Una missione leggera

Oggi è urgente schierarsi: o nella geografia dei forti o in quella dei deboli, degli inclusi o esclusi, degli utili o inutili. Non si può giocare, nello stesso tempo, con i poveri e con i sistemi che producono povertà.
Il vangelo non lascia scampi: occorre situarsi con «i dannati della terra». Questi, tuttavia, diventano il luogo ermeneutico per interpretare il mondo e la chiesa, per elaborare e vivere la fede, per interrogarsi sui mezzi e collocarsi davanti ai nuovi poteri. Fuori dei poveri non c’è salvezza!
Perché i poveri? Perché li ha scelti il Signore: è la ragione più valida; perché sono la maggioranza: e, stando con loro, si sta con tutti. Questo comporta: essenzialità e coerenza dell’annuncio; una grande libertà dal potere (collateralismi politici, teocrazie, potere dei soldi); la giusta misura dei mezzi (annuncio ai poveri e annuncio povero del vangelo).
L a chiesa dell’America Latina, nel 1979 a Puebla (Messico) ricordava: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale, in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, tale immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù».
Così, a dieci anni dalla Conferenza di Medellin (Colombia), la chiesa povera:
– denuncia l’ingiusta carenza dei beni di questo mondo e il peccato che ne è la causa;
– predica e vive la povertà come atteggiamento di semplicità spirituale e apertura al Signore;
– s’impegna essa stessa nella povertà materiale. La povertà della chiesa è una costante della storia della salvezza.
N el vangelo di Luca si legge: «Gesù disse ai discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio: né bastone né sacca, né pane né denaro; non abbiate tunica di ricambio… Ed essi, partiti, andavano di villaggio in villaggio, evangelizzando e operando guarigioni dappertutto”» (Lc 9, 3).
Senza creare contrapposizioni inutili o essere paladini del pauperismo, oggi molti sentono la necessità di una missione più «leggera» ed essenziale, più sbilanciata su un patrimonio di grande humanitas, fondata in una soda spiritualità, ricca di Parola e animata dal grande desiderio di incarnazione, piuttosto che affogata da ingenti mezzi, strutture, burocrazie.
Per esperienza, so che non è facile mantenere un sano equilibrio. Allora ogni tanto bisogna avere il coraggio di fermarsi per una serena autocritica.
Eesto Viscardi

Eesto Viscardi




Non solo un campo da gioco

Trecento mini atleti

La «maratonina di minibasket» è un’iniziativa che ha coinvolto 22 squadre di bambini dai 10 agli 11 anni. Hanno dato vita a 11 incontri di pallacanestro durante l’intera giornata del 3 dicembre 2000, dalle ore 10 alle 21, senza sosta: una maratona dunque. I giovani atleti appartengono alle più importanti società cestistiche di Torino e provincia e sono stati i protagonisti assoluti della manifestazione.
Le partite si sono susseguite a ritmo serrato: ad ogni ora nuovi giocatori calcavano il «parquet» degli impianti del C.U.S. Torino, la società organizzatrice. Il risultato di ogni partita incrementava il «punteggio complessivo» di due schieramenti, nei quali rientravano le singole squadre, in maglia bianca o blu: infatti le varie società, messe da parte le proprie divise, indossavano solo le maglie della manifestazione. In campo regnava tanta amicizia, ma anche un pizzico di agonismo, per una giornata di un buon minibasket.
Nella parte centrale del pomeriggio l’«All Star Game», ossia la partita delle «stelle», con i migliori giocatori di ogni squadra, ha attirato un massiccio afflusso di pubblico. È stato un grande momento di aggregazione.
I mini atleti intervenuti sono stati circa 300 e gli spettatori molti di più, nonostante il blocco della circolazione automobilistica che ha minacciato la riuscita della manifestazione.
Con 8 mila lire
L’obiettivo della «maratonina» è stato: «regalare un campo» ai ragazzi di Suguta Marmar, in Kenya. «Missione compiuta», grazie alla generosità di tutti i partecipanti, grandi e piccoli: grandi come i genitori, che hanno riempito la cassetta delle offerte, e piccoli come i bambini, che hanno versato 8 mila lire a testa per partecipare. La quota di partecipazione ha avuto un aspetto educativo importante: infatti si è trattato di denaro «risparmiato e donato» dai ragazzi stessi, e non semplicemente attinto dal portafoglio di papà.
Ma, oltre ai soldi, ci sono state le magliette regalate ai bambini, gli impianti sportivi utilizzati gratuitamente e tanto, tantissimo tempo di sensibilizzazione. Per non parlare del lavoro.

Regalare un campo

L’idea di costruire un campo di pallacanestro non è degli organizzatori. Nasce direttamente da padre Isaia, il parroco kenyano di Suguta Marmar. L’esigenza è quella di fornire ai suoi ragazzi un passatempo, di strapparli dall’ozio e (probabilmente) dalla criminalità, di educarli all’impegno e al rispetto delle regole attraverso lo sport. Questo è stato l’«anello» che ha unito il prete africano agli istruttori e allenatori torinesi, che credono già nel valore della solidarietà e la vivono, anche se in altri contesti. In questo caso si sono affidati anche al valore educativo dello sport.
Ma «regalare un campo» a bambini africani è anche un modo concreto per ricordare a tantissimi coetanei italiani che «fare dello sport» non è di tutti, e che praticarlo in strutture adeguate (come quella che ha ospitato la manifestazione) lo è ancora di meno.
Allora tutto diventa uno stimolo in più per toccare sul vivo i ragazzi, che praticano il basket con passione e impegno. Un’occasione per regalare ciò che più ci sta a cuore.

Se il Kenya aiuta l’Italia

È stato un altro grande obiettivo della «maratonina». E cioè: non solo raccogliere soldi, ma anche e soprattutto raccontare (forse per la prima volta) una realtà diversa, un mondo lontano e povero, povero non per caso. Ancora: rendere familiare il nome «Suguta Marmar» attraverso i volti dei suoi bambini (anche se visti solo in foto), che vivono nel bisogno. In una parola: sensibilizzare.
Far sì, per esempio, che il bambino italiano noti con stupore che i suoi coetanei kenyani sono scalzi e si chieda: «E come fanno a giocare a basket?».
Sarebbe molto se i nostri bambini aiutassero quelli kenyani. Ma sarebbe ancora di più se il Kenya «aiutasse» l’Italia.

La mia esperienza
È stata quella di aver conosciuto, attraverso i missionari della Consolata, padre Isaia in Kenya, di aver riso con i bambini di Suguta Marmar, di averli anche fotografati, «portati» a Torino, fatti incontrare con tanti compagni piemontesi.
È stata un’avventura, una scoperta. La scoperta di quanto la nostra gente sia ancora disposta a dare e di quanto «lontano» si vada… se uno ci prova: «lontano» secondo il mio punto di vista, chiaramente.
Ho provato la gioia di vedere qualcuno lavorare duramente per sostenere la «mia causa», per aiutare qualcuno che non conosceva. Ho avuto la sorpresa di vedere cose, complicate burocraticamente, comporsi a poco a poco, con fatica ed entusiasmo. E sono diventato euforico allorché «Suguta Marmar» è apparso (certamente per la prima volta) anche su La Stampa. Così, d’ora in poi, quello sperduto villaggio di samburu sarà meno sconosciuto.
Ma se c’è la gioia di aver fatto qualcosa, coinvolgendo tante persone, c’è pure la consapevolezza che moltissimo è in «lista d’attesa».

Sandro Busso




Chi paga i suonatori sceglie pure la musica

«Soldi-e-missione»: un intreccio complesso e… delicato.
Infatti sono pochi quanti accettano
che si guardi nel loro portafoglio! Per portare un esempio,
nel 1998 i vescovi italiani contavano 135 miliardi di lire
(frutto della generosità dei cattolici)
da offrire ai poveri nel Sud del mondo. Come l’hanno fatto?
E bastano i denari per vincere il sottosviluppo?

«Soldi» e «missione». Due temi contrastanti? Eppure la missione fa uso di risorse finanziarie e il loro impiego indica uno stile di evangelizzazione. L’argomento «soldi e missione» è spinoso:
– esiste un certo pudore quando si parla di «soldi e missione», come se vi fosse un livello spirituale prioritario… e il resto entrasse accidentalmente. Il denaro allora assume una valenza negativa (l’idolo «denaro»). Il trattae contaminerebbe la purezza missionaria;
– in missione si è pronti a condividere le esperienze, però non il portafoglio. Ci sono lodevoli sforzi di trasparenza; ma si è gelosi dei propri conti; non si gradisce che altri ci mettano il naso;
– infine, per le ragioni suddette, è difficile avere il quadro della situazione per poter esprimere una valutazione seria.
Nel dossier si osserva l’ambito ecclesiale:
1. presentando il quadro generale della situazione;
2. accennando a qualche problema;
3. indicando alcune ipotesi di lavoro.

1. Situazione

Sarebbe bello conoscere il giro di soldi che si muovono per la missione.
Nel 1990 si tentò di raccogliere più dati possibili, per delineare il quadro della situazione (vedi il box Offerte pro missioni); ma il principio della privacy prevalse.
Tuttavia da quell’analisi, anche se datata, è possibile avere un’idea del denaro, destinato al Sud del mondo, da enti istituzionali quali il Comitato aiuti della Conferenza episcopale italiana e le Opere pontificie (vedi i vari box).

La fantasia non ha confini

La prima impressione che si ricava dall’analisi del 1990 è la constatazione, nel tessuto italiano, di una realtà missionaria variegata. Sono coinvolte istituzioni nazionali, regionali e locali, soggetti religiosi e laici: insomma una galassia. È una presenza attiva, capace di fantasia e creatività, di proposte e realizzazioni.
Nel 1998 il Convegno missionario nazionale di Bellaria, con 1.600 presenze, ne ha preso atto coniando l’espressione «popolo della missione».
Le diverse realtà hanno a che fare con raccolte di fondi per sostenere attività e progetti. Tutte, sia pure in varie forme, attingono dalla gente le risorse necessarie. Più chiaramente, tutti attingiamo alla stessa fonte: i cittadini italiani. E bisogna dire che sono generosi, almeno con i missionari.
Le iniziative messe in campo hanno aspetti di grande creatività: «otto per mille», giornate missionarie, campagne nazionali, raccolte ordinarie, cene e digiuni di solidarietà, marce sponsorizzate, lotterie, campi di lavoro, autotassazioni, spettacoli. La fantasia non ha confini.
Per i prossimi anni bisognerà prevedere una flessione, perché le richieste si sono moltiplicate, ma il «pozzo» è sempre lo stesso. Inoltre, probabilmente, la gente si stancherà di essere sollecitata a contribuire per una pletora di attività.
Forse l’iniziativa più innovativa (e di maggior successo) negli ultimi anni è stata l’«adozione a distanza». È una proposta con elementi di presa immediata: il coinvolgimento emotivo, il rapporto individuale, l’investimento su persone, la continuità dell’impegno, l’efficacia dell’intervento, il controllo sul processo.
Se esiste una diffusa perplessità sull’incidenza degli aiuti nella realtà globale, bisogna pure affermare che questi hanno permesso la realizzazione di numerosi progetti, che hanno dato un contributo significativo al cammino dei popoli. Le nazioni sono disseminate di opere realizzate con il concorso di un’efficace generosità: scuole, ospedali, strade… Per molti paesi l’intervento ecclesiale-missionario resta l’unico catalizzatore di sviluppo.

