Lettere: cari missionari


Il paradiso
è qui



attraverso Missioni Consolata
di settembre, il giornale Times of India rivela che, se si riducesse la
popolazione mondiale a 100 individui, ci sarebbero 57 asiatici, 21
europei, 14 americani, 8 africani. Il quotidiano fa conoscere altri dati
(probabilmente tratti da un sito internet), omettendo però che 89 persone
sarebbero eterosessuali e 11 omosessuali; 6 individui possiederebbero il
59% della ricchezza del mondo intero e tutti e sei sarebbero statunitensi.
Ancora, su 100 individui, 80 vivrebbero in case senza abitabilità, 70
sarebbero analfabeti, 50 soffrirebbero di malnutrizione e 1 solo sarebbe
laureato.


«Se avete soldi in banca, nel
vostro portafoglio e spiccioli in una ciotola, siete fra l’8% delle
persone più benestanti al mondo. Se i vostri genitori sono vivi ed ancora
sposati, siete persone veramente rare, anche negli Stati Uniti e nel
Canada».


Qualcuno ha detto: «Lavora come
se non avessi bisogno di soldi; ama come se nessuno ti abbia mai fatto
soffrire, balla come se nessuno ti stesse guardando; canta come se nessuno
ti stesse sentendo.Vivi come se il paradiso fosse sulla terra.


Giovanni Fumagalli


Casatenovo (LC)

E noi, a poche settimane dal
natale di Gesù Cristo, citiamo un canto:


No, non è rimasta fredda la
terra:
Tu sei rimasto con noi…
Sì, il cielo è qui su questa terra:
Tu sei rimasto con noi,
ma ci porti con Te…
No, la morte non può farci paura:
Tu sei rimasto con noi…
Sei Dio con noi,
sei Dio per noi,
Dio in mezzo a noi.

«Gratia
plena»

sono un giovane devoto
dellaVergine Maria, perché le devo moltissimo. Ho avuto da poco una totale
conversione, grazie ad un vostro missionario, padre Serafino, che mi ha
aperto la strada della salvezza facendomi incontrare la madre di Dio.

Padre Serafino mi ha raccontato
come ha cercato di rendere santa la sua vita donandola a Dio; lungo la
strada della carità e della povertà spirituale ha incontrato molti
bisognosi in Africa e in tutti quei posti in cui Dio lo ha inviato
nell’arco della sua missione. Prego affinché i suoi sacrifici non siano
vani. Il mondo avanzi sulla strada della pace che Dio ha dato a noi
uomini, forse anche grazie ai sacrifici di persone come padre Serafino.


Firma non leggibile,


località non espressa

Nessuna
sanità da «terzo mondo»


in questi giorni il Consiglio
dei ministri ha approvato il documento di programmazione economica e
finanziaria per gli anni 2002/2005.


Tra gli interventi in
programma, leggo che sono previsti 120 mila miliardi di privatizzazioni
(la Repubblica 17/7/01). Ho istintivamente collegato questa notizia alle
perplessità espresse da Gianni Vaccaro nella sua lettera «Se ospedali e
scuole diventano imprese», pervenuta dal Perù e pubblicata su Missioni
Consolata, luglio-agosto 2001.


Ho poche idee in materia
politica ed economica; però mi sono chiesta: si stanno preparando per il
nostro servizio sanitario nazionale tempi difficili, ovvero da terzo
mondo?


Diana Cassani


Milano

La lettrice, più che un
interrogativo, lancia un monito. Ben venga ogni progetto del governo che
elimini gli sprechi e renda il servizio sanitario più efficiente, ma non a
scapito degli ammalati che non possono usufruire di strutture alternative!
Inoltre la lotta agli sprechi deve investire ogni ambito, compreso quello
della produzione di armi. Ecco un altro punto su cui bisogna essere
«svegli». E ci preme dire con forza che sanità, scuola, posta, trasporto,
informazione… da «terzo mondo» non sono tollerabili né nel nord né nel
sud del mondo.


Uso delle
offerte



la lettera di padre Marco
Bagnarol, pubblicata sul numero di luglio-agosto, mi ha lasciata
sconcertata.


Che un missionario, in possesso
di così generose offerte, scriva quelle due-tre cose che gli sono passate
per il capo è veramente inammissibile!


Pensavo che i missionari
destinassero al meglio i soldi che le persone, magari rinunciando a
qualche legittimo desiderio, offrono in favore di un numero indescrivibile
di individui che necessitano, prima di tutto, di medicine per sopravvivere
ed anche cibo per vivere.


D’ora in poi, prima di fare
un’offerta, ci penserò ben bene.


Lettera anonima

I missionari impiegano le
offerte ricevute secondo il desiderio dei donatori: se il denaro è per la
costruzione di un dispensario medico o di una scuola, viene impiegato a
tale scopo. E l’ha fatto, scrupolosamente, anche padre Marco Bagnarol.

Però padre Marco solleva un
altro problema; si domanda: perché è più facile raccogliere fondi per un
allevamento di animali che per la costruzione di una cappella? In altre
parole, il missionario sottopone la sensibilità evangelizzatrice dei
credenti ad un esame di coscienza. Un esame da non sottovalutare.


Se vince la
violenza

Gentile
direttore,


abbiamo vissuto un’estate
«calda», da stampare nella memoria nella sua nefasta realtà. L’estate 2001
(che ci attendeva per trascorrere nel silenzio della montagna e nel riposo
balneare o in un semplice stacco dalla realtà quotidiana) ha portato in
trionfo la violenza. Una violenza sorda e anarchica, disorganizzata e
spietata, disperata e inconcludente. Una violenza che deve farci
interrogare su dove nasce, perché riemerge con tutta la sua forza
distruttrice e contagia le giovani generazioni.


Sono ancora i fatti di
luglio-agosto (specie le vicende del G8 di Genova) che ci turbano e fanno
sobbalzare le coscienze.


A Genova perché la violenza ha
schiacciato le ragioni della protesta, del dialogo, del confronto tra
uomini e donne che vivono gli uni accanto agli altri?… Sono state messe
in soffitta le ragioni nobili di molti, che hanno partecipato non solo
alla manifestazione di sabato 21 luglio, ma anche alla settimana di
dibattito sulla globalizzazione, e che da anni lavorano con coerenza per
lo sviluppo dei paesi più poveri. Non una minoranza, ma un gruppo
consistente di giovani ha usato lo scontro per opporsi ai «grandi della
terra». La violenza, come mezzo per dire «ci siamo!», ha dimostrato ancora
una volta di essere il principio dell’autodistruzione. È scoccata la
scintilla… e l’incendio ha incenerito i buoni e sinceri, che animano la
parte sana e si impegnano per una globalizzazione al servizio dell’uomo.


I violenti hanno creduto di
vincere. In realtà hanno perso. Hanno provocato una reazione scomposta;
hanno evidenziato nel sistema la mancanza di prevenzione e tutela dei
cittadini genovesi; hanno portato a conseguenze tragiche il gioco dello
«spacca tutto», culminato con la morte di un giovane e la disgrazia per
un’altra giovane esistenza. Nelle settimane a venire è nato uno scontro
avvilente nel mondo politico: non una voce si è alzata, ferma,
intransigente, autorevole, per dire basta allo stillicidio, per indicare
un’altra strada a chi vuole perseguire valori umani, per chi deve tutelare
la sicurezza dei cittadini. Alla riflessione pacata si sono privilegiati
gli scambi di accuse e le violenze verbali, che producono solo danni,
spesso irreversibili. Della «non violenza» pochi hanno parlato. Della
capacità di opporsi all’ingiustizia, grazie all’opera silenziosa e
all’amore di coloro che vivono in prima persona i drammi nel Sud del
mondo, nulla. Solo risse verbali.


Allora la violenza dilaga,
penetra nel cuore dei deboli che si credono forti, annebbia menti e
coscienze, entra nelle giovani vite come un virus, una droga e agisce.
Attraverso la violenza si giustifica ogni azione, si chiedono protezioni
politiche, sociali, economiche e financo giustificazioni religiose.


Oggi non si può rimanere inermi
o chiedere solo ordine e repressione. È importante riportare al centro la
cultura della pace, per sradicare la violenza dai cuori, per allontanare
dalla storia l’idea che solo il male trionfa.


I cristiani e tutti gli uomini
di buona volontà sono pronti alla prova?


Luca Rolandi


Torino


Non basta la
parola

Caro
direttore,


«fare un salto» mi hanno
risposto in una banca. Significa che l’impiegato sarebbe stato assente per
tutta la mattinata… Le parole non riescono spesso a rendere il concetto
che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.


Prendiamo, ad esempio, il
termine global. Per esso si azzuffano non solo i politici. Un bene, un
male, una novità?


Global è stato l’antico impero
di Roma, con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi
cede e sgominando chi si oppone (Eneide, VI, 852-3). Anche per Marco Polo,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Garibaldi o Guglielmo Marconi la realtà era
globale. Ma lo è stata pure nelle guerre modee e nelle epidemie antiche.
E lo è nell’economia. Dunque global non è un’invenzione di questi giorni.
Nel 1969 Marshall McLuhan scrisse sul «villaggio globale», cioè
elettronico. Oggi abbiamo quello telematico di internet. Ma i messaggi
sono destinati pure al bambino del Nepal, costretto a lavorare in una cava
di pietre, o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine?


Global: l’esportazione che
arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei paesi «in
via di sviluppo» per prodotti destinati a noi.


Global: la nuova economia che,
ad esempio in Perù, fa rispuntare la TBC, perché gli ospedali (obbedendo
al Fondo monetario internazionale) sono ora imprese di mercato, e non
attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un
malato; dove una donna muore con il figlio, perché senza soldi per il
taglio cesareo (cfr. Missioni Consolata, luglio-agosto 2001). In Gran
Bretagna hanno aggiunto a «capitalismo» l’aggettivo «compassionevole».
Sono parole povere quelle che necessitano di un abbellimento!


Antonio Montanari


Rimini

Avanti
così!

Egregio
direttore,


dopo quanto accaduto a Genova a
luglio e dopo i drammatici avvenimenti dello scorso 11 settembre negli
Usa, nel corso di frequenti discussioni con amici e conoscenti, ci siamo
ulteriormente convinti del valore che riviste come Missioni Consolata
possono assumere.


La vostra rivista garantisce la
qualità e l’originalità delle informazioni, che riescono a comunicare,
attraverso i servizi e le documentazioni che pubblicate, una testimonianza
diretta e continuativa delle culture mondiali e delle condizioni delle
economie nei singoli paesi considerati, evidenziando le contraddizioni che
emergono.


I motivi di riflessione che si
trovano aiutano anche a comprendere le ragioni che hanno spinto centinaia
di migliaia di persone a partecipare in maniera diretta, e molte di più a
condividere le ragioni di una manifestazione quale quella di Genova del 21
luglio. La prevalenza dei mezzi d’informazione ha poi fatto diventare
quanto accaduto una sola «questione di ordine pubblico», scrivendo una
valanga di inutili considerazioni, quando ben altro era il valore di ciò
che si voleva sostenere. Nel panorama dell’informazione nazionale, troppo
impegnato a fornire notizie sugli indici di borsa e sulle tendenze dei
mercati, solo in maniera sporadica trovano visibilità le realtà «altre»
dall’occidente, spesso strumentali a qualche campagna più o meno occulta.


Soprattutto in questi giorni,
in cui con leggerezza sono usate parole terribili, ci aspettiamo che
proseguiate, con il vostro lavoro, a trasmettere un messaggio di giustizia
sociale e di pace.


E questo per continuare a
«sognare un mondo diverso dall’attuale».


Aldo Da Boit


e Tamara Prest



Sorpresa,
stupore…


Spettabile
direzione,


ho letto con attenzione su
Missioni Consolata di settembre «Ai lettori» e «Battitore libero», scritti
da Paolo Moiola.


Mi ha molto stupito la
sicurezza (sicumera?) con cui il redattore individua la causa di tutti i
mali del mondo nella globalizzazione e nelle «violenze di certe
multinazionali», senza accennare alle enormi risorse sperperate in
armamenti convenzionali e no ed in guerre intee dai cosiddetti paesi
poveri (mentre, secondo notizie di stampa, l’ex-terrorista Gheddafi,
cambiando registro, ha ormai ultimato, impiegando utilmente i
petro-dollari, un imponente sistema di acquedotti per portare l’acqua dal
deserto alla costa).


Confesso, infine, sorpresa nel
trovare le tesi antiglobalizzazione e antiamericane, cavallo di battaglia
dell’estrema sinistra italiana, sostenute su Missioni Consolata da Paolo
Moiola, senza far parola su una possibile globalizzazione governata e non
selvaggia. Ancora sono sorpreso nell’apprendere la contiguità di certi
dimostranti a Genova (durante il «G 8») con tute bianche e no.


Chiedo a codesta direzione se o
in quale misura si riconosce nelle tesi del redattore Paolo Moiola.


La presente globalizzazione,
fondata sul neoliberismo economico, solleva forti perplessità nello stesso
«Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo»: come è possibile, ad
esempio, che tre individui nel 1999 avessero ricchezze pari al reddito
complessivo di 42 paesi poveri? Come spiegare il crescente divario
economico fra paesi ricchi e poveri, rispettivamente di 11 a 1 nel 1913,
di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973, di 72 a 1 nel 1992?


Multinazionali.

Vale il discorso della non
demonizzazione. Ma è eloquente che la «Del Monte», ad esempio, sia stata
«processata» in Kenya e, alla fine, abbia accettato le richieste dei
lavoratori nelle piantagioni di ananas.


Guerre e armi.

Nel sud del mondo esistono conflitti assurdi, mancanza di rispetto dei
diritti umani e sprechi di risorse… che Missioni Consolata ha
denunciato. Ma, ancora una volta, sorge la domanda: chi produce e vende
armi? Chi ha addestrato i terroristi, responsabili delle stragi negli Usa
l’11 settembre?

In redazione il dottor
Moiola
ha le «sue» idee (come tutti), che rispettiamo, perché crediamo
nel pluralismo. Questo non significa che tutte le opinioni siano giuste,
ma che tutti possono esprimerle. Altri nostri collaboratori talora
sostengono tesi discutibili. L’invito a ciascuno è: sappi far credito
anche a chi non la pensa come te. Per tale ragione pubblichiamo anche le
lettere anonime (non siamo tenuti a farlo) e quelle che ci insultano.

Come missionari, non possiamo
dimenticare personaggi di chiesa, ieri condannati e oggi assolti: Ricci,
De Nobili, Rosmini… Grazie a Dio (è proprio il caso di affermarlo), la
chiesa cattolica (cioè universale) è quella di san Pietro e di san Paolo:
il missionario Paolo ha accusato Pietro, primo papa, di ipocrisia (cfr.
Gal 2, 11-14)… ed entrambi sono i pilastri della chiesa.

Ai nostri giorni il cardinale
Biffi «non è» il cardinale Martini. Però entrambi hanno diritto di parola,
e lo esercitano.

Complimenti
di «troppo»

Leggo
su Missioni Consolata, settembre 2001, p. 67: «… spero che il mondo che
lei difende un giorno o l’altro si frantumi sotto il peso delle proprie
contraddizioni. Con l’aiuto di quel “popolo di Seattle” (e di Porto Alegre)
che lei liquida con accademica sicumera»… Nell’attesa avete frantumato
le Twin Towers di New York e le persone che si trovavano al loro interno.
Complimenti!


A proposito, se quel mondo si
frantumerà, non ci saranno più antibiotici, aspirina, generosi oboli di
fedeli laboriosi che risparmiano.


A proposito bis, «George il
texano» si chiama George W. Bush ed è il presidente degli Stati Uniti;
merita rispetto come il suo paese che è democratico, generoso, ospitale.


A proposito tris, della «Tobin
tax» si pente persino l’ideatore Tobin, che si è reso conto di aver preso
una cantonata. A Genova non se n’è parlato, perché non funziona, non
serve, anzi fa danno.



Non si stigmatizza la
mercificazione della salute indicata dalla signora Bono, bensì quella
esemplificata da Gianni Vaccaro, che dovette pagare 20 dollari per donare
il sangue ad una ragazza con cancro terminale (cfr. Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).

Bis. Nell’articolo contestato,
alla riga 26 della seconda colonna, si riconosce il «presidente George W.
Bush».

Ter. Nel 1972 James Tobin
(premio Nobel per l’economia nel 1981) propose un’imposta dello 0,05%
sulle transazioni valutarie. Oggi non si riesuma la «Tobin tax» tout
court, ma qualcosa di analogo. È questo pure il parere della studiosa
Susan George,
nostra ospite il 18 settembre scorso (cfr. pagina 43).
Al riguardo, si legga: Alex C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax,
Gruppo Abele, Torino 1999.

Circa la «nostra» frantumazione
delle torri gemelle e l’assassinio dei residenti, i «complimenti» della
lettrice… li meritiamo davvero?

Usa,
il migliore di tutti?


essendo un lettore di Missioni
Consolata, di cui Paolo Moiola è tra i componenti la redazione, ho avuto
modo di leggere fondi o reportages di suo pugno e più volte sono stato
preso dall’impulso di scrivergli (come più volte sono stato tentato
d’invitare la direzione della rivista ad eliminare il mio nome dagli
abbonati).


Sul numero di settembre il
fondo riguardante i fatti di Genova non poteva essere che di Moiola. Il
livore che manifesta sempre verso gli Stati Uniti, per lui il Satana che
ha demonizzato il mondo occidentale (a proposito, quanto è diverso tale
livore da quello espresso dall’integralismo islamico?), appare anche in
queste righe riguardanti i fatti di Genova.


È ovvio che a Genova Moiola non
poteva non esserci e, ancora più ovviamente, per dimostrare in modo
pacifico, senza casco o mascherine e, men che meno, bastoni o spranghe. Ma
egli non ha mai dubitato che la sua «dimostrazione pacifica» avrebbe fatto
da paravento agli «spacca tutto» privi di qualsiasi motivazione se non
quella di fare disastri? O forse, sotto sotto, sperava che succedesse? Io
proprio non riesco a capire quali siano le origini del suo
antiamericanismo viscerale…


Possibile che, in tutti i suoi
redazionali, sia messo solo in evidenza l’aspetto negativo (che talvolta
esiste) dell’operato statunitense e mai ciò che di buono quel grande paese
compie a vantaggio dell’umanità? Negli anni ’40-50 Moiola non era ancora
nato; ma non gli è mai capitato di leggere qualcosa circa la storia di
quel tempo?


Io penso che il redattore sia
fondamentalmente onesto: purtroppo non si rende conto che il suo
atteggiamento (ancor più grave, perché il pensiero viene riportato da una
rivista cattolica) tende a creare un’immagine unicamente negativa di un
grande paese, non perfetto, ma sicuramente il migliore fra tutti quelli
esistenti sulla faccia della terra. Nelle sue vesti egli fa più danno dei
vari Fo, Santoro e Luttazzi, che neppure meriterebbero una citazione. Il
disprezzo, costantemente espresso e manifestato, alimenta sentimenti di
invidia, che sfociano poi in qualcosa di più grave per arrivare fatalmente
all’odio. Questa lettera viene scritta dopo i fatti di New York, che qui
non commento. Ma chiedo a me e a lui: quanta parte di responsabilità per
la tragedia può essere attribuita alle diffuse e infamanti accuse espresse
nel mondo occidentale verso gli Stati Uniti? Minima sicuramente, ma tale
da indirizzare le idee degli inconsapevoli e dei più violenti in una
direzione sbagliata, in grado di appoggiare (anche se inconsapevole) chi
intende realizzare un disegno perverso.


Che l’Italia sia «il ventre
molle» dell’Unione europea forse a Moiola farà anche piacere, confondendo
la nostra connaturata e opportunistica debolezza come una manifestazione
di non dipendenza dal «grande Satana» d’oltre oceano: non dipendenza che
esprime la solidarietà correlata sempre da «però».


Guarda caso Bush o il «texano»
(come forse Moiola preferisce), nel ringraziare i paesi che hanno
manifestato la loro solidarietà agli amici americani, ha dimenticato
l’Italia: un fatto che ha rattristato soprattutto la nostra comunità, che
si è sentita isolata e quasi emarginata in una fase storica così delicata.


