutto ci sembrò un miracolo.

L a cosa era andata così. Nel febbraio del 1997, erano venuti a trovarci i genitori di padre Giannantonio Sozzi, missionario mio confratello, oggi in Colombia. La visita in Ecuador li aveva particolarmente colpiti. Pertanto, al loro rientro in Italia, avevano pubblicato le proprie impressioni sul bollettino parrocchiale. A quanto pare, quel resoconto piacque a molti. Fu anche riprodotto sulla rivista Missioni Consolata e, guarda caso (il mondo è davvero piccolo), una copia del giornale arrivò perfino in Kenya.
Fu così che il medico Riccardo Grifoni, che si trovava in quel paese, in un momento di pausa si era messo a leggere la rivista con interesse (il dottore è un volontario che, in certi periodi, ama «spendere» le sue vacanze, lavorando in diverse parti del mondo, a beneficio dei più disagiati)… Toando dall’Africa, si mise in contatto con i genitori del missionario, i quali a loro volta gli dissero che bisognava farsi sentire dai missionari di Punín.
Qui (gennaio 1998) incominciò la serie di contatti, che portò ad un accordo di collaborazione tra due associazioni: la prima, «Alito» (cui appartiene il dottor Grifoni), e la seconda, «Fundacíon la Consolata».
Si decise, dunque, che rappresentanti dell’associazione italiana (di Ancona) venissero a Punín per constatare personalmente la situazione: cosa che si realizzò nel novembre del 1998, mentre a dicembre giungeva l’approvazione del progetto da parte loro.

I lavori di costruzione dell’ospedale La Consolata cominciarono il 12 aprile del 1999 e tutto filò per il meglio.
Ma la finale della storia… la conoscete già.

Davide Manca




BURUNDI – Via dalla mia terra

Nel calderone dei Grandi Laghi africani, il Burundi continua a mietere le sue vittime. Anche tra i missionari italiani. In quattro mesi, due sono stati uccisi (Antonio Bargiggia e suor Gina Simionato) e un terzo gravemente ferito (don Carlo Masseroni). Chi resta si domanda perché e chiede giustizia. Nel frattempo, l’assassinio di Kabila (16 gennaio), presidente del vicino Congo (rd), ha reso più instabile tutta la regione. Qualcuno parla anche di una «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto controllo ruandese…

Quel mattino stavo andando a Murayi a 25 chilometri da Gitega, la seconda città del Burundi. Un amico mi chiama sul telefono portatile: «Pare ci sia stato un attacco vicino a Kibimba, ne sai niente?». Ero a tre chilometri dal posto.
Cerco di informarmi e mi accosto alla posizione militare di un campo di déplacés (sfollati, a maggioranza tutsi, che vivono in villaggi artificiali lungo le strade principali). Il soldato conferma: «Sì, è successo qualcosa, ma non c’è problema, non ci sono scontri in corso nella zona. Continuate pure. Nessun rischio». Sta per proseguire a piedi quando, tornato in dietro, in modo un po’ beffardo mi guarda e rivela: «È stato ucciso un muzungu (bianco), ma la situazione è sotto controllo».
In Burundi muoiono ogni giorno decine di persone a causa della guerra. Civili uccisi dalla guerriglia; contadini che cadono nelle rappresaglie dell’esercito regolare, altri presi tra i due fuochi. Ma, quando la vittima è uno straniero, il significato è molto più forte. È un messaggio che qualcuno vuole mandare.