Il giardino è mio

Bisogna ammettere che il difficile reperimento dei fondi determina, a volte, una esasperata concorrenza. Questo rischia di ridurre l’animazione missionaria a pura raccolta di soldi, con un antagonismo fra gli organismi interessati ed una accentuata diffidenza reciproca.
Si nota una «malcelata gelosia» dei propri spazi e benefattori, delle piccole «miniere d’oro» che ognuno ha scoperto… da difendere ad ogni costo.
Avviare una collaborazione con tale mentalità alle spalle è difficile, se non impossibile.
Cuore e portafoglio

Un’altra interessante osservazione viene fatta soprattutto da chi è parte in causa. Sovente l’urgenza di reperire fondi non permette un esame critico dei mezzi utilizzati per raggiungere lo scopo.
Abbiamo tutti assistito a testimonianze missionarie, racconti di campi estivi trascorsi in missione con filmati e diapositive. L’immagine e il commento sono scontati: povertà, abbandono, ecc. Si ricorre (anche se inconsciamente) ad elementi emotivi. E il passaggio dal cuore al portafoglio è breve. Si esige più attenzione al riguardo: ogni popolo ha la sua dignità che va rispettata; della povertà bisogna parlare con «pudore».
L’Africa, per esempio, è «molto di più» della somma dei suoi mali.

Domande spicciole

Esprimo ad alta voce qualche interrogativo, che mi porto dentro dagli anni della missione in Zaire (Congo).
Non ho mai capito perché è sempre facile trovare finanziamento per un… allevamento di maiali, mentre è estremamente complicato reperire fondi per erigere una cappella o sostenere un progetto pastorale. Forse si ritiene che i suini creino sviluppo e migliorino le condizioni di vita, mentre la cappella avrebbe meno incidenza. Per esperienza, garantisco che una comunità cristiana ben animata è capace di essere una grande forza di progresso per tutti.
Lo stesso si puo affermare degli investimenti in persone e strutture. È più facile reperire fondi per realizzare opere che per formare persone. Le strutture sono quantificabili e permettono un ritorno di immagine. Invece investire in persone è più rischioso, perché gli individui possono lasciare l’iter formativo e il risultato è meno visibile. Tuttavia il fattore umano è l’elemento cardine del cammino di un popolo: su questo bisogna investire molto di più.

Isole felici

Si tratta della sperequazione degli aiuti.
Il missionario lombardo o veneto ha a disposizione discreti capitali, che gli permettono di realizzare progetti di una certa portata; invece il calabrese, il latinoamericano o africano non hanno le stesse risorse. Il primo passa per bravo, capace e sarà rimpianto dalla comunità cristiana dove ha operato, a differenza del secondo.
Evitiamo di creare «isole felici» in un oceano di miseria.

. Problemi

Gli aiuti che la chiesa italiana invia non sono sufficienti per avviare un efficace programma di sostegno alle chiese più giovani. Inoltre sono frammentati, con un’estrema varietà dei soggetti che intervengono.

In ordine sparso

Valutando l’indagine del 1990, il professor A. Oberti affermava: «Tutti siamo consapevoli che c’è un flusso (probabilmente ingente) di aiuti, diversi per tipologia, genere, provenienza, destinazione… che dall’Italia parte per il terzo mondo; ma non riusciamo a conoscere le dimensioni, le modalità e, soprattutto, le motivazioni di fondo del flusso. La non conoscenza di questi e altri elementi è grave, non perché non soddisfa la curiosità o il gusto per le statistiche; è grave perché, nella guerra che si cerca di condurre al sottosviluppo, non siamo in grado di razionalizzare l’aiuto e di finalizzarlo il più oggettivamente possibile. Lasciamo che tutto sia guidato da sentimenti, ragioni individuali o di gruppo, motivazioni soggettive religiose, assistenziali, politiche, economiche».
«Si ha un’ulteriore riprova dell’esistenza, nella chiesa e società italiana, di uno spiccato vitalismo sociale; però non si riesce a trovare modi e forme che consentano, senza spegnere la vitalità, di accompagnare e orientare le individualità verso una società comunitaria».
Quattro sono, oggi, i soggetti operanti, ma scarsamente cooperanti fra loro: gli enti ecclesiali nazionali e diocesani, gli istituti missionari e religiosi, gli organismi di volontariato e i movimenti ecclesiali. A questi si affianca una miriade di gruppi attivi sul territorio e variamente collegati agli spazi ecclesiali.
Il fragile tessuto che connette la «galassia missionaria» impedisce la comunicazione di esperienze per una crescita globale e, soprattutto, rende ardua la verifica del loro impatto. La frammentarietà degli interventi impedisce migliori risultati e può rallentare il necessario impatto culturale per una crescita di conoscenza e di coscienza collettiva rispetto ai problemi da affrontare.

Fiducia sì, ma non troppa

Sovente si invocano lo scambio e la cooperazione come principi direttivi: dovrebbero esprimere uno sforzo congiunto dei soggetti interessati, dare e ricevere con spirito di reciprocità. Però, finché ciò avviene a senso unico, è difficile realizzare una comunione paritaria.
Resta l’impressione che nella chiesa si ripeta la situazione esistente nei rapporti di forza del mondo. C’è una chiesa del Nord, ricca, e una del Sud, povera. Una chiesa che dà e una che riceve, una chiesa «benefattrice» e una «assistita». È un rapporto disuguale, ma anche di «forza». Questo si esprime nella sfiducia sulle capacità delle comunità destinatarie a progettare, gestire e realizzare progetti propri.
Perciò… «è normale che le chiese che ricevono aiuti facciano un rapporto dettagliato sulla loro gestione; al contrario, non ci si immagina nemmeno che possano, allo stesso modo, chiedere alle chiese dei paesi ricchi di dare ragione dell’utilizzo delle risorse, perché le risorse appartengono all’unico popolo di Dio».
Ciò vale anche per i regolamenti della cooperazione, che gli organismi istituzionali hanno sviluppato. L’utilità e necessità di darsi delle regole è evidente. Ma la domanda è: chi le stabilisce e secondo quali criteri? L’impressione è che chi detiene le risorse detti anche i principi del loro utilizzo.
Pertanto, non stiamo ricopiando i rapporti di forza fra il Nord e Sud del mondo che, di solito, condanniamo nella Banca mondiale, nel Fondo monetario internazionale, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo? Anche la solidarietà richiede regole condivise o, almeno, che tengano conto delle esigenze dei partners.

Neocolonialismo religioso?

Conosciamo il tempo delle «colonie d’oltre mare», appendici economiche di vari paesi europei. Con l’indipendenza degli stati, è subentrato un altro regime che, pur lasciando l’apparato statale autonomo, economicamente lo ha reso dipendente dai governi di tuo del Nord.
È il rischio che corre anche la gestione degli aiuti alle missioni: creano dipendenza (economica e psicologica, dovendo dipendere dall’approvazione altrui).
Ricordiamo la «moratoria» della Conferenza delle chiese d’Africa, tenutasi a Lusaka (Zambia) nel 1974, che proponeva la sospensione di tutti gli aiuti, sia in personale sia in finanze, che provenivano dall’estero. Il fatto suscitò vive reazioni da parte di vescovi e missionari stranieri. Era però il tentativo di affermare un necessario protagonismo dei soggetti locali, cercando di toglierli dal «patronato» esterno.
Al presente serpeggia un «sentire»; a volte è assopito per paura che i canali di finanziamento siano chiusi per «rappresaglia». La domanda però resta: quanta coercizione esercita l’aiuto offerto? Il denaro è sempre potere. Questo mette in gioco la consistenza vera di una chiesa locale e il suo grado di autonomia e decisione. Sono da capire le domande che sovente le chiese del Sud si pongono. Quali sono il peso e l’autorità delle giovani chiese, se non dispongono di un’autonomia finanziaria? Chi fornisce loro i mezzi? Fin dove le lascerà autonome nella parola e nell’iniziativa?
Il problema «finanziamenti» chiama in causa anche l’ecclesiologia e pone la questione del giusto rapporto fra autonomia della chiesa locale e corresponsabilità nella chiesa universale. L’aiuto dovrebbe essere il segno che manifesta la comunione delle chiese nel rispetto di ciascuna.
Ricordiamo «lo stile delle offerte» nella chiesa primitiva. «La colletta – afferma san Paolo – non ha lo scopo di ridurre voi in miseria, affinché altri stiano bene: la si fa per realizzare una certa uguaglianza. In questo momento voi siete nell’abbondanza e, perciò, potete recare aiuto a quelli che sono nella necessità» (2 Cor 8, 13-14; cfr. 1 Cor 16, 1-6; 2 Cor 8-9; Rom 15, 25-31).
Non si tratta solo di dispute tecniche o teologiche, ma di vera dignità.
Mi hanno sempre impressionato i vescovi africani, obbligati a percorrere l’occidente come mendicanti, passando da una diocesi all’altra e da un organismo all’altro, ad intercedere per i bisogni delle loro diocesi… con l’obbligo poi di rendere conto ad una pletora di benefattori stranieri.
Non mi è successo di vedere un nostro vescovo (anche di una piccola e povera diocesi) fare altrettanto.

3. Che fare?

Recenti fatti (che hanno coinvolto alcuni settori della cooperazione italiana e – senza reale consistenza – alcune sezioni della Caritas) hanno generato nell’italiano sfiducia in organismi ritenuti credibili ed efficienti. Perché?

Esigenza di trasparenza

È la qualità necessaria ad ogni gestione finanziaria nella chiesa. Trasparenza comporta chiarezza e serietà nei bilanci, nella destinazione e nell’uso delle risorse (sia di chi dà sia di chi riceve). Nella maggioranza dei casi si usano offerte della gente comune, spesso frutto di sacrificio.
Ma non basta la trasparenza di bilancio. Si richiede chiarezza di programmazione, non disgiunta da una valutazione dell’efficacia degli interventi. Sovente non è sufficiente realizzare un progetto: bisogna valutae la sostenibilità nel tempo. Un briciolo di managerialità in questo settore non guasta.
Aggiungo due semplici proposte:
– organizzare un «data base» consultabile dei progetti in atto, almeno per quelli sostenuti da soggetti istituzionali;
– usare la Banca Etica per la gestione dei fondi. Si darebbe anche una mano a questa iniziativa, evitando di far transitare fondi attraverso istituzioni bancarie, i cui movimenti finanziari sovente non sono compatibili con lo scopo dei soldi raccolti.