Che gli Stati Uniti siano
«sicuramente il [paese] migliore fra tutti quelli esistenti sulla faccia
della terra»… signor Laurenti, provi ad affermarlo in America Latina o
nella repubblica del Congo, dove da tre anni è in corso una guerra che ha
seminato oltre 2 milioni di morti… con lo «zampone» anche degli Usa,
nonché della Francia! In ogni caso Paolo Moiola terrà conto delle
osservazioni. È stato lui a chiedere la pubblicazione della lettera,
nonostante alcuni passaggi offensivi.


Guide cieche
e sale senza sapore

Spettabile
rivista,


esprimo disappunto dopo aver
letto l’editoriale di Paolo Moiola. Non mi sarei mai aspettato di leggere
su una rivista missionaria un articolo di chiaro stampo anti-G8.


Anche il dossier di Igino
Tubaldo, sulla dichiarazione Dominus Jesus, era assai sgradevole per
alcune affermazioni di dubbio valore teologico ed ecclesiale.


Il vangelo pone un serio
interrogativo: «Può un cieco guidare un altro cieco?». Per noi cattolici
c’è una fortissima tentazione: seguire le mode di pensiero piuttosto che
la tradizione, la sacra scrittura e il magistero del papa e dei vescovi.


Assumendo categorie da altri
ambienti (per l’articolo anti-G8 da una certa sinistra e per il dossier
sulla Dominus Jesus dalla teologia protestante e del dubbio), si finisce
col diventare come il sale, che – afferma il vangelo – perde il suo
originale sapore e viene quindi buttato.


Così si diventa inutili alla
chiesa, cioè al progetto di Cristo, e al mondo! Scusate la franchezza. Mi
auguro che su queste cose ci si possa confrontare sulla rivista.


Da sempre crediamo nel
«confronto». Quindi abbiamo pubblicato anche la sua lettera.


«Dissenso»
non è «odio»



mia moglie è da decenni
abbonata a Missioni Consolata: crede nell’opera missionaria, che ha anche
visto la dedizione completa in Africa di un suo zio vescovo. Io leggo,
oltre alla vostra rivista, Corriere della Sera, di cui talvolta archivio
qualche articolo interessante ed incisivo; tra questi c’è proprio quello
del professor Panebianco del 23/6/01, che voi avete ferocemente attaccato
nel numero di settembre.


Io condivido il pensiero di
Panebianco e trovo scandaloso, sotto il profilo della faziosità e
ristrettezza di visione, quanto affermato nel vostro articolo, che ignora
almeno due cose semplicissime:




Non mi soffermo ad argomentare
perché i no global sono solo interessati, come dice Panebianco, a
sviluppare la loro identità e ideologia, e non argomenti razionali.


Resto, comunque, addolorato nel
vedere come gli articoli della vostra rivista, che vorrebbe essere
cattolica, contribuiscano a fomentare l’odio verso il mondo occidentale.


Antonio Filisetti (via e-mail)

Anche da parte nostra due
«cose»: – non ignoriamo affatto i problemi che il lettore ricorda (ma non
c’entrano con l’articolo di Panebianco); – il dissenso non è per forza
odio. Non lo è assolutamente in noi.


Il pane
bianco del professor Panebianco

Caro
direttore,


ho letto su Missioni Consolata
di settembre la critica di Paolo Moiola nei confronti del professor
Panebianco. Condivido pienamente i rilievi del vostro redattore.


Tra l’altro, il cognome del
professore mi ha ricordato che nel mio paese natale, la Serbia, il pane
bianco lo mangiano i ricchi e il pane nero o la polenta i poveri… Trovo
interessante il fatto che Panebianco difenda la società dei ricchi, la
società di coloro che mangiano pane bianco; anzi, tutte le mattine,
possono scegliere fra una ventina di pani diversi.


Il vostro giornalista è
arrabbiato, perché ha visto da vicino quelli che non hanno neanche il pane
nero, e io lo capisco. È sdegnato con quanti non vogliono né vedere né
assumersi le responsabilità di fronte alle sofferenze altrui, che egli ha
visto con i propri occhi e non riesce a cancellare dalla mente allorché
rientra nella «civiltà».


Signor direttore, sa come la
penso io? Se la globalizzazione garantisce a tutti benessere e democrazia,
io ci sto, eccome! Ma se aumenta il mio benessere e quello dei miei figli
a svantaggio delle creature di un’altra mamma, non ci sto più. Rinuncerei
al piatto pieno e ai 20 tipi di pane bianco, insieme ai miei figli;
rinuncerei ai tre pasti al giorno con molte persone che conosco… se
potessimo cancellare la morte per fame. E credo che lo farebbe anche il
professor Panebianco e, con lui, moltissimi «global», «antiglobal» e tutte
le persone che hanno un cuore nel petto.


Ma la fame nel mondo continua a
mietere numerose vittime, specialmente bambini. Se, pur con le nostre
rinunce, non eliminiamo il flagello, non significa che anche noi non ne
siamo responsabili. Non dobbiamo tranquillizzare le nostre coscienze; ma
trovare il modo che ci sia pane per tutti.


La nuova Europa e la sorella
America sono paesi meravigliosi, pieni di bellezze e ricchezze di vario
genere; ma, se avessero l’umiltà di riconoscere anche quelle degli altri,
se riconoscessero a tutti il diritto di vivere, respirare, lavorare,
studiare… se smettessero di misurare cose e persone con due misure
diverse… se dessero al mondo la parte più bella e sana della loro
civiltà… Purtroppo pochi lo fanno.


Allora ci sono quelli che non
vogliono accettare «tutto il pacchetto» della nostra civiltà, ma solo la
parte migliore. Sono i sognatori, gli utopisti. Sono anche coloro che si
ribellano, protestano, pregano. Sono quelli che Gesù chiama «sale del
mondo». Non sono terroristi e non seminano male e dolore. Possono essere
dei giornalisti, come Paolo Moiola e i suoi colleghi; sono i missionari
della Consolata e tutti quelli che combattono il dolore, la povertà e
l’ingiustizia. Che mondo sarebbe senza di loro?


Missioni Consolata rappresenta
per me un’«isola felice» nel mare delle informazioni quotidiane. Può
sembrare un paradosso: la rivista si occupa dei problemi più gravi del
mondo; eppure riesce a trasmettermi la bellezza e il valore della vita;
tiene sveglia la mia coscienza e mi fa sperare in un mondo migliore, per
il quale vale la pena di combattere e crescere i figli.


La signora Petrovic, sposata
con un medico italiano, è un’«operatrice interculturale» nelle scuole
della provincia di Trento. Ha pure una storia religiosa affascinante, che
i nostri lettori forse ricordano. Nata in Serbia sotto il regime ateo di
Tito, Snezana fu battezzata di nascosto dalla nonna… perché piangeva,
piangeva sempre. La bimba, una volta battezzata, non pianse più.  In un
post scriptum si rivolge pure ad Anna Turatello, invitandola a non avere
paura degli extracomunitari (cfr. Missioni Consolata, settembre 2001).


Scrive: Cara Anna, quell’extracomunitario
si è fermato, a differenza di altri (che non erano tali). Tu, però, non
buttarti sulla strada. E se i freni dell’auto non funzionassero?


Io ho una figlia di 16 anni,
come te. Questa estate siamo state a Belgrado. Lei ha passato delle
vacanze indimenticabili con gli «extracomunitari». Io però cancellerei
tale parola dal linguaggio della bella lingua italiana.


Sono stranieri di diversi
paesi. Ognuno ha un nome e cognome; può essere bello o brutto, onesto o
disonesto, educato o maleducato, pigro o diligente, stupido o
intelligente… Non aver paura, Anna. Anch’essi sono «il tuo prossimo».

Le
armi del «diavolo»

Cari
missionari,


temo di venire cestinato
scrivendo sull’orribile attentato negli Usa.


Il discorso di Bush, con la
parola «vinceremo», mi sa più di ragionamento di «vendetta» che di
giustizia; ancora una volta, dimostra che la civiltà civile siamo «noi» e
noi siamo nel giusto. Gli altri sono diavoli.


Lutto, minuti di silenzio,
trasmissioni sospese. Sono d’accordissimo: ci mancherebbe! Ma quando gli
Usa hanno attaccato Baghdad e Belgrado, quanti sono stati i minuti di
silenzio?


Il «diavolo» Bin Laden è stato
finanziato dalla Cia americana, finché ha fatto comodo, come i vari Saddam
(i nemici). Troppo comodo! Lo sbaglio, nella nostra epoca di popoli
civili, è stato ed è quello di vendere, vendere… senza pensare
minimamente che i «diavoli» le armi le comprano in casa nostra: non se le
sono create loro!


Il «mea culpa» è d’obbligo.


Gli Usa fanno una politica
estera dannatamente a loro favore, senza pensare ai popoli di «serie C».
Finché i palestinesi e i curdi non avranno una patria, ad esempio, e noi
continueremo a pensare solo al dio-denaro, al dio delle banche, non
stupiamoci se il diavolo prova invidia e odio nei nostri riguardi di
popolo occidentale santo. E con un nostro aereo ci condanna.



Diamo atto al presidente Bush
che, dopo le stragi dell’11 settembre, ha escluso la vendetta e persegue
la giustizia e la libertà. Ma come?


Una voce
fuori del coro


sono un ex allievo dei
missionari della Consolata. Dopo qualche anno di servizio in Mozambico,
sono ora responsabile del settore «cooperazione allo sviluppo» nella
provincia di Trento. In tale veste (ma anche e soprattutto a livello di
impegno personale), mi occupo di problemi legati allo sviluppo: diritti
fondamentali, pace, democrazia.


Ringrazio molto Missioni
Consolata, che rappresenta per me un valido strumento d’informazione,
analisi e riflessione, soprattutto in riferimento ai problemi degli
squilibri mondiali, della globalizzazione delle povertà, dei diritti dei
popoli colonizzati dai paesi occidentali, non più in senso classico, ma in
modo più subdolo e (se possibile) più pericoloso dalle logiche del
mercato.


Ogni mese leggo Missioni
Consolata, una delle poche voci fuori del coro, capace di leggere con
equilibrio e coraggio le contraddizioni dei nostri tempi, sempre con un
occhio attento ai diritti calpestati di milioni di persone, in nome di una
non ben definita libertà, che sempre più si rivela libertà di fare i
propri interessi a scapito di tutto e tutti.


Dopo le tragedie negli Stati
Uniti, mentre la violenza costringe a schierarsi senza «distinguo» né
capacità di riflessione, mantenere viva la fiamma della ragione e della
ricerca onesta rappresenta una scelta profetica, che solo chi è spinto
dalla passione e dalla generosità può fare.


Sono riconoscente ai missionari
della Consolata per la formazione ricevuta e mi complimento con la
rivista. Mi fa piacere vedere che i valori (che mi hanno sostenuto da
ragazzo) sono sempre la scelta degli ultimi, la giustizia, il rispetto,
l’equità, il pluralismo e rappresentino ancora oggi la linea direttrice
della rivista. Buon lavoro.

 



Chiesa e potere militare


 Gesù
non era cappellano di Erode

 


Cari missionari, il
dossier su «gli indios di Roraima/Brasile» è molto bello e ancora più
bella è la campagna di mobilitazione che avete lanciato per impedire la
costruzione della caserma nel villaggio di Uiramutã e arginare la
militarizzazione del territorio indigeno (Missioni Consolata,
luglio-agosto 2001).


Spero che da parte
di tutte le istituzioni cattoliche vi sia la medesima sollecitudine per
questa nobile causa o, quanto meno, non vi sia ostilità verso i vostri
progetti.


Dico questo perché
la presenza militare è molto radicata presso le alte sfere della chiesa
cattolica ed è una presenza pesantissima.


Ci siamo dimenticati
che Giovanni XXIII, prima di diventare papa, fu cappellano militare e che
l’attuale pontefice, tra gli altri titoli, detiene anche quello di
«vescovo militare»?


Il fatto potrebbe
funzionare se questi titoli e questa presenza fossero interpretati come un
servizio alla verità di Cristo, un servizio alla giustizia, alla pace,
alla salvaguardia del creato, e non una sovrastruttura finalizzata alla
legittimazione di strutture di peccato. Queste, sul piano morale e
religioso, non potranno MAI avere legittimità e autorevolezza (cosa ben
diversa da autoritarismo).


Io non so se e in
quale misura anche in Brasile sia presente una «chiesa in stellette», «in
anfibi» o un progetto di «caritas militare» e se i cappellani militari
italiani siano andati a Rio de Janeiro o Manaus a svolgere «pastorale
vocazionale militare» e addestrare in tale senso i loro confratelli per
far nascere una chiesa militare locale.


So che in paesi
latino-americani (in particolare Argentina e El Salvador) i cappellani
militari hanno avuto un ruolo assai importante nell’escalation delle
violenze contro la popolazione civile; e, se lo so, è perché ad ammetterlo
sono stati gli stessi autori delle atrocità e in qualche caso, sia pure a
distanza di anni, gli stessi cappellani.


Sono convinta che il
papa, a livello teorico, possa avere qualche ragione per tenere ancora in
piedi l’Ordinariato militare. A livello pratico, però, dovrebbe vigilare
di più su ciò che effettivamente i cappellani e vescovi militari insegnano
e fanno e, soprattutto, su ciò che omettono di insegnare e fare in prima
persona.


Gesù è andato nelle
case di tanti peccatori e ha usato misericordia con tanta gente che aveva
fatto del male. Ma non è stato né il cappellano di Erode né quello di
Pilato.


Rita Ferri – Fano
(PS)

 

Lettera che si
avvale di numerose fonti bibliografiche… Il papa non scende a patti con
la guerra. E lo sta dimostrando anche nel presente ed angoscioso frangente
mondiale, dopo l’«11 settembre 2001».

 

 

 



Abbiamo già tanti problemi, e voi…

 


Caro direttore,


per ragioni di
salute sto trascorrendo un po’ di tempo con i parenti, a contatto con la
gente, e raccolgo anche qualche parere su Missioni Consolata. In genere la
rivista piace per il taglio spigliato e non clericale, che – dicono – si
trova in pochissime riviste cattoliche. Quindi ringraziano te e la
redazione.


Permettimi anche di
riportare (senza offesa) due osservazioni critiche, abbastanza comuni.


1. Essendo Missioni
Consolata «la rivista missionaria della famiglia», si desidererebbe un
arti

AAVV




COLOMBIA. La lotta del popolo U’WA: IL CUORE DEL MONDO (e le trivelle della Oxy)




Una storia esemplare


 Quando
il petrolio è sangue


 



Sono soltanto seimila, ma si sono ribellati alla prepotenza della «Oxy
Corporation»,  una multinazionale petrolifera degli Stati Uniti che
vuole sfruttare la loro terra.

I

dubbi (anche personali) di un osservatore internazionale davanti ad
opposti modelli di vita: quello antropocentrico e tecnoconsumistico
dell’Occidente e quello ecocentrico dei popoli indigeni.


 

«Esto es el
coracon del mundo». Ci disse con aria profetica il cacique major
Berito, con il suo sguardo da sciamano, i suoi bellissimi tratti
somatici da indio u’wa e gli occhi che ti penetrano l’anima.

Ancora oggi ci
chiediamo come abbia fatto a tornare a casa, in quel piccolo villaggio
sperduto nella selva colombiana, quest’uomo di circa 50 anni, mai uscito
da quelle montagne amiche, padrone di uno spagnolo poco più che
elementare ed incapace di leggere e scrivere.

«Così hanno voluto
i grandi spiriti», rispose ridacchiando e masticando una piccola
pallottola di foglia quando glielo chiedemmo, increduli, per la prima
volta.

Venuto per un giro
di sensibilizzazione sulla causa u’wa in Europa, al momento del ritorno,
all’aeroporto Internazionale Malpensa 2000 di Milano, salutati gli
accompagnatori, scomparve.

Panico tra gli
organizzatori, squadre di ricerca a Milano, Miami, Dusseldhorf, Caracas,
Bogotà. Nulla. Dopo una settimana arrivò, a piedi, nel suo villaggio di
Cubarà…

Forse allora hai
ragione tu, Berito, indigeno u’wa che insieme alla tua gente stai
combattendo una guerra che racchiude veramente il cuore di tutte le
contraddizioni, per usare una parola gentile, di questo mondo moderno.

Come tutti i cuori
anche il vostro coracon del mundo pompa sangue. Sangue vitale alla vita
degli u’wa e della selva, luogo dove vive questo popolo di 6.000
persone, nella stragrande maggioranza bambini.

Il sangue u’wa
prende il nome di ruiria e non ha prezzo. Se la Madre terra ne fosse
privata, morirebbe, come qualsiasi altro essere vivente che è
dissanguato.

L’uomo occidentale
invece l’ha battezzato in maniera diversa: petrolio. E un prezzo lo ha,
anzi tutti i giorni ha un valore differente, che è deciso in fredde
stanze piene di computers, che ricevono ordini di compravendita da tutto
il mondo.

Uomo contro uomo,
profitto contro ambiente, guerra contro pace, morte contro vita. Il
tutto riconducibile a due semplici parole: progresso e sviluppo. Parole
che ormai hanno perso il significato originario, surrogati di un
concetto decisamente più imbarazzante: denaro.

 



ARRIVA LA OXY

La storia è molto
semplice. Il sottosuolo del territorio u’wa, posto all’estremo nord
della Colombia, al confine con il Venezuela, è ricco d’idrocarburi.

Il governo di
Bogotà appoggia gli scavi e, nel febbraio del 1995, concede la licenza
d’esplorazione alla multinazionale statunitense Occidental Petroleum,
meglio conosciuta come Oxy Corporation.

Come tutti gli
altri esecutivi del Sud America, il gabinetto presieduto da Andreas
Pastrana sembra mal sopportare le proprie radici pre-colombiane. E in un
ambiente di democrazia sospesa, in cui il popolo colombiano è
periodicamente chiamato a scegliere tra uno schieramento politico
(neoliberista) e il suo esatto clone (aspetto tipico dell’influenza
statunitense nel sud America, ma ormai anche in Europa), gli uomini che
hanno il colore della terra sono considerati un fastidio.

Il danno che
porterebbe l’attuazione di questo progetto può essere analizzato in
maniera duplice. La prima rifacendosi alla cultura locale, la seconda
dando un valore occidentale e quindi puramente pratico.

Per i werjayas
(sciamani che vivono sulla montagna e influenzano la vita della
comunità) e per la stragrande maggioranza della popolazione,
l’estrazione petrolifera ha un significato dissacrante. Il sacro è
d’altronde l’asse portante della cultura u’wa, come di tutte le culture
indigene. L’estrazione del petrolio è l’atto con cui si dissangua la
Madre terra, generatrice di tutte le forme viventi da cui dipende la
sopravvivenza di tutti gli uomini.

Non potrebbe
esistere catastrofe più grande. La ricaduta socio-religiosa sarebbe
devastante. Il terrore per la vendetta di Sira, la Madre terra,
pervaderebbe la comunità.

Alla costruzione
del primo pozzo, pur se esterno al «resguardo», i digiuni di
purificazione si susseguono, nuove rigidissime regole sono dettate. La
scarsità di piogge è vissuta come una colpa, una punizione da scontare
per il gravissimo oltraggio.

La comunità u’wa
(la parte che  non conosce tecnologia, compravendita ed altri aspetti
tipici della società occidentale) non può nemmeno immaginare quali
catastrofi pratiche si abbatterebbero sulla sua vita.

Il territorio
sarebbe alterato da un inquinamento generalizzato ed irreversibile. I
fiumi si trasformerebbero in discariche di liquami tossici, stroncando
così la presenza di pesce. La foresta sarebbe rasa al suolo per far
posto a pozzi d’estrazione, oleodotti, piste asfaltate, accampamenti per
operai, nuovi insediamenti per coloni. La prostituzione importata e
l’alcolismo dilagherebbero tra i nuovi abitanti arrivati da lontano. Gli
u’wa ribelli sarebbero brutalmente uccisi da squadracce di paramilitari
adibite appositamente a fare il «lavoro sporco» che l’esercito regolare
non può fare. Dove ora è pace e prosperità sarebbe solo distruzione e
morte.

Verso tutto questo
gli u’wa sono indifesi, come un bambino che si incammina inconsapevole
con l’orco.