È il tre ottobre scorso, quando Antonio Bargiggia, volontario laico consacrato, si ferma ad una barriera sulla strada che ogni settimana percorre per raggiungere la capitale.
Qualche discussione con i quattro uomini che lo hanno fermato. Poi uno finge di andare verso la parte posteriore dell’auto, si gira e gli spara un colpo alla nuca. I suoi compagni di viaggio (tre burundesi) fuggono incolumi.
Fratel Antonio (così era conosciuto in Burundi) era nel paese da 20 anni. Apparteneva a «Fratelli dei poveri», gruppo di religiosi e laici di Milano riconosciuto dal cardinal Martini. Da alcuni anni viveva a Buterere, uno dei quartieri più poveri della capitale. Zona di case di fango e lamiera, che ogni sera alle sei viene «chiusa»: nessuno può entrare o uscire fino al mattino dopo. Abitava in una casa burundese, come i burundesi più umili. Caso unico per un muzungu in questo paese.
«Antonio era una persona che mi incantava per la sua umiltà e per il saper stare con i locali. Era l’unico a preoccuparsi anche dei soldati. Diceva: “Poveri ragazzi, anche loro soffrono ma nessuno li considera”. Come apostolato, seguiva all’ospedale militare i feriti senza parenti, portando loro conforto». È la testimonianza di un volontario italiano, subito dopo l’accaduto. Eppure sono stati quattro giovani militari sui vent’anni gli esecutori.
Fuggiti con la sua macchina (strano errore, forse erano certi dell’impunità garantita dal loro mandante), sono stati arrestati un’ora dopo. Il governo si è subito preoccupato di affermare che erano disertori. Dopo un processo sommario, uno di loro (quello che aveva premuto il grilletto), è stato fucilato davanti ai suoi compagni e alla gente di Gitega.

Quindici ottobre. Verso le sette del mattino, la macchina delle suore Dorotee di Venezia lascia il seminario maggiore di Songa, nei pressi di Gitega, per dirigersi alla parrocchia di Gihiza dove le suore abitano. Il giorno prima erano venute a dormire al seminario, perché c’erano «strani movimenti» intorno alla missione. Poco prima di arrivare vedono un gruppo di persone sulla strada. Partono alcune raffiche di mitra che investono suor Gina Simionato, unica italiana, al volante. La suora trevigiana è colpita al volto e muore sul colpo. Delle tre consorelle burundesi che la accompagnano, una si fa un graffio. Si dirà che la macchina è caduta in un attentato dei ribelli che hanno sparato all’impazzata. Osservando la vettura, risulta invece chiaro che i colpi erano tutti indirizzati al guidatore muzungu. Un proiettile ha lasciato un buco molto grosso nella carrozzeria posteriore: non si trattava forse di un semplice kalashnikov.
Al contrario dell’attacco di Kibimba, qui non si scopre chi sia l’autore. L’accusa cade subito sui ribelli che da alcuni giorni girano nella zona. Ma l’attentato è avvenuto a circa cinque chilometri da una posizione militare e le testimonianze lasciano molti dubbi sulla cronologia esatta dei fatti. «Non sembra lo schema utilizzato dalla ribellione», confida un giornalista della capitale. Possono essere stati i militari, ma anche le bande di estremisti tutsi, già famose a Gitega, pilotate da un potere nascosto ma presente ed efficace, che forse sta riacquistando consensi a causa della situazione politica.
Il Burundi è devastato da una guerra civile dal 21 ottobre del 1993, quando il primo presidente democratico, l’hutu Melchior Ndadaye, fu arrestato e ucciso da un gruppo di militari estremisti. Da allora l’esercito, a maggioranza tutsi (oggi però, per mancanza di forze, esso impiega anche molti giovani hutu), e diversi gruppi armati ribelli a dominante hutu, si scontrano. O meglio, saccheggiano e massacrano la popolazione civile dei due campi.
Dopo diversi tentativi di pacificazione, Nelson Mandela, mediatore della crisi burundese dal dicembre 1999 (succeduto allo scomparso Julius Nyerere), è riuscito a portare 19 partiti burundesi a siglare un accordo-quadro il 28 agosto scorso ad Arusha, in Tanzania. La debolezza di questa firma sta nel fatto che molti partiti (soprattutto quelli legati all’estremismo tutsi) hanno firmato con riserve. Questo vuol dire che tutti i passi più importanti sono da ridiscutere e negoziare (presidenza di transizione, rappresentanza etnica nell’esercito, nella giustizia e nell’amministrazione). Ancor peggio: nonostante gli sforzi di Mandela, i due maggiori gruppi ribelli hutu, le «Forze per la difesa della democrazia» (Fdd) e le «Forze nazionali di liberazione» (Fnl), quelli che hanno gli eserciti sul campo, non erano presenti ai negoziati che hanno portato alla firma.
Incontri diretti tra il presidente della repubblica, il maggiore Pierre Buyoya, e il leader dell’Fdd, Jean-Bosco Ndayikengurukiye sono in corso in Sudafrica e potrebbero portare a qualche passo positivo. Nel paese, però, domina la paura. Paura dei tutsi che, come minoranza, temono un esercito misto, perché le forze armate burundesi, guidate da ufficiali tutsi, soprattutto del sud, sono la loro unica vera garanzia di non essere prevaricati dall’80-85% hutu e di mantenere i loro privilegi. Paura del popolo contadino a maggioranza hutu, che subisce sempre più i saccheggi della guerriglia e le rappresaglie dei militari. Paura dei pochi intellettuali hutu delle città, che rischiano di essere presi di mira, come è già successo in passato.
Per questo, dal 28 agosto le azioni di guerra, invece che diminuire, si sono intensificate. Da un lato i guerriglieri sono tornati a far sentire le armi, per mostrare il loro potere negoziale, dall’altro cresce il malcontento tra gli ufficiali dell’esercito che si oppongono alla firma e le frange estremiste tutsi hanno ripreso a organizzarsi. «Il tempo è poco – racconta un membro della delegazione governativa ad Arusha – il presidente potrebbe avere problemi a tenere calmi i vertici militari ancora per molto. D’altro lato i ribelli sono ben equipaggiati anche grazie al loro intervento in Congo e non hanno tutta questa voglia di scendere a patti». Kinshasa fornisce all’Fdd di Jean-Bosco armi e protezione, in cambio l’armata ribelle difende il fronte a Lubumbashi (capitale dello Shaba, nel sud) contro l’avanzata dell’esercito regolare burundese. Una guerra con caratteristiche sempre più regionali.
L’assassinio di Kabila, in Congo, il 16 gennaio scorso, ha l’effetto di sbilanciare ancora di più l’instabile equilibrio dei Grandi Laghi. Gli alleati burundesi del defunto presidente congolese si trovano ora in una posizione di svantaggio, perché viene loro a mancare un partner importante. Sentendosi meno forti potrebbero essere più disponibili a trattare. D’altro lato, il governo del Burundi (ma soprattutto gli estremisti tutsi) si irrigidiranno, forti della scomparsa del nemico di Kinshasa. Andando oltre, gli eserciti ruandese, ugandese e burundese, che occupano e saccheggiano quasi la metà della Repubblica democratica del Congo, potrebbero, ancora una volta, avanzare verso la capitale, oppure tentare l’annessione formale dei vasti territori occupati.
Già da tempo si parla di una fantomatica «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto il controllo ruandese.