Scambio alla pari

L’aiuto deve esprimere la comunione di tutte le chiese, che è alla base della cattolicità. La solidarietà non è mai imposta, ma fa proprie le attese di una comunità sociale o ecclesiale. Naturalmente non sempre sono evidenti, per chi vive nel Nord, le urgenze o priorità di chi sta nel Sud.
«Il vero aiuto è quello che viene dallo scambio alla pari: non solo dare, ma dare e ricevere, solidarietà e interdipendenza. Deve nascere a poco a poco una conoscenza reciproca, la capacità di comprensione dell’altro: ossia spirito di frateità e solidarietà». Questo va oltre l’aiuto finanziario, per includere elementi culturali, cammini di chiesa, persone.
Sembrerebbe scontato che l’azione delle nostre comunità non si limitasse solo all’invio di denaro, ma gettasse un ponte di comunicazione più efficace. Anche i missionari (che rientrano in diocesi per vacanze o altro) dovrebbero «divenire ponte» fra diverse esperienze di chiesa. Invece, sovente, utilizzano il tempo con lo spirito del «prendi e fuggi». Difficilmente il personale inviato in missione diventa stimolo di riflessione nella vita pastorale della propria diocesi.
Ci siamo aperti alla missione; abbiamo inviato soldi e persone; i vescovi visitano i preti in missione. Ma tutto continua come sempre. «Dall’aiuto allo scambio» si diceva tempo fa. È ancora un percorso valido.

Dal frammento alla sintesi

In un mondo che si globalizza unificandosi e fondendosi, è ridicolo difendere il proprio orticello. Il futuro dell’impegno missionario non appartiene solo ai singoli, ma al lavoro di équipe, al costituire reti di azione (la filosofia delle «reti lillipuziane»), mettere insieme una società civile che possa pesare nei contesti nazionali e inteazionali per capacità di analisi, proposta e operatività.
Al di là delle provocazioni, il movimento di Seattle è un esempio bello di cooperazione, che ha aggregato soggetti diversificati e tecnologie a portata di tutti (solidarietà telematica).
È necessario fare sintesi e superare i parallelismi ecclesiali. Penso alla Caritas, all’Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le chiese (a livello nazionale e locale), alle riviste missionarie, ai movimenti, agli organismi laicali.
Bisogna anche vincere il provincialismo per immetterci in contesti globali. La domanda da porsi è: come situarci nel flusso di aiuti che le chiese inviano? E ancora: qual è il nostro apporto alle politiche di cooperazione che i governi nazionali e l’Unione Europea mettono in atto?
Si deve mirare a quattro effetti:
– la crescita complessiva della qualità degli interventi;
– la costituzione di un fronte civile, nazionale e internazionale, che incida sui grandi processi in corso;
– la perequazione degli aiuti;
– la capacità d’investire insieme con interventi di respiro nazionale e internazionale (pensiamo agli investimenti per creare informazione e opinione, i processi di pace).
Non basta il tappabuchi

L’inchiesta del 1990 evidenziava un problema di una certa portata: il rapporto fra la quantità e qualità degli aiuti. E, di fronte ai problemi nel Sud del mondo, gli interventi seguono due criteri.
Criterio congiunturale. Punta all’efficacia immediata dell’intervento, affievolendosi poi sulla media e lunga distanza. Gli esempi sono tanti: carestie, conflitti, esodi di massa, terremoti, alluvioni.
In questi casi prevale il fare, secondo il principio «so io quello di cui hai bisogno». E la preferenza delle iniziative cade su tutto ciò che si può subito mettere in atto e quantificare. Al di là delle vere emergenze, questo modello riproduce lo schema dell’eurocentrismo e dello sviluppo attraverso capitali e tecnologie. È l’aiuto «umanitario», dentro il quale molti ancora operano. Talora ha prodotto «cattedrali nel deserto», delle quali sono disseminati i continenti.
Criterio strutturale. È il risultato della riflessione maturata in questi anni. Tiene conto delle necessarie variabili umane: cultura, storia, politica, religione, geografia, sostenibilità degli interventi a medio e lungo termine, scenari globali. Coglie lo sviluppo come una realtà unica, che si manifesta in modi diversi da caso a caso, luogo a luogo, ma che resta fondamentalmente un fatto di «persone». Senza di queste, si possono avere progressi settoriali (economici, tecnologici, agricoli, sanitari…), ma non uno sviluppo reale e duraturo, strutturale anziché congiunturale: uno sviluppo che renda il povero agente della propria crescita, soggetto capace di autonomia, non succube di «scambi ineguali».

Tre snodi essenziali

Il passaggio dal congiunturale allo strutturale è il cambiamento qualitativo da realizzare nei nostri interventi. Il percorso avviene attraverso tre snodi.
1. I nuovi scenari mondiali: particolarmente il fenomeno e gli effetti della globalizzazione.
Neoliberismo, mercato, monopoli finanziari… sono le nuove frontiere dentro le quali sviluppare un’azione. Ci sono squilibri contro i quali bisogna lottare, una strumentalizzazione politica degli aiuti da correggere, perché sono le strutture globali all’origine delle inclusioni o esclusioni di interi continenti. Sono i sistemi «forti» che oggi governano il mondo. È nell’impegno per un nuovo ordine mondiale che ci si deve compromettere, se si vuole incidere sui processi di marginalizzazione.
Questo implica conoscenze dettagliate dei micro e macro sistemi, monitoraggi dei processi in corso (ad esempio: il meeting di Seattle, Davos), aggioamenti continui.
Il passaggio culturale dal «singolo» progetto alla solidarietà «globale» è consistente. Ci dobbiamo chiedere se, in qualche missione, sia più urgente costruire una struttura o aderire ad una campagna nazionale. Se vale di più raccogliere fondi per il «nostro missionario», o se non sia meglio sostenere, anche economicamente, la campagna per tassare le transazioni finanziarie (Tobin tax).
2. I nuovi modelli di intervento. In questo settore siamo debitori di una prassi che, nel passato, ci ha ancorati ad interventi consolidati (il progetto da realizzare). Ma, grazie alla creatività di alcuni, sono nate nuove forme di azione che pare diano discreti risultati a medio e lungo termine. Mi riferisco al «commercio equo e solidale» con la sua capacità di sostenere la crescita di una imprenditorialità locale, con riinvestimenti nel sociale.
C’è pure il «micro credito», che offre agli esclusi la possibilità di affrancarsi dalla povertà con i loro propri sforzi. È una bella novità, portata alla ribalta da Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, fondatore della Grameen Bank.
Le «banche etiche». Nate di recente in Italia, indicano la via per un risparmio alternativo, non finalizzato al mero profitto. C’è tutta una serie di nuove iniziative che indicano la vitalità e il rinnovamento in questo settore. Vanno conosciute e sostenute anche con i nostri finanziamenti.
3. La valenza educativa dell’aiuto. «Ricordiamoci che lo scopo principale dell’aiuto non è quello di venire incontro alle altre nazioni, ma di aiutare noi stessi». Lo affermava il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, per ribadire gli interessi americani.
In ogni caso la prima ricaduta degli aiuti è su di noi, quasi a boomerang. Oggi siamo tutti coscienti della interdipendenza nel mondo, del legame fra la ricchezza di pochi e la povertà di molti, fra l’emarginazione di interi continenti e le nostre responsabilità.
Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri «stili di vita», secondo lo slogan di una famosa campagna «contro la fame cambia la vita». La cultura della solidarietà, della giustizia per tutti, del bene comune da ricercare insieme… chiama in causa i nostri modelli culturali, politici, economici, oltre ai nostri consumi.
Soldi e missionari

Impressiona favorevolmente l’ammontare degli aiuti economici che la chiesa italiana destina alle missioni. Ma questo basta per dirci missionari?
Se per lo sviluppo bisogna in primis investire nelle risorse umane, a maggior ragione lo si deve affermare per la missione: più che di mezzi, ha bisogno di persone. Di fronte ad un aumento di aiuti verso le missioni, si è registrata in questi anni una sensibile diminuzione di missionari che partono. Non c’è il rischio di delegare ai soldi il compito dell’annuncio?
Non nascondiamoci il pericolo di sostituire l’evangelizzazione con le opere di promozione umana. Si può, certo, parlare di «predica delle opere», ma non senza l’annuncio.
Occorre ribadire con forza che:
– la missione senza missionari non ha senso;
– la missione senza annuncio si svuota del suo contenuto originale;
– la missione senza gesti concreti non riproduce il modello del Gesù, «che ha fatto e insegnato» (At 1, 1).

L o scopo di questo dossier è di fornire degli argomenti che servano da piattaforma per avviare un dibattito su «soldi e missione». Sono convinto che il processo evolutivo, dentro il quale l’evangelizzazione si sta muovendo, richieda anche il rinnovamento dell’aspetto finanziario.
Il mondo dominato da criteri di mercato, monopolio e profitto ha bisogno di nuovi segni credibili di solidarietà.

Bibliografia

– Il fuoco della missione, Emi, Bologna 1999
– Come orizzonte il mondo, Emi, Bologna 1999
– A. Sella, Giubileo di giustizia, Editrice Monti, Milano 1999
– Dizionario dello sviluppo (a cura di Wolfgang Sachs), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
– Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991
– M. Meloni, La battaglia di Seattle, Edizione Berti (supplemento di «Altreconomia», febbraio 2000)
– Finances: autonomie et solidarité, in «Spiritus», dicembre 1992
Mission dans la faiblesse, in «Spiritus», marzo 1996

Ricerca di archivio:
Indagine sugli aiuti della Chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo, Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese, Caritas Italiana, Pontificie Opere Missionarie

Siti Inteet consultati:
http://www.vatican.va
http://www.chiesacattolica.it
http://www.unimondo.org
http://www.un.org

OFFERTE «PRO MISSIONI»
Modalità di raccolta nelle parrocchie / Ricerca del 1990

FONTI
– private e volontarie 77,70%

DOVE
– funzioni religiose, quaresima 69,20%
– giornate particolari, giornata missionaria
mondiale, lotterie 12,70%
– raccolta a domicilio 15,30%

QUANDO
– ricorrenza annuale 58,60%
– ricorrenza occasionale 45,90%
– ricorrenza costante 2,30%

FORME di AIUTO
– in beni 30%
– in denaro 64,10%

PROVENIENZA delle RICHIESTE
– missioni 43,8%
– singoli volontari e missionari 25,8%
– diocesi, Caritas locali, istituti religiosi 42%
MOTIVI dell’AIUTO
– richieste specifiche 44,8%
– emergenze particolari 24,60%
– intuito personale 22,30%

DESTINAZIONE GEOGRAFICA
– Africa 31,50%
– Centro e Sud America 21,17%
– Asia 13,16%
– altro 4,55%

TIPO D’INTERVENTO
– settore ecclesiale 36,20%
– casi di emergenza 20,08%
– sviluppo sanitario 16,62%
– alfabetizzazione 13,75%
– sviluppo agricolo 10,19%

Fonte:
Gli aiuti della chiesa italiana ai paesi in via di sviluppo. Vademecum, Emi, Bologna 1991

Contributi della Conferenza episcopale italiana
Ai Paesi nel sud del mondo

Distribuzione dei fondi al 30 dicembre 1998
cifre arrotondate

Importo da distribuire 135 miliardi di lire

Conferenze Episcopali (49 progetti) 32 miliardi
Diocesi (198 progetti) 33 miliardi e mezzo
Organismi religiosi e missionari (197 progetti) 25 miliardi
Caritas (18 progetti) 2 miliardi
Organismi laici (108 progetti) 40 miliardi
Altro (3 progetti) 500 milioni

TOTALE 133 miliardi
Avanzo: 2 miliardi

Distribuzione per aree geografiche

Paesi africani del Sahel 18 miliardi
Asia (paesi prioritari) 6 miliardi e mezzo
America Latina (paesi prioritari) 26 miliardi
Aree diverse ed emergenze 82 miliardi e mezzo

TOTALE 133 miliardi

Fonte:
Notiziario dell’Ufficio nazionale della Cooperazione missionaria tra le chiese, Roma, novembre 1999

Eesto Viscardi




ETIOPIA – Missionari del “permesso”

Ma dove sta la differenza?