La Laguna de Lipa
è un esempio di come potrebbe evolvere la situazione attuale. Gli
indigeni ghuababis che vi vivevano, dopo essere stati spostati nella
bidonville di Saravena, si sono trasformati in un branco di accattoni
alcolizzati, ombre lamentose che implorano monetine da 50 pesos.

La laguna ha perso
per sempre la propria originaria bellezza e versa in condizioni
ecologicamente disastrose, simile ad una palude di liquami tossici.

Il mercato globale
inteso come selezione darwiniana (il più forte vince, il più debole si
estingue) si abbatterà come una furia sulle vite degli u’wa…

Solo pochi
indigeni, debitamente incaricati dalle autorità spirituali negli anni
passati di formarsi con una cultura occidentale per avere un’arma in più
nella lotta contro la Oxy, comprendono quali drammi incombano sul
destino della comunità. Costoro, in genere giovani intorno ai 25-30
anni, non godono però della simpatia della  popolazione, che mal vedono
la loro assenza prolungata dovuta ai lunghi viaggi, i loro nuovi
costumi, la loro contaminazione con l’uomo bianco.

 



SCONTRO TRA CULTURE

 «Gibraltar One»:
così è stato denominato il primo pozzo di esplorazione petrolifera della
Oxy Corp. costruito pochi metri all’esterno del territorio sacro. Un
nome che ricorda le Colonne d’Ercole e il significato che ha avuto per
secoli quello stretto che divideva il conosciuto dall’ignoto.

Per arrivare
all’impianto bisogna sottostare ad estenuanti controlli da parte
dell’esercito, schierato a difesa dell’insediamento. Il sito è
disseminato di bidoni che portano il marchio Shell, altra benefattrice
dell’umanità.

Dopo una lunga
collaborazione con la Oxy nello sfruttamento petrolifero di questa
regione, quando incominciarono le proteste inteazionali in favore
degli u’wa, la Royal Dutch Shell si ritirò prontamente dall’affare,
memore del boicottaggio globale. Oggi  la compagnia preferisce
acquistare pagine pubblicitarie sul Time, per spiegare come sia divenuta
una paladina dell’ambiente e dei diritti umani.

Sarebbe istruttivo
portare su questa montagna (un tempo ricoperta di selva, oggi
trasformata in pianura di cemento armato) i tanti «guru»  della crescita
economica continua.

Eccolo di fronte
ai miei occhi questo famoso libero mercato, nella sua versione più
sfrenata, selvaggia, pura. Luogo nel quale non c’è posto per le culture
diverse da quella tecno-consumistica occidentale.

Esiste una sola
ragione per cui queste persone devono morire per fare posto ad un
impianto petrolifero? Di più: esiste una sola ragione per cui queste
persone debbano morire affinché noi occidentali si abbia il diritto di
non utilizzare mezzi pubblici perché un po’ scomodi?

Su questa collina
abitavano circa 150 persone. Un giorno arrivarono gli elicotteri
dell’esercito e le sfollarono. Resiste una famiglia sola che vive
arrampicata sulla montagna (con vista sul pozzo petrolifero), invasa dal
fetore nauseabondo che emette incessantemente il cantiere, circondata da
militari che vigilano giorno e notte. Che sguardo triste hanno questi
uomini e queste donne. Non parlano, ma resistono.

Giovani militari,
molti dei quali con caratteristici tratti somatici indigeni, controllano
tutto quello che facciamo. È vietato scattare fotografie, è vietato
parlare con gli operai, è vietato fare riprese video.

Sopra le nostre
teste volteggiano gli elicotteri che trasportano i tecnici della Oxy
dalla cittadina di Arauca al pozzo petrolifero. Vivono blindati.

Gli operai (coloni
con la faccia triste riconoscibili dalla mantellina gialla) viaggiano
ogni mattina su camion messi a disposizione dalla multinazionale, lungo
la pista che corre in mezzo alla selva, costruita nei decenni passati.
Durante il percorso immensi pascoli testimoniano la distruzione massiva
della foresta negli anni del «taglia e brucia» selvaggio.

L’autista che ci
guida (un giovane u’wa dal nome biblico, Samuel) spiega che questi
pascoli un tempo erano tutti territori ancestrali indigeni. Racconta le
storie narrate dai vecchi sciamani. Storie di un tempo, quando il
territorio u’wa era dieci volte più grande e la comunità più numerosa di
quanto sia attualmente. Ogni tanto spunta un bovino, un «long ho»,
come lo chiamano i locali.

Testimonianza che
una ricchezza (anche economica) come la foresta pluviale è tuttora
distrutta da capitali gringos, ansiosi di portare nei fast food
occidentali hamburgers a basso costo.

Petrolio e bovini,
lo sviluppo all’occidentale voluto, preteso e desiderato dalla classe
dirigente colombiana, come da tutti gli altri paesi dell’America Latina,
passa attraverso la distruzione delle ricchezze naturali e la cacciata
delle popolazioni locali.

 



GLI INDIGENI

 È data in
Occidente, e non solo, l’idea che essi rappresentino un elemento
anacronistico. Un popolo ed una cultura, che rifiutano la proprietà
privata e lo scambio commerciale, esulano dal concetto occidentale di
civilizzazione.

«Per la mentalità
modea, il fatto di trincerarsi dietro un valore non commerciabile del
territorio rappresenta qualcosa di sfasato e contrario alla civiltà, che
merita qualsiasi forma di repressione volta a neutralizzare pretese così
assurde», ha sentenziato il giornalista Plino Apuleyo Mendoza durante
una trasmissione televisiva dedicata alla contrapposizione tra u’wa e
Oxy.

Un pensiero rozzo,
ma non lontano dalle dissertazioni economiche che quotidianamente si
sviluppano in prestigiose università occidentali.

Un’accozzaglia di
razzismo, idolatria del mercato ed ignoranza, solitamente riconducibili
ad un fantomatico interesse comune contro un piccolo interesse locale,
rappresentato da uno sparuto gruppetto di «selvaggi».

Accecati da
un’onnipotenza delirante, la civiltà tecno-consumistica ignora
bellamente che la distruzione continua dell’ambiente e dei tanti piccoli
popoli sparsi per il mondo ci sta portando verso una comodissima
catastrofe.

Una cultura come
quella u’wa, che mette l’homo tecnologichus di fronte alle proprie
responsabilità su quale tipo di mondo stiamo costruendo, è ingombrante.
E merita ogni forma di repressione. Non può spiegarsi altrimenti questo
spiegamento di forze, questo annientamento fisico silenzioso.

Ciò che quest’uomo
analfabeta, Berito, ci racconta attraverso tortuosi percorsi logici,
facendo ampi riferimenti ai miti, sono verità ecologiche
incontrovertibili. Anche scientificamente.

Il pensiero corre
ai chili e chili di carta scritta che l’IPCC (Intergovernamental Panel
Climate Change) ha pubblicato pochi mesi fa, contenenti un monito
all’umanità per il fenomeno del riscaldamento globale rapido, dovuto in
parte rilevante all’utilizzo di combustibili fossili.

Ma che importa! Là
sotto ci sono tre mesi di consumo petrolifero del mercato statunitense.
Là sotto ci sono milioni di dollari. Lontano di casa, immerso nelle
contraddizioni del mondo, con questi uomini miti e generosi che smontano
ogni pregiudizio occidentale sul selvaggio povero, sporco ed ignorante,
tutto appare chiaro, limpido. Ed allora le domande, soprattutto di notte
quando la conoscenza del buio vero ed assoluto scatena paure ancestrali
e non si riesce a dormire, piovono continue.

Due mondi
separati, uno popolato da una cultura indigena come gli u’wa e l’altro
da una civiltà tecno-consumistica: quale raggiunge il fine ultimo di
ogni essere vivente in natura, la prosecuzione della specie?
Indubbiamente il primo. O forse il fine ultimo dell’uomo è avere il
maggior numero di gingilli tecnologici? Qualcuno conosce un altro
pianeta dove andare a vivere? Il pozzo distante poche decine di metri da
me ne è un esempio chiaro.

Dove prima c’era
la vita donatrice di vita, ora c’è il cemento e l’acciaio. Le culture
indigene hanno sviluppato una cultura ecocentrica, noi antropocentrica.

Non è necessario
raggiungere il loro equilibrio ecologico perfetto, basterebbe che la
nostra visione del mondo che ha al centro l’uomo fosse contraddistinta
dall’amore, parola che tanto imbarazza, e dal rispetto per tutti gli
esseri umani.

Con i loro sguardi
sospettosi, questi piccoli grandi uomini sembrano cogliere il cuore del
problema che tuttora sfugge, forse volontariamente, a noi occidentali.

Un giorno, una
giovane indigena, madre di 5 stupendi bambini all’età di 25 anni,
laureata in sociologia a Bogotà, guardandoci con occhi profondissimi ci
domandò: «Perché l’uomo bianco non trova mai sazietà in quello che ha?».

Impossibile
rispondere a questa banale domanda. Forse perché, a differenza loro,
abbiamo deciso di sostituire i valori spirituali con quelli materiali.
Forse perché l’amore vero è difficile da raggiungere, ed allora è molto
più semplice comprarsi qualcosa che dia un po’ di soddisfazione
momentanea.

 


CHI DEVE AIUTARE
CHI?

 L’impatto con gli
indigeni è disarmante. Da buon occidentale ero partito dall’Italia
pensando che la mia presenza sarebbe stata indispensabile nella vicenda
u’wa. Ci aspettavamo un’accoglienza calda e amichevole, da eroi, da
salvatori.

Arrivati al
Chuscal, luogo dove si teneva l’annuale assemblea u’wa, a bordo di una
camionetta  scese il silenzio. Solo pochi bambini si misero a saltare
festosi intorno all’automezzo.

I delegati delle
autorità spirituali, dopo averci impedito di scendere dal mezzo (poiché
impuri), ci rispedirono senza tante storie al nostro alloggio, una
missione gestita da tre suore Teresine al di là del fiume Cubaron, in
mezzo alla selva.

Da subito capimmo
che la figura dell’occidentale, eroe indispensabile, non ha molta
ragione d’essere.

Passarono tre
giorni, in cui rimanemmo parcheggiati alla missione. Un luogo lontano
dal nostro mondo: senza luce, telefono, riscaldamento, acqua corrente,
circondato dalla selva e dai suoi rumori. Le tre suore vivono così, da
sempre. Anch’esse appoggiano gli u’wa. Dicono che in loro vi sia una
spiritualità profonda che li ha portati a conservare intatto il loro
credo religioso, nonostante le forti pressioni evangelizzatrici. E di
questo sono contente loro per prime.

Finalmente giunse
un ragazzo a comunicarci che potevamo raggiungere il Chuscal.

Ma quale
significato aveva la fredda accoglienza che abbiamo ricevuto all’arrivo?
Indubbiamente noi non eravamo che gli ultimi bianchi che si
presentavano, da 500 anni, a fare promesse. Inoltre le
strumentalizzazioni, in situazioni che attirano l’interesse
internazionale, si sprecano.

Le azioni di
alcune persone, che operano in stretto contatto con gli u’wa, sono
spesso dubbie e, molto probabilmente, interessate al ruolo di
intermediario unico tra gli indigeni e i capitali che arrivano
dall’Occidente. Per noi ci fu una breve cerimonia di accoglienza e tanti
buoni propositi sulle collaborazioni future. Nulla di più, nulla di
meno. D’altronde era meglio così.

Gli u’wa sono
timidi e silenziosi, non amano fare dissertazioni filosofiche. Inoltre
la realtà è di fronte agli occhi di tutti e non necessita di tanti
discorsi. Chiunque capirebbe il sopruso, la vergogna e il dolore che
vivono in questa terra. Allora è chiaro quale sia il compito di chi
viene quaggiù a vedere e a parlare.

Non soltanto per
aiutare, ma soprattutto per imparare. L’uomo occidentale deve
radicalmente cambiare i propri stili di vita. Si deve liberare del
consumismo dilagante, perché genera morte e distruzione. E non importa
se genera anche ricchezza. La ricchezza smodata non è un diritto.

Ed io di fronte a
quel pozzo mi sono sentito colpevole. Colpevole di far parte di una mega
macchina economico-sociale che trasforma ogni azione in danno o in
sopruso.

Mentre guardavo
quegli uomini pensavo alla carta che sarebbe stata utilizzata per
denunciare questa storiaccia, al gasolio necessario per il volo aereo,
all’energia indispensabile per battere sui tasti del computer e mille
altre cose.

«Al mio ritorno
avrò il coraggio di dire a tutti che gli u’wa non sono lontani da noi,
dato che li incontriamo quotidianamente quando andiamo rifornire la
nostra auto di carburante? Avrò il coraggio di ammettere che noi tutti
siamo corresponsabili di un genocidio nella misura in cui non ci
impegneremo nel limitare i nostri sfrenati consumi? Avrò il coraggio di
dire che, prima di intervenire sulle multinazionali, dobbiamo pensare
alle nostre azioni quotidiane? Avrò il coraggio di andare contro tutti i
luoghi comuni, creati in questi secoli per giustificare la
subordinazione dell’uomo alle macchine e ai sistemi economici?».

Tutto questo mi
domandavo mentre, salito velocemente in una camionetta, assieme ai miei
colleghi scappavo dal territorio per evitare una colonna di guerriglieri
venuti a prenderci. Ennesima contraddizione di un paese dove, forse,
realmente batte il cuore del mondo.




 

 


Le
organizzazioni delle Farc e dell’Eln


 Ma
con chi sta la guerriglia?

 


Nel dipartimento di Arauca, i guerriglieri delle Farc e
dell’Eln tengono comportamenti ambigui sia con il narcotraffico che con le
compagnie petrolifere. Forse anche per questo, da sempre gli u’wa si
dichiarano distanti da ideologie e azioni delle due organizzazioni
guerrigliere.


 di
Antonio Mazzeo


 

L’inizio delle
esplorazioni petrolifere in Arauca ha richiamato  l’attenzione di tutti
gli attori del conflitto colombiano, comprese le organizzazioni della
guerriglia, che a partire dal 1980 hanno fatto la loro comparsa nell’area,
avviando una offensiva per il controllo delle principali vie di
comunicazione.

Nel dipartimento di
Arauca operano stabilmente i Fronti n. 10 e 45 delle Farc e il Fronte
«Domingo Laín» dell’Eln. Di difficile lettura è il rapporto tra queste due
organizzazioni guerrigliere. Le relazioni non sono mai state stabili e si
sono alternate fasi di mutua collaborazione a veri e propri periodi di
conflitto per l’egemonia politica e territoriale. Le divergenze iniziarono
a presentarsi nel 1991, quando fu avviato il dialogo tra la guerriglia e
il governo di César Gaviria.

Tra Farc e Eln ha
pesato, in particolare, la competizione per il consenso da parte dei forti
movimenti popolari esistenti nel dipartimento di Arauca, in lotta per la
promozione degli investimenti sociali delle rendite petrolifere nel
deficitario settore dei servizi e dell’assistenza educativa e sanitaria.

Almeno sino alla
prima metà degli anni ’90, l’Eln ha operato combinando gli elementi
fortemente militari con il lavoro di propaganda ideologica, mentre le Farc
si sono presentate più legate ai movimenti sociali e meno radicali nelle
azioni militari. Nella seconda metà del decennio, l’atteggiamento dell’Eln
è mutato per ciò che riguarda il rapporto con i soggetti organizzati del
mondo contadino e sindacale. Tra i militanti di queste associazioni l’Eln
è riuscita a strappare alle Farc l’egemonia esercitata nel passato.

La perdita di
leadership ideologica si è fatta palese in occasione del massacro compiuto
il 12 giugno 1999 ad Arauca da parte di una colonna delle Farc-Ep di 6
leaders sociali. I responsabili del crimine vengono denunciati proprio
dall’Anuc (la forte Associazione dei contadini), dalla centrale sindacale
della Cut e dal Comitato indigeno di Arauca, i quali si dichiarano
«sconcertati per la serie di violazioni e fatti di sangue realizzati dai
membri dei Fronti n. 10 e 45 delle Farc».

Per contro le Farc
hanno ottenuto legittimità e consenso tra le organizzazioni dei piccoli
produttori di coca, vittime delle campagne di fumigazione del governo e
della pressione dei narcotrafficanti che monopolizzano i processi di
trasformazione e l’esportazione della cocaina. La distinta posizione
rispetto alla coltivazione della coca è stata causa di ulteriore frizione
tra i due gruppi armati. Mentre l’Eln non permette che nella zona si
sviluppino la coltivazione e il traffico della coca, nelle zone sotto il
controllo delle Farc, si sono diffusi piccoli appezzamenti e alcuni
laboratori per la lavorazione della pasta base.

 

 LA
STRAGE DELLE FARC


 
In
questo complesso scenario di lotta per il controllo del territorio era
inevitabile che le organizzazioni guerrigliere si dovessero confrontare,
entrando talvolta in conflitto, con il popolo u’wa in lotta contro la Oxy.
Il cabildo mayor ha più volte denunciato la crescente pressione esercitata
dai gruppi armati, l’utilizzo del resguardo per il loro occultamento, i
tentativi di reclutare giovani u’wa.

«Chiediamo di vivere
secondo le nostre regole – chiarisce Daris Cristancho, rappresentante del
cabildo u’wa -. Siamo un popolo totalmente pacifico e non vogliamo
violenza nel nostro territorio. Rispettiamo le culture e le filosofie
diverse dalle nostre, anche quelle che fanno uso della violenza per
combattere le proprie lotte; ma, allo stesso modo, chiediamo il rispetto
della nostra cultura di pace e che le armi e i conflitti siano lasciati
fuori dal Territorio Sacro. Così siamo distanti sia dalle Farc che dall’Eln,
perché distante e differente è la loro cultura e filosofia».

Tuttavia, alcune
gravi vicende verificatisi negli ultimi tre anni hanno spinto le autorità
tradizionali indigene ad assumere atteggiamenti distinti rispetto alle
Farc ed all’Eln. Mentre con la prima organizzazione si è determinata la
rottura di ogni relazione, con la seconda il dialogo è aperto: il transito
nel territorio u’wa delle colonne dell’Eln, ad esempio, non è apertamente
osteggiato. Non sono isolati i casi di simpatia da parte di adolescenti
indigeni, ma il forte controllo sociale esercitato dagli anziani proibisce
loro l’ingresso nelle file della guerriglia, pena l’esclusione dalla
comunità.

Ciò che ha
maggiormente influenzato i rapporti guerriglia u’wa risale al marzo 1999,
quando una colonna delle Farc sequestrava tre ricercatori indigenisti
statunitensi in visita nel territorio u’wa: Terence Freitas, Ingrid
Washinawatok e Lahe’ena’e Gay. Il primo di essi era stato il redattore
principale del pamphlet «Sangue della nostra madre: il popolo u’wa, la
Occidental Petroleum e l’industria petrolifera», che aveva consentito la
campagna internazionale a favore degli u’wa. I tre ricercatori indigenisti
avevano discusso con gli u’wa la possibilità di implementare alcuni
progetti educativi popolari. Una decina di giorni dopo il sequestro,
furono rinvenuti i loro corpi crivellati da armi da fuoco alla frontiera
con il Venezuela.

Ad oltre due anni di
distanza dall’eccidio, non è stato possibile comprenderne le motivazioni
reali. Secondo il National Catholic Reporter, l’atteggiamento delle Farc
potrebbe essere stato influenzato dalle tangenti pagate dalla Occidental:
«Una pratica comune in Colombia da parte delle compagnie che fanno affari
in aree sotto il controllo delle forze ribelli».

Le Farc avrebbero
deciso di sostituire, alla vigilia del «Plan Colombia», gli ingressi
ottenuti con le coltivazioni della coca con la richiesta del pagamento di
tangenti da parte delle industrie petrolifere. L’opposizione ai nuovi
progetti di esplorazione sarebbe stato considerato in modo negativo, in
quanto avrebbe potuto mettere in crisi il «nuovo» sistema di
autofinanziamento. A prova di questo presunto «interesse»
dell’organizzazione combattente, rappresentanti u’wa hanno affermato che
l’arrivo dei macchinari della multinazionale per le perforazioni a Cedeño,
nei primi mesi del 2000, sarebbe stato «pacificamente» presidiato da
elementi vicini alle Farc.