Intanto, in Burundi, si cercano ancora delle risposte. «Ma perché questi attacchi a religiosi italiani?». Si chiede un missionario da anni nel paese. «Se contiamo anche la pallottola sparata a freddo in faccia a don Carlo Masseroni (missionario fidei donum di Novara), vivo solo per miracolo, a luglio, siamo già a tre: tutti con modalità simili». Già, perché? Non è la prima volta (nel settembre 1995 due padri saveriani e una volontaria furono giustiziati a casa loro dai militari). Perché sono testimoni scomodi, perché lavorano a fianco della popolazione più abbandonata e sono tra i pochi a sapere e, a volte, a denunciare, in questo paese dove la stampa è ancora imbavagliata. Ma anche perché spesso sono gli obiettivi più facili e indifesi.
Fratel Antonio era a conoscenza di molti problemi di Buterere, tra cui questioni di terra. Don Carlo aveva riconosciuto i militari che, per la seconda volta in pochi mesi, erano tornati a rubare alla missione. Chi ha ucciso fratel Antonio era stato visto il giorno prima, nello stesso luogo, a informarsi sui movimenti dell’italiano. Allo stesso modo, alcuni sconosciuti chiedevano quando sarebbero tornate le suore, i giorni precedenti all’imboscata di Gihiza.
Ma secondo altri (per prima la comunità internazionale) «sono casi isolati di banditismo, senza nessuna relazione tra loro»; a scopo di furto, è la tesi più accreditata, quando invece i religiosi non avevano soldi addosso. Addirittura si sente dire: «Le vittime viaggiavano a orari non conformi alle norme di sicurezza, nei quali il governo burundese non può garantire la protezione degli stranieri».
Questi sono i ragionamenti di chi vuole archiviare il caso e non creare problemi ai propri partner governativi. I media locali non danno spazio a questi gravi fatti (soprattutto il secondo passa sotto silenzio) e gli operatori umanitari di Nazioni Unite e organismi inteazionali non ricevono (tranne quelli italiani) particolari consegne di sicurezza.