I missionari che lavorano in Etiopia devono confrontarsi con numerose sfide e l’evangelizzazione incontra molte difficoltà. Queste vengono, prima di tutto, da parte dello stato, molto esigente nel concedere il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. I missionari non sono accettati come tali, ma debbono fornire un diploma di specializzazione nel campo della salute pubblica, educazione o sviluppo e giustificare la loro competenza e servizio, presentando un rapporto ogni anno.
A questa non lieve difficoltà, si può aggiungere anche la sfida di vivere insieme ai musulmani e, naturalmente, alla chiesa locale «ortodossa». Questa è molto potente nel paese. Legata ad Alessandria d’Egitto, ha conservato per parecchio tempo la denominazione di «chiesa copta». Ben radicata nella cultura locale, perfettamente strutturata fin nelle minime istituzioni, ha avuto la fortuna di veicolare senza problemi la fede cristiana nel corso dei secoli. La bellezza delle sue chiese, l’indimenticabile splendore delle sue icone (sempre circondate da candele accese), il colore vivo degli abiti liturgici, i canti in lingua ghez (un po’ come il latino di un tempo nella chiesa cattolica), l’atmosfera mistica che regna nei monasteri… colpiscono immediatamente lo spirito del visitatore.
Sul sagrato della basilica della Ss. Trinità, ad Addis Abeba, dove veniva a pregare l’imperatore Hailè Selassié, un monaco sorridente mi accoglie e benedice con la croce che tiene nella mano sinistra. La croce ricorda la sofferenza e la morte del nostro Salvatore e bisogna abbracciarla tutte le volte che ci si avvicina ad un santuario, dove Dio è presente.
Si rimane sorpresi nel vedere la folla, seduta davanti alle chiese e che prega all’aperto. L’impressione di essere impuri e peccatori (molto sviluppata in Etiopia) proibisce ai fedeli di penetrare dove si trova il Santo e comunicare con lui.
Mi interrogo sull’impatto reale di questa chiesa nella società di oggi. La preghiera: sì, questa è indispensabile alla vita; ma la giustizia, la salute, la lotta contro la miseria, la formazione continua che permette di ampliare gli orizzonti… non sono cose altrettanto necessarie? È bene restare ancorati alle tradizioni del passato, ma il dialogo con il mondo di oggi non ha la stessa importanza? La chiesa è sale della terra, luce del mondo. Essa dovrebbe avere la potenza del lievito, la capacità di trasformare una società arroccata nell’arcaismo.

Ho vissuto il mio viaggio in Etiopia come una ricerca, un’inchiesta sul senso del lavoro missionario svolto e sono giunto alla conclusione che questo paese rimane un terreno privilegiato per i missionari della Consolata. La «consolazione» di questo popolo si impone e l’evangelizzatore crede che debba passare attraverso Gesù Cristo.
Fare conoscere Gesù, proporre i suoi valori e le sue parole nello spirito delle beatitudini, predicare la frateità universale sotto l’egida di un solo Dio Padre: questo è mettere in evidenza da dove viene la forza principale per trasformare una società. Là dove ristagnano immobilismo e tradizionalismo, ingiustizia e povertà, sottosviluppo e segregazione razziale, il missionario inietta un seme di rinnovamento, di vita e risurrezione. Là dove il dialogo tra persone di differenti culture e religioni non riesce a instaurarsi, il missionario (talvolta profeta solitario) rimane colui che ne predica l’urgenza, per costruire una comunità fratea, dove i diritti di tutti sono rispettati.
C’è di più. In Etiopia il lavoro quotidiano del missionario è direttamente orientato verso il benessere della popolazione più povera. Allora si comprende, senza troppe spiegazioni, il senso di opere come l’ospedale di Gambo, il dispensario di Modjo, la scuola superiore di Meki, il centro per handicappati di Gighessa, la scuola per non vedenti di Shashemane, il centro per la cura della lebbra.
Ciò che si dimentica troppo facilmente è che questo lavoro, compiuto con sforzo e competenza, viene fatto per amore di Gesù. E questa è la grande differenza, che ci qualifica rispetto agli altri «operatori sociali».
Un dialogo
difficile

Le giornate iniziano molto presto ad Addis Abeba. Dalla mia camera, ancora mezzo addormentato, sento il grido del muezzin che, dall’alto del minareto della moschea centrale, invita tutti alla preghiera, prima di iniziare il lavoro.
«Bismillahi rahman arrahim» (nel nome di Dio clemente e misericordioso): la preghiera comincia prima della levata del sole. Si direbbe che in Etiopia tutti pregano: nei monasteri ortodossi le vigilie delle feste si prolungano fino a tarda notte; il mattino presto è l’ora dei musulmani, mentre i cattolici preferiscono celebrare Dio nel corso della giornata.
L’islam è molto presente nel paese: il 45% della popolazione professa la sua fede in Allah, dichiarandosi sottomesso alla sua volontà (muslim, musulmano, cioè «sottomesso»). Cinque regole fondamentali sono alla base di una giusta condotta:
– la professione di fede in un Dio unico e la proclamazione di Maometto come suo profeta;
– la preghiera personale, cinque volte al giorno (e pubblica il venerdì), con la faccia rivolta in direzione della Mecca;
– l’elemosina ai poveri e (secondo alcuni) «la guerra santa»;
– il digiuno totale nel mese del Ramadan;
– il pellegrinaggio alla Mecca, una volta almeno in vita.
Il missionario che lavora in tale contesto ha a che fare con grandi sfide: da una parte, ammira la vita di fede radicata nelle persone e la loro incrollabile credenza in un Dio unico; ma, dall’altra, non può non osservare un’assenza totale di dialogo tra musulmani e credenti di altre religioni.
In questo tempo di globalizzazione e modeità, il dialogo diventa una priorità indispensabile. Di fronte alla crescita musulmana, non soltanto in Etiopia ma nel mondo intero, l’esigenza di condividere la fede e di verificare i supporti culturali che la manifestano… si presenta come il cammino più sicuro per un dialogo fruttuoso.

Per comprendere l’islam, bisogna partire da Maometto e dal suo progetto. Egli mirava ad unificare tutte le tribù arabe sotto la guida di una sola persona, fino a stabilire un unico impero nella penisola d’Arabia. Egli stesso realizzò l’idea a Medina, dopo la sua fuga dalla Mecca, nel 622: il popolo lo accolse come un profeta di Dio.
La religione e la fede nel Dio unico avevano un posto importante nel progetto di Maometto. In effetti le antiche tradizioni arabe si rifacevano alla discendenza di Abramo e Ismaele e le persone si sentivano sottomesse alla volontà di un Dio, che le aveva create e protette. La circoncisione diventerà il segno visibile per ricordare l’alleanza.
Occorre apprendere dalla storia che l’islam costituisce una entità socio-politica, culturale e religiosa. Il sistema di vita integrato che ne deriva può scivolare verso un fondamentalismo totalitario, incapace di distinguere tra «fede» e «cultura». La moschea ne è un esempio evidente: infatti non viene concepita solo come luogo di preghiera o incontro, ma anche come un’istituzione dove, oltre alla preghiera e ai sermoni dell’imam, si fanno studi, dibattiti politici e processi civili.
Nel mondo musulmano è, dunque, del tutto normale che la radio interrompa la sua programmazione per permettere la lettura del corano e che la televisione faccia lo stesso; che la legge proibisca l’unione tra musulmani e cristiani; che l’allevamento di porci e animali impuri sia interdetto. Si nota pure che le differenze tra il sistema dell’islam e quello occidentale non sono soltanto religiosi, ma culturali. L’uomo è il capo dell’unità familiare, la donna è al secondo rango: il suo ruolo è soprattutto legato alla procreazione e alla sessualità e deve accettare la poligamia come un fatto normale. Non può ereditare che la metà di quello che appartiene all’uomo e, se ripudiata, non ha il diritto agli alimenti. A livello giudiziario, occorre la testimonianza di due donne per controbattere quella di un uomo.
Il rifiuto di questi princìpi e altri comporta l’esclusione dell’individuo dalla società in cui vive. La persona in se stessa non è importante, ma è rilevante la comunità, dove ogni credente si sente legato alle persone che professano la stessa fede.
Per il musulmano tutto è religioso. Ogni aspetto della vita sociale, politica, economica, ogni dettaglio della vita quotidiana è diretto dal corano, che è l’unica vera legge.
Tuttavia le differenze socio-culturali non dovrebbero impedire il dialogo. Il missionario conosce le sfide, ma crede che anche i musulmani abbiano diritto alla libertà religiosa. Così essi hanno certamente il diritto di confessare la loro fede in Allah, ma hanno ugualmente il diritto di incontrare Gesù, il rivelatore del Dio cristiano.
In Etiopia il missionario non ha soltanto una «ricchezza» economica, da condividere con le migliaia di poveri che incontra; ma possiede pure il tesoro di Gesù, che può diventare fonte di felicità anche per l’islam. A quando l’avvenimento di un dialogo libero e fruttuoso?

PURTROPPO ANCORA DIPENDENTI

Padre Aristide Piol intervista
Berhane Jesus Souraphiel, arcivescovo
di Addis Abeba e primate di Etiopia.

Quali sono le attuali relazioni tra il governo e la chiesa in Etiopia?

La chiesa cattolica, come altre istituzioni religiose, è considerata un’organizzazione non governativa e non è accettata come chiesa. Ma, pur senza riconoscimento ufficiale, essa può continuare a lavorare nell’ambito apostolico, anche se la sua situazione rimane precaria.

Quali difficoltà incontrate?

Prima di tutto, la mancanza di personale missionario (preti, religiosi e laici), perché quello etiope non è sufficiente. La penuria deriva dal fatto che è molto difficile fare entrare missionari in Etiopia, se non hanno prima un permesso di lavoro. I permessi vengono accordati soltanto per progetti di lavoro sociale, riguardanti l’educazione o la salute e non per l’apostolato. Sono molto difficili da ottenere.

Nelle attività sociali, potete lavorare liberamente?

Non proprio. Riceviamo sovente la visita di ispettori, che redigono rapporti tendenziosi a nostro riguardo; in più, noi stessi dobbiamo fornire regolarmente dei rapporti, stendere inventari minuziosi del materiale di scuole, ospedali, dispensari, asili matei. Dobbiamo anche indicare da dove provengono i soldi e come vengono spesi.

Ma perché tutto questo?