La tesi è tuttavia
di difficile dimostrazione; inoltre presenta almeno un’incongruenza.
Perché la Occidental dovrebbe negoziare con le Farc un suo intervento a
repressione di chi si oppone contro i nuovi progetti petroliferi, quando è
possibile continuare a sperimentare con successo la strategia di
finanziamento delle forze armate e di proliferazione dei gruppi
paramilitari? E quanto sono realmente antitetiche o distanti le posizioni
di Farc ed Eln rispetto al petrolio e le multinazioni che ne hanno
monopolizzato l’estrazione?

 


TANGENTI E SEQUESTRI

 È un dato acquisito
che le Farc abbiano reso sistematica la riscossione di tangenti dalle
imprese petrolifere straniere operanti nel territorio colombiano, così
come risponde a verità che le stesse imprese abbiano accettato di
sottostare all’estorsione, mentre contemporaneamente finanziavano lo
sviluppo di organizzazioni armate di estrema destra per la lotta
all’insorgenza e l’eliminazione selettiva dei leaders politici e
sindacali. Tuttavia, anche la crescita dell’Eln è stata possibile grazie
all’accumulazione finanziaria, ottenuta attraverso l’estorsione e il
sequestro di funzionari ed impiegati delle compagnie petrolifere ivi
operanti.

Ciò non ha impedito
all’Eln di considerare i consorzi inteazionali come obiettivo strategico
delle proprie azioni militari. Per questo motivo, contro le imprese del
settore petrolifero sono stati eseguiti attentati mediante il sabotaggio
degli oleodotti e la distruzione di automezzi. La prima grande azione
dimostrativa risale al 14 luglio del 1986, quando, ad appena un mese
dall’inaugurazione dell’oleodotto Caño Limón-Coveñas, l’Eln ne dinamitó un
tratto. Nei 10 anni successivi l’Eln lo avrebbe dinamitato in 443
occasioni.

Nello stesso periodo
le Farc hanno, invece, preferito non partecipare alle distruzioni degli
oleodotti. Una importante mutazione strategica ha avuto avvio nel 1997: il
6 giugno effettuano il loro primo attentato contro la struttura
petrolifera. In questa occasione lo stato maggiore delle Farc dichiara
obiettivo militare l’oleodotto e «tutte le compagnie straniere che
sfruttano le nostre risorse naturali».

Una valutazione più
oggettiva dei recenti fatti di cronaca, sul conflitto in atto nella
regione di Arauca, permette di verificare che, pur nella forte dialettica
ideologica ed egemonica tra Farc ed Eln, non sono mancati i momenti di
collaborazione per la realizzazione di importanti azioni militari contro i
complessi petroliferi e contro le stesse infrastrutture della Oxy.

Il 16 dicembre 1999,
ad esempio, guerriglieri di Farc e Eln hanno dinamitato congiuntamente tre
pozzi del campo di Caño Limón. Due mesi più tardi (23 febbraio 2000),
guerriglieri Farc e Eln hanno realizzato il blocco della strada nella zona
di Samoré, per impedire il transito dei tir verso il nuovo impianto Oxy.

 

 


LE
TAPPE DELLA LOTTA

 1988
I rappresentanti della Occidental Petroleum incontrano gli u’wa, offrendo
di partecipare alle spese della comunità per l’istruzione e la sanità.


1991

Adozione della nuova
Costituzione colombiana, che afferma i diritti degli indigeni.


7 aprile:
La Occidental,
nell’ambito di un consorzio che include la Royal Dutch/Shell e la
Ecopetrol, ottiene i diritti per l’esplorazione nel blocco di Samore.


agosto:
La Occidental e alcuni rappresentanti degli u’wa
firmano un accordo per lo sviluppo di scuole e ospedali. La Occidental
sostiene che questo accordo riguarda anche le conseguenze sociali e
ambientali del progetto, ma il portavoce dell’autorità tradizionale u’wa, 
Berito KuwarU’wa, che è analfabeta, sostiene che pensava di firmare un
accordo riguardante solo scuole e ospedali.


1995
  3 febbraio: I
l
ministero dell’Ambiente concede alla Occidental la licenza per le
esplorazioni sismiche intorno al territorio u’wa.


aprile:

Gli indigeni
minacciano il suicidio di massa se la Occidental inizierà a sfruttare i
giacimenti che potrebbero trovarsi nel loro territorio.


agosto:

Il difensore civico
deposita una denuncia contro il ministero dell’Ambiente presso la Corte
suprema di Bogotà, per la violazione dei diritti umani degli u’wa in
seguito alla concessione dei permessi di esplorazione alla Occidental
senza le consultazioni richieste dalla legge.


14 settembre:
La Corte suprema
si esprime a favore degli u’wa. La Occidental presenta ricorso alla stessa
Corte.


19 ottobre:
La Corte suprema
accoglie il ricorso della Occidental. Della causa viene interessata la
Corte costituzionale, competente per le questioni relative ai diritti
umani.


1996
  gennaio:

La Corte
costituzionale accetta di  esprimersi sulla decisione della Corte suprema,
affermando la legittimità della licenza ottenuta dalla Occidental.


1997
  12 gennaio:

La causa degli u’wa
viene presentata davanti alla Corte costituzionale colombiana, che il 3
febbraio si esprime a favore degli indigeni, richiedendo opportune
consultazioni entro 30 giorni.


4 marzo:

Il Consiglio di
stato si pronuncia sulla richiesta del difensore civico, dando torto agli
u’wa e in contraddizione con la Corte suprema.


1999
  marzo:

Una colonna delle Farc sequestra e giustizia tre
ricercatori statunitensi in visita al territorio u’wa.


24 agosto:
Il Goveo
colombiano e le autorità tradizionali sottoscrivono l’allargamento dei
confini ufficiali della riserva u’wa. Gli indigeni ribadiscono la loro
opposizione alle esplorazioni e allo sfruttamento petrolifero nel loro
territorio tradizionale.


21 settembre:
Il ministro
dell’Ambiente concede alla Occidental il permesso di effettuare scavi
esplorativi nell’area di Gibraltar. La Occidental propone quindi di
scavare il pozzo «Gibraltar 1», a 500 metri dal confine della riserva. Gli
u’wa non vengono consultati.


2000
  19 gennaio:

Agenti dell’esercito
colombiano irrompono nel territorio u’wa. La Occidental trasporta
macchinari sul sito del «Gibraltar 1». Il giorno dopo giungono poliziotti
anti-sommossa e gli u’wa che abitano vicino al pozzo vengono circondati.


22 giugno:
Polizia e
militari tentano di costringere gli indigeni ad abbandonare i loro
villaggi. I lacrimogeni vengono lanciati nelle case. Gli u’wa resistono
passivamente a questa azione.


24 giugno:
Centocinquanta
poliziotti anti-sommossa attaccano violentemente un sit-in degli u’wa nei
pressi di Cubarà. Almeno venti persone vengono ricoverate per i danni dei
gas lacrimogeni, un uomo viene colpito da un proiettile, diversi vengono
arrestati.


25 giugno:
I manifestanti
vengono di nuovo aggrediti  dalla polizia: 33 persone sono arrestate senza
motivo.


2001
  gennaio:

Bulldozer
dell’esercito abbattono le barricate degli u’wa lungo la pista che porta
al sito destinato alla costruzione del pozzo «Gibraltar 1». Muoiono due
bambini indigeni.


gennaio:

Al pozzo «Gibraltar
1» inizia la prospezione. Centocinquanta persone vengono sfollate con gli
elicotteri.


aprile:
Due rappresentanti indigeni, Daris Cristancho e
Roberto Berito Cubaria, iniziano un giro di sensibilizzazione in Europa.


aprile:
L’udienza con il papa a San Pietro, organizzata da
tempo, viene rimandata dal Vaticano per non ben specificati motivi.


luglio:

Attraverso una nota
Reuters, la Oxy Corp. comunica il mancato ritrovamento di petrolio durante
la prospezione nel sito «Gibraltar 1».

La multinazionale
americana informa anche di riservarsi nuove esplorazioni in loco.

 

 


Tra
storia e leggenda


 IL
SUICIDIO DI MASSA


 

«Il Padre del Cielo
diede loro questa storia vera: non possiamo consegnare ciò nelle mani
della Morte. Per questo il cacique disse: non resterò qui. Consegnerò il
mio spirito nelle mani della Madre terra insieme a tutta la comunità».
Rimasero solo alcune donne gravide, con compito di perpetuare la
discendenza. Gli altri si lanciarono da un dirupo.

A Guican è ben
individuabile il «penòn de los muertos», la rupe dei morti. Vuole la
memoria storica, e la leggenda, che in questo luogo gli u’wa, intorno alla
metà del 1600, attuarono un suicidio di massa contro la colonizzazione
violenta cui furono assoggettati. Fu la protesta estrema contro la
violenza sistematica dei conquistadores.

Un popolo che in
tutta la sua storia mai conobbe il giogo oppressivo dell’invasore, nemmeno
da parte degli incas che mai arrivarono in questi luoghi, pose termine
alla disperazione senza futuro in maniera irreversibile. «Il fiume si
riempì di corpi di uomini, donne e bambini. Così tanti che il corso
d’acqua da quel giorno cambiò percorso», raccontano i vecchi saggi.

La notizia che gli
u’wa abbiano nuovamente minacciato il suicidio collettivo, qualora il
sistema di pozzi fosse costruito, è smentita da alcuni, mentre da altri è
confermata.

È facile immaginare
che gli u’wa abbiano paventato questa minaccia (attraverso giornali
ansiosi di fare «il colpo»), affinché il silenzio che circondava la loro
lotta, fino al 1995, fosse rotto. La combattività che dimostrano non
lascia, infatti, intendere che gesti così estremi siano nelle loro menti.

Questo però è
accaduto e fa parte della loro cultura e della loro storia. È bene non
dimenticarlo.

Ma.P.

 



L’assemblea politica degli u’wa


 POLITICA
E SPIRITUALITÀ

 

Annualmente gli u’wa
indicono un’assemblea per decidere collegialmente quali misure adottare
per opporsi al progetto della multinazionale statunitense Oxy Corp. e del
governo colombiano.

Le modalità di
questa riunione, preceduta da un lungo digiuno purificatore, possono
considerarsi un esempio di democrazia e di vera partecipazione popolare
alla vita della comunità.

Nel territorio del
Chuscal, nei paraggi di una scuola non più utilizzata, si stabiliscono i
rappresentanti di tutte le famiglie che compongono la comunità.
All’esterno della scuola si costruiscono dei luoghi di riparo e ristoro.
Ogni partecipante porta viveri in abbondanza, affinché le esigenze di
tutti siano soddisfatte. All’interno dell’edificio si svolge l’assemblea.

Subito si nota una
grande presenza di donne, molte delle quali intente ad allattare un
piccolo. Non vi è gerarchia. Tutti hanno diritto ad esprimere le proprie
opinioni. L’assemblea è accesa e partecipata. Non esistono momenti di
tensione anche se le vedute, talvolta, sono molto diverse.

Le decisioni finali
non vengono prese a maggioranza. Bensì si discute ad oltranza, fino al
raggiungimento di una linea comune nella quale si possano riflettere i
pensieri di tutti gli u’wa.

Contemporaneamente i
vecchi werjayas, le autorità spirituali, anziché esercitare un potere
decisionale diretto come si potrebbe immaginare, pregano e svolgono riti
sacri affinché all’interno dell’assemblea vengano prese le decisioni
migliori.

Questo dà anche una
valenza sacrale alle decisioni finali, coerentemente con la cultura
spirituale della comunità u’wa.

Ma.P

 



Luglio 2001


LA
OXY SI RITIRA?

 

In un comunicato
stampa della fine di luglio, la Occidental Petroleum dichiarava che i
sondaggi, durati nove mesi, nel sito esplorativo «Gibraltar 1» escludevano
la presenza di petrolio.

Un moto di speranza
ha pervaso il fronte che ha avversato per lunghi anni questo progetto. «Il
petrolio si trasformerà in acqua perché noi stiamo pregando Sira, la Madre
terra, affinché compia questo prodigio. La Oxy non troverà oro nero e sarà
costretta ad andarsene, lasciandoci finalmente in pace». Così mi disse un
giorno un capo indigeno, ma io nel mio incrollabile determinismo scossi il
capo e pensai che il futuro sarebbe stato molto amaro per questa gente.
Gli ultimi sviluppi della storia danno, metaforicamente, ragione agli
indigeni.

Nei giorni
successivi il comunicato stampa ho preso contatto personalmente con il
vice presidente della Oxy Corp., Lawrence Meriage, a Seattle, che in una
stizzita risposta affermava che non è stato rilevato petrolio, ma che i
tecnici si riservano la possibilità di ordinare nuovi sondaggi in futuro
nella stessa zona.

Particolarmente
antipatico è stato inoltre il sarcasmo con cui sottolineava il mancato
suicidio collettivo degli u’wa.

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Maurizio Pagliassotti




Lo «Squilibrio della differenza»


 
Bush
e Bin Laden, globalizzazione, Genova e G8, Tobin Tax, Attac. La nota
studiosa franco-statunitense risponde con il piglio consueto, senza
infingimenti. Quest’intervista (rilasciata nell’ambito della «Scuola per
l’alternativa») è stata effettuata dopo l’11 settembre 2001, ma prima dei
bombardamenti anglo-statunitensi sull’Afghanistan.


 


Signora George, lei
vive da anni in Francia, ma è statunitense per nascita. Che pensa degli
attentati dell’11 settembre?

Non vorrei parlare
delle vittime, perché siamo tutti in lutto. Il nostro cuore è con loro.

 Ha
fiducia nel presidente George W. Bush?

Mah… Siamo in un
grosso pericolo. Ho paura che Bush vorrà fare il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del Far West.

Prima che accadesse
tutto questo, la maggior parte del popolo statunitense non avrebbe potuto
trovare l’Afghanistan e il Pakistan sulla mappa del mondo.

 Fino
all’11 settembre George W. Bush sembrava essere, agli occhi di tutti, uno
dei peggiori presidenti della storia statunitense. Dopo gli attentati, è
diventato una sorta di eroe…

È accaduta la stessa
cosa per il padre. Quando scoppiò la guerra del Golfo, il 90 per cento
degli americani era con George Bush senior. Oggi ciò avviene con il
figlio. Una delle migliori virtù del popolo americano è quella di «fare
corpo».


 Ma questo eroe è lo
stesso Bush che ha stracciato i trattati inteazionali sull’ambiente, sul
tribunale internazionale, sulle armi leggere…

 

La popolazione
statunitense non è informata sulla politica estera. I media sono in mano
di pochi gruppi, che non hanno interesse ad informare il pubblico
americano sulle cose del mondo. Quanto ai canali televisivi, quelli più
seguiti sono quelli che si occupano di questioni locali (la città, la
contea, lo stato).

Un esempio per
tutti: gran parte degli statunitensi crede che siano i palestinesi ad
occupare Israele e non il contrario.

 Chi
è Osama Bin Laden?

Probabilmente un
pazzo, uno psicotico, che vuole causare una guerra di civiltà. Vuole che
gli americani bombardino l’Afghanistan per provocare la reazione di tutto
il mondo islamico. I musulmani sono più di un miliardo di persone, in gran
parte miserabili, senza prospettive né speranze.

Bin Laden è stato
molto intelligente a sfruttare tutti i meccanismi oscuri che il
capitalismo ha costruito, a cominciare dai paradisi fiscali dove vengono
occultati i profitti. Ci sono prove certe che, prima degli attentati
dell’11 settembre, nelle borse mondiali ci sono state enormi operazioni
speculative. 

 Nel
presente momento storico chiunque osi criticare la politica degli Stati
Uniti viene insultato o censurato…

È un errore
confondere un popolo con il suo governo. Non concordare con le scelte di
Bush, non significa non essere solidali con il popolo americano.

La realtà ci dice
che gli Stati Uniti, da 34 anni, sostengono la politica di Israele. Non
voglio aggiungere parole sulle sofferenze del popolo palestinese; ma, se
c’è un luogo di ingiustizia nel mondo, credo che la Palestina ne sia la
quintessenza.

Ma il Medio Oriente
non è il solo punto oscuro della politica americana. C’è l’11 settembre
(guarda l’amara ironia del destino!) del 1973, quando gli americani (con
Kissinger in testa) (1) organizzarono e finanziarono il colpo di stato
contro il Cile di Salvador Allende. Ci sono altri popoli dell’America
Latina che hanno sofferto a causa degli Stati Uniti. Pensiamo al Nicaragua
dei sandinisti. C’è il Vietnam con milioni di vittime. C’è l’Iraq con le
bombe e un embargo che, secondo l’Unicef, ha ucciso circa mezzo milione di
bambini. Ci sono i bombardamenti americani sul Sudan e quelli alleati
sulla Serbia. 

Non voglio essere
fraintesa: io non cerco alcun tipo di giustificazione per gli attentati
terroristici. Ma vorrei soltanto mettere in chiaro che nel mondo c’è un
insopportabile «squilibrio della sofferenza».

 Cosa
intende per «squilibrio della sofferenza»?

Basta citare il dato
che ormai tutti conoscono: il 20% della popolazione mondiale detiene e
consuma l’80% delle ricchezze totali. Per quella metà del mondo che vive
con meno di 2 dollari al giorno le scelte sono obbligate: o una vita di
criminalità, droga, prostituzione, traffici vari o l’emigrazione.

Questo sistema,
organizzato da pochi per ricompensare il capitale e non il lavoro, non è
inevitabile. Perché la concezione neoliberista non è una legge fisica né
una legge divina. Oggi le diseguaglianze e le sofferenze sono andate
troppo avanti.

 Da
una parte il terrorismo, dall’altra un sistema economico insostenibile.
Che fare allora?

Per quanto mi
riguarda, ho elaborato un programma in tre punti, pur nella consapevolezza
che non avrà possibilità di essere attuato.

La prima cosa da
fare è risolvere il conflitto israelo-palestinese. Un tempo, quando si
eleggeva un papa, i cardinali si chiudevano in conclave e non uscivano
finché non avevano eletto una persona. Facciamo la stessa cosa con Arafat,
Sharon e gli Stati Uniti: che non escano senza aver sottoscritto la pace.
Dobbiamo eliminare una volta per tutte quel focolaio di malattia che è il
Medio Oriente.

La seconda cosa è
ridurre sensibilmente la dipendenza dal petrolio. In questo modo si
raggiungerebbero più obiettivi. Da una parte si darebbe una mano
importante alla preservazione dell’ambiente, dall’altra si ridurrebbe
l’enorme potere delle transnazionali petrolifere. Queste sono legate a
paesi (pensiamo all’Arabia Saudita o all’Iraq) e a gruppi societari (come
quelli conniventi con la famiglia Bush) di dubbia fama.

La terza ed ultima
cosa: cominciare a ridurre lo scarto osceno esistente tra Nord e Sud del
mondo dando un po’ di speranza alla gente. Sto pensando a una sorta di
«piano Marshall» (2) per tutto il mondo. La responsabilità politica
sarebbe dei singoli governi, ma questi dovrebbero accettare di far
partecipare alle decisioni i loro cittadini, sulla base di un modello come
quello adottato nella città brasiliana di Porto Alegre. Quel «bilancio
partecipativo» attraverso il quale i cittadini decidono come spendere una
parte dei soldi pubblici.

 D’accordo,
ma come finanziare questo programma Marshall?

Di certo non
possiamo contare su un aiuto pubblico come quello attuale. Gli Stati
Uniti, per esempio, danno allo sviluppo lo 0,09% del loro prodotto interno
lordo. Soltanto i paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia) si
avvicinano all’obiettivo dello 0,7%, fissato dalle Nazioni Unite (3).

Si dovrebbe
cominciare con la cancellazione del debito dei paesi poveri, che genera
sofferenze indicibili. E poi seguire le raccomandazioni di Attac (4)
tassando i capitali inteazionali attraverso il sistema Tobin o qualcosa
di similare.

 «Tobin
Tax»… Da tempo sulla stampa italiana si parla di questa particolare
tassazione. Soprattutto per dire che è impossibile da attuare. L’ultima
uscita in tal senso è quella di Giulio Tremonti, il ministro delle finanze
del governo Berlusconi. Che ci dice al riguardo?

Che l’Italia è in
ritardo su questa tematica. In Francia la discussione teorica è molto più
avanzata. Gli specialisti dicono che la tassazione sulle transazioni
finanziarie si può fare. Il problema vero è la volontà politica. Comunque,
il primo ministro Jospin, un tempo contrario, oggi sostiene la Tobin Tax e
vorrebbe vederla presto applicata nei paesi dell’Unione europea.