Tra i religiosi e volontari italiani si accusa il colpo. Molta tristezza, condivisione, ma anche un po’ di remissione: «È la vita dei missionari», confida un’anziana suora. «Vanno bene i martiri, ma vogliamo pure giustizia», replica un missionario laico.

Marco Bello




Con quel sorriso all’americana

Se si va fuori tema

Eros Benvenuto su Missioni Consolata di dicembre s’indigna, perché al meeting di CL è stato applaudito Berlusconi. Domanda: uguale costeazione sarebbe scaturita se sul palco fossero saliti altri imprenditori, come Agnelli o Moratti? Inoltre che cos’è questo vituperato neoliberismo? È chiaro che, per i citati imprenditori, si tratta di capitalismo.
Al capitalismo è ascrivibile il benessere di massa dei popoli occidentali, i quali (pur fra ingiustizie e squilibri) da circa 50 anni mangiano carne tutti i giorni e vestono con garbo. Anche le cattedrali del medioevo sono frutto dello sviluppo dei commerci e delle manifatture del tempo: Giotto o Aolfo non avrebbero mai realizzato le loro opere senza gli intraprendenti capitalisti dell’epoca.
L’Italia invia soldati in Bosnia, Kosovo, Africa… con ingenti risorse. Non sono molte le nazioni che lo fanno. Solo i paesi ricchi possono permettersi di essere generosi. I mali del mondo possono arrivare con o senza capitalismo, ma sicuramente allignano meglio dove c’è miseria.
Pur non amando Berlusconi, ho intuito che l’odio che egli suscita in molti gonzi non deriva dal fatto che è ricco, ma solo perché osa rompere l’ipocrisia catto-comunista che demonizza la ricchezza: egli rivendica il diritto-dovere di coltivare nel migliore dei modi l’impresa economica, e lo fa con un «sorriso all’americana» che ferisce l’aura sacerdotale dei piagnoni e menagramo.
La sinistra invoca pane, lavoro e aumenti di stipendio. Signor Benvenuto, conosce lei un modo per dare lavoro alla gente senza sufficienti imprese? Ipocrisia massima, quella della sinistra, perché finge di ignorare che, nel moderno capitalismo, l’esistenza dell’impresa non può che derivare da lavoro e sviluppo per molti. Ipocrisia massima, perché si contrappone il «pubblico» (buono) al «privato» (cattivo). Oggi solo i bigotti non si accorgono che in Italia le cose pubbliche sono la più massiccia e illegale privatizzazione a favore dei mille e mille clienti della politica; questi dilapidano le risorse della nazione e coltivano il parassitismo di massa.
Se non sono scemo del tutto, mi pare d’aver capito che la concorrenza è mondiale e che i margini di sopravvivenza sul mercato planetario sono sempre più stretti, con grave rischio delle stesse imprese. Constato che il più contento, in un mondo senza concorrenza, sarebbe il famoso padrone, i suoi operai e tecnici. È un meccanismo economico privo di senso? Senz’altro. Esiste allora un’autorità mondiale capace di imporre a tutti, contemporaneamente, un ordine più umano? Non c’è.
E quell’azienda che smettesse di correre col passo imposto dall’equilibrio mondiale, hic et nunc sarebbe fuori dal mercato, sostituita da qualche giapponese o australiano. Le imprese per vivere hanno bisogno di meno vincoli e tasse: ecco il neoliberismo, cioè il capitalismo di quest’epoca matura. Tutte le imprese vi si adeguano senza clamore.
«Multinazionale» è una qualifica che si acquisisce quando l’impresa estende la sua azione fuori del confine nazionale. Ma c’è multinazionale e multinazionale: è innegabile che alcune impongano scelte ai governi. Ma allora, più che con le multinazionali (che fanno il loro mestiere), prendetevela con i governi, i partiti e i singoli politici immeritatamente eletti a rappresentare l’interesse generale.
Così avviene nell’Unione Europea, che non perde occasione di assecondare gli interessi forti, come è stata la direttiva nel marzo 2000, che consente di produrre cioccolato con surrogati sintetici del burro di cacao, a danno dei paesi africani che nel cacao hanno le uniche risorse. Il parlamento europeo ha una schiacciante maggioranza di sinistra.
Caro Benvenuto, non sono né nato ieri, né sono cieco. Il mondo è pieno di violenza e truffe legalizzate, specie il terzo e quarto mondo. Il vero problema è che a quei paesi manca un sufficiente ceto medio, che sappia creare un sufficiente tessuto produttivo e imprenditoriale, che al tempo stesso porterebbe sviluppo a (quasi) tutti e democrazia più sostanziale. Mancano tanti «berlusconcini». La ricchezza si genera con la ricchezza, non con la miseria. Non le va bene, Benvenuto? Foisca lei la medicina. Ma che non sia l’unilaterale rinuncia di un paese alla ricchezza, alla prosperità, alla storia; che non sia una suicida uscita dalla capacità competitiva mondiale.
Qui entra in ballo la distinzione tra politica e individuo. In una persona è nobile la rinuncia alla ricchezza e la scelta del sacrificio. Ma guai a chi impone tali valori a tutti per via politica! Egli sarebbe un nuovo tiranno… Non esiste impegno politico senza perseguire il benessere materiale del popolo amministrato.
Ricuso poi in toto l’intervista al presidente Violante (ancora Missioni Consolata, dicembre 2000): mi vergogno di imbattermi in simili monumenti all’ipocrisia e demagogia. Si scandalizza perché la distanza tra paesi ricchi e poveri aumenta a forbice, indugiando sterilmente «sulle colpe dell’occidente», quando la colpa della miseria di tanti paesi è nelle loro classi dirigenti, che intercettano e sprecano le risorse. È evidente che la forbice non può che aumentare, perché, mentre i poveri hanno uno sviluppo zero o quasi, i ricchi vanno avanti in ricerca tecnologica, produzione e servizi.
Soprattutto non sopporto chi colpevolizza i cittadini dei paesi ricchi, cioè noi, come se il nostro essere ricchi fosse un «regno di bengodi», quando invece sappiamo che, accanto allo stereo-video-computer del nostro salotto, c’è fatica quotidiana, il mutuo da pagare, l’accompagnare i figli, le tensioni nel lavoro. Vi sono spesso solitudine e sofferenza. E tanta violenza dello stato che pretende, ma getta follemente dalla finestra.
Insomma, cari signori, volete la ricchezza degli italiani o la povertà? Io scelgo la ricchezza economica, che non può che favorire la maturazione sociale e culturale, la generosità verso i più sfortunati.
Ritornando a Violante, l’intervistatore e l’intervistato, prigionieri dei loro schemi pauperisti e terzomondisti, giocano ad un rimpiattino inconcludente: il primo chiede se sia giusto intervenire militarmente e il secondo risponde che non è giusto, che però è indispensabile. Siate almeno logici!
Vi sta a cuore la sofferenza di questo e quel paese? Allora intervenite, sostituitevi al ducetto locale e gestite come ritenete più produttivo le risorse, che dopo tutto sono vostre (nostre). Altrimenti, se dovete alimentare i mille ras del terzo mondo (solo per rispettare l’autonomia degli stati) è meglio stare a casa.
Si chiama neocolonialismo e vi stracciate le vesti?
Luigi Fressoia – Perugia

