Una storia esemplare
Quando
il petrolio è sangue
Sono soltanto seimila, ma si sono ribellati alla prepotenza della «Oxy
Corporation», una multinazionale petrolifera degli Stati Uniti che
vuole sfruttare la loro terra.
I
dubbi (anche personali) di un osservatore internazionale davanti ad
opposti modelli di vita: quello antropocentrico e tecnoconsumistico
dell’Occidente e quello ecocentrico dei popoli indigeni.
«Esto es el
coracon del mundo». Ci disse con aria profetica il cacique major
Berito, con il suo sguardo da sciamano, i suoi bellissimi tratti
somatici da indio u’wa e gli occhi che ti penetrano l’anima.
Ancora oggi ci
chiediamo come abbia fatto a tornare a casa, in quel piccolo villaggio
sperduto nella selva colombiana, quest’uomo di circa 50 anni, mai uscito
da quelle montagne amiche, padrone di uno spagnolo poco più che
elementare ed incapace di leggere e scrivere.
«Così hanno voluto
i grandi spiriti», rispose ridacchiando e masticando una piccola
pallottola di foglia quando glielo chiedemmo, increduli, per la prima
volta.
Venuto per un giro
di sensibilizzazione sulla causa u’wa in Europa, al momento del ritorno,
all’aeroporto Internazionale Malpensa 2000 di Milano, salutati gli
accompagnatori, scomparve.
Panico tra gli
organizzatori, squadre di ricerca a Milano, Miami, Dusseldhorf, Caracas,
Bogotà. Nulla. Dopo una settimana arrivò, a piedi, nel suo villaggio di
Cubarà…
Forse allora hai
ragione tu, Berito, indigeno u’wa che insieme alla tua gente stai
combattendo una guerra che racchiude veramente il cuore di tutte le
contraddizioni, per usare una parola gentile, di questo mondo moderno.
Come tutti i cuori
anche il vostro coracon del mundo pompa sangue. Sangue vitale alla vita
degli u’wa e della selva, luogo dove vive questo popolo di 6.000
persone, nella stragrande maggioranza bambini.
Il sangue u’wa
prende il nome di ruiria e non ha prezzo. Se la Madre terra ne fosse
privata, morirebbe, come qualsiasi altro essere vivente che è
dissanguato.
L’uomo occidentale
invece l’ha battezzato in maniera diversa: petrolio. E un prezzo lo ha,
anzi tutti i giorni ha un valore differente, che è deciso in fredde
stanze piene di computers, che ricevono ordini di compravendita da tutto
il mondo.
Uomo contro uomo,
profitto contro ambiente, guerra contro pace, morte contro vita. Il
tutto riconducibile a due semplici parole: progresso e sviluppo. Parole
che ormai hanno perso il significato originario, surrogati di un
concetto decisamente più imbarazzante: denaro.
ARRIVA LA OXY
La storia è molto
semplice. Il sottosuolo del territorio u’wa, posto all’estremo nord
della Colombia, al confine con il Venezuela, è ricco d’idrocarburi.
Il governo di
Bogotà appoggia gli scavi e, nel febbraio del 1995, concede la licenza
d’esplorazione alla multinazionale statunitense Occidental Petroleum,
meglio conosciuta come Oxy Corporation.
Come tutti gli
altri esecutivi del Sud America, il gabinetto presieduto da Andreas
Pastrana sembra mal sopportare le proprie radici pre-colombiane. E in un
ambiente di democrazia sospesa, in cui il popolo colombiano è
periodicamente chiamato a scegliere tra uno schieramento politico
(neoliberista) e il suo esatto clone (aspetto tipico dell’influenza
statunitense nel sud America, ma ormai anche in Europa), gli uomini che
hanno il colore della terra sono considerati un fastidio.
Il danno che
porterebbe l’attuazione di questo progetto può essere analizzato in
maniera duplice. La prima rifacendosi alla cultura locale, la seconda
dando un valore occidentale e quindi puramente pratico.
Per i werjayas
(sciamani che vivono sulla montagna e influenzano la vita della
comunità) e per la stragrande maggioranza della popolazione,
l’estrazione petrolifera ha un significato dissacrante. Il sacro è
d’altronde l’asse portante della cultura u’wa, come di tutte le culture
indigene. L’estrazione del petrolio è l’atto con cui si dissangua la
Madre terra, generatrice di tutte le forme viventi da cui dipende la
sopravvivenza di tutti gli uomini.
Non potrebbe
esistere catastrofe più grande. La ricaduta socio-religiosa sarebbe
devastante. Il terrore per la vendetta di Sira, la Madre terra,
pervaderebbe la comunità.
Alla costruzione
del primo pozzo, pur se esterno al «resguardo», i digiuni di
purificazione si susseguono, nuove rigidissime regole sono dettate. La
scarsità di piogge è vissuta come una colpa, una punizione da scontare
per il gravissimo oltraggio.
La comunità u’wa
(la parte che non conosce tecnologia, compravendita ed altri aspetti
tipici della società occidentale) non può nemmeno immaginare quali
catastrofi pratiche si abbatterebbero sulla sua vita.
Il territorio
sarebbe alterato da un inquinamento generalizzato ed irreversibile. I
fiumi si trasformerebbero in discariche di liquami tossici, stroncando
così la presenza di pesce. La foresta sarebbe rasa al suolo per far
posto a pozzi d’estrazione, oleodotti, piste asfaltate, accampamenti per
operai, nuovi insediamenti per coloni. La prostituzione importata e
l’alcolismo dilagherebbero