 Ma
pare che lo stesso professor Tobin abbia rigettato la sua idea…

No, non è proprio
così. Egli non ha ripudiato la sua idea. Ha soltanto rifiutato di essere
assimilato al movimento anti-globalizzazione, di cui non condivide la
filosofia.

D’altra parte, la
sua idea ha ormai 25 anni (risale al 1978) e occorre adattarla alle
circostanze attuali. Volendo, possiamo anche cambiarle nome…

 In
Italia, Silvio Berlusconi e i giornali della destra hanno messo in
relazione i «no-global», il «popolo di Seattle» con i terroristi. Lei che
ne pensa?

Prima vorrei fare
una precisazione. Io non amo le espressioni come «popolo di Seattle» o «no-global».
Già prima di Seattle c’era della gente che lavorava per dire e fare altre
cose. La prima protesta anti «G7» fu a Londra nel 1985.

Neppure il termine «no-global»
va bene. Non mi piace soprattutto perché non è vero: noi siamo contro
«questa» globalizzazione, cioè la globalizzazione neoliberista, ma a
favore della globalizzazione della solidarietà.

Detto questo, non
vale la pena di perdere tempo, per rispondere a simili menzogne. Il nostro
è un movimento pacifico.

 Ma
è probabile che la Genova del G8 sarà ricordata soltanto per le
violenze…

A Genova io ho visto
qualcosa di straordinario: centinaia di organizzazioni che si sono trovate
per parlare dei problemi del mondo e una, il Genoa Social Forum, che ha
lavorato per un anno per preparare i dibattiti. Nessuno avrebbe pensato di
portare in piazza 300 mila persone!

Poi, infiltrati
nazisti e della polizia hanno dato un alibi alle forze dell’ordine per
usare la violenza. Non dobbiamo mai dimenticare che lo stato ha il
monopolio della violenza legittima e, quindi, non possiamo confrontarci su
questo terreno.

Comunque, già prima
di Genova il movimento aveva ottenuto delle vittorie: ha bloccato
l’accordo multilaterale sugli investimenti (5), ha impedito all’Unione
europea di mercanteggiare sulla salute, l’educazione, la cultura, ha
frenato l’invasione degli organismi geneticamente modificati (Ogm). Se
queste sono vittorie, è altrettanto vero che non si sono modificate le
cose più importanti: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale,
l’Organizzazione mondiale del commercio, le regole dei mercati finanziari.

 Quindi,
siamo soltanto all’inizio della lotta per un mondo diverso?

Se in questo momento
accettiamo di addormentarci, si darà alle tante forze che vogliono
uccidere questo movimento popolare la possibilità di rafforzarsi
enormemente.

No, non è proprio il
momento di essere passivi! Ora più che mai è necessario lottare per un
mondo migliore.

 Qual
è la filosofia di Attac?

Attac è nata in
Francia come movimento di educazione popolare all’insegna del motto «prima
capire, poi agire». Le domande da porsi sono queste: chi sono i
responsabili di un mondo siffatto? Come fermarli?

Le risposte ci sono.
Ora bisogna passare all’azione. Dobbiamo agire tutti insieme e non
ciascuno per proprio conto. Agricoltori, professori, ambientalisti,
sindacalisti: tutti siamo vittime dello stesso sistema.

 Che
ruolo possono avere le Nazioni Unite in questo difficile momento storico?

Se le Nazioni Unite
avessero un ruolo, sarebbe fantastico!

 Susan,
che pensa di Silvio Berlusconi?

Sono obbligata a
rispondere a questa domanda?

  

 Note
al testo:
 (1)
Sul ruolo dell’ex segretario di stato americano, si veda il duro atto
d’accusa contenuto nel libro di Christopher Hitchens «The Trial of Henry
Kissinger» (Versus, 2001).

(2)
Il
«piano Marshall» fu un programma di aiuti (1948-1952) che gli Stati Uniti
concessero all’Europa per agevolare la ripresa economica post-bellica.

(3)

L’obiettivo dello 0,7% risale alla fine degli anni ’60. Nel vertice di Rio
del 1992, i paesi sviluppati si erano addirittura impegnati a triplicarlo.

(4)
Nata
in Francia il 3 giugno 1998, l’«Associazione per la tassazione delle
transazioni finanziarie e l’aiuto ai cittadini» (Attac) si è diffusa in
tutta Europa, Italia compresa.

(5)
Le
regole previste nell’«Accordo multilaterale sugli investimenti» (Mai)
avrebbero di fatto limitato la sovranità nazionale dei singoli stati, a
discapito dei cittadini e dell’ambiente.

 

Susan George box

 


Chi
è? Susan George

 Susan George è nata
in Ohio (Stati Uniti), ma vive da tempo in Francia. Sposata, ha 3 figli e
4 nipoti. È direttrice associata del «Transnational Institute»
(www.tni.org) di Amsterdam e vice-presidente di Attac-Francia
(www.attac.org).

Esperta di sviluppo
e politica globale, consulente di varie organizzazioni (Greenpeace
Inteational, Unesco, Unicef), membro del Gruppo di Lisbona, Susan George
è autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue: «Come muore l’altra
metà del mondo» (Feltrinelli, Milano 1978), «Storia della fame» (Clesav,
Milano 1984), «Il debito del Terzo Mondo» (Edizioni lavoro, Roma 1989),
«Il boomerang del debito» (Edizioni lavoro, Roma 1992), «Crediti senza
frontiere: la religione secolare della Banca mondiale» (Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994), «Il rapporto Lugano» (Asterios Editore, Trieste
2000), «Remettre l’Omc à sa place» (Mille et Une Nuits, Parigi 2001).

Susan George è stata
intervistata da Roberto Bosio sulle tematiche della globalizzazione nel
libro «Verso l’alternativa» (Emi, Bologna 2001).

Paolo Moiola




TERRORISMO, KAMIKAZE E LIBERTA’ RELIGIOSA


I mortali attentati contro gli Stati Uniti e i
bombardamenti in Afghanistan, il corano e i «kamikaze» suicidi, la
pressione sui cristiani che vivono in paesi islamici, ecc. La parola ad
alcuni fedeli di Allah in Italia.


 

Abbiamo rivolto
qualche domanda ad alcuni stranieri, di religione islamica, sulla
situazione creatasi nel mondo dopo l’attacco terroristico contro gli Stati
Uniti e la guerra nell’Afghanistan dei talebani per catturare Bin Laden.

Abbiamo
intervistato:

– Vida Bardiyaz, una signora dell’Iran;
– Olabi Rawaa,
una signora della Siria;

– Chioua Moktar,

un signore
dell’Algeria;

– Saafi Rachid Ben Ajmi,

un signore della
Tunisia;

El Moutaquakil Naima,
una
signora del Marocco.

 

 


Che cosa pensa degli
attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti?

 Vida:
Si tratta
di un atto puramente terroristico, anche se è una reazione alla politica
americana.

Olabi: Gli attentati
contro gli Usa sono stati atti barbarici, compiuti da individui
sicuramente squilibrati, disumani e pieni di odio verso tutto e tutti. Non
è certamente il terrorismo la via migliore per raggiungere obiettivi
positivi.


Chioua:

Il terrore non è il
mezzo giusto per risolvere i problemi politici e sociali. Ci vuole il
dialogo, ma un dialogo in cui ambo le parti siano pronte ad ascoltare.
Secondo me l’attacco alle torri gemelle è stata una reazione estrema e
disperata verso un nemico più forte e, nello stesso tempo, prepotente ed
arrogante. La forza economica e militare di un paese deve obbligare anche
a maggiori responsabilità verso la comunità internazionale. È
nell’assumere tale responsabilità in modo giusto che si vede la vera forza
di un paese. Gli Stati Uniti, quale nazione più forte del mondo, devono
ascoltare anche gli altri popoli e rispettarli.


Saafi:

Gli atti terroristici non sono permessi dalla fede islamica, perché il
corano afferma chiaramente che chi uccide un innocente è come se uccidesse
tutta l’umanità: quindi è un peccato gravissimo.


El Moutaquakil:

Mi sono spaventata perché ho pensato: «Adesso gli americani si
vendicheranno e la loro vendetta sarà tremenda». Mi dispiace molto per
quelli che sono morti. Mi chiedo perché gli americani debbano puntare il
dito contro di noi, arabi, per quell’attentato. Io non credo che l’abbiano
fatto gli arabi, e nemmeno Bin Laden: se fosse stato lui, lo avrebbe
ammesso.

 


Come giudica i
bombardamenti e la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan?

 Vida:
I
bombardamenti e la guerra non sono la risposta giusta, perché secondo me
Bin Laden non è in Afghanistan. Ma, anche se ci fosse, bombardare la
povera gente per abbattere un regime o per uccidere un terrorista non ha
senso… Noi siamo all’oscuro delle vere ragioni delle azioni militari in
corso.


Olabi:

Sono contraria ai
bombardamenti indiscriminati che coinvolgono la popolazione civile afghana.
Se fosse possibile una «estirpazione chirurgica» per combattere soltanto i
terroristi… ma questo purtroppo è molto difficile, se non impossibile.
Secondo me, bisogna puntare sulla prevenzione.


Chioua:

La reazione dell’America è molto esagerata. Ho paura che, così facendo, si
produca una spirale di violenza. Un proverbio arabo dice: il più forte è
colui che sa offrire il perdono.

Saafi: Sono
assolutamente contro questa guerra degli Usa, perché gli americani non
hanno alcun diritto di reagire così contro la popolazione afghana, se non
con l’autorizzazione della comunità internazionale.


El Moutaquakil:

Con i bombardamenti si semina solo altro odio. Non si può bombardare un
intero paese per catturare una singola persona; si bombarda per occupare
un paese. Speriamo solo che la guerra finisca in fretta e non rechi alla
popolazione afghana danni maggiori di quelli già fatti.

 


Alla luce della fede
islamica e del corano, come spiegare gli atti dei «kamikaze» suicidi
contro innocenti?

 Vida:
Gli atti
dei kamikaze si spiegano come una strumentalizzazione della religione. Chi
strumentalizza la religione interpreta il corano secondo la propria
convenienza. Quelle dei kamikaze sono azioni folli e, come ho già
affermato, puramente terroristiche.


Olabi:

Nel corano chi si suicida è un miscredente. Nell’islam la guerra è
bandita; è accettata solo per ragioni di difesa. Il termine jihad comporta
la diffusione della parola di Allah. Si incomincia con se stessi:
comprendere e accettare la Parola è un insegnamento di Muhammad, il
profeta; poi si va verso gli altri sotto la guida di un califfo. In caso
di guerra, è vietato attaccare civili innocenti e persone indifese. Non si
può tagliare neanche un ramo d’albero!


Chioua:

Il termine «guerra santa» non esiste e non è mai esistito nella religione
musulmana. Il corano prevede la convivenza pacifica fra i popoli. L’islam
è una religione di pace. Ma per ınteressi politici personali si
strumentalizza la religione: così facendo, però, si negano i principi
religiosi e ci si allontana da Dio. La religione islamica vieta il
suicidio.


Saafi:

Il suicidio è un
peccato assai grave, perché noi non siamo padroni della vita. È Dio che
decide quando bisogna morire. Ma, in caso di guerra dichiarata, un soldato
può sacrificare la propria vita per recare il maggior danno possibile al
nemico. Si offre la propria vita per difendere quella altrui; si sacrifica
l’esistenza per la patria.


El Moutaquakil:

Il corano è contro l’assassinio e il suicidio. Accetta il sacrificio della
vita solo quando si difende la propria terra; ma, anche in questo caso,
non si possono uccidere gli innocenti.

 

 I
cristiani in paesi islamici (Pakistan, Arabia Saudita, Indonesia, Sudan,
ecc.) affermano di subire forti pressioni, di non essere liberi di
professare il loro credo, mentre in Occidente tutti godono di libertà
religiosa. Lei che ne pensa?

 Vida:
Io non sono una credente, anche se vengo da una famiglia musulmana che
vive secondo le regole dell’islam. Sono stata sempre molto critica verso
tutte le religioni, soprattutto l’islam, perché ho visto come ha
trasformato il mio paese in una società che non mi piace; non mi piace
specialmente la condizione della donna. Per quanto riguarda la tolleranza
religiosa, tutto dipende dai vari paesi. Ci sono nazioni islamiche
tolleranti verso le altre religioni.


Olabi:

Io non credo che i
cristiani siano perseguitati nei paesi islamici. Nella mia città Aleppo
(Siria), per esempio, esiste una minoranza armeno-ortodossa, ci sono
cristiani ed ebrei che vivono benissimo con noi musulmani, professando la
loro religione senza paura di nessuno… Una volta il profeta Muhammad
ricevette una delegazione di cristiani dello Yemen; quando arrivò l’ora
della preghiera, permise loro di usare una moschea… Le pressioni o
persecuzioni religiose, di cui lei parla, possono succedere soltanto per
ignoranza.


Chioua:

La mancanza di
libertà religiosa non coinvolge tutti i paesi musulmani. La tolleranza
dipende da molte cose. Quando una persona è convinta della verità della
propria religione, non ha paura e non ha bisogno di convincere con la
forza gli altri. Nel mio paese, l’Algeria (come anche in Tunisia), prima
dell’ultimo regime, diversi gruppi religiosi vivevano in pace… Non è
vero che in Occidente si può credere ciò che si vuole, perché si è molto
condizionati. La libertà è apparente, non reale. L’Occidente impone la
propria civiltà ad altri, e questo è sbagliato. Si esige maggiore rispetto
per le culture diverse da quella occidentale. Talora anche il lavoro dei
missionari violenta il cammino naturale di una cultura con elementi
estranei, importati, che possono nuocere alla popolazione.


Saafi:

L’islam permette a tutte le religioni monoteiste di esprimere il loro
credo. I problemi esistenti fra cristiani e musulmani nei vari paesi sono
questioni politiche, non religiose, legate alle condizioni sociali ed
economiche locali. Non è vero che in Occidente c’è parità totale fra
cristiani e musulmani, perché i secondi non hanno gli stessi diritti.


El Moutaquakil:
Racconto
un aneddoto. Il profeta Muhammad aveva un vicino di casa, ebreo, che
continuava a buttare immondizie davanti alla porta dell’inviato di Allah.
Il profeta non disse mai niente, ma pazientemente puliva tutto. Un giorno
notò che non c’era più sporcizia, e neppure il giorno successivo. Allora
il profeta si chiese che cosa fosse successo e seppe che il vicino di casa
era ammalato. L’inviato di Allah andò a trovarlo. L’ebreo si vergognò di
fronte a tanta bontà del profeta e non buttò più immondizia davanti alla
casa.

 

 È
cambiato qualcosa nella sua vita dopo l’11 settembre?

 Vida:
No, non è
cambiato alcunché.


Olabi:

Per ora non è mutato nulla, ma, come molte persone, ho paura
dell’intolleranza religiosa. Io sono musulmana; vorrei costruire per i
miei figli (come lo vogliono anche le mamme cristiane) un futuro di pace e
amore fra i popoli.


Chioua:

No; però ho sentito parlare di reazioni vendicative contro i musulmani
dopo i fatti dell’11 settembre.


Saafi:

Sì, la mia vita è cambiata, perché ho notato un aumento di ostilità, ma
solo da alcune persone. La maggioranza della gente si comporta come prima.
Tutto però dipende da come va a finire questa guerra, se finisce in
fretta… perché i bombardamenti in Afghanistan non combattono il
terrorismo. Di fronte alle azioni sbagliate degli americani, il terrorismo
può aumentare. Sono stati gli Stati Uniti a creare Bin Laden.

Vorrei anche
spiegare che cosa vuol dire la parola jihad. Non vuol dire «guerra santa»,
che è un’invenzione puramente occidentale. Per i cristiani le «guerre
sante» erano le azioni militari contro i musulmani. Jihad letteralmente
vuol dire «sforzo». Il credente deve sforzarsi di combattere il male che
c’è in lui; poi deve sforzarsi di migliorare il proprio ambiente (in
famiglia) e, infine, essere pronto a difendere la sua patria e la
religione.

El Moutaquakil: No,
la mia vita non è cambiata; però mi dà fastidio sentir parlare male degli
arabi e della mia religione.

 

 

 



Sfogliando s’impara (1)

 «Arrivata a metà
del secondo mese di guerra, nel conflitto che fu dichiarato contro
l’Occidente l’11 settembre, la nazione (gli Stati Uniti) che porta il peso
maggiore e paga il prezzo più alto per combatterla in nome di noi tutti
comincia a porsi la domanda che in una democrazia inevitabilmente affiora:
stiamo vincendo? Stiamo combattendo questa guerra giusta nella maniera
giusta?».


Vittorio Zucconi su
«la Repubblica», 26 ottobre 2001

 



Sfogliando s’impara (2)

 «Gli attentati
dell’11 settembre sono la mostruosa carta da visita di un mondo divenuto
folle. Essa potrebbe essere stata scritta da Bin Laden e mandata al
destinatario dai suoi uomini, ma potrebbe anche essere stata firmata dai
fantasmi delle vittime delle guerre americane del passato. I milioni di
morti coreani, vietnamiti, cambogiani… I migliaia di palestinesi morti
combattendo l’occupazione israeliana della Cisgiordania… E quanti (la
lista non è certamente esaustiva) yugoslavi, somali, haitiani, cileni,
nicaraguensi, salvadoregni, dominicani, panamensi sono stati vittime

di terroristi,
dittatori e genocidi?…».


Arundhati Roy
(scrittrice indiana)


su «Jeune Afrique-L’intelligent»
(Francia), 16 ottobre 2001

 

 



Pakistan, incontro con alcuni profughi afghani


 I
TALEBANI HANNO PORTATO PACE E SICUREZZA?

 di
Paolo Moiola

 


Peshawar (frontiera
nord-ovest).

Stringo in mano un
bigliettino datomi da Munir, un ragazzo di Gilgit (*). «A Peshawar va’ a
trovare i miei familiari. Sono commercianti di tappeti», mi ha detto.
Sulla carta è scritto «Khyber bazar, Kamran market». Sembra facile, finché
non vedi il palazzo: ogni stanza è una bottega di tappeti e ogni venditore
vuole trascinarti a vedere la sua mercanzia. Farsi capire, inoltre, non è
impresa delle più facili.

Finalmente trovo la
porta dell’«Afghan Carpets House». Ogni lato della stanza è occupato da
alte pile di tappeti, che sono mercanzia e arredamento a un tempo.

Un uomo dalla folta
capigliatura nera e barba ben curata sta spostando alcuni tappeti; un
altro è seduto per terra intento nella lettura del corano, mentre in un
angolo due ragazzi e un uomo armeggiano con alcuni quadei.

Appena spiego di
essere lì su suggerimento di Munir, l’atteggiamento diventa molto
amichevole. Si fanno le presentazioni: Muhammad Hussain e Karamullah sono
fratelli e gestiscono il negozio del padre. Dall’angolo mi salutano anche
i due ragazzi e l’uomo che è con loro: «I nostri fratelli minori stanno
studiando l’inglese con un maestro».

Muhammad Hussain è
il fratello più vecchio. «La mia famiglia – racconta – lasciò
l’Afghanistan ai tempi del governo comunista. Ora viviamo in Pakistan
lavorando come commercianti. Al mio paese too una volta al mese per
comprare tappeti per i nostri negozi».

Per voi musulmani io
sono un “infedele”. Che significa? «Nella bibbia sta scritto che l’ultimo
profeta chiamerà la gente all’islam. Quelli che accetteranno l’invito
avranno successo nel mondo e dopo; quelli che non saranno musulmani
saranno messi all’inferno. Nel sacro corano Allah onnipotente dice: “Io
sono contento con l’islam come tua religione”. In un altro passo del libro
sacro Allah afferma: “Io ho completato la tua religione: essa è una
religione perfetta. È la migliore delle religioni. Una religione diversa
dall’islam non è accettabile”». Allora, obietto, gli islamici non possono
tollerare la presenza di religioni diverse dalla loro? «In accordo con
quanto scritto nel sacro corano, nessuna religione è accettabile al di
fuori dell’islam. Tuttavia, in Pakistan musulmani e cristiani vivono in
pace».