Eros Benvenuto non si è indignato per l’applauso a Berlusconi, ma perché il battimano è venuto dagli stessi giovani che, poco prima, avevano applaudito il papa. La differenza è sostanziale. Infatti una cosa è la dottrina sociale del papa… un’altra quella del cavaliere.
Il suo interessante intervento, signor Fressoia, è quindi fuori tema, compresi gli insulti.

Nessun partito!

S ono un ex allievo dei missionari della Consolata, dei quali conservo un bel ricordo. Spero anche di essere un buon cristiano. Ma ho convinzioni politiche di centro-destra: è peccato? Se dovessi dare credito a ciò che scrive Eros Benvenuto direi di sì.
Io non chiedo che Missioni Consolata passi dalla mia parte, ma mi sembra lecito sperare che non faccia distinzioni fra i leaders di centro-destra e quelli di centro-sinistra.
Il neoliberismo potrà forse essere una colpa, ma la dottrina sociale degli attuali governanti fa acqua da tutte le parti, al di là delle belle parole di Violante. Si deve ricordare al signor Benvenuto che, negli ultimi cinque anni, i poveri sono aumentati anche in Italia e i ricchi… pure!
Il mio è un modesto parere, del quale probabilmente lei non terrà alcun conto. Sappia comunque che io condividerò sempre le battaglie della rivista in favore degli ultimi del mondo. Non mi piacerebbe, tuttavia, che ad esse fosse associata in Italia una precisa idea politica, in un momento in cui l’atteggiamento caramelloso di certi capi fa presumere che «tutto va bene e tutto fa brodo».
Luigi Trobbiani – Roma

