Bush
e Bin Laden, globalizzazione, Genova e G8, Tobin Tax, Attac. La nota
studiosa franco-statunitense risponde con il piglio consueto, senza
infingimenti. Quest’intervista (rilasciata nell’ambito della «Scuola per
l’alternativa») è stata effettuata dopo l’11 settembre 2001, ma prima dei
bombardamenti anglo-statunitensi sull’Afghanistan.
Signora George, lei
vive da anni in Francia, ma è statunitense per nascita. Che pensa degli
attentati dell’11 settembre?
Non vorrei parlare
delle vittime, perché siamo tutti in lutto. Il nostro cuore è con loro.
Ha
fiducia nel presidente George W. Bush?
Mah… Siamo in un
grosso pericolo. Ho paura che Bush vorrà fare il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del Far West.
Prima che accadesse
tutto questo, la maggior parte del popolo statunitense non avrebbe potuto
trovare l’Afghanistan e il Pakistan sulla mappa del mondo.
Fino
all’11 settembre George W. Bush sembrava essere, agli occhi di tutti, uno
dei peggiori presidenti della storia statunitense. Dopo gli attentati, è
diventato una sorta di eroe…
È accaduta la stessa
cosa per il padre. Quando scoppiò la guerra del Golfo, il 90 per cento
degli americani era con George Bush senior. Oggi ciò avviene con il
figlio. Una delle migliori virtù del popolo americano è quella di «fare
corpo».
Ma questo eroe è lo
stesso Bush che ha stracciato i trattati inteazionali sull’ambiente, sul
tribunale internazionale, sulle armi leggere…
La popolazione
statunitense non è informata sulla politica estera. I media sono in mano
di pochi gruppi, che non hanno interesse ad informare il pubblico
americano sulle cose del mondo. Quanto ai canali televisivi, quelli più
seguiti sono quelli che si occupano di questioni locali (la città, la
contea, lo stato).
Un esempio per
tutti: gran parte degli statunitensi crede che siano i palestinesi ad
occupare Israele e non il contrario.
Chi
è Osama Bin Laden?
Probabilmente un
pazzo, uno psicotico, che vuole causare una guerra di civiltà. Vuole che
gli americani bombardino l’Afghanistan per provocare la reazione di tutto
il mondo islamico. I musulmani sono più di un miliardo di persone, in gran
parte miserabili, senza prospettive né speranze.
Bin Laden è stato
molto intelligente a sfruttare tutti i meccanismi oscuri che il
capitalismo ha costruito, a cominciare dai paradisi fiscali dove vengono
occultati i profitti. Ci sono prove certe che, prima degli attentati
dell’11 settembre, nelle borse mondiali ci sono state enormi operazioni
speculative.
Nel
presente momento storico chiunque osi criticare la politica degli Stati
Uniti viene insultato o censurato…
È un errore
confondere un popolo con il suo governo. Non concordare con le scelte di
Bush, non significa non essere solidali con il popolo americano.
La realtà ci dice
che gli Stati Uniti, da 34 anni, sostengono la politica di Israele. Non
voglio aggiungere parole sulle sofferenze del popolo palestinese; ma, se
c’è un luogo di ingiustizia nel mondo, credo che la Palestina ne sia la
quintessenza.
Ma il Medio Oriente
non è il solo punto oscuro della politica americana. C’è l’11 settembre
(guarda l’amara ironia del destino!) del 1973, quando gli americani (con
Kissinger in testa) (1) organizzarono e finanziarono il colpo di stato
contro il Cile di Salvador Allende. Ci sono altri popoli dell’America
Latina che hanno sofferto a causa degli Stati Uniti. Pensiamo al Nicaragua
dei sandinisti. C’è il Vietnam con milioni di vittime. C’è l’Iraq con le
bombe e un embargo che, secondo l’Unicef, ha ucciso circa mezzo milione di
bambini. Ci sono i bombardamenti americani sul Sudan e quelli alleati
sulla Serbia.
Non voglio essere
fraintesa: io non cerco alcun tipo di giustificazione per gli attentati
terroristici. Ma vorrei soltanto mettere in chiaro che nel mondo c’è un
insopportabile «squilibrio della sofferenza».
Cosa
intende per «squilibrio della sofferenza»?
Basta citare il dato
che ormai tutti conoscono: il 20% della popolazione mondiale detiene e
consuma l’80% delle ricchezze totali. Per quella metà del mondo che vive
con meno di 2 dollari al giorno le scelte sono obbligate: o una vita di
criminalità, droga, prostituzione, traffici vari o l’emigrazione.