 

Karamullah è sposato
e ha due bambini. Non porta la barba, ma soltanto un paio di baffetti che
non dissimulano la giovane età. Il profugo afghano non nasconde la propria
simpatia per i talebani al potere a Kabul: «Questa gente ha portato la
sharia nel paese e con essa pace e sicurezza. Nelle province dei talebani
ogni persona si sente tranquilla, mentre nelle aree sotto il controllo di
Massud non c’è sicurezza».

I due giovani
studenti, ormai distratti dalla mia presenza, si avvicinano portando
bicchieri fumanti, colmi di un tè che riempie la stanza di profumi
speziati.

Tra un sorso e
l’altro, chiedo di spiegarmi la condizione delle donne nei paesi islamici.
«I diritti delle donne – dice Karamullah sforzandosi di trovare le parole
inglesi più adatte – non sono quelli che vengono esaltati nei paesi
occidentali. L’islam ha attribuito diritti sufficienti alle donne, perché
Allah misericordioso, creatore di tutti gli uomini, conosce bene ciò che è
giusto fare. La donna ha una grande dignità nella società islamica. I
figli crescono nelle braccia delle madri e ricevono molto amore. Tra le
mura di casa la donna agisce come un capo assoluto. Il marito invece
lavora all’esterno in condizioni diverse. Tutto ciò che guadagna lo porta
in famiglia. In molte società non musulmane le donne sono considerate come
animali da utilizzare per la felicità sessuale degli uomini. Il flagello
dell’Aids non è altro che un castigo divino per questi comportamenti».

Alle cinque in punto
Karamullah si interrompe e mi chiede qualche minuto di pausa. Prende il
suo personale tappetino, lo distende, si inginocchia e inizia il rituale
della preghiera. Terminato il suo dovere di buon musulmano, torna a
conversare con me.

Non ti sembra – gli
chiedo – che la sharia sia uno strumento disumano che rende la punizione
molto simile alla vendetta? «No, la sharia è giusta! Quando ad un ladro
viene tagliata una mano, non è solo una punizione, ma anche un esempio per
far comprendere agli altri che rubare è male». 

Obietto che il male
è anche altrove: per esempio, nella corsa alle armi nucleari intrapresa da
Pakistan e India. «I paesi poveri non costruirebbero armi distruttive, se
i paesi coloniali non li incoraggiassero».

Mi accorgo che il
tempo è volato: sono passate più di due ore dal mio arrivo nella bottega
di Hussain e Karamullah. Fuori, è sceso il buio e il grande bazar si è
quasi svuotato. Prima di andarmene, ci abbracciamo come vecchi amici. A
dispetto delle nostre grandi diversità.

 

(*)  Le vicende
raccontate in queste righe sono accadute durante un viaggio in Pakistan
effettuato nel maggio 1998.

Snezana Petrovic




GRANDI AMORI


«Cuore grande e fede incrollabile, uniti a uno spirito
ribelle e un po’ goliardico, hanno fatto di questo piccolo grande
missionario uno strumento formidabile dell’amore cristiano». Così gli
amici ricordano padre Antonio Giannelli, scomparso all’inizio di quest’anno,
dopo aver speso quasi 50 anni in Africa, privilegiando poveri, anziani e
bambini.
Invece,
dopo circa due ore, eccoci a Gaturi, la missione di padre Antonio, dove
sarò ospite per un mese insieme a Ugo e Luca. Non fatichiamo molto a
capire che la nostra vacanza in Kenya sarà caratterizzata dal lavoro sodo,
per dipingere la chiesa parrocchiale: siamo qui per questo e ce ne
rallegriamo.

Padre
Antonio non ci fa mancare nulla: pennelli, vernice, cappelli di carta,
scale, ponteggi e latte caldo a volontà. Eh, sì! Sull’altopiano collinoso,
200 chilometri a nord di Nairobi, agosto è fresco e piovoso.

Le
giornate sono faticose, ma serene. Antonio, aiutato da padre Aldo Cremasco,
è sempre in movimento: scuola, famiglie da visitare, dispensario, bambini
da accudire ed educare. E poi le funzioni sacre con i canti così
coinvolgenti, la preghiera comunitaria ed altre attività religiose… La
sera arriva improvvisa e ci coglie indaffarati nelle ultime fatiche della
giornata.

Padre
Antonio arriva spesso per ultimo al desco serale, ma è il primo ad alzarsi
per riordinare la cucina e accendere il gruppo elettrogeno, che fornisce
per un’ora o poco più l’energia elettrica. Appena il tempo di una partita
a carte prima del meritato riposo: il vincitore, manco a dirlo, è quasi
sempre padre Antonio.

Il
ricovero per anziani è una delle realizzazioni di cui il missionario va
più orgoglioso. Anche se nella tradizione familiare africana la figura
dell’anziano riveste un ruolo importante, la realtà è spesso differente:
l’emarginazione di persone, avanti negli anni e non più totalmente
autosufficienti, è sempre più frequente nella società locale.

Tutti i
giorni Antonio passa molto tempo con i suoi «vecchietti», come li chiama
con affetto. Per ognuno ha una parola di conforto; ma non solo: si informa
delle loro necessità e li mette al corrente di ciò che sta accadendo nel
villaggio.

Quattro
settimane sono passate in fretta e ci troviamo di nuovo all’aeroporto di
Nairobi in attesa del volo per l’Italia. Rimpianto e malinconia sono i
sentimenti dominanti, mitigati, però, dalla consapevolezza di avere
imparato tante cose dalla compagnia del missionario.

Dopo
questa esperienza, non sono più lo stesso: le parole del vangelo sono
sentite come invito obbligatorio a fare qualcosa per gli altri e la
condivisione con i più deboli è diventata più naturale. E questo grazie
all’esempio di padre Antonio, che proprio nel messaggio di Cristo trova la
forza per affrontare ogni giorno grandi sfide e fatiche, anche nei momenti
in cui la salute incomincia a dargli qualche grattacapo.

Ritoo in
Kenya nel 1992 e trovo in padre Antonio il solito spirito giovanile, come
se il tempo lo avesse appena sfiorato.

Nel
frattempo egli ha cambiato parrocchia: nel 1987 è stato incaricato di
fondare una nuova missione nella zona di Wamagana, a nord di Nyeri. Detto
fatto: si è messo subito al lavoro e in pochi anni ha compiuto
un’autentica meraviglia. Egli stesso mi fa da cicerone, mostrandomi le
opere realizzate: chiesa, casa dei padri, scuola secondaria, laboratorio
di cucito per le ragazze, casa per le suore e, vero fiore all’occhiello,
la casa di accoglienza per bambini con gravi deficit mentali e motori. Una
vera rarità nel panorama assistenziale africano.

Maestosa è
la chiesa parrocchiale, dedicata alla Madonna della coltura, venerata nel
santuario di Parabita (Lecce), luogo natale del missionario della
Consolata. La costruzione è stata laboriosa e lo ha occupato a lungo; ma
ne è risultato un edificio con l’ardito tetto in cemento armato, simile a
quello della cattedrale di Nyeri, e le pareti arricchite da bei dipinti,
tele e vetrate multicolori.


Nell’illustrare le varie opere della missione i suoi occhi brillano di
luce particolare: senza l’aiuto della Madonna, fa intendere che non
sarebbe riuscito a costruire tutto ciò che sto ammirando.

Una simile
impresa implica un’organizzazione complessa e articolata. Il missionario
vi ha coinvolto i cristiani della parrocchia in modo ampio e concreto,
stimolandoli a crescere nel senso di responsabilità verso tutti i loro
simili.

Una delle
caratteristiche più affascinanti di padre Antonio è l’entusiasmo con cui
si prodiga per il bene degli altri, senza badare a sacrifici né alla
propria salute. Ed è un entusiasmo contagioso, che suscita solidarietà in
numerose persone, familiari e amici sparsi in Italia,  a cui confida
progetti, fatiche e speranze.

 

 

Torino
1999. Padre Antonio ritorna in Italia per controlli sanitari urgenti. La
salute lo sta abbandonando piano piano, ma non si scoraggia: accetta la
malattia con grande serenità e dignità.

Nonostante
le precarie condizioni fisiche, vorrebbe salire su un aereo e volare tra i
«suoi bambini» di Wamagana. «La mia casa e i miei figli sono laggiù – mi
confida -. È là che devo tornare. Qui procuro solo guai!».

Il
pomeriggio del 23 gennaio 2001 padre Antonio si sente male; avvisa i suoi
dell’imminente fine; affida le ultime volontà a padre Daniele Armanni e
vola in paradiso.

La sua
scomparsa mi lascia sbigottito, insieme a tutti coloro che gli sono stati
vicini. Ci rimangono una profonda ammirazione per la fede e forza d’animo
con cui è vissuto fino all’ultimo respiro e la certezza che, dal cielo,
potrà fare ancora tanto per i suoi bambini e per quanti lo hanno
conosciuto. Ci mancherà moltissimo. Ma saremo ugualmente suoi testimoni,
concreti e puntuali, per continuare a fare vivere a Wamagana un pezzetto
di paradiso.

 


MISSIONARIO
«MAIUSCOLO»

Quando per
strada incontro un bambino mi ritorna alla mente ciò che padre Antonio
Giannelli ripeteva negli ultimi mesi di vita come un testamento. Adesso
che non c’è più, mi rendo conto di quanto amore avesse in cuore per i suoi
bambini e con quanta sofferenza avesse dovuto lasciare, nel maggio 1999,
la sua missione di Wamagana.

Da quel 23
gennaio, quando padre Antonio ci ha lasciati, per me e per tanti altri è
come se una parte della nostra vita se ne sia andata con lui; ma la sua
presenza continua a scandie i momenti sereni e tristi. Ricordo ogni suo
gesto e parola. Anche quando, scherzando, mi diceva «vattine», era per me
un momento di affetto, che rimarrà per sempre scolpito nella mente e nel
cuore.

Ho davanti
agli occhi alcune fotografie che rievocano i momenti sereni. Anche se
ormai la malattia aveva scalfito il suo fisico e ancor più il suo cuore,
riusciva a dimenticare la sofferenza per farci sentire tutta la sua
umanità, come nelle interminabili partite a carte, in cui boicottava il
gioco (perché non accettava di perdere) o davanti a un piatto fumante di
polenta e funghi, quando ringraziava il Signore per ciò che gli era
concesso, soprattutto per essere ancora con noi e poter dare ancora
qualcosa.

Da padre
Antonio abbiamo ricevuto molto. Col carattere spensierato e ribelle, a
volte incosciente, ci ha regalato momenti di gioia; col suo coraggio,
dignità e voglia di lottare, specie contro il male che lo stava
distruggendo, ha fortificato il nostro carattere. Con i suoi silenzi, la
riservatezza e (perché no?) la testardaggine, a volte sfrontata, ci ha
insegnato che l’amore per gli altri è più importante dell’amore per se
stessi.

Ricordo
anche la sofferenza e rabbia che provava quando si sentiva accusato di
gestire missione e progetti con criteri troppo personali. Per me e per chi
l’ha conosciuto a fondo, padre Antonio è stato e resterà sempre un
missionario con la «M» maiuscola, per tutto quello che ha fatto per la
gente delle missioni in cui ha lavorato per tanti anni; specialmente per i
«suoi bambini», che considerava tutti figli suoi, e per la comunità di
Wamagana, che riteneva la sua grande famiglia.

Il modo
migliore per ricordarlo e ringraziarlo di tutto quello che ha saputo e
voluto darci in tanti anni di amicizia, sincera e disinteressata,
consisterà nel continuare la sua opera, specialmente a favore dei «suoi
bambini». Glielo abbiamo promesso.

Federico Casarani




NEISU (CONGO, RD): QUASI UN DIARIO «IO SONO LUCA»


   Ancora qualche… pennellata di vita missionaria, dal grande e
quasi inaccessibile Congo. Con i problemi di sempre (aggravati dalla
situazione di guerra), e piccoli fatti di speranza… che possono arrivare
anche da un bambino.

 

Un tempo, vedendo
certe ingiustizie in Congo, mi arrabbiavo molto; oggi lo faccio di meno,
non perché l’ingiustizia sia diminuita o io sia diventato insensibile, ma
perché mi vedo impotente. Soprattutto scopro tanta indifferenza. Alla
rabbia di una volta subentra il pianto del cuore.

 Che
delusione!

 Dalla missione di
Neisu (dove opero) penso anche a Gesù che, impotente, piangeva sulla città
di Gerusalemme… I potenti sono preoccupati a produrre e vendere armi, a
costruire scudi spaziali…

A Kisangani, terza
città del Congo, i soldati dell’Onu (sembra che l’Organizzazione si stia
finalmente «interessando» al paese) sono pagati 200 dollari al giorno per
«vedere la situazione» e stendere rapporti.

Ad Isiro (a pochi
chilometri da noi) di questi osservatori ne abbiamo quattro. Il mese
scorso è arrivato per loro un enorme aereo e ha scaricato due bancali
di… bottiglie d’acqua minerale.

Noi, per avere
medicine e quadei per la gente, dobbiamo fare giri impossibili: Kampala,
Butembo, Ariwara… In più, dobbiamo anche pagare tasse elevate, perché
c’è tutta una schiera di funzionari e impiegati che vuole mangiarci sopra.
D’altra parte, è da anni che lo stato non li paga e non sborsa il becco di
un quattrino per i loro salari!

Nonostante tutti gli
osservatori dell’Onu, oro e diamanti del Congo continuano ad arricchire
Uganda e Rwanda. Siamo alla fine dell’anno scolastico e gli alunni della
sesta elementare devono sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.
Prezzo dell’esame: 100 franchi congolesi (un dollaro Usa ne vale 140). È
poca cosa, lo so. Ma i genitori non hanno neppure questo.

In questi giorni
alla missione di Neisu c’è una processione di ragazzi e ragazze con
galline, uova, banane da vendere; la speranza è di avere i 100 franchi per
l’esame.

Queste cose, quelli
dell’Onu & affini le sanno? E, se lo sanno, qual è la loro risposta?
Perché, con tutti i mezzi che hanno a disposizione, non potrebbero darci
una mano per il trasporto di medicinali, viveri e materiale scolastico?

Se questo è l’Onu,
non ci resta che piangere.

 Nel
ricordo di Oscar

 Toiamo alle
nostre vicende. Pochi mesi fa, a Egbita, centro protestante a sei
chilometri da Neisu, si è svolta la prima grande assemblea del popolo dei
mangbetu. Ci siamo radunati tutti, cattolici, protestanti, autorità civili
e tradizionali dei tre gruppi che costituiscono la nostra zona: Medje,
Mongomasi e Ndey (vedi box).

Dopo dibattiti e
lavori di gruppo, i capi hanno proclamato, davanti ad oltre 2 mila
convenuti, che i magbetu, durante i funerali, si comporteranno da
«cristiani», astenendosi da tutte le malversazioni e violenze cui erano
abituati. Per noi missionari, l’assemblea di Egbita è stata un successo
pastorale.

Abbiamo anche
celebrato il secondo anniversario della morte di padre Oscar Goapper,
medico dell’ospedale. La commemorazione è stata tenuta in chiesa dal
superiore, padre Rinaldo, con tantissima gente. Dopo la messa, siamo
andati alla tomba per inaugurare un semplice ricordo… La fotografia di
padre Oscar in ceramica, mandata da Vimercate (MI), è una novità assoluta
qui. L’abbiamo incoiciata in una leggera struttura di ferro battuto,
dipinta con i colori dell’Argentina: bianco e azzurro.

Per la popolazione
di Neisu il 18 maggio (giorno della morte di Oscar) è ormai una festa; si
organizzano quindi danze, canti e scenette. Si fa festa anche per Michele,
un infermiere che ha scelto questa data per sposarsi.

Jean Embuama, un
giovane ammalato di Aids, diventa cristiano. Mal ridotto e malfermo, viene
accompagnato da due infermieri al fonte battesimale. Si lascia alle spalle
una vita movimentata e disastrata: diventa figlio di Dio. Nonostante
tutto, lo vedo bellissimo nella sua camicia bianca. Oscar, suo medico, può
essee contento: ha ricevuto delle belle soddisfazioni.

L’ospedale ha un
nuovo medico congolese: è il dottor Joseph. Giovane, neolaureato, con
tanta voglia di rendersi utile: un altro punto in più per il nostro
centro.

Suor Angela vede con
piacere che le fondamenta della scuola matea sono ultimate e i lavori
procedono. Suor Gemma ha iniziato la scuola di taglio e cucito per 45
ragazze, mentre suor Luisa tiene l’ospedale sotto controllo.

Siamo stati tutti a
Isiro con il consiglio parrocchiale, per celebrare i cento anni di vita
dei missionari della Consolata. Durante la messa, sul luogo del martirio
della beata Anuarite, abbiamo pregato per tutti…

Ebbene: i problemi
in Congo non mancano e le delusioni pure; ma la speranza non muore.

Voglio allora
raccontare un episodio che ci aiuti a continuare a credere nella forza
dell’amore e a trovare la strada della vita. Un modestissimo fatto, ma che
mi ha aiutato tanto.


Senza
complicazioni

 Domenica mattina.
Esco di casa e vado in chiesa. Manca mezz’ora alla messa, ma c’è già gente
che aspetta per le confessioni. Mi sto abbottonando la veste bianca e vedo
un bambino, che gioca da solo nel prato. Si accorge di me e mi viene
incontro, stendendo la mano. Lo saluto in lingua kimgbetu: «Mingoru?» (ti
sei svegliato?). Di regola a questa domanda la risposta è: «Bu himmi?» (e
tu?). Lui invece non risponde; mi guarda e sorride. Penso che non abbia
capito; forse non è un mangbetu. Ha inizio così una specie
d’interrogatorio.

«Tu sei mbudu?».
Penso infatti che possa essere un figlio di qualche infermiere mbudu
dell’ospedale. Il bimbo scuote la testa e sorride di nuovo. «Allora sei
certamente zande?». Il mio interlocutore fa ancora cenno di no.

Faccio due o tre
conti mentali: se non è mangbetu, mbudu né zande, sarà il figlio di
qualche moyogo venuto da Isiro per il mercato della domenica, qui a Neisu.

«Tu allora sei
moyogo?» gli dico pieno di sicurezza. Il bambino scuote di nuovo la testa
e, preso da compassione per me, in un bel lingala (la lingua
intertribale), finalmente apre la bocca e mi risponde: «Ngai nazali Luc»
(io sono Luca).

Le tre parole mi
investono come uno scroscio d’acqua pura e fresca. Tutte le mie
complicazioni e congetture sono azzerate. La verità splende sovrana.

– «Io sono Luca».
Perché ti stai a scervellare, ragionando di tribù, catalogando le persone
in schemi precostituiti?

– «Io sono Luca».
Guarda all’essenza delle cose, instaura rapporti semplicemente umani. Non
ti ricordi quanto successe a Einstein quando arrivò in America?
L’impiegato dell’immigrazione gli aveva mostrato un modulo da compilare e,
tra le domande, ce n’era una che chiedeva la «razza»? Einstein non ebbe
alcuna esitazione e scrisse «umana».

– «Io sono Luca».
Parole semplici, ma che mi riconducono ad essere quello che sono, facendo
a meno di tutti i prefissi: ing, dott, prof, mons, don… La rivelazione
ci porta all’origine di noi stessi, senza troppe sovrastrutture che
soffocano e tengono gli altri distanti da noi. Dobbiamo finirla con
razzismo, tribalismo, nazionalismo e tutti i loro parenti.

– «Io sono Luca». È
stata per me, quella domenica mattina, la proclamazione giorniosa del
vangelo: «Ti ringrazio, o Padre, che hai nascosto queste cose ai sapienti
e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»…

Dopo quell’incontro,
diverse volte ho cercato Luca, ma non l’ho più trovato. Sarà perché qui i
bambini sono tanti e s’assomigliano tutti.

O chissà…

 


Un
convegno su tradizione e modeità


 Antichi
e nuovi diritti

 Si è tenuta qualche
tempo fa, a Neisu, una tre-giorni sul tema: «Diritto civile e costume
tradizionale», organizzata dalla nostra Commissione di Giustizia e Pace.
Hanno presieduto l’incontro il sig. Mukobi, giudice presidente della corte
di Isiro, e il sig. Ntumba, procuratore della repubblica di Isiro. Si
tratta di due persone qualificate, che si sono prestate per parlare ad
un’assemblea «popolare», composta da intellettuali, «chefs coutumiers»
(capi tradizionali) e contadini delle nostre missioni, impegnati nel
settore della promozione umana e diritti dell’uomo.

