MOSCA NON BADA ALLE LACRIME

 
     In altre parole, «gli affari sono affari». C’è chi
corre con affanno, perché «il tempo è denaro». Si tratta del 5% degli
abitanti di Mosca, dove si concentra una buona fetta della ricchezza del
paese. Tantissimi altri, invece, stanno tristemente a guardare: anziani e
giovani, profughi dalla Cecenia e dall’Afghanistan, sottopagati, portatori
di «handicap», alcornolizzati, drogati, malati di Aids. Ma c’è pure qualcuno
che bada a loro.

 


Al cospetto
di lenin

 «Non discutete mai con gli
sbirri, perché non vogliono sentire ragioni. Se vi chiedono di pagare,
pagate. Eviterete guai peggiori…». Fu assai esplicito Ivan, titolare
dell’agenzia di viaggi che aveva organizzato la nostra visita a Mosca e
all’«anello d’oro». Eravamo in pullman con gli «Amici Missioni Consolata»,
diretti a Sergiev Posad, a 70 chilometri dalla capitale russa.

La raccomandazione di Ivan ci
ricordò l’esperienza vissuta il giorno prima sulla Piazza Rossa. Una
signora del gruppo «Amici» voleva ammirare personalmente la piazza, con il
Cremlino da una parte, il Museo storico di stato dall’altra e, sul fondo,
la cattedrale di san Basilio. Chiusa al traffico, illuminata dal sole o
rischiarata dalla luna, la piazza è straordinariamente «rossa», cioè
«bella».

La signora costeggiò le mura
del Cremlino e, giunta al mausoleo di Lenin, puntò la macchina fotografica
sul busto del padre della rivoluzione comunista, imitata da altri turisti.
Sennonché si accostò di due metri e, senza saperlo, mise il piede in fallo
superando «la linea rossa».

Subito piombarono due
poliziotti, quasi imberbi: gli occhi minacciosi, i gesti imperiosi, le
parole impietose quanto incomprensibili. La malcapitata supplicava venia
in italiano. E, come spesso succede allorché si parlano lingue diverse
senza capirsi, i toni della voce salivano e l’incomprensione pure.

Di fronte al piccolo casus
belli, intervenimmo in inglese.

– Che cosa è successo?

– Delitto. Donna ha pestato
terra sacra di patria Russia. Gulag!

L’ultima parola, sia pure nel
fraseggio stentato, ci suonò sinistra… alla luce dell’Arcipelago Gulag
di Aleksandr Solzenicyn.

Assumemmo un’aria umile e
contrita. «Signori, vi porgiamo tutte le nostre scuse. Questa mamma ha
superato la linea rossa, ma senza accorgersi. Lungi da lei ogni intenzione
di calpestare il suolo sacro della madre Russia! Si è un po’ avvicinata,
solo per riprendere meglio il famoso Lenin e mostrarlo ai suoi figli. Vi
chiediamo perdono…». Parlavamo adagio, studiando le parole. Ma i
gendarmi capirono solo «perdono» e replicarono: «Perdono niet.
Impossibile. Là telecamere hanno ripreso questa donna. Delitto resta per
sempre. Niet perdono. Gulag!».

Allora mutammo strategia,
atteggiandoci quasi a giudice. «Sappiate che la signora appartiene ad una
associazione culturale di fama internazionale. È in Russia per ragioni di
studio con altri 46 colleghi. Il presidente dell’associazione si recherà
all’ambasciata italiana per trattare il caso. Qui vi sono testimoni di
vari paesi, che confermeranno l’accaduto».

– Ambasciata? Meglio pagare!

– Pagare? Che significa?

– Tu vieni con noi.

I due ci trassero in disparte e
su un pezzo di carta scrissero «10 dollari», da sborsare subito senza
ricevuta. E ci fecero capire che era un grande favore…

«Vi è andata ancora bene!»
commentò Ivan quando raccontammo il fatto. E la moglie Galja che
l’accompagnava annuì sorridendo.

 


Fra boschi
di betulle

 

Eravamo, dunque, in viaggio
verso Sergiev Posad (ex Zagorsk). È una delle «gemme» dell’«anello d’oro»:
così si chiama l’itinerario religioso-culturale lungo alcuni celebri
centri della Russia cristiana, riaperti al culto dopo il crollo del regime
sovietico. Si tratta di chiese e monasteri all’interno di «cremlini»
(villaggi-cittadella) a Jaroslavl, Vladimir, Suzdal, Kostroma, Rostov,
ecc., che raggiunsero il massimo splendore nel 12° secolo.