Missioni Consolata non sposa i partiti politici. Però deve giudicare «i segni dei tempi», specie se sono contro i poveri. Se non lo facesse, sarebbe ipocrita (cfr. Lc 12, 56).

Una voce fuori dal coro

È una piacevole sorpresa Missioni Consolata. È uno spaccato dell’omonimo istituto, che per i torinesi (e non solo) rappresenta un riferimento storico ed un esempio di come si possa vivere il vangelo radicandolo tra le persone con semplicità. Questa è diventata una dote rara in un’epoca in cui ogni messaggio è urlato, super-invasivo e suadente, come i mega manifesti, correlati di faccione, che tappezzano le nostre città promettendo cose vane con slogan degni di una campagna pubblicitaria per detersivi.
La rivista è una piacevole sorpresa, perché ho apprezzato il dibattito sulla globalizzazione. Una scelta coraggiosa, non solo perché fa riflettere (cosa non da poco in un’epoca dove tutto è banalizzato), ma anche perché è una voce fuori dal coro.
Dopo la fine del dualismo politico «Usa-Urss» e ideologico «capitalismo-comunismo», avvenuto con il crollo del muro di Berlino, ha preso piede un’unica ideologia o religione mondiale: questa, lungi dal rispondere ai bisogni delle persone, ha aumentato in modo esponenziale gli esclusi. Il neoliberismo è osannato come l’unica vera via verso la crescita economica costante (valore insindacabile per i fautori della nuova religione); e, naturalmente, può essere solo di tipo euro-statunitense. Nessuno osa dissentire.
Questo sta portando all’eliminazione delle tutele sociali che hanno reso l’Europa con il minor numero in percentuale di poveri nel mondo e con la qualità di vita più alta. Intanto gli Stati Uniti, con oltre 40 milioni di poveri e il debito pubblico più alto del mondo, sono presi come riferimento. Non solo. Essendo il mondo occidentale l’area più potente del pianeta sta estendendo il dominio e l’ideologia, con l’ausilio della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, in tutti i continenti.
Il messaggio sembra essere: «Voi avete sbagliato tutto, solo noi siamo democratici e sviluppati. Quindi diventate come noi». Come se il sottosviluppo fosse colpa dei poveri! Sembra che la natura abbia beffardamente relegato tutte le risorse naturali (che hanno permesso alle nazioni del nord di svilupparsi) in paesi poveri abitati da ignoranti e governati da dittatori miopi e sanguinari.
È urgente comprendere il presente nella sua complessità, denunciare le mistificazioni senza timori reverenziali, per pensare ad un futuro che metta l’uomo al centro delle priorità del mondo politico e che i bisogni basilari diventino diritti fondamentali.
In Italia si sente l’esigenza di «voci fuori dal coro», che si elevino al di sopra dell’attuale dibattito politico, fatto di schiamazzi, slogan razzisti e populisti. Questo, visti gli attentati al duomo di Milano e a il manifesto, può far ricadere il paese nella violenza e in un periodo buio che pensavamo finito.
Missioni Consolata, prosegui sulla strada intrapresa. Grazie.
Luca Graziano – Torino

aa.vv.