Gli oratori hanno
discusso, innanzitutto, di diritto civile e organizzazione della giustizia
in Congo, presentando i punti più significativi e alla portata della
gente. Poi hanno parlato del diritto tradizionale, non scritto, mettendo
in luce alcuni aspetti in contraddizione col diritto civile. Si è
considerato soprattutto il codice della famiglia, del 1968, che è un primo
tentativo di unificare gli elementi del diritto tradizionale con quello
civile scritto.

I conferenzieri
hanno evidenziato che i due diritti sono stati unificati in base a tre
princìpi: legge scritta, ordine pubblico e «buoni» costumi. Tutte le
tradizioni contrarie a questi princìpi sono state escluse dal diritto
civile scritto. Essi stessi hanno riconosciuto che ci sono ancora
tradizioni che non concordano con il diritto civile congolese e hanno
esortato i capi (ancora molto influenti) ad abbandonarle.

Nella seconda parte
dell’incontro (quella che maggiormente ha interessato i convenuti) si è
parlato di alcuni comportamenti, espressione del costume locale. In
particolare ci si è soffermati sulle tradizioni riguardanti il matrimonio,
la morte, i funerali, il lutto e le relazioni tra capovillaggio e
popolazione. Sono stati stigmatizzati certi comportamenti come, ad
esempio, dissotterrare e sottrarre con violenza il cadavere, rubare o
distruggere i beni del defunto, malmenare il coniuge che sopravvive
(soprattutto se donna), perché accusato di aver provocato la morte del
defunto.

Circa il matrimonio,
si è parlato della cattiva usanza di pretendere dalla famiglia del marito
(dopo anni dalla celebrazione del matrimonio) un supplemento della dote
già pagata. Inoltre si è discusso della pratica, da parte dei parenti
della sposa, di estorcere denaro dal marito prima che la moglie ritorni da
lui; questo capita quando la moglie si reca dai suoi per il funerale di un
parente.

Sempre nel campo
matrimoniale, si è toccato il problema della poligamia e dello
sfruttamento delle donne da parte dei mariti.

Circa le relazioni
capo-popolazione, è stato affrontato il problema della corvée (lavoro)
obbligatoria nel campo privato dei capi; della tassa da pagare quando si
riceve una convocazione; degli arresti arbitrari e ammende, con somme
superiori alle possibilità del cittadino.

Alla conclusione
della tre-giorni, i partecipanti sono stati invitati a promuovere la
giustizia e la pace, spargendo i frutti dell’incontro in tutta la regione.
Il beneficio immediato è stato lo spirito d’amicizia che si è instaurato
fra i partecipanti, provenienti dalle nostre parrocchie.

Come missionari
della Consolata, pensiamo che questa iniziativa sia fonte di consolazione
per la gente e possa aiutarla a guardare al futuro con più speranza.

Una formula
indovinata, anche per celebrare i cent’anni di fondazione del nostro
istituto.


Rinaldo Do

 

 


I
giovani congolesi…


 parlano
del loro paese in guerra

 

Durante un incontro
con i giovani, Jean Pierre chiede: «Padre, che ne pensi della situazione
attuale del nostro paese? Qual è il destino che spetta a noi, giovani?
Credi tu che, tra questi bagliori di guerra, possa esserci ancora un
raggio di speranza e consolazione?».

Il prete rimanda la
domanda al gruppo: «Ma voi, che cosa rispondereste alla domanda di Jean
Pierre?».

 Daniel

interviene subito: «Ma quale avvenire, ora che è l’uomo col fucile a
dettare legge? Abbiamo solo la sfortuna di non avere un’uniforme e un
fucile come lui. Cosa vogliamo? Cosa pensiamo? Non sappiamo dirlo, ma ciò
che rigettiamo è questa “felicità” ottenuta con le armi: la filosofia,
secondo la quale il diritto e la legge vengono decisi da chi ha le armi».

 Christine
Lust
:
«Per me, la società non offre ai giovani ciò che si aspettano. Essi hanno
bisogno di condizioni favorevoli per costruire il loro avvenire, ma la
guerra blocca tutto. Le perdite, sia umane che materiali, sono pesanti; le
ferite fatte alla popolazione congolese sono dolorose. Da qui il desiderio
di fuga ed evasione, che portano alcuni alla droga e altri in miniera alla
ricerca di oro e diamanti. La scuola, l’insegnamento, il rapporto con i
professori non rispondono al bisogno dei giovani. Allora diventiamo
chiusi, arrabbiati e ci annoiamo…».

 Fiston
Karume
:
«Quando fumo la canapa, devo fare attenzione mentre attraverso le strade,
perché non vedo più le vetture arrivare. Sono due mesi che mi drogo, e
comincio ad avere tic nervosi».

 Charles
Bamba
:
«Da me le cose non vanno bene. Ho solo 13 anni e non sopporto la scuola.
Credo che vogliano rinchiudermi. Allora la mia salvezza è nel bere birra:
sono quasi sempre ubriaco. Ora sto cominciando anche con la droga. Non ho
motivi per farlo; so soltanto che, quando fumo o mi drogo, io fuggo. Fuggo
dalla società. Fuggo dal mio villaggio, dalla mia famiglia, da tutto… e
mi succede di sentirmi meglio. Quando fumo e bevo, sono felice e mi sento
l’uomo più realizzato del mondo. E, dopo una dose di droga, non sento
nemmeno più il bisogno di mangiare».

 Jeannette
Chima
:
«Ho 17 anni, e sono a scuola per preparare un diploma di educazione
pedagogica. Ho compreso che il mio paese è in guerra e io non faccio
niente di serio. Si parla sempre di chi fa la storia, mai di chi la
subisce… I “difensori” dei diritti dell’uomo cosa fanno? Dove sono? Non
sono i primi che boicottano i diritti che pretendono di difendere? Sono
loro stessi che armano rwandesi e ugandesi in Congo, i quali poi
saccheggiano e uccidono.

Portano delle
maschere, che fanno apparire i rwandesi e gli ugandesi; ma dietro le
maschere ci sono loro: americani e francesi. Come sono divertenti. L’Onu,
cosa ha fatto finora? Le crisi del popolo congolese non gli sono
pervenute? E la comunità internazionale non ha orecchi ed occhi? Tutto il
mondo tace la verità; ma perché? Noi vogliamo la pace, il rispetto dei
diritti dell’uomo congolese, la sua dignità di figlio di Dio. Abbiamo il
diritto di vedere il nostro avvenire disegnato all’orizzonte».

 


Dappertutto, nel
mondo,
poeti e scrittori
denunciano situazioni
di guerra e violenza,
le forme di sfruttamento
dell’uomo contro l’uomo.


Un amico di Gesù,
un amico del popolo di Dio
in Congo,
un amico dell’uomo,
sarà insensibile al grido
del popolo congolese?


Dappertutto,
a Kisangani e Goma,
a Bunia e Butembo,
uomini, donne e bambini
gridano, denunciando
le situazioni
di saccheggio e violenza,
di torture e massacro…


Un cristiano
sarà insensibile
a questo grido
che sale dal Congo?
Sarà insensibile al grido
di un giovane congolese
che non vede più
l’avvenire davanti a se?


           
            Jean-Baptiste Sengi

Antonello Rossi




MOSCA NON BADA ALLE LACRIME


Al cospetto
di lenin

La raccomandazione di Ivan ci
ricordò l’esperienza vissuta il giorno prima sulla Piazza Rossa. Una
signora del gruppo «Amici» voleva ammirare personalmente la piazza, con il
Cremlino da una parte, il Museo storico di stato dall’altra e, sul fondo,
la cattedrale di san Basilio. Chiusa al traffico, illuminata dal sole o
rischiarata dalla luna, la piazza è straordinariamente «rossa», cioè
«bella».

La signora costeggiò le mura
del Cremlino e, giunta al mausoleo di Lenin, puntò la macchina fotografica
sul busto del padre della rivoluzione comunista, imitata da altri turisti.
Sennonché si accostò di due metri e, senza saperlo, mise il piede in fallo
superando «la linea rossa».

Subito piombarono due
poliziotti, quasi imberbi: gli occhi minacciosi, i gesti imperiosi, le
parole impietose quanto incomprensibili. La malcapitata supplicava venia
in italiano. E, come spesso succede allorché si parlano lingue diverse
senza capirsi, i toni della voce salivano e l’incomprensione pure.

Di fronte al piccolo casus
belli, intervenimmo in inglese.

L’ultima parola, sia pure nel
fraseggio stentato, ci suonò sinistra… alla luce dell’Arcipelago Gulag
di Aleksandr Solzenicyn.

Assumemmo un’aria umile e
contrita. «Signori, vi porgiamo tutte le nostre scuse. Questa mamma ha
superato la linea rossa, ma senza accorgersi. Lungi da lei ogni intenzione
di calpestare il suolo sacro della madre Russia! Si è un po’ avvicinata,
solo per riprendere meglio il famoso Lenin e mostrarlo ai suoi figli. Vi
chiediamo perdono…». Parlavamo adagio, studiando le parole. Ma i
gendarmi capirono solo «perdono» e replicarono: «Perdono niet.
Impossibile. Là telecamere hanno ripreso questa donna. Delitto resta per
sempre. Niet perdono. Gulag!».

Allora mutammo strategia,
atteggiandoci quasi a giudice. «Sappiate che la signora appartiene ad una
associazione culturale di fama internazionale. È in Russia per ragioni di
studio con altri 46 colleghi. Il presidente dell’associazione si recherà
all’ambasciata italiana per trattare il caso. Qui vi sono testimoni di
vari paesi, che confermeranno l’accaduto».

I due ci trassero in disparte e
su un pezzo di carta scrissero «10 dollari», da sborsare subito senza
ricevuta. E ci fecero capire che era un grande favore…

«Vi è andata ancora bene!»
commentò Ivan quando raccontammo il fatto. E la moglie Galja che
l’accompagnava annuì sorridendo.


Fra boschi
di betulle

Eravamo, dunque, in viaggio
verso Sergiev Posad (ex Zagorsk). È una delle «gemme» dell’«anello d’oro»:
così si chiama l’itinerario religioso-culturale lungo alcuni celebri
centri della Russia cristiana, riaperti al culto dopo il crollo del regime
sovietico. Si tratta di chiese e monasteri all’interno di «cremlini»
(villaggi-cittadella) a Jaroslavl, Vladimir, Suzdal, Kostroma, Rostov,
ecc., che raggiunsero il massimo splendore nel 12° secolo.

Durante il trasferimento in
pullman, Ivan ci intrattenne sullo stato della Russia odiea con giudizi
severissimi. Gli enormi «bubboni» si chiamano mafia, corruzione politica,
degrado ambientale, alti costi di vita, bassi salari. Ad esempio: un
chirurgo in ospedale percepisce 80 dollari al mese; il che lo costringe ad
operare in almeno altri due centri, per raggranellare 300 dollari mensili.
Ivan sulla sanità dichiarò: «Se la salute non ti interessa, curati presso
una struttura pubblica».

Ma quanti possono accedere ad
ospedali privati? A Mosca il 5%, su 9 milioni di abitanti. La capitale è
«la vetrina della nazione», dove il denaro circola più abbondante. Nei
centri rurali dello sterminato interno  la situazione è deprimente.
Rassegnato e desolato appare lo sguardo degli anziani, seduti davanti alla
loro dacia o isba per catturare un raggio di sole dopo l’interminabile
inverno.

L’accompagnatore parlò a lungo,
mentre l’autobus attraversava campi di grano e patate tra fitti boschi di
fragili e slanciate betulle, dalla corteccia grigio-cenere chiazzata di
scuro, che la pioggia lustrava e il vento ravviava. Il ticchettio della
pioggia, il rumore monotono del motore, la voce uniforme di Ivan (seguita
dalla traduzione pacata di Delfina Boero), il clima interno ovattato, la
posizione in poltrona conciliavano pure il sonno. L’interlocutore
l’avvertì: spense il microfono, reclinò il capo sulla spalla della moglie
Galja e, poco dopo, russava.

La donna ci guardò scuotendo la
testa e disse in inglese: «Troppo lavoro!».

Ivan e Galja sono sulla
trentina, sposati da poco. Lei lavora come segretaria in una scuola,
mentre lui dirige un’agenzia di turismo. Attivo, energico e metodico, Ivan
è figlio di un ex dirigente del Partito comunista sovietico. «Il padre è
ateo tutto d’un pezzo e lo si vede anche dallo sguardo sempre truce»
commentò Galja.

Galja adocchiò ancora il marito
che dormiva. Poi disse: «Sono cristiano-ortodossa. Mia madre mi ha
battezzata all’età di 16 anni, all’insaputa del padre, perché vigeva il
comunismo ateo. Non ebbe però il coraggio di battezzare mio fratello.

Nel frattempo eravamo giunti a
Sergiev Posad. Il pullman si fermò dietro un altro, parcheggiato a lato
del monastero della Trinità di san Sergio. Scendendo, domandammo ancora a
Galja: «Che cosa è rimasto in Russia del marxismo?». «Vorrei che restasse
solo il nome» rispose… puntando l’indice verso l’autobus antistante.

Sull’alto del parabrezza era
scritto «Karl Marx».


Nel cortile
del monastero

Il monastero della Trinità di
san Sergio, iniziato nel 14° secolo, conobbe un grande splendore
artistico-religioso, nonché potere economico. Alcuni principi di Mosca non
lesinarono doni (forse per farsi perdonare i peccati): fra questi, lo zar
Boris Godunov (vedi inserto). Nazionalizzato e trasformato in museo nel
1918, il monastero fu restituito alla chiesa dopo la seconda guerra
mondiale. Oggi il complesso, circondato da un muro di cinta lungo un
chilometro, consta di sette chiese, due cattedrali, un seminario e vari
musei.

Al nostro arrivo, c’era un
frenetico viavai nel cortile del monastero: monaci e monache ortodossi,
pellegrini di modesta condizione sociale, turisti. Non mancavano ortolani,
intenti a impiantare qualche verdura o a zappare.

Ci attendeva la guida locale. E
fu una sorpresa, perché era una suora ortodossa. Fu lei ad introdurci
negli edifici sacri e commentare le sontuose iconostasi: come quella nella
cattedrale della Trinità, resa celebre dal genio di Andrej Rublev.

Interessante anche la storia
personale della monaca (che non volle dire il nome). Gli «amici»
l’ascoltarono attentissimi, in piedi e sotto una pioggerella impertinente.
«Sono nata al tempo di Kruscev – raccontò la suora -. Questi ha reso
famosa la Russia per lo sputnik lanciato nello spazio con una cagnetta,
seguito dal primo volo fra le stelle di Gagarin. Però Kruscev, in fatto di
persecuzione religiosa, non scherzava. Ciò nonostante, ho deciso di farmi
monaca, contro il parere dei genitori».

Ha vissuto i primi anni di vita
religiosa nella clandestinità. Poi, scoperta, è stata costretta a lavorare
in uno stabilimento industriale tessile. «Oggi sono nuovamente suora; ma
non ho un convento, né consorelle. Vivo da sola in un piccolo appartamento
di Sergiev Posad. Per pagare l’affitto e mantenermi, faccio la guida
turistica».

La monaca vestiva di nero da
capo a piedi, ma senza particolari segni religiosi. Lo sguardo era
volitivo, ma anche dolce. Padroneggiava bene la sua materia.

Assolto il suo compito, si
congedò in fretta dal gruppo degli «amici», per incontrae subito un
altro: una scolaresca russa. «Fino a non molto tempo fa, pensare che una
scuola entrasse liberamente in chiesa equivaleva ad immaginare che il lupo
e l’agnello potessero bere alla stessa fonte» commentò infine la monaca.


Quarantasei
in una stanza

Mosca. Nei dintorni della
capitale, verso le 18, avevamo appuntamento con suor Serena, delle
Missionarie della carità (suore di madre Teresa). Opera con tre consorelle
polacche, due indiane e una irlandese: attendono a portatori di handicap e
ospitano anche senzatetto. Visitano inoltre gli ammalati del vicino
ospedale (specialmente i colpiti da Aids), gli anziani poveri del
quartiere, i traumatizzati dalla guerra in Cecenia o Afghanistan. Da tali
paesi non mancano profughi, che vivono seminascosti (magari dieci in due
stanze), essendo rifiutati dai russi. Trovare lavoro? Un incubo, più che
un sogno.

Per le missionarie gli inizi
(alla vigilia della caduta dell’impero sovietico) furono duri.
Alloggiarono otto mesi in due stanze dell’ospedale, mantenendosi con il
proprio lavoro, ma senza alcuna possibilità di visitare la gente. Poi
trovarono sistemazione in un ricovero per anziani: ancora due stanze, ma
anche una cappellina, con la facoltà di uscire, parlare. Dopo due anni, lo
sfratto.

«Ora siamo in questo centro,
costruito con prefabbricati in legno. Abbiamo rifatto il tetto, perché il
materiale usato era di seconda mano… Dobbiamo districarci in tante
pastornie burocratiche per lavorare. In Russia la vita è complicata…».

A parlare era ovviamente suor
Serena, lombarda sui 40 anni, che indossava il noto saio bianco, bordato
di azzurro. Si intratteneva con i 46 «Amici Missioni Consolata», assiepati
in una stanza con numerose domande.


Sorella, com’è una vostra
giornata standard?

«Alle 5 del mattino siamo in
chiesa per la preghiera. Poi c’è il lavoro dalle 8 alle 12 e nel
pomeriggio. Ci sono persone che ci aiutano, perché non possiamo lasciare
soli i bambini down e neanche gli anziani: ci aiutano mentre noi preghiamo
o mangiamo. Alle 21.30 subentrano le suore: due per notte».


Chi sono le persone che vi
aiutano?

«In genere volontari.
Provengono da San Pietroburgo, che è più incline di Mosca alla
solidarietà. C’è un detto: “Mosca non bada alle lacrime”, ma agli affari.
Tuttavia i collaboratori faticano molto ad entrare nel nostro ordine
evangelico di idee».


Da dove provengono i bimbi
portatori di handicap?

«Alcuni da un orfanotrofio e
altri dalle famiglie. Sono bambini down, orfani, ciechi o con papà e mamma
separati. C’è una bimba con genitori giovanissimi, che si sono rifiutati
di tenerla; poi l’hanno accettata… se noi la guardiamo un po’. Sono già
due anni che la piccola è qui».


La gente che cosa pensa di voi?

«All’inizio c’è stata
incomprensione: la gente non capiva la nostra attenzione a bambini che
“non servono a nulla”. Oggi va meglio. Non si dimentichi l’influenza del
comunismo ateo, durata 70 anni».


Chi vi sostiene economicamente?

«La divina provvidenza».


Lo stato che cosa fa per i
portatori di handicap? Ci sono scuole?

«Ci sono. Però manca il calore
umano, il sorriso, la serenità».


I vostri bambini vanno a
scuola?

«Certo. La scuola è
parastatale; segue i programmi del governo, ma è organizzata dai genitori
degli handicappati. Ci troviamo tutti una volta al mese, quando
distribuiamo vestiti e generi alimentari. Al termine dell’incontro c’è
anche un momento di preghiera».


Voi, suore, avete la messa
tutti i giorni?

«Abbiamo dei sacerdoti,
cattolici e ortodossi, che celebrano l’eucaristia; ma vengono da lontano e
impiegano molto tempo; allora c’è un sacerdote a tuo, diverso ogni
giorno; non sempre però».


Entrando nelle case popolari,
che cosa colpisce maggiormente?

«La miseria materiale,
soprattutto degli anziani. Le famiglie hanno tanti bambini e vivono con
mezzi sufficienti appena per un po’ di pane. C’è pure tanta povertà
morale, perché manca il senso di famiglia. C’è l’atavico alcornolismo e,
oggi, anche la droga».


Esiste un ceto medio un po’
benestante?

«È quasi scomparso. Oggi o si è
ricchi o poveri».


E quanto a soddisfazioni?

«Le abbiamo, specialmente
stando con i poveri, che sono aperti a ricevere non solo materialmente, ma
anche spiritualmente. C’è il desiderio di iniziare una vita diversa con
nuovi valori, valori che si sono persi negli ultimi decenni».