L’Etiopia è divisa in nove regioni e distretti, ognuno dei quali governati da autorità locali e ciascuno ha la sua parola da dire. Questa divisione non favorisce l’unità del paese (bisogna sapere che ci sono diverse etnie e che in Etiopia si parlano 82 lingue differenti!). Credo che non ci conoscono abbastanza e non sanno il bene che apportiamo al paese. Bisognerà fare di più per farci conoscere.

Avete la possibilità di organizzare il lavoro apostolico?

Sì, ma nascono altre difficoltà. Dal momento che il personale deve donarsi completamente all’attività sociale, non può concentrarsi unicamente sul lavoro apostolico. Noi dipendiamo, dunque, dalle chiese cattoliche di Europa e America del nord, sia per il personale che per i mezzi materiali. Da soli, non possiamo fare grandi cose.
La chiesa cattolica ha fatto qualcosa per la guerra con l’Eritrea?
La Conferenza episcopale si è associata al nunzio apostolico, mons. Tommasi, e alle altre professioni religiose per esercitare una certa pressione. Ma il governo si aggrappa a filosofie e mentalità differenti e i nostri interventi non sono sempre ascoltati. Abbiamo detto che questa guerra non ha senso, perché Etiopia ed Eritrea sono nazioni sorelle. Infatti hanno la stessa fede cristiana, sono cresciute insieme e hanno quasi le medesime tradizioni, lingue e culture.

Cosa si aspetta la chiesa dalla commissione «Giustizia e pace»?
Abbiamo accolto la commissione con viva speranza. Essa dovrebbe informare l’opinione pubblica mondiale sulle ingiustizie commesse dai governi locali e inteazionali. È necessario fare intervenire i paesi occidentali e l’Onu, perché la libertà di stampa e religione venga garantita, e che i cattolici abbiano le stesse opportunità degli altri cittadini nella pubblica amministrazione. L’annullamento del debito internazionale è un altro obiettivo. Così, come la denuncia delle nazioni che vendono armi ai governi di paesi poveri. «Giustizia e pace» dovrebbe vigilare perché i soldi dati per opere sociali vengano spesi soltanto per queste e non per arricchire le tasche di alcuni dirigenti.

C’è speranza che la chiesa cattolica etiopica divenga autosufficiente?
Per la gerarchia, anche se ci sono vescovi etiopici, abbiamo ancora bisogno di vescovi stranieri. Così per il clero, i missionari e religiosi.

Come sono le relazioni con la chiesa ortodossa copta?
A livello di gerarchia, c’è rispetto e ci invitiamo reciprocamente. Tuttavia, sul piano del lavoro apostolico, constatiamo ostilità e concorrenza. Questo dipende dal fatto che la chiesa ortodossa copta era (oggi non più) «chiesa di stato» e beneficiava di alcuni privilegi.

Come giudicate la crescita dei musulmani in Africa?

Questa avanzata ci preoccupa. Constatiamo che agiscono secondo un piano ben strutturato per raggiungere i loro scopi. Con i soldi del petrolio cercano innanzitutto di ottenere il potere economico, poi quello politico e religioso. Vediamo che portano degli etiopi a lavorare in Arabia Saudita o in altri paesi musulmani; poi fanno loro regalo del corano e li obbligano a vestirsi come i musulmani. Crediamo che si tratti di una minaccia seria.
Aristide Piol

Giuseppe Ronco




Quasi come sul ring

Il dossier «L’alta teologia
e il buon senso» (Missioni Consolata,
gennaio 2001), scritto da un teologo
missionario, ha suscitato disappunto
in un vescovo.
Trattandosi di temi della massima
importanza, abbiamo trasformato in articolo
la «botta» e «risposta» dei due personaggi.

Non sono sfumature

Non posso nascondere il disappunto nel leggere le pagine 30-31, firmate da Igino Tubaldo, della benemerita rivista Missioni Consolata, gennaio 2001.
L’espressione «fuori della Chiesa non c’è salvezza» va, certamente, compresa alla luce della Rivelazione, dove si afferma che Dio vuole tutti salvi e non fa eccezione di persone (cfr. Rom 2, 11).
Numerosi fratelli dell’Ortodossia, della Riforma protestante e fra gli stessi pagani vivono più santamente di me, vescovo della Chiesa cattolica. Dio guarda nel cuore e in un modo che solo Lui conosce, fa giungere a tutti la grazia della salvezza, frutto del sacrificio redentore dell’unico salvatore Gesù Cristo (cfr. Lumen gentium, 16).
È pure vero che, per essere fedele discepolo di Gesù, devo amare, stimare, rispettare e, quando possibile, aiutare chiunque così com’è, senza pretendere che diventi cattolico, lasciando alla misericordia di Dio che gli conceda o no in terra la pienezza della luce, che è Cristo.
E vengo al punto sul quale non mi trovo d’accordo: è il tema della salvezza nella vera Chiesa. Al riguardo, ricordo che il catechismo della Chiesa cattolica riporta, al numero 181, una parte della frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre».
L’interpretazione di Missioni Consolata del «subsistit» (Lumen gentium, 8) contrasta con quanto scritto in «Chiesa: carisma e potere», dove si legge: «Il Concilio (ecumenico) aveva scelto la parola subsistit proprio per chiarire che esiste una sola sussistenza della vera Chiesa, mentre fuori della sua compagine visibile esistono solo elementa Ecclesiae, che, essendo elementi della stessa Chiesa, tendono e conducono verso la Chiesa cattolica».
Infine l’esempio dei vari ordini francescani (per vedere dove «sussiste» la genuina forma del francescanesimo) mi sembra molto inopportuno, perché qui si tratta solo della regola di san Francesco, vissuta nella sostanza, ma con sfumature diverse dai vari ordini. Invece che nell’Eucaristia ci sia la presenza reale o no, che la Messa sia un vero sacrificio o no, che ci sia il Ministero petrino o no, che ci sia un Magistero autorevole e, in certi casi, infallibile o no, che ci sia il Sacerdozio ministeriale o no, che la Chiesa abbia il potere di rimettere i peccati o no… non sono sfumature!
Si dimentica la fondamentale distinzione fra la sincerità della coscienza retta, onesta ed aperta allo Spirito Santo (che opera ovunque e su ciascuno e che è la norma dell’agire umano – cfr. Dignitatis humanae, 3) e la verità, realtà oggettiva, alla quale l’uomo retto e sincero si adegua allorché ne viene a conoscenza (cfr. Veritatis splendor).
Riconosco e apprezzo il vostro lavoro di missionari, ma ho timore che presentare in questo modo problemi così seri per la fede sia fuorviante, specialmente per le famiglie cui la rivista è diretta e che sono spinte a cadere in quel relativismo e sincretismo deprecati dal dossier.
Antonio Santucci
vescovo di Trivento (CB)

Carità e lacrime

Talora a teologi e direttori di riviste «missionarie» tocca la sorte del pugile sul ring che, colpito da un gancio, cade al tappeto e poi si sente contare: «tradisci la fede…», «produci scompiglio nei fedeli…», «sei eretico…».
Quando nel 1942 (prima del Concilio ecumenico) A.J. Cronin (1896-1981) pubblicò il romanzo Le chiavi del regno, nella Chiesa parecchi storsero il naso. Padre Chisholm era un missionario sui generis: in Cina dialogava con un pastore protestante e, soprattutto, con un medico ateo, che lo raggiunse per curare gli ammalati. A costui, sul letto di morte, il missionario disse: «Nessuno che sia in buona fede può essere perduto. Nessuno!». Perché a Dio non farebbe piacere vedersi davanti un agnostico rispettabile, giudicarlo con una luce amichevole negli occhi e dirgli: «Come vedi sono qui, nonostante quanto ti hanno fatto credere. Entra nel Regno che hai onestamente negato!»?
Ogni docente di teologia lo insegna: la misericordia di Dio può andare al di là dei sacramenti e il regno di Dio ha confini più ampi di quelli della Chiesa.

Se fuori della Chiesa cattolica e nelle religioni non cristiane esistono valori autentici, l’espressione «la Chiesa di Dio è quella cattolica» o «la Chiesa di Dio sussiste in quella cattolica» può essere accettata solo in senso positivo, cioè: la Chiesa di Cristo è quella apostolica e si manifesta nella Chiesa cattolica. Il verbo «è» o «sussiste» non è accettabile nel significato negativo, cioè: i gruppi cristiani, al di fuori del cattolicesimo, non hanno nulla di ecclesiale. Il Concilio ha riconosciuto l’ecclesialità (anche se non perfetta) delle comunità cristiane, non cattoliche. Queste possono essere come pianeti gravitanti attorno allo stesso sole, che è Cristo.
Altro è il problema dei non cristiani. Qui entra il detto «fuori della Chiesa non c’è salvezza» o, in modo più edulcorato, «nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre». Sono assiomi che si possono accettare se, ancora una volta, vengono intesi in senso positivo, cioè: nella Chiesa cattolica c’è salvezza, senza però escludere che, fuori di essa o del cristianesimo, chi è in buona fede o fa quanto è in suo potere possa salvarsi.
Il Concilio riconosce (e con insistenza) che anche nelle religioni non cristiane possono esistere «cose vere e buone», «preziose, religiose e umane», «germi del verbo», «raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (cfr. rispettivamente Lumen gentium, 16; Gaudium et spes, 92; Ad gentes, 11 e 15; Nostra aetate, 2).
Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha commentato: «Poiché nelle grandi tradizioni religiose dell’umanità esistono questi valori, le stesse tradizioni meritano l’attenzione e la stima dei cristiani».
Le religioni non cristiane sono o non sono salvifiche per se stesse, anche se l’individuo che le pratica in buona fede può salvarsi? Il Concilio non ha risposto alla domanda.
Al quesito (poiché la via è aperta) cercano di rispondere i teologi. Oggi quasi tutti proseguono sulla strada del dialogo: Gesù Cristo è l’unica via della salvezza, ma non si possono porre limiti all’azione salvifica di Dio; si chiedono se nel «pluralismo religioso» ci sia un disegno di Dio. Seguendo la linea ascendente «Chiesa – Gesù Cristo – Dio Padre – Regno di Dio – Spirito Santo», affermano che la Chiesa in terra non è il Regno di Dio, poiché ne è solo il «germe e inizio» (Lumen gentium, 5); germi e inizi del Regno si possono riscontrare pure altrove. Sviluppano teorie sulla «presenza inclusiva»; ricordano che lo Spirito soffia dove vuole…
I teologi concludono: alla Chiesa, per spirito ecumenico e missionario, spetta «condurre a compimento» quanto di positivo esiste nelle tradizioni religiose, non solo perché nulla vada perduto, ma sia «purificato, elevato e perfezionato» (Lumen gentium, 17).
Il papa, nell’enciclica missionaria Redemptoris missio, afferma che «la presenza e l’attività dello Spirito sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo»; tale presenza e attività «non toccano solo gli individui, ma la società, la storia, i popoli, le culture, le religioni» (28).
Allora i teologi si chiedono se, nelle altre religioni, ci siano raggi di verità non presenti nella Chiesa e se, di conseguenza, essa debba dimostrarsi incline a ricevere qualcosa. Perché, quale dialogo si può instaurare se una parte è sicura di non aver bisogno di nulla e di nessuno?
Vittorio Morero, sacerdote giornalista e corrispondente di Avvenire, nel suo libro Il catechismo dei non credenti, scrive: «Penso che ci sia anche una delega di Dio alle religioni non cristiane, agli umanesimi laici, alla saggezza del pensiero dell’uomo nella sua evoluzione storica, nella sua creatività artistica e al genio di ogni uomo» (p. 194).
Una rivista «missionaria» deve amare la propria Chiesa, senza cadere nella «melassa religiosa», senza negare il Ministero petrino o la Presenza reale… e sa che queste non sono sfumature. Se ricorre al paragone del francescanesimo, è per farsi capire. Trattandosi poi di una rivista «missionaria», è comprensibile la sua preferenza per una Chiesa «aperta» ai non cristiani.
Nella Chiesa non esistono solo sette sacramenti; prima o accanto a questi, ci sono i «sacramenti naturali» o «pre-sacramenti». Secondo il biblista Stanislas Lyonnet (1902 1981), essi sono la carità, le lacrime, la debolezza («quando sono debole è allora che sono forte» – 2 Co 12, 9). Sono alla portata di tutti.
Come valutiamo le folle di indiani che s’immergono nel Gange? E più ancora: perché non rivolgere al Padre di tutti una preghiera, affinché abbia pietà delle migliaia di persone, vittime di terremoti, anche se non hanno mai sentito parlare di Cristo o della sua Chiesa?