Islàm e buonisti

Islàm e buonisti

S ignor direttore, intendo replicare contro le affermazioni offensive di alcuni lettori nei miei confronti. La vita mi ha consentito di conoscere l’islàm e di scoperchiare un nido di serpenti. I miei articoli mirano a far conoscere agli ingenui ciò che potrebbe capitare anche a loro. Sono un ex novizio dei padri comboniani e ho sempre agito secondo la mia fede cristiana.
Le frasi tratte dal giornale valdostano non sono inventate, ma ricavate da vari scritti; riguardano soprattutto l’articolo «Gesù e Maria nell’islàm» del 3 giugno 1999. La suora dell’istituto citato probabilmente non ricorda bene il dialogo; era molto indaffarata e dovetti aspettare mezzora prima di essere ricevuto. Nel frattempo ebbi modo di parlare con un’altra persona della casa.
Del mio articolo, apparso su Missioni Consolata, probabilmente hanno molto colpito le foto e il titolo: questi sono opera della redazione, non mia.
Consiglio a tutti di leggere «Gli scritti» del Comboni (Emi, Bologna), dove si documenta come il missionario abbia combattuto lo schiavismo e la malvagità dei seguaci di Maometto.
Michel Barin – Aosta

Di Michel Barin Missioni Consolata di giugno 2000 ha pubblicato «La moschea in convento», che ha suscitato approvazioni e rifiuti.
H o letto su Missioni Consolata di dicembre 2000 la critica sul cardinale Biffi: mi pare che lo scrivente Al. Za. non abbia capito molto. Non si nega l’ospitalità al povero, però si chiede un adeguamento alle nostre usanze. La teologia musulmana ha certamente lati positivi, ma non mi pare che gli immigrati musulmani si dimostrino sempre disposti a considerarsi ospiti. Forse la teologia islamica è stata travisata proprio da molti musulmani.
Come la mettiamo con la continua uccisione di cristiani, l’integralismo, la sharia imperante e l’inammissibile indissolubilità fra religione e politica? E la musulmana schiavitù della donna, che nel cristianesimo è invece onorata?
Con tutta l’accondiscendenza verso le altre religioni, dov’è finita l’evangelizzazione, lasciata come compito primario dal Salvatore agli apostoli? Disse di predicare la buona novella o di aiutare a costruire templi a Zeus?
Evitiamo un malinteso buonismo politico almeno nel comportamento cristiano, che deve essere aperto alla carità, ma saldo nella fede e nell’adempimento e difesa della dottrina di Gesù Cristo.
Perché Al. Za. non va a costruire una chiesa cattolica a Baghdad?
dott. Benedetta Rossi – Bologna

«Al. Za.» sta per Alex Zanotelli, missionario comboniano nella bidonville di Korogocho (Kenya).

aa. vv.




Non buttare la spugna

Carissimo direttore,
qui la vita procede come al solito: lavoro, volontariato, oratorio: questo mi fa sentire vivo; tento di non rintanarmi nel mio comodo, perché finirei nell’egoismo. È nel dare che si riceve, e il ricevuto si triplica rispetto al dato.
Purtroppo questo modo di impostare la vita è dato per perdente. Compassione, comprensione, preghiera, silenzio? Buttiamoli via subito, perché sono un fardello che rallenta la corsa verso il benessere.
L’alternativa è dunque la Ferrari, il costoso capo firmato? Benessere è spendere e spandere?
Ma, accanto a questo mondo dell’apparire, ne esiste un altro: dice che l’«essere» batte l’«avere»… Sono sicuro che la strada da intraprendere o, meglio, da continuare è quella che ci ha insegnato 2001 anni fa un certo Gesù.
Senza buttare la spugna.
Giovanni Fumagalli
Casatenovo (LC

Giovanni Fumagalli




L’anello del vescovo

Cari missionari,
sono un’assidua lettrice della rivista. Mia mamma Maria è nipote del vescovo Attilio Beltramino, primo vescovo di Iringa (Tanzania). Avrei piacere che lo ricordaste nel vostro mensile. Ho un bel ricordo di lui.
Io, piccola, vedevo quell’uomo vestito di bianco, dolce e affabile con tutti. Mi è rimasta impressa la sua semplicità. Portava al dito un anello, per me bellissimo: ogni volta che lo incontravo gli chiedevo di regalarmelo. Nelle sue parole non c’era posto più bello della sua Africa e per nessuna ragione avrebbe voluto restare con noi. Che figura straordinaria!
Elena Bottani
Roletto (TO)

Te ne sei accorta, Elena? Lo zio è comparso nel numero scorso, dedicato ai 100 anni dei missionari della Consolata.