Durante il trasferimento in
pullman, Ivan ci intrattenne sullo stato della Russia odiea con giudizi
severissimi. Gli enormi «bubboni» si chiamano mafia, corruzione politica,
degrado ambientale, alti costi di vita, bassi salari. Ad esempio: un
chirurgo in ospedale percepisce 80 dollari al mese; il che lo costringe ad
operare in almeno altri due centri, per raggranellare 300 dollari mensili.
Ivan sulla sanità dichiarò: «Se la salute non ti interessa, curati presso
una struttura pubblica».

Ma quanti possono accedere ad
ospedali privati? A Mosca il 5%, su 9 milioni di abitanti. La capitale è
«la vetrina della nazione», dove il denaro circola più abbondante. Nei
centri rurali dello sterminato interno  la situazione è deprimente.
Rassegnato e desolato appare lo sguardo degli anziani, seduti davanti alla
loro dacia o isba per catturare un raggio di sole dopo l’interminabile
inverno.

L’accompagnatore parlò a lungo,
mentre l’autobus attraversava campi di grano e patate tra fitti boschi di
fragili e slanciate betulle, dalla corteccia grigio-cenere chiazzata di
scuro, che la pioggia lustrava e il vento ravviava. Il ticchettio della
pioggia, il rumore monotono del motore, la voce uniforme di Ivan (seguita
dalla traduzione pacata di Delfina Boero), il clima interno ovattato, la
posizione in poltrona conciliavano pure il sonno. L’interlocutore
l’avvertì: spense il microfono, reclinò il capo sulla spalla della moglie
Galja e, poco dopo, russava.

La donna ci guardò scuotendo la
testa e disse in inglese: «Troppo lavoro!».

Ivan e Galja sono sulla
trentina, sposati da poco. Lei lavora come segretaria in una scuola,
mentre lui dirige un’agenzia di turismo. Attivo, energico e metodico, Ivan
è figlio di un ex dirigente del Partito comunista sovietico. «Il padre è
ateo tutto d’un pezzo e lo si vede anche dallo sguardo sempre truce»
commentò Galja.

– E suo marito com’è?

– Meno duro del padre. Ma il
lavoro è assorbente, perché nel post-comunismo la concorrenza è spietata:
non perdona il minimo errore.

– È migliore la società russa
di oggi o quella di ieri?

– Quella di oggi, perché esiste
più libertà.

– Lei, è soddisfatta del suo
lavoro?

– Non molto, perché guadagno
poco. Guadagnerei di più… se accettassi qualche intrigo.

– Che cosa le impedisce di
farlo?

– La corruzione è immorale.

– Molti però non ci badano.

– Lo so. Sono senza religione.

– Lei è credente?

Galja adocchiò ancora il marito
che dormiva. Poi disse: «Sono cristiano-ortodossa. Mia madre mi ha
battezzata all’età di 16 anni, all’insaputa del padre, perché vigeva il
comunismo ateo. Non ebbe però il coraggio di battezzare mio fratello.

– Frequenta la chiesa?

– Non molto. Talora avverto
disagio in chiesa. La fede degli anziani è autentica; ma quella dei
giovani sembra soprattutto una moda…

Nel frattempo eravamo giunti a
Sergiev Posad. Il pullman si fermò dietro un altro, parcheggiato a lato
del monastero della Trinità di san Sergio. Scendendo, domandammo ancora a
Galja: «Che cosa è rimasto in Russia del marxismo?». «Vorrei che restasse
solo il nome» rispose… puntando l’indice verso l’autobus antistante.

Sull’alto del parabrezza era
scritto «Karl Marx».

 


Nel cortile
del monastero

 

Il monastero della Trinità di
san Sergio, iniziato nel 14° secolo, conobbe un grande splendore
artistico-religioso, nonché potere economico. Alcuni principi di Mosca non
lesinarono doni (forse per farsi perdonare i peccati): fra questi, lo zar
Boris Godunov (vedi inserto). Nazionalizzato e trasformato in museo nel
1918, il monastero fu restituito alla chiesa dopo la seconda guerra
mondiale. Oggi il complesso, circondato da un muro di cinta lungo un
chilometro, consta di sette chiese, due cattedrali, un seminario e vari
musei.

Al nostro arrivo, c’era un
frenetico viavai nel cortile del monastero: monaci e monache ortodossi,
pellegrini di modesta condizione sociale, turisti. Non mancavano ortolani,
intenti a impiantare qualche verdura o a zappare.