Igino Tubaldo
missionario e teologo

Antonio Santucci e Igino Tubaldo




FILIPPINE – Rivoluzione dei rosari

Per la seconda volta in 15 anni il popolo filippino ha cacciato
un presidente, definito dai vescovi «moralmente inadatto a governare».
È subentrata Gloria Macapagal Arroyo:
ha giurato di combattere povertà, ingiustizia, corruzione.
Sono sfide secolari, affrontate con grande speranza
e con il supporto di una chiesa
incarnata nelle realtà del paese.

D opo quattro giorni di cortei, con preghiere e proteste, il capo di stato Joseph Estrada, accusato di «saccheggio economico», è dichiarato decaduto. A mezzogiorno del 20 gennaio 2001 Gloria Macapagal Arroyo presta giuramento come 10° presidente delle Filippine. La cerimonia avviene davanti al santuario dell’Edsa (iniziali di Epifanio de los Santos Avenue, principale arteria di Manila), lo stesso luogo dove era partita l’insurrezione del 1986 contro il dittatore Marcos.
La neo-presidente enuncia le priorità della sua amministrazione: sconfiggere la povertà, combattere la corruzione, riformare lo stato, riportare la pace nel sud del paese. Programma ambizioso e urgente: tre quarti di risorse e poteri del paese sono in mano a pochi privilegiati; mentre il resto della popolazione è in via di «sviluppo». I problemi sono gravi e con radici secolari.
STORIA DI (IN)DIPENDENZA
Scoperte nel 1521 da Ferdinando Magellano, navigatore portoghese a servizio di Filippo II re di Spagna, le Filippine cominciarono a essere colonizzate nella seconda metà del secolo XVI. L’arcipelago era abitato da varie etnie autoctone e una miriade di comunità rurali autonome, discendenti da migrazioni malesi, cinesi, indonesiane avvenute nel corso di molti secoli.
Il sistema coloniale, basato su latifondismo e monoculture da esportazione (canna da zucchero, noce di cocco, canapa), espropriò molti contadini e li ridusse allo stato di servi dei grandi proprietari terrieri. Ancora oggi la terra appartiene allo stato o ai ricchi. Varie insurrezioni furono duramente represse dagli spagnoli.
Alla fine del secolo XIX la borghesia meticcia e varie categorie di oppressi formarono un movimento indipendentista, che nel 1897 riuscì a cacciare gli spagnoli dalla colonia, con l’aiuto degli Stati Uniti, già in guerra contro la Spagna per Cuba e Puerto Rico. Il 12 giugno 1898 fu proclamata la Repubblica delle Filippine, «sotto la protezione della potente e benevola nazione nordamericana».
Cinque mesi dopo, addio benevolenza: al trattato di Parigi, la Spagna cedette la colonia agli Stati Uniti in cambio di 20 milioni di dollari.
Tra il 1899 e il 1911 un milione di filippini morirono invano lottando contro i nuovi occupanti: l’economia del paese fu sottomessa agli interessi americani; l’inglese rimpiazzò lo spagnolo; fu diffuso lo stile di vita americano. Un effetto positivo: fu imposta la scuola d’obbligo e gratuita, per cui oggi il 95% dei filippini sono alfabetizzati.
Nel 1941 le Filippine furono occupate dai giapponesi e riprese la lotta di resistenza armata: il movimento degli huks, a base contadina e d’ispirazione socialista, forte di 118 mila armati, cacciò gli invasori. Toarono gli Usa e si affrettarono a concedere l’indipendenza: 4 luglio 1946.
Con una serie di trattati «ineguali» gli americani si assicurarono la salvaguardia dei loro interessi economici e strategici: una ventina di basi militari perpetuava il regime di protezione americana; le ultime due furono smantellate nel 1991-92: il senato rifiutò di rinnovare il contratto e le ceneri del vulcano Pinatubo seppellirono la base aerea di Clark.
CORRUZIONE GALOPPANTE
Per oltre 25 anni (1946-72) la vita politica delle Filippine fu dominata da un sistema bipolare, rappresentato dal Partito nazionalista e Partito liberale, sotto lo sguardo «benevolo» Usa. Ideologicamente molto simili, i due partiti si alternarono alla guida del paese basandosi sulle élites locali, capaci di procurare voti, specie nelle campagne, ma sempre pronte a coalizzarsi o cambiare campo a seconda della convenienza e del migliore offerente. Finite le elezioni, i vincitori s’affrettavano a recuperare le somme investite; finanziatori e sostenitori riscuotevano il premio della scommessa.
Così corruzione e frode si sono radicate nel sistema elettorale e amministrativo delle Filippine. Nazionalismo e riforme sociali, lotta alla corruzione, pace e ordine, progresso economico, indipendenza totale diventarono esercizi di retorica.
Anche Ferdinando Marcos, nel 1965, conquistò l’uomo della strada sbandierando i soliti temi elettorali, ma poi trasformò le Filippine in un feudo personale, affidando a parenti e amici le cariche nevralgiche del paese. Nella campagna elettorale del 1969 ridusse lo stato in bancarotta. Poiché la Costituzione non prevede un terzo mandato, nel 1972 proclamò la legge marziale, arrogando a sé tutti i poteri. Sciolse il Partito liberale e tarpò le ali alle élites locali, così che solo lui e i suoi amici potevano arricchirsi. Marcos divenne l’uomo più ricco dell’Asia.
Col supporto dei militari, cui diede mano libera nella corruzione, il dittatore soffocò nel sangue ogni tipo di opposizione: 6 milioni di filippini subirono l’«evacuazione forzata»; le loro terre furono cedute alle multinazionali americane. La vittima più illustre della dittatura fu Benigno Aquino, popolare oppositore del dittatore, assassinato nel 1983.
PARLAMENTO DELLA STRADA
Vista l’impossibilità di cambiare la società con i partiti tradizionali, nacquero numerose «organizzazioni popolari»; alcune scelsero la guerriglia, come il New People’s Army (Npa), d’ispirazione maoista; altre si battevano nella legalità per difendere interessi specifici di operai e contadini, donne e studenti. Sotto la dittatura tali organizzazioni si moltiplicarono e rafforzarono, riuscendo a convocare spettacolari manifestazioni di massa e dando vita al cosiddetto «parlamento della strada».
Nel febbraio 1986, l’indignazione per la morte di Aquino e per la rivelazione delle ricchezze nascoste del dittatore fu tale che Marcos fu costretto a indire elezioni anticipate. A sfidare il dittatore scese in campo la vedova di Benigno, Corazón (Cory). Con l’aiuto del cardinale di Manila, James Sin, la candidata riuscì a coalizzare l’opposizione moderata e mobilitare le organizzazioni popolari per vigilare contro i soliti brogli. E quando il dittatore si dichiarò vincitore, nonostante la sconfitta, decine di migliaia di persone scesero in strada per difendere la vittoria di Cory Aquino.
Dalla sua parte si schierarono anche il ministro della difesa Enrile e il comandante dell’esercito, il generale Fidel Ramos. Marcos mandò i blindati contro le caserme ammutinate; da Radio Veritas il cardinal Sin lanciò un appello alla popolazione «in difesa della verità e libertà»: centinaia di migliaia di persone, da tutte le province del paese, si ammassarono davanti al santuario dell’Edsa per poi invadere le strade della capitale, circondando i blindati con le mani tese, cantando e pregando, offrendo ai soldati viveri e bevande, recitando insieme il rosario.
Cinque giorni di rivoluzione pacifica misero fine a 20 anni di regime, 13 dei quali di dittatura: un evento memorabile, passato alla storia delle Filippine con varie definizioni: «miracolo», «rivoluzione dei rosari», vittoria del «potere popolare» contro quello delle élites, spirito dell’Edsa.
POLITICA NUOVA
Il governo di Cory Aquino ristabilì leggi e strutture democratiche; tentò di pacificare il paese concedendo l’autonomia ad alcune province di Mindanao e della Cordigliera; mise in cantiere riforme economiche e sociali, come quella agraria. Le sue buone intenzioni si scontrarono con le realtà del paese. Le riforme di Cory innervosirono i militari e inquietarono i politici tradizionali; i nostalgici di Marcos tentarono due colpi di stato. La «guerra totale» ai gruppi guerriglieri e indipendentisti, con relative violazioni dei diritti umani, appannò il prestigio della presidente, pur continuando a tenere viva la speranza in un futuro migliore.
Tale speranza si rivelò nelle elezioni del 1992, le più ordinate e trasparenti nella storia del paese, in cui fu eletto presidente Fidel Ramos. Sotto il suo governo migliorarono l’economia, i rapporti inteazionali, la pace sociale. La crescita economica faceva sperare che nel giro di 10 anni le Filippine avrebbero raggiunto il rango di «Nuovo paese industrializzato» (Nic), come le vicine nazioni del sudest asiatico.
PRESIDENTE SCERIFFO
Dalla rivoluzione del 1986 è nata la cosiddetta «nuova politica», anche se di nuovo c’è ben poco: gli aspiranti presidenti devono fare i conti col «potere popolare», deciso a votare più i programmi che le persone. Chi può forma un suo partito, come è capitato nel 1998: i candidati erano una quindicina, tra i quali quattro figli di ex presidenti.
Vinse Joseph Estrada, mediocre attore di telefilm polizieschi, riuscendo ad attirarsi le simpatie dei poveri, contadini e classi medie. Sembrava proprio la fine della vecchia politica, legata agli interessi delle élites.
Un passato da playboy, biscazziere e bevitore, Estrada non era uno stinco di santo. Per 16 anni sindaco di un sobborgo di Manila, per quattro senatore, non era neppure uno sprovveduto in politica. Presidente della commissione per la lotta alla criminalità, aveva radiato migliaia di poliziotti corrotti. La gente lo pensava una specie di «sceriffo», capace di perseguire la giustizia in modo deciso e implacabile, come nei films.
Invece le promesse elettorali restarono nel cassetto. L’economia cominciò a precipitare paurosamente. Frequentazioni di affaristi vicini alla famiglia Marcos, atteggiamenti da donnaiolo maschilista, favoritismi verso amici e parenti, sospetti di corruzione minarono il prestigio dello «sceriffo». Corruzione e impunità nell’amministrazione continuavano più di prima; anzi, si scoprì che anche lui era corrotto e corruttore.
All’inizio di ottobre del 2000, uno dei principali gestori del jueteng (lotteria illegale, diffusissima nelle Filippine) rivelò di aver consegnato al presidente una tangente di 10 miliardi di lire. Seguirono 100 giorni di fuoco. I vescovi dichiararono Estrada «inadatto a governare il paese» e lo invitarono a dimettersi. Molti suoi deputati passarono nelle file dell’opposizione: il 13 novembre il Parlamento approvò la mozione che metteva il presidente in stato d’accusa. Il 7 dicembre il Senato iniziò il processo. Al tempo stesso la chiesa continuava a chiedere le dimissioni con mobilitazioni di massa, in cui sfilavano Cory Aquino e il card. Sin.
Estrada respingeva ogni accusa. Il 16 gennaio 2001, quando il Senato rifiutò d’indagare su alcuni conti bancari segreti del presidente, il popolo insorse in massa, ripetendo, come da copione, la «seconda rivoluzione dei rosari»: il cardinal Sin lanciò l’appello e quasi due milioni di persone, 70% giovani, si riversarono nel santuario dell’Edsa, per poi sfilare pacificamente per le strade della capitale, chiedendo la destituzione di Estrada. Dopo quattro giorni di proteste, canti e preghiere, la Corte Suprema destituì Estrada e la vicepresidente, Gloria Macapagal Arroyo, prestò giuramento come nuovo capo dello stato.
SFIDE E SPERANZE