Elena Bottani




Attenti “pastori”

Egregio direttore,
la risposta alla mia lettera, su Missioni Consolata di dicembre, mi riempie di amarezza, perché io non ho sollevato il problema della diversità di opinioni tra due vescovi della chiesa peruviana.
Il redattore del «dossier» può anche non condividere il pensiero di monsignor Cipriani, ma gli deve il rispetto che ha per monsignor Bambaren. Al fine di accentuare la diversità tra «le due massime autorità della chiesa peruviana», non è onesto sottolineare che Cipriani appartiene all’Opus Dei non precisando l’appartenenza di Bambaren!
Signor direttore, quale fedele abbonato alla rivista, le rinnovo la stima; ma la sua distinzione tra «giudicare» e «condannare» non mi convince dal punto di vista evangelico. Alcuni pastori dal pulpito dicono a noi laici «non giudicate», rivendicando tale potere solo a se stessi e dimenticando il «guai a voi, scribi e farisei…» (Mt 23).
Ferruccio Gandolini
Castellanza (VA)

E questi scribi e farisei modei sbagliano!

Ferruccio Gandolini




Mozambico, università cattolica

Caro direttore,
con piacere ho letto «Protetti persino da… una suora» (Missioni Consolata, settembre 2000). L’articolo riguarda l’università cattolica del Mozambico. Dopo gli accordi di pace di Roma(1992), il paese ora è uno dei «successi» dell’Africa e l’università cattolica rafforza la speranza della nazione. È anche un onore vedere che i missionari della Consolata sono stati scelti per avviare e portare avanti la grande opera.
Ma, leggendo l’articolo, non posso nascondere il mio stupore. Se non sbaglio, sembra che l’università cattolica sia lasciata a se stessa… Tutti i missionari che hanno lavorato seriamente in Africa conoscono l’importanza strategica dell’educazione, secondo il detto: «È meglio insegnare a pescare che dare il pesce».
Io penso che l’università cattolica del Mozambico debba essere maggiormente sostenuta dai missionari della Consolata. Tra l’altro, il rettore e il vicerettore non sono membri dell’Istituto?
Sarebbe un «affare» anche per lo stesso Istituto far credito all’università secondo criteri commerciali e di solidarietà. E non c’è da temere il fallimento: infatti l’università ha sempre pagato i debiti fino all’ultimo centesimo.
Mi congratulo con i padri Couto e Ponsi, nonché con suor Dalmazia (rispettivamente rettore, vicerettore e docente all’università) per il loro impegno. Mi auguro che questi confratelli non siano lasciati soli, ma sostenuti dall’intera nostra famiglia missionaria. Non è anche questo un bel modo di celebrare il nostro centenario. O mi sbaglio?
p. Marco Bagnarol
Portogallo

Non ti sbagli, caro padre Marco! Un famoso principio della morale cattolica recita: caritas incipit ab egone. La carità inizia in famiglia.

p. Marco Bagnarol




Problemi per una volontaria

Cari missionari,
sono un’infermiera professionale nell’ospedale di Lonato-Desenzano (BS) e seguo con interesse la rubrica «Come sta Fatou?», perché ho vissuto un anno in Mozambico. Per compiere tale esperienza, ho dovuto chiedere l’aspettativa non retribuita. Inoltre solo l’insistenza verso il direttore dell’ospedale mi ha permesso di avere il nulla osta alla partenza.
In Mozambico ho lavorato in un centro de saude. L’impreparazione a trattare malattie tropicali mi ha costretta all’umiltà. Anche il numero contato di siringhe, gli aghi spuntati, la mancanza di energia elettrica, le modalità di sterilizzazione senza controprova… mi hanno ridimensionato come infermiera, che in Italia ha tutto.
Segnalo due problemi:
– la mancanza in Italia di corsi per infermieri sulle malattie tropicali (corsi «accessibili» per costo e modalità);
– una legislazione che non salvaguarda il lavoro al partente e lo penalizza (vedi il mio caso) anche nei contributi previdenziali.
Sono tante le persone disponibili ad impegnarsi nel sud del mondo; ma forse sono intimidite dalla burocrazia e da richieste considerevoli di esperienza, logistica e organizzazione… come certi gruppi esigono.
Ringrazio le missionarie comboniane per la pazienza nei miei confronti. Professionalmente ho dato niente; ma è stato per me un grande «tirocinio» umano e cristiano.
Claretta Boselli
Volta Mantovana (MN)

I problemi sollevati sono vecchi, ma purtroppo attuali.

Claretta Boselli