Questo sistema,
organizzato da pochi per ricompensare il capitale e non il lavoro, non è
inevitabile. Perché la concezione neoliberista non è una legge fisica né
una legge divina. Oggi le diseguaglianze e le sofferenze sono andate
troppo avanti.
Da
una parte il terrorismo, dall’altra un sistema economico insostenibile.
Che fare allora?
Per quanto mi
riguarda, ho elaborato un programma in tre punti, pur nella consapevolezza
che non avrà possibilità di essere attuato.
La prima cosa da
fare è risolvere il conflitto israelo-palestinese. Un tempo, quando si
eleggeva un papa, i cardinali si chiudevano in conclave e non uscivano
finché non avevano eletto una persona. Facciamo la stessa cosa con Arafat,
Sharon e gli Stati Uniti: che non escano senza aver sottoscritto la pace.
Dobbiamo eliminare una volta per tutte quel focolaio di malattia che è il
Medio Oriente.
La seconda cosa è
ridurre sensibilmente la dipendenza dal petrolio. In questo modo si
raggiungerebbero più obiettivi. Da una parte si darebbe una mano
importante alla preservazione dell’ambiente, dall’altra si ridurrebbe
l’enorme potere delle transnazionali petrolifere. Queste sono legate a
paesi (pensiamo all’Arabia Saudita o all’Iraq) e a gruppi societari (come
quelli conniventi con la famiglia Bush) di dubbia fama.
La terza ed ultima
cosa: cominciare a ridurre lo scarto osceno esistente tra Nord e Sud del
mondo dando un po’ di speranza alla gente. Sto pensando a una sorta di
«piano Marshall» (2) per tutto il mondo. La responsabilità politica
sarebbe dei singoli governi, ma questi dovrebbero accettare di far
partecipare alle decisioni i loro cittadini, sulla base di un modello come
quello adottato nella città brasiliana di Porto Alegre. Quel «bilancio
partecipativo» attraverso il quale i cittadini decidono come spendere una
parte dei soldi pubblici.
D’accordo,
ma come finanziare questo programma Marshall?
Di certo non
possiamo contare su un aiuto pubblico come quello attuale. Gli Stati
Uniti, per esempio, danno allo sviluppo lo 0,09% del loro prodotto interno
lordo. Soltanto i paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia) si
avvicinano all’obiettivo dello 0,7%, fissato dalle Nazioni Unite (3).
Si dovrebbe
cominciare con la cancellazione del debito dei paesi poveri, che genera
sofferenze indicibili. E poi seguire le raccomandazioni di Attac (4)
tassando i capitali inteazionali attraverso il sistema Tobin o qualcosa
di similare.
«Tobin
Tax»… Da tempo sulla stampa italiana si parla di questa particolare
tassazione. Soprattutto per dire che è impossibile da attuare. L’ultima
uscita in tal senso è quella di Giulio Tremonti, il ministro delle finanze
del governo Berlusconi. Che ci dice al riguardo?
Che l’Italia è in
ritardo su questa tematica. In Francia la discussione teorica è molto più
avanzata. Gli specialisti dicono che la tassazione sulle transazioni
finanziarie si può fare. Il problema vero è la volontà politica. Comunque,
il primo ministro Jospin, un tempo contrario, oggi sostiene la Tobin Tax e
vorrebbe vederla presto applicata nei paesi dell’Unione europea.
Ma
pare che lo stesso professor Tobin abbia rigettato la sua idea…
No, non è proprio
così. Egli non ha ripudiato la sua idea. Ha soltanto rifiutato di essere
assimilato al movimento anti-globalizzazione, di cui non condivide la
filosofia.
D’altra parte, la
sua idea ha ormai 25 anni (risale al 1978) e occorre adattarla alle
circostanze attuali. Volendo, possiamo anche cambiarle nome…
In
Italia, Silvio Berlusconi e i giornali della destra hanno messo in
relazione i «no-global», il «popolo di Seattle» con i terroristi. Lei che
ne pensa?
Prima vorrei fare
una precisazione. Io non amo le espressioni come «popolo di Seattle» o «no-global».
Già prima di Seattle c’era della gente che lavorava per dire e fare altre
cose. La prima protesta anti «G7» fu a Londra nel 1985.
Neppure il termine «no-global»
va bene. Non mi piace soprattutto perché non è vero: noi siamo contro
«questa» globalizzazione, cioè la globalizzazione neoliberista, ma a
favore della globalizzazione della solidarietà.
Detto questo, non
vale la pena di perdere tempo, per rispondere a simili menzogne. Il nostro
è un movimento pacifico.