I regimi passano; i problemi restano. I salari sono bassi. Disoccupazione e inflazione galoppano. Per la maggioranza della gente la vita è una lotta quotidiana contro la povertà, ingiustizia sociale, corruzione e oppressione. Il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e approfondirsi. La crescita demografica è tale che le strutture sociali esistenti non riescono a far fronte ai bisogni della gente: 7,5 milioni di filippini lavorano in 194 paesi esteri (Italia compresa) per sostenere le proprie famiglie. Per il governo sono «eroi»: le loro rimesse superano i 15.000 miliardi di lire l’anno.
Tante sono le sfide; altrettante le aspettative. La rivoluzione del 1986 ha portato al paese la speranza e qualche sprazzo di prosperità; la «seconda rivoluzione dei rosari» l’ha riaccesa: questa volta bisogna fare in fretta per non deluderla.
Laureata in scienze economiche (fu compagna di classe di Clinton a Georgetown), figlia d’arte (suo padre Diosdado fu presidente nel 1962-65), Gloria Arroyo Macapagal, 53 anni, ha già lavorato sodo per attrarre nuovi investimenti; nel 1998 ha ottenuto molti più voti del popolarissimo Estrada (presidenza e vicepresidenza hanno elezioni distinte). La neo-presidente gode di grande prestigio e può contare su una popolazione giovane e scolarizzata al 95%, su numerose organizzazioni popolari, comunità coscienti e coraggiose, in lotta per il cambiamento del paese, e su una chiesa incarnata nelle realtà della gente.
CHIESA DEI POVERI
Negli anni ’60 la chiesa ha intensificato l’impegno nella difesa dei poveri; sotto il regime di Marcos, ha denunciato chiaramente le violazioni dei diritti umani e sostenuto le organizzazioni popolari: per questo è stata accusata d’infiltrazioni «comuniste» e decine di preti sono stati denunciati e arrestati.
Il prestigio dell’episcopato filippino, a partire dal card. Sin, è cresciuto negli ultimi 15 anni, riuscendo a esprimere leaders politici di grande statura, a partire dalle due donne che hanno conquistato il potere a furor di popolo. Ciò è stato possibile perché tale potere non è usato per fini politici, ma per difendere gli strati più deboli della popolazione.
Quella filippina è una chiesa fatta di poveri e per i poveri. Il suo ruolo profetico è stato riaffermato dal card. Sin in occasione del giuramento di Gloria Arroyo. Assicurando l’appoggio della chiesa, il cardinale ha detto alla neo-presidente: «Non mancheremo di criticarti per il bene della nazione». «Se il cardinale mi criticherà per il bene della nazione, ascolterò e cercherò di fare meglio» ha risposto la signora.

MINDANAO: LA GUERRA INFINITA

Troppo semplice scambiarla per guerra di religione. Il conflitto ha radici antiche. Quando occuparono l’arcipelago filippino, gli spagnoli incontrarono una quindicina di gruppi islamizzati, detti moro, che da oltre un secolo, avevano invaso il versante occidentale di Mindanao e l’arcipelago Sulu (Basilan, Jolo, Tawi-Tawi). L’immigrazione musulmana fu bloccata, ma i moro lottarono ferocemente contro la colonizzazione spagnola e la penetrazione del cristianesimo, rimanendo ai margini della formazione dello stato filippino.
Nella cessione dei suoi territori agli Stati Uniti, nel 1898, la Spagna incluse anche queste isole, benché non vi avesse alcuna sovranità. Le tensioni aumentarono. Ma agli americani bastò una manciata di anni per riuscire dove gli spagnoli avevano fallito per tre secoli. Mindanao e Sulu furono prima conquistati con autentici massacri, che suscitarono l’indignazione perfino negli Usa, poi «filippinizzati»: a partire dal 1912 ondate di famiglie cristiane dall’affollata Luzon furono risistemate nelle pianure di Mindanao. Dal 1926 industriali americani (Del Monte, Goodyear, Goodrich, Firestone) occuparono enormi distese di terra per coltivare ananas, banane, legname, caucciù e altri prodotti da esportazione.
Oggi i musulmani di Mindanao e Sulu sono un quarto dell’intera popolazione, anche se in qualche isola raggiungono il 97%. Inoltre i moro sono rimasti ai margini dello sviluppo economico e sociale delle Filippine: tra le 16 province più povere del paese, 13 si trovano a Mindanao, tutte con predominanza islamica.

Nel 1969 nacque il Fronte nazionale di liberazione moro (Fnlm), guidato da Nur Misuari, per rivendicare il Bangsamoro: stato islamico indipendente dalle Filippine. Rivendicazioni e relativi disordini offrirono a Marcos la scusa per proclamare la legge marziale. Scoppiò la ribellione vera e propria. Il dittatore inviò l’esercito contro i rivoltosi. La repressione provocò enormi distruzioni, la morte di 120 mila civili e la fuga di centinaia di migliaia di persone.
Alla fine del 1976, fu stipulato un accordo di cessate il fuoco, con la promessa di creare una regione autonoma per i musulmani di Mindanao. A tale soluzione si oppongono i cristiani presenti nella regione in causa, provocando la ripresa della guerra. Le trattative di pace ripresero nel 1986 con Cory Aquino, che concesse l’autonomia amministrativa a 4 province a maggioranza musulmana. Nel settembre 1996, un accordo tra Mnlf e governo centrale di Fidel Ramos istituì la Regione autonoma musulmana di Mindanao, composta dalle 4 province già autonome e aperta ad altre da stabilire attraverso referendum popolari. Gran parte dei guerriglieri del Mnlf furono integrati nell’esercito nazionale e polizia, il leader Nur Misuari diventò governatore.
Ma l’ala più radicale del Fronte nazionale non accettò il compromesso, fondò il Fronte islamico di liberazione moro (Film) e continuò la lotta di secessione. In seno al Milf, poi, è nato il gruppo Abu Sayyaf che rifiuta ogni autonomia e chiede uno stato indipendente, formato da tutta l’isola di Mindanao, gli arcipelaghi di Sulu e Palawan: il 40% dell’attuale territorio delle Filippine. Attestato nelle isole di Jolo e Basilan, Abu Sayyaf continua l’offensiva con fanatico terrorismo: «Allah guida i proiettili delle nostre armi». Minacce, omicidi, massacri, sequestri, rapimenti, saccheggi, distruzioni, estorsioni, contro civili e molti missionari, non si contano più. Nel luglio 2000 Estrada ha rilanciato il pugno di ferro contro il Milf, provocando altri 300 mila profughi.

Pur essendo la principale vittima di tale terrorismo e fanatismo, la chiesa continua nella testimonianza di carità: opere di promozione umana alla periferia delle città; cura dei profughi musulmani; rilancio del dialogo islamo-cristiano. Nel 1996 è nato il Bishop-Ulama Forum, che raccoglie leaders cristiani e musulmani attivi nella mediazione dei conflitti; nel maggio 1999 il movimento Silsilah ha inaugurato un Istituto di formazione, con corsi di educazione al dialogo interreligioso e alla pace per laici e religiosi, cristiani e musulmani.
La maggioranza degli stessi musulmani, infatti, sono convinti che una soluzione militare è impossibile e che uno stato islamico, staccato dalle Filippine, prolungherebbe la loro situazione di miseria. Ben venga l’autonomia, purché sia vera e accompagnata da impegni concreti nello sviluppo economico e sociale per tutti. Fino a quando non sarà sconfitta la miseria, questa continuerà ad essere il brodo di cottura dell’attuale guerra infinita e violenze di ogni genere.