Ci attendeva la guida locale. E
fu una sorpresa, perché era una suora ortodossa. Fu lei ad introdurci
negli edifici sacri e commentare le sontuose iconostasi: come quella nella
cattedrale della Trinità, resa celebre dal genio di Andrej Rublev.

Interessante anche la storia
personale della monaca (che non volle dire il nome). Gli «amici»
l’ascoltarono attentissimi, in piedi e sotto una pioggerella impertinente.
«Sono nata al tempo di Kruscev – raccontò la suora -. Questi ha reso
famosa la Russia per lo sputnik lanciato nello spazio con una cagnetta,
seguito dal primo volo fra le stelle di Gagarin. Però Kruscev, in fatto di
persecuzione religiosa, non scherzava. Ciò nonostante, ho deciso di farmi
monaca, contro il parere dei genitori».

Ha vissuto i primi anni di vita
religiosa nella clandestinità. Poi, scoperta, è stata costretta a lavorare
in uno stabilimento industriale tessile. «Oggi sono nuovamente suora; ma
non ho un convento, né consorelle. Vivo da sola in un piccolo appartamento
di Sergiev Posad. Per pagare l’affitto e mantenermi, faccio la guida
turistica».

La monaca vestiva di nero da
capo a piedi, ma senza particolari segni religiosi. Lo sguardo era
volitivo, ma anche dolce. Padroneggiava bene la sua materia.

Assolto il suo compito, si
congedò in fretta dal gruppo degli «amici», per incontrae subito un
altro: una scolaresca russa. «Fino a non molto tempo fa, pensare che una
scuola entrasse liberamente in chiesa equivaleva ad immaginare che il lupo
e l’agnello potessero bere alla stessa fonte» commentò infine la monaca.

 


Quarantasei
in una stanza

 

Mosca. Nei dintorni della
capitale, verso le 18, avevamo appuntamento con suor Serena, delle
Missionarie della carità (suore di madre Teresa). Opera con tre consorelle
polacche, due indiane e una irlandese: attendono a portatori di handicap e
ospitano anche senzatetto. Visitano inoltre gli ammalati del vicino
ospedale (specialmente i colpiti da Aids), gli anziani poveri del
quartiere, i traumatizzati dalla guerra in Cecenia o Afghanistan. Da tali
paesi non mancano profughi, che vivono seminascosti (magari dieci in due
stanze), essendo rifiutati dai russi. Trovare lavoro? Un incubo, più che
un sogno.

Per le missionarie gli inizi
(alla vigilia della caduta dell’impero sovietico) furono duri.
Alloggiarono otto mesi in due stanze dell’ospedale, mantenendosi con il
proprio lavoro, ma senza alcuna possibilità di visitare la gente. Poi
trovarono sistemazione in un ricovero per anziani: ancora due stanze, ma
anche una cappellina, con la facoltà di uscire, parlare. Dopo due anni, lo
sfratto.

«Ora siamo in questo centro,
costruito con prefabbricati in legno. Abbiamo rifatto il tetto, perché il
materiale usato era di seconda mano… Dobbiamo districarci in tante
pastornie burocratiche per lavorare. In Russia la vita è complicata…».

A parlare era ovviamente suor
Serena, lombarda sui 40 anni, che indossava il noto saio bianco, bordato
di azzurro. Si intratteneva con i 46 «Amici Missioni Consolata», assiepati
in una stanza con numerose domande.


Sorella, com’è una vostra
giornata standard?

«Alle 5 del mattino siamo in
chiesa per la preghiera. Poi c’è il lavoro dalle 8 alle 12 e nel
pomeriggio. Ci sono persone che ci aiutano, perché non possiamo lasciare
soli i bambini down e neanche gli anziani: ci aiutano mentre noi preghiamo
o mangiamo. Alle 21.30 subentrano le suore: due per notte».


Chi sono le persone che vi
aiutano?

«In genere volontari.
Provengono da San Pietroburgo, che è più incline di Mosca alla
solidarietà. C’è un detto: “Mosca non bada alle lacrime”, ma agli affari.
Tuttavia i collaboratori faticano molto ad entrare nel nostro ordine
evangelico di idee».


Da dove provengono i bimbi
portatori di handicap?