Ma
è probabile che la Genova del G8 sarà ricordata soltanto per le
violenze…
A Genova io ho visto
qualcosa di straordinario: centinaia di organizzazioni che si sono trovate
per parlare dei problemi del mondo e una, il Genoa Social Forum, che ha
lavorato per un anno per preparare i dibattiti. Nessuno avrebbe pensato di
portare in piazza 300 mila persone!
Poi, infiltrati
nazisti e della polizia hanno dato un alibi alle forze dell’ordine per
usare la violenza. Non dobbiamo mai dimenticare che lo stato ha il
monopolio della violenza legittima e, quindi, non possiamo confrontarci su
questo terreno.
Comunque, già prima
di Genova il movimento aveva ottenuto delle vittorie: ha bloccato
l’accordo multilaterale sugli investimenti (5), ha impedito all’Unione
europea di mercanteggiare sulla salute, l’educazione, la cultura, ha
frenato l’invasione degli organismi geneticamente modificati (Ogm). Se
queste sono vittorie, è altrettanto vero che non si sono modificate le
cose più importanti: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale,
l’Organizzazione mondiale del commercio, le regole dei mercati finanziari.
Quindi,
siamo soltanto all’inizio della lotta per un mondo diverso?
Se in questo momento
accettiamo di addormentarci, si darà alle tante forze che vogliono
uccidere questo movimento popolare la possibilità di rafforzarsi
enormemente.
No, non è proprio il
momento di essere passivi! Ora più che mai è necessario lottare per un
mondo migliore.
Qual
è la filosofia di Attac?
Attac è nata in
Francia come movimento di educazione popolare all’insegna del motto «prima
capire, poi agire». Le domande da porsi sono queste: chi sono i
responsabili di un mondo siffatto? Come fermarli?
Le risposte ci sono.
Ora bisogna passare all’azione. Dobbiamo agire tutti insieme e non
ciascuno per proprio conto. Agricoltori, professori, ambientalisti,
sindacalisti: tutti siamo vittime dello stesso sistema.
Che
ruolo possono avere le Nazioni Unite in questo difficile momento storico?
Se le Nazioni Unite
avessero un ruolo, sarebbe fantastico!
Susan,
che pensa di Silvio Berlusconi?
Sono obbligata a
rispondere a questa domanda?
Note
al testo:
(1)
Sul ruolo dell’ex segretario di stato americano, si veda il duro atto
d’accusa contenuto nel libro di Christopher Hitchens «The Trial of Henry
Kissinger» (Versus, 2001).
(2) Il
«piano Marshall» fu un programma di aiuti (1948-1952) che gli Stati Uniti
concessero all’Europa per agevolare la ripresa economica post-bellica.
(3)
L’obiettivo dello 0,7% risale alla fine degli anni ’60. Nel vertice di Rio
del 1992, i paesi sviluppati si erano addirittura impegnati a triplicarlo.
(4) Nata
in Francia il 3 giugno 1998, l’«Associazione per la tassazione delle
transazioni finanziarie e l’aiuto ai cittadini» (Attac) si è diffusa in
tutta Europa, Italia compresa.
(5) Le
regole previste nell’«Accordo multilaterale sugli investimenti» (Mai)
avrebbero di fatto limitato la sovranità nazionale dei singoli stati, a
discapito dei cittadini e dell’ambiente.
Susan George box
Chi
è? Susan George
Susan George è nata
in Ohio (Stati Uniti), ma vive da tempo in Francia. Sposata, ha 3 figli e
4 nipoti. È direttrice associata del «Transnational Institute»
(www.tni.org) di Amsterdam e vice-presidente di Attac-Francia
(www.attac.org).
Esperta di sviluppo
e politica globale, consulente di varie organizzazioni (Greenpeace
Inteational, Unesco, Unicef), membro del Gruppo di Lisbona, Susan George
è autrice di numerosi libri tradotti in molte lingue: «Come muore l’altra
metà del mondo» (Feltrinelli, Milano 1978), «Storia della fame» (Clesav,
Milano 1984), «Il debito del Terzo Mondo» (Edizioni lavoro, Roma 1989),
«Il boomerang del debito» (Edizioni lavoro, Roma 1992), «Crediti senza
frontiere: la religione secolare della Banca mondiale» (Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994), «Il rapporto Lugano» (Asterios Editore, Trieste
2000), «Remettre l’Omc à sa place» (Mille et Une Nuits, Parigi 2001).
Susan George è stata
intervistata da Roberto Bosio sulle tematiche della globalizzazione nel
libro «Verso l’alternativa» (Emi, Bologna 2001).
Paolo Moiola