Valori nuovi anche fra i
giovani?

«C’è un anelito all’esperienza
religiosa del passato. I giovani ci chiedono di insegnare loro a pregare».


Sono cattolici o ortodossi?


Suor Serena, lei ha risposto
alle nostre domande. Ma forse anche lei ha qualcosa da chiedere…

«Se volete, possiamo
recarci tutti in cappella e pregare il Padre Nostro» fu la risposta.

Numerosi «amici» lasciarono
alle missionarie della carità lenzuola, vestiti e denaro per i portatori
di handicap, che li guardarono con una smorfia. Ma era «grazie».

 

 



 Munifico e assassino

Tanto si prodigò lo zar Boris
Godunov in donazioni al monastero di san Sergio che, finalmente, ottenne
di esservi sepolto. Lo zar doveva nutrire dei dubbi sul proprio accesso in
paradiso e, a quei tempi, non c’era migliore assicurazione sull’anima che
farsi inumare nel luogo più sacro di Russia.

È difficile ricostruire con
attendibilità le vicende che lo portarono al trono, fitte di sospetti,
trame e morti misteriose: non a caso con il suo regno si aprì il periodo
dei «torbidi».

Il primo approccio con il
potere avvenne  durante il regno del figlio di Ivan il Terribile, il
minorato Fedor, al quale aveva dato in sposa la sorella, così da divenie
il tutore. Lo stesso Ivan aveva agevolato (suo malgrado) Boris, uccidendo
il proprio figlio maggiore, l’omonimo Ivan, accusato dal padre di essere
poco sveglio. Rimaneva il piccolo Dimitrij, destinato con la maggiore età
a prendere il posto del fratello: la minaccia era tale da trasformare
Godunov da intrigante in assassino, cosa che prontamente fece.

Boris poté così innalzare la
sua stirpe sul trono di Russia, ma non per molto, giacché morì pochi anni
dopo in circostanze confuse, seguito a breve dai suoi eredi.

Era proprio il tempo dei
«torbidi».

Francesco Beardi




FRAGILI FIORI NELL’URAGANO

Un gruppo
di giovani, nel cuore di una delle regioni più critiche del mondo, lancia
un messaggio di unità e tolleranza. Sono arabi cristiani e hanno fondato
una comunità, come quella dei primi seguaci di Cristo. Aperta a tutte le
confessioni. Le difficoltà sono enormi, e questa voce rischia di essere un
soffio fra le… cannonate.

 

Nazareth.
Nell’enorme basilica dell’Annunciazione alcuni fedeli partecipano alla
messa domenicale. Sono raccolti in un luogo molto speciale: qui
l’arcangelo Gabriele annunciò a Maria la nascita di Cristo. Un gruppo di
giovani anima la funzione con canti in arabo.

Nonostante la
celebrazione sia in rito cattolico romano, questi ragazzi e ragazze
appartengono a confessioni cristiane diverse. «Facciamo parte di una
comunità ecumenica, che riunisce cattolici di rito latino e bizantino
(detti anche greco-cattolici), ortodossi, maroniti, armeni, copti e
protestanti» spiega Nasrin, una giovane di 27 anni.

È la Comunità «Vita
Nuova»: in arabo Jama’at al hayat aljadidah.

In Israele, oltre a
circa 5 milioni di ebrei, vive anche 1 milione di arabi. Discendono dai
palestinesi che non lasciarono la loro terra, nonostante la pressione
armata degli israeliani, all’indomani della creazione dello stato di
Israele (14 maggio 1948), durante la pulizia etnica che smantellò 531
villaggi non ebrei. Sono arabi con carta d’identità israeliana (peraltro
riporta la voce «etnia araba») e vivono in prevalenza in Galilea (nel
nord, dove si trova Nazareth), nel triangolo dell’entroterra di Hadera, in
città miste e nel Negev (a sud). Gli arabi di cittadinanza israeliana sono
discriminati. Per loro è più difficile accedere all’università e occupano
gli strati sociali più bassi.

Nei Territori
occupati di Cisgiordania e Gaza, invece, abitano 2 milioni 800 mila arabi
(di cui la metà rifugiati) e 200 mila coloni ebrei. Questi ultimi sono
cittadini israeliani e detengono un territorio non facente parte dello
stato d’Israele.

Della popolazione
arabo-palestinese (cittadini israeliani e abitanti dei Territori) solo il
2% è cristiana, appartenente a differenti confessioni, mentre la
maggioranza è musulmana. A causa del loro essere minoranza, spesso gli
arabo-cristiani sono dimenticati. Però molti di loro si sentono i
discendenti dei primi discepoli di Cristo.

 



All’inizio… un miracolo

 

Inerpicandosi verso
la città vecchia di Nazareth e percorrendo alcune ripide scale in cemento,
si arriva ad una piccola casa di tre piani dove, da alcuni anni, un gruppo
della Comunità Vita Nuova vive «mettendo tutto in comune». Una stanza per
riunirsi e un’altra adibita a cappella; la cucina in cui ci si ritrova per
consumare i pasti; un corridoio stretto, con libri di preghiere riposti in
un piccolo scaffale e annunci sulla vita della comunità appesi in una
bacheca.

Amer e Nasrin,
fratello e sorella di 26 e 27 anni, vivono nella casa da un anno. Ci fanno
accomodare nella stanza-riunioni e raccontano la storia della comunità.
«Tutto è cominciato su iniziativa del sacerdote abuna Faraj» (abuna
significa padre in arabo).

Padre Faraj è uno
dei due preti greco-cattolici, insieme a Elias Chacur, famoso per un
libro-denuncia sui massacri nel villaggio di Eliabun (nord Galilea).
Ordinato sacerdote nel 1965, nove anni dopo scopre di essere malato di
sclerosi a placche, che lo costringerà su una sedia a rotelle per 17 anni.
«Dal giorno della sua ordinazione – ricorda Nasrin – abuna Faraj ha fatto
sua la preghiera: Signore, dammi la grazia d’offrire la mia vita per
tutti, senza distinzione di razza o religione».

Preghiera più che
mai attuale.

Nel 1980 abuna Faraj
inaugura un centro cristiano d’incontro per giovani e pellegrini, nel
cuore di Nazareth. Nel ’92, secondo Nasrin, accade ciò che i membri di
Vita Nuova, pur senza dirlo, considerano un miracolo. «Abuna Faraj era
all’ospedale in coma. Nabil, un giovane di 22 anni che l’aveva conosciuto
da piccolo, andò a trovarlo. In modo inspiegabile il malato si svegliò e
lo riconobbe».

Da quel momento il
giovane decide di consacrarsi al prete, lasciando lavoro, musica e ogni
altra attività. I due lanciano il progetto di una comunità ecumenica, per
far incontrare confessioni cristiane diverse: così nasce Jama’at al hayat
aljadidah. Inizialmente le attività si svolgono al centro cristiano, dove
si organizzano incontri di preghiera interconfessionali.

«Io sono entrata in
Vita Nuova in quel periodo – racconta Safia, di 23 anni -, ma non senza
problemi, data la mentalità della mia famiglia ortodossa». L’idea di base
è che cristiani di vari credo possano vivere insieme. «Famiglie, laici,
consacrati: come fecero i primi gruppi di fedeli, proprio qui in Terra
Santa» interviene Amer, spiegando anche le difficoltà. «Tra noi arabi la
mentalità è ancora quella che si lascia la famiglia solo quando ci si
sposa. È stato complicato portare i nostri genitori a condividere questo
percorso; ma alla fine ci siamo riusciti».

 



«Vita Nuova» si allarga

 

Nel 1996 abuna Faraj
muore. Il gruppo è costretto a lasciare i locali del centro, reclamati
dalla diocesi. Si cerca un luogo per continuare le attività. Il gruppo,
seppur piccolo, è solido, ma le difficoltà economiche sono grandi. «Solo
due anni dopo, siamo arrivati qui». È importante avere un posto dove
vivere insieme e uno spazio fisso per la preghiera.

Oggi vi abitano Amer
e Nasrin con Nabil, diventato il riferimento della comunità. Poi ci sono
alcune famiglie con bambini, ragazze e ragazzi di diversa età e
professione, che partecipano alle attività e si considerano parte della
comunità. Un centinaio di persone in tutto a Nazareth, in tre villaggi dei
dintorni e a Lazariyye, presso Gerusalemme est. Il nucleo che anima Vita
Nuova è formato da sette persone; alcune vi dedicano tutto il loro tempo.

«Vogliamo darci
completamente all’unità della chiesa in Terra Santa»: compare Nabil, alto,
la barba nera e rada, gli occhi scuri e profondi, il sorriso accogliente.
«Crediamo che, se l’unità inizia qui, arriverà in tutto il mondo, perché
in questo paese sono rappresentate tutte le confessioni cristiane e tutte
le nazionalità». Come? Gli chiediamo, di fronte ad un progetto tanto
ambizioso.

«Cercando di vivere
ogni giorno la preghiera, la condivisione e l’ascolto della bibbia, ma
anche tramite corsi di francese e italiano». Il tutto nella diversità. «Se
riusciamo a pregare insieme, apprezzeremo anche la diversità e ricchezza
della nostra storia, come in un giardino che si abbellisce di tanti fiori.
Nessuno cerca di trasformare l’altro a sua immagine; impariamo ad
accettare tutti ed essere aperti allo Spirito Santo».

 


I
giovani se ne vanno

 

Numerose sono le
attività, indirizzate a bambini, adolescenti e famiglie. I giovani
cristiani sentono le tensioni maggiori del paese e molti tentano di
emigrare. A Nazareth nel 1964 la popolazione araba era cristiana al 75% e
al 25% musulmana. Oggi le proporzioni si sono invertite (mentre gli ebrei
vivono in quartieri ultramodei a Nazareth Ilit, ovvero la «alta», e sono
in maggioranza russi e rumeni). La tendenza degli arabi cristiani a
lasciare il paese è comune in tutta la Terra Santa.

«Ai bambini
raccontiamo la storia di Gesù – continua Nabil – e diamo loro la
possibilità di esprimersi attraverso il disegno e il canto. Per i più
grandicelli ci sono corsi di chitarra e possono partecipare ai momenti di
preghiera e adorazione. Agli adolescenti è dedicato un giorno speciale
della settimana, oltre al sabato, allorché ci riuniamo tutti».

Continua Nasrin:
«Cerchiamo di formare gli adulti nella conoscenza delle lingue, di
invitarli ai momenti di preghiera e, soprattutto, di insegnare loro a
guidare i giovani mediante l’uso di testi biblici».

Una volta al mese,
il primo venerdì, la comunità si riunisce per la veglia di preghiera fino
all’alba. «Abbiamo scoperto che un gruppo in Belgio, chiamato Nazareth, fa
altrettanto. Abbiamo iniziato a scambiarci le esperienze e ci sentiamo
uniti». Vita Nuova è collegata pure ai gruppi di Chemin neuf (cammino
nuovo) in Francia ed Italia (Milano). Realizzano scambi e periodi di
formazione teologica.

I membri della
comunità possono trascorrere alcuni mesi in Europa, presso questi centri,
per approfondire l’esperienza di vita comunitaria e condividere le proprie
esperienze in Terra Santa. «Quando sono stata in Francia e in Italia –
confida Nasrin -, nessuno conosceva la nostra situazione di cristiani.
Tutti mi chiedevano se ero ebrea o musulmana».

Ma le difficoltà non
mancano. Il gruppo è riconosciuto da tre vescovi: il patriarca latino di
Gerusalemme, quello greco-ortodosso e greco-latino. «Accettano la comunità
che vive l’unità, ma non ci aiutano finanziariamente, perché non
apparteniamo ad una sola confessione – commenta Amer -. Il governo
israeliano ci riconosce come raggruppamento cristiano, ma la legge
proibisce di parlare di Gesù e della nostra fede ad altri che non siano
cristiani».

 



Nell’occhio del ciclone

 

A sentirli parlare e
guardandoli negli occhi dolci ma fermi, si riacquista un po’ di fiducia
verso il contesto locale. Ma ci si chiede (un po’ scettici) se questi
giovani, con meno di 30 anni, non stiano combattendo contro i mulini a
vento. I recenti attentati terroristici negli Stati Uniti e la reazione
scaturita (che sta uccidendo centinaia di civili) hanno portato ad un
nuovo contesto storico.

La situazione in
Medio Oriente (che sembrava migliorare) oggi sta sprofondando. Le
spaccature intee ai palestinesi, ma anche fra gli israeliani, si fanno
sentire sempre di più, allontanando la soluzione proposta dalle Nazioni
Unite, già nel ’47, di due stati indipendenti in pace tra loro.

E i giovani di Vita
Nuova, nel cuore di una delle regioni geopolitiche più critiche del mondo,
cercano di mandare un messaggio. «Ciò che la comunità vede (e vuole
vedere) in ognuno, buono e non buono, è l’“anima” che deve essere salvata
– dice Nabil, esprimendosi sulla crisi mondiale -. La comunità si impegna
a vivere la spiritualità di Gesù. Noi amiamo l’uomo e pensiamo che debba
essere salvato».

Dopo l’assassinio ad
opera del Fronte popolare per la liberazione della Palestina del ministro
Rehavam Zeevi (uno dei più estremisti del governo di Sharon), la
rappresaglia israeliana è durissima. Carri armati entrano nelle principali
città dei Territori palestinesi e gli scontri con le forze locali si
moltiplicano. Secondo il premier israeliano, per risolvere il problema,
bisogna deportare tutti i palestinesi nei paesi loro amici.

In tale contesto il
patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbath, arabo della Terra Santa,
scrive: «Il nostro destino è stato quello di nascere sotto l’occupazione e
di essere costantemente esposti alla morte. Ma ognuno ha il diritto-dovere
di fare tutto il possibile per ottenere la libertà. La comunità
internazionale deve finalmente capire che il palestinese è una persona
come tutti; e, come tutti, ha diritto di riconquistare la sua libertà e
dignità nella propria terra».

Il patriarca
condanna la guerra. «Uccidere è male. Ogni violenza è male. Ogni guerra
sfigura il volto di Dio… In Terra Santa l’elemento che apre le porte
della morte è l’occupazione militare. Diciamo dunque: basta alla
sofferenza del popolo palestinese! È ora di porre fine alla sua tragedia».

Mons. Sabbath
rivolge un accorato appello agli israeliani: «Voi pure meritate sicurezza
e pace. Noi ve le auguriamo. In ognuno di voi vediamo la dignità che viene
da Dio ed è un dono ad ogni persona, sia palestinese sia israeliana. La
chiave della morte o della pace è nelle vostre mani e in quelle del
governo che avete eletto… È lui che vi potrebbe dare la pace o
privarvene. Quelli che oggi si combattono e cadono nell’abisso della morte
hanno diritto di vivere e godersi la sicurezza. Dipende dal vostro governo
il porre fine all’occupazione, che pesa sui palestinesi da decine di anni,
privandoli della dignità e libertà. Le Nazioni Unite hanno formulato delle
risoluzioni che sono la base della pace. Basterebbe applicarle».

Lunedì sera. In
silenzio ci ritroviamo nella stanza, in fondo al corridoio della piccola
casa di Vita Nuova, nella Nazareth vecchia. Buia, solo poche candele
illuminano le icone di Cristo e della Vergine. Il pavimento è ricoperto di
tappeti. I nostri amici entrano, uno ad uno, e siedono in un angolo.
Arrivano pure dei giovanissimi. Ci sono piccoli vangeli in arabo e fogli
con canti nella stessa lingua.

Inizia la
preghiera… Ci tornano in mente le parole di Nabil: «Quando diventa
«buio», tutto sembra perduto. Ma Gesù è luce del mondo».

 

 

 



Popolazione e chiese in Terra Santa

 


Stato di Israele: 5

milioni di cittadini, di cui circa 1 milione di origine russa; gli arabi
si aggirano su 1 milione.


Territori di
Cisgiordania e Gaza:

2.800.000 arabo-palestinesi, di cui 1.400.000 rifugiati registrati (non
sono cittadini israeliani); sono presenti anche 200.000 coloni ebrei
(cittadini israeliani).

Si contano inoltre
2.900.000 rifugiati palestinesi (registrati) tra Giordania, Libano, Siria,
Egitto e paesi del Golfo Persico.

 I
cristiani

in Terra Santa sono il 2% della popolazione araba, con percentuali
maggiori a Betlemme (15%) e Nazareth (25%). Sono divisi in diverse
confessioni:

Cattolici (melchiti,
maroniti, caldei, siriani e armeni cattolici); da segnalare una comunità
cattolica di lingua ebraica, molto schiva e riservata.


Greco-ortodossi:
costituiscono l’unica chiesa autonoma in Terra Santa
(non dipende cioè da sedi estere); è anche la comunità numericamente più
importante (circa il 50% dei cristiani); il patriarca in genere è di
origine greca. Gli altri ortodossi si distinguono in armeni, siriani,
copti, etiopi.

Protestanti:
luterani e anglicani con presenze modeste.

La Custodia
Francescana di Terra Santa, affidata ai Frati Minori, ha una sua
autonomia.

Marco Bello




Alla fiera dell’est

Scesi da
cammello, i tre si inchinano e formulano subito il quesito, concordato
dopo accese dispute durante l’estenuante marcia sul deserto.

«Gesù, sei
tu veramente “il” liberatore, salvatore e redentore di tutti i popoli?».

«Perché me
lo domandate?».

«Perché io
sono “l’illuminato” – risponde Budda -; ma la mia luce spesso si spegne…

Io sono
“il profeta” – aggiunge Muhammad -; ma la mia profezia spesso scatena
odio…

Io sono
“il poeta” – conclude Muyaka -;

ma la mia
poesia spesso si perde fra le nuvole».


L’illuminato, il profeta e il poeta sono “re magi”. Dopo di loro,
sopraggiungono altri personaggi, anch’essi con un interrogativo.

«Gesù, tu
da che parte stai?».

«Perché me
lo domandate?».

«Perché
noi siamo i padroni del mondo. Come l’imperatore Augusto, abbiamo ordinato
il censimento dei nostri sudditi. Oggi tutti devono sapere che chi non è
con noi è contro di noi. Nessuna pietà per gli infedeli, i terroristi e i
loro fiancheggiatori: ricorreremo alla pena di morte e alla guerra per
stabilire l’ordine mondiale».

Ecco
alcuni personaggi del presepio 2001, proposto da Sara e Daniele, animatori
nella parrocchia di don Pietro. È stato lo stesso “don” a richiedere ai
giovani qualche idea al riguardo. Ora però il sacerdote è preoccupato.

«Ragazzi,
dove finiremo con questi personaggi?».

«Don, nel
presepio ci sono pure i “genitori” di Gesù, cioè Fatima e Francesco. Lei,
musulmana del Marocco, ha sfidato la scomunica dell’imam per sposare il
cattolico Francesco; e questi, quando passa per strada, si sente insultare
dai bambini: Sei un…».

Il parroco
interrompe gli animatori con la domanda che gli sta maggiormente a cuore.

«E Gesù
chi sarà?».

«Gesù non
si tocca. È il figlio di Dio, e basta: “con” e per “noi”. Solo Lui è la
risposta a illuminati, profeti, poeti e grandi del mondo».

Fra i
pastori del presepio c’è anche Rosalia, la giovane figlia di un noto
mafioso assassino, ucciso a sua volta da un boss rivale. Rosalia suona la
chitarra e canta:

«Ragazzi,
per piacere, non trasformiamo il presepio in farsa!».

«Don
Pietro, scusa! La filastrocca descrive la spirale di violenza, che da
sempre attanaglia l’umanità. E Rosalia, figlia di un assassino
assassinato, intende spezzare la catena infeale. Canta e rende omaggio
al figlio di Dio, che è la pace: Egli ha trasformato in un unico popolo
ebrei e pagani, demolendo il muro di ostilità che li separava».

«Ma la
gente capirà questo messaggio?».

«Se non lo
capirà, glielo spiegherai tu durante la messa di natale».

«Senza
tante prediche, basta ricordare l’articolo 11 della Costituzione: l’Italia
ripudia la guerra».

«Bravo,
don! E per noi cristiani c’è soprattutto una ragione divina. Poiché la
guerra uccide, è peccato. Sempre e dovunque».

Sara Daniele