«Alcuni da un orfanotrofio e
altri dalle famiglie. Sono bambini down, orfani, ciechi o con papà e mamma
separati. C’è una bimba con genitori giovanissimi, che si sono rifiutati
di tenerla; poi l’hanno accettata… se noi la guardiamo un po’. Sono già
due anni che la piccola è qui».


La gente che cosa pensa di voi?

«All’inizio c’è stata
incomprensione: la gente non capiva la nostra attenzione a bambini che
“non servono a nulla”. Oggi va meglio. Non si dimentichi l’influenza del
comunismo ateo, durata 70 anni».


Chi vi sostiene economicamente?

«La divina provvidenza».


Lo stato che cosa fa per i
portatori di handicap? Ci sono scuole?

«Ci sono. Però manca il calore
umano, il sorriso, la serenità».


I vostri bambini vanno a
scuola?

«Certo. La scuola è
parastatale; segue i programmi del governo, ma è organizzata dai genitori
degli handicappati. Ci troviamo tutti una volta al mese, quando
distribuiamo vestiti e generi alimentari. Al termine dell’incontro c’è
anche un momento di preghiera».


Voi, suore, avete la messa
tutti i giorni?

«Abbiamo dei sacerdoti,
cattolici e ortodossi, che celebrano l’eucaristia; ma vengono da lontano e
impiegano molto tempo; allora c’è un sacerdote a tuo, diverso ogni
giorno; non sempre però».


Entrando nelle case popolari,
che cosa colpisce maggiormente?

«La miseria materiale,
soprattutto degli anziani. Le famiglie hanno tanti bambini e vivono con
mezzi sufficienti appena per un po’ di pane. C’è pure tanta povertà
morale, perché manca il senso di famiglia. C’è l’atavico alcornolismo e,
oggi, anche la droga».


Esiste un ceto medio un po’
benestante?

«È quasi scomparso. Oggi o si è
ricchi o poveri».


E quanto a soddisfazioni?

«Le abbiamo, specialmente
stando con i poveri, che sono aperti a ricevere non solo materialmente, ma
anche spiritualmente. C’è il desiderio di iniziare una vita diversa con
nuovi valori, valori che si sono persi negli ultimi decenni».


Valori nuovi anche fra i
giovani?

«C’è un anelito all’esperienza
religiosa del passato. I giovani ci chiedono di insegnare loro a pregare».


Sono cattolici o ortodossi?

«Soprattutto ortodossi; i
cattolici sono pochissimi. Ma per noi non fa differenza, anche perché
abbiamo in comune i sacramenti, la devozione alla Madonna e molto altro.
Siamo ecumenici. Chi è battezzato in una chiesa ortodossa partecipa
all’eucaristia in una cattolica. Non vi sembra bello?».

 


Suor Serena, lei ha risposto
alle nostre domande. Ma forse anche lei ha qualcosa da chiedere…

«Se volete, possiamo
recarci tutti in cappella e pregare il Padre Nostro» fu la risposta.

Numerosi «amici» lasciarono
alle missionarie della carità lenzuola, vestiti e denaro per i portatori
di handicap, che li guardarono con una smorfia. Ma era «grazie».

 

 

 


Zar Boris
 Munifico e assassino

 

Tanto si prodigò lo zar Boris
Godunov in donazioni al monastero di san Sergio che, finalmente, ottenne
di esservi sepolto. Lo zar doveva nutrire dei dubbi sul proprio accesso in
paradiso e, a quei tempi, non c’era migliore assicurazione sull’anima che
farsi inumare nel luogo più sacro di Russia.

È difficile ricostruire con
attendibilità le vicende che lo portarono al trono, fitte di sospetti,
trame e morti misteriose: non a caso con il suo regno si aprì il periodo
dei «torbidi».

Il primo approccio con il
potere avvenne  durante il regno del figlio di Ivan il Terribile, il
minorato Fedor, al quale aveva dato in sposa la sorella, così da divenie
il tutore. Lo stesso Ivan aveva agevolato (suo malgrado) Boris, uccidendo
il proprio figlio maggiore, l’omonimo Ivan, accusato dal padre di essere
poco sveglio. Rimaneva il piccolo Dimitrij, destinato con la maggiore età
a prendere il posto del fratello: la minaccia era tale da trasformare
Godunov da intrigante in assassino, cosa che prontamente fece.

Boris poté così innalzare la
sua stirpe sul trono di Russia, ma non per molto, giacché morì pochi anni
dopo in circostanze confuse, seguito a breve dai suoi eredi.

Era proprio il tempo dei
«torbidi».

Francesco Beardi

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