Benedetto bellesi




Sì, no… tra verità e preconcetti

QUASI UN TORRENTE

I l numero sul Brasile è documentato, arricchente, completo. Ma su alcuni punti non mi trovo d’accordo.
n Sètte. Si diffondono in maniera impressionante per il bisogno di soprannaturale, unito all’ignoranza religiosa. Ma il criterio per valutare la loro ortodossia sta solo nel mancato impegno sociale o nell’allontanarsi dalla verità integrale? Non mi piace la frase di padre Fidéle: «Una religione non deve essere alienante. (Bisogna) liberare la gente dalla povertà e miseria». No! La religione deve rivelare Cristo morto e risorto, figlio del Padre, colui che per mezzo dello Spirito ci rivela la verità, il senso del nostro vivere e morire. La liberazione materiale, giusta e necessaria, è una conseguenza dell’annuncio. Attenti a non trasformare la chiesa in una organizzazione socio-umanitaria-rivoluzionaria!
n Cattolicesimo romano. Non mi piace quando se ne parla come di una realtà da cui liberarsi per vivere la vera, genuina e unica spiritualità. Le manifestazioni di religiosità (diverse quante le culture in cui Cristo si manifesta) hanno tutte pari dignità, se restano circoscritte dagli argini dell’ortodossia. È fuorviante contrapporre le une alle altre. Ognuna è valida ed insostituibile nel suo contesto.
n Belle le comunità di base, che rompono schemi, si cimentano con la Bibbia, si alimentano della Parola che giudica la vita. Attenti, però! Se non rettamente guidate da chi ne ha autorità e preparazione, rischiano di cadere in interpretazioni contrarie all’insegnamento ufficiale della chiesa, di finire tra le sètte nate da una interpretazione troppo libera della bibbia.
n Religiosità popolare. Non mi è piaciuto il presentarla come creativa e libera, a cui i retrogradi del Vaticano hanno affiancato i missionari che enfatizzano i sacramenti, «perché sono loro a distribuirli». Scherziamo? Che religione cattolica è mai quella senza sacerdoti e sacramenti? È protestantesimo. I sacramenti sono «canali di grazia» e sono stati istituiti da Gesù Cristo per la nostra salvezza. Solo restando uniti alla chiesa e al papa si evita di cadere in eresie. Quanto sia importante l’unione al pontefice l’hanno capito gli uniati dell’Ucraina e i martiri cinesi.
n Il trafiletto sulla teologia della liberazione è mistificante. Perché non avete pubblicato le pagine di quel signore che insegna teologia a Città del Messico e parla di religione come immaginario collettivo, di Gesù Cristo rivoluzionario liberatore dei poveri? Di fronte a tali deviazioni, la chiesa giustamente ha preso posizione.
n La lunga inchiesta sui riti afrobrasiliani è utile per capire una larga fascia di popolazioni. Ciò che non accetto è il presentare i riti come una religione altrettanto vera come il cattolicesimo ufficiale, anzi migliore. Certo, dovremmo imparare la cordialità, l’accoglienza e l’attenzione alla psicologia. Ma che religione è mai quella, ripiegata sui recessi dell’animo umano, aperta alle influenze di «divinità» che vengono presentate come veramente esistenti? Quale tipo di consolazione possono offrire, svincolate da una speranza ultraterrena? Per sopportare la sofferenza, la gente ha bisogno di un senso che trova solo in Cristo. La dichiarazione Dominus Iesus puntualizza, nel rispetto delle altre forme di religiosità, che Cristo è e resta la verità e la salvezza. Anche questa è una prevaricazione del «cattolicesimo romano»?
Queste pagine mi hanno causato sconcerto e sofferenza. Quanti errori possono causare!
Giulia Guerci – Castellazzo (AL)

P. S. Mi associo a Giulia. Particolarmente sollecito un pensare ed agire in armonia con l’insegnamento della chiesa e del papa. In lui sono evidenti la santità e l’azione dello Spirito Santo, che sostiene vigorosamente la sua fragilità fisica.
Francesco Zucca

Di fronte a questi interventi, il lettore (che non conosce le 132 pagine dello «speciale» sul Brasile) può chiedersi stupito: «Ma che cosa ha pubblicato Missioni Consolata da suscitare reazioni così forti?». Ebbene la nostra rivista:
– non mette in discussione Gesù Cristo morto e risorto, né si oppone al magistero della chiesa;
– non contiene le espressioni «retrogradi del Vaticano» e «prevaricazione del cattolicesimo romano»;
– non presenta i riti afrobrasiliani «come una religione altrettanto vera come il cattolicesimo ufficiale, anzi migliore».
La verità evangelica non è un dato astratto da imparare e salvaguardare. È una Persona da amare. E, con Gesù Cristo, vivere tutte le beatitudini.

RESISTERE

L o «speciale Brasile» è una miniera di informazioni. Complimenti e grazie per l’impegnativo lavoro che portate avanti. Con Missione Oggi, Mani Tese, Nigrizia e Adista, ci offrite informazioni di qualità. Basta leggere! Tempo e stanchezze permettendo.
Aiutiamoci a resistere…
Anna Xausa – Zugliano (VI)

«Non adattatevi alla mentalità di questo mondo, ma lasciatevi trasformare da Dio con un completo mutamento della mente» (Rom 12, 2).

IL PRECONCETTO

S iamo stupiti ogni volta che il preconcetto parte da affermazioni contraddette dalla realtà.
Poiché nostro Signore ci ha dato, oltre al cuore, soprattutto la ragione, applichiamola al problema demografico. È evidente che nel terzo mondo c’è un intreccio perverso tra sottosviluppo e numero di figli: è molto semplicistico affermare che è solo colpa del mondo civile la triste condizione degli abitanti poveri del Brasile. Le centinaia di migliaia di bambini abbandonati, lo sono perché adulti irresponsabili mettono al mondo 8, 10, 12 figli, senza preoccuparsi di come vivranno, se avranno la possibilità non dico di educarli, ma di nutrirli!
Saremmo d’altronde anche noi, ricchi abitanti d’Europa, in grave difficoltà se avessimo tutti quei figli! Affermare che la campagna contraccettiva è sbagliata significa non avere minimamente il senso della realtà.
Susanna Mondino – Torino

La contraccezione è la soluzione del problema dei ragazzi di strada in Brasile? Nel 1991, come riconobbe l’Istituto brasiliano di statistica, almeno il 45% delle brasiliane tra i 14 e 45 anni era già stato sottoposto a sterilizzazione. In tale caso, chi si oppone alla campagna contraccettiva non ha… «minimamente il senso della realtà»?

UNA PENSIONATA

H o in mente l’esperienza di suor Elena, alla periferia di Manaus, descritta da padre Paulo Gomes su Missioni Consolata di ottobre-novembre 2000, interamente dedicato al Brasile. Si parla anche di due genitori in cerca di cibo, mentre la loro figlia di sette anni cura i quattro fratellini più piccoli.
Sono una pensionata con 700 mila lire mensili. Vorrei devolvere ogni mese 50 mila lire a questi piccoli. Potrebbe essere loro di aiuto? È poca cosa. Ma è meglio di niente.
E poi, chissà, che qualche altro pensionato non sia invogliato a seguire il mio povero esempio e, insieme ad altri, adottare una famiglia bisognosa per aiutarla a crescere i propri figli in condizioni più umane.
Paola Mari – Firenze

Una lettera che ci ha mandati in crisi. Grazie, signora Paola. Grazie ai pensionati che seguono già il suo esempio.

aa.vv.




Dov’è finito l’uomo

Egregio direttore,
faccio parte della «sinistra antagonista», demonizzata dai mass media. Però ho individuato un punto in comune tra il mio pensiero e quello della sua rivista: l’umanesimo. Ma, oggi, sembra che solo una parte della chiesa abbia a cuore l’uomo nella sua globalità, cioè nei diritti civili, nel diritto a vivere in un ambiente salubre e nutrirsi in modo genuino.
I diritti umani dovrebbero essere ormai acquisiti in modo irrevocabile. Purtroppo non è così.
Com’è possibile che in Italia esista un partito come Forza Nuova, i cui militanti si dichiarano fascisti… e la repressione della polizia colpisce chi contesta le loro adunate?
Com’è possibile che uno stato mandi soldati a fare guerre umanitarie e, 10 anni dopo, si accorge che quanto diceva chi contestava le guerre non era privo di fondamento? I proiettili all’uranio non fanno tanto bene: lo si sa e dice da 10 anni!
Com’è possibile che almeno la metà dello schieramento politico italiano pensi che non sia sbagliato se noi siamo ricchi e tanti altri (quelli del sud e di tutti i sud) poveri? Sono poveri, perché non sono stati capaci di fare come noi. Oggi sono pure fastidiosi. Perché non se ne stanno a casa loro?
Com’è possibile che le generazioni precedenti la mia (ho 27 anni), nel campo lavorativo abbiano avuto più diritti di noi, sebbene abbiamo studiato molto di più?
Dove è finito l’uomo? Ne rimane traccia in qualche bel discorso, ma nella vita di tutti i giorni assistiamo alla proliferazione di un modello economico, il neoliberismo, con le conseguenze che paghiamo salate.
Lorenzo De Ambrosis
(via e-mail)

L’attenzione all’uomo certamente ci accomuna. Con parole più stringenti (per i cristiani), è Dio stesso che domanda all’assassino Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4, 9). Inoltre, fra i diritti dell’uomo, non si scordi la libertà religiosa. Anche dal punto di vista antropologico, l’uomo globale non può prescindere dallo Spirito. Ancora: accanto alla solidarietà dell’uomo verso il fratello, ci piace sottolineare quella del Padre verso i suoi figli.

Lorenzo de Ambrois




La via di Lilliput

Egregio direttore,
congratulazioni per il dossier «Sulla via di Lilliput» di Missioni Consolata, settembre 2000.
Condivido le parole di Serge Latouche sulla necessità di scelte etiche da parte dei consumatori e sul bisogno di resistere «all’impresa del lavaggio del cervello» dei media. Come sottolineato da Aluisi Tosolini, di fronte alla massa d’informazioni che riceviamo, avere notizie non viziate da esigenze di mercato o propaganda politica esige grande sforzo.
Ho trovato stupende le considerazioni di Antonio Nanni sugli stili di vita, sulla sobrietà felice e sull’etica del limite, che propongono valori che dovrebbero essere di tutti, a maggior ragione se credenti. Purtroppo non sono facilmente riscontrabili nella pur cattolica società del nord-est, manifestamente ricca, dove vivo.
Società nella quale operano tante associazioni di volontariato laico e cattolico testimoniando tali valori; nonostante ciò, «pare» prevalere l’«ideale-denaro». Società nella quale il proprio benessere è giustificato dal quotidiano e «faticoso» lavoro, mentre la solidarietà sembra essere sostituita dalla più facile beneficenza patealistica: il buonismo, di cui scrive Tosolini.
Società nella quale tanto successo hanno i modelli del neoliberismo, proposto da Berlusconi, confusamente mescolati con la fobia del «diverso» sostenuta per anni da Bossi e ora sinistramente affascinata dal modello «Haider».
Tamara Prest
Padova

«Lungi dal giudicare le scelte altrui – continua Tamara Prest -, ma per una necessità di comprendere, mi chiedo quale coerenza possa legare l’osservanza della fede cattolica, ampiamente manifestata, ai valori proposti dai suddetti personaggi.
Ciò che talvolta pare mancare è la consapevolezza delle proprie affermazioni, nonché la coerenza tra teoria e pratica.
La sensazione è che si sia perso il senso religioso, sostituito dalla spettacolarizzazione del rito (se n’è parlato nel giubileo) e dalla privatizzazione anche della fede.
In tale disorientamento sapere che c’è chi, come voi, s’impegna a diffondere una cultura alternativa fa sperare in un possibile futuro migliore».

Tamara Prest




La foto birbona

Caro direttore,
due rilievi circa l’articolo su padre Pietro Calandri (Missioni Consolata, gennaio 2001).
Primo. L’articolo è ben fatto. Padre Benedetto Bellesi ha saputo cogliere l’essenziale, affinché la personalità di Calandri apparisse nella sua vera luce: un personaggio vivo e tangibile, con tutte le sfumature umane e gli atteggiamenti di fede che ne rivelano la grandezza d’animo, lo slancio missionario con cui affrontava le vicende della vita. Emergono le molteplici capacità di pioniere, artista e il vigore con cui realizzava imprese difficili, fra contrasti che avrebbero stritolato persone meno determinate.
Secondo. La foto di fratel Corrado Maritano è originale e simpatica; ma… è stata confusa con quella di padre Calandri.
mons. Aldo Mongiano
Torino

Ah quella foto simpatica… e birbona! Missionari in paradiso, pietà!

Mons. Aldo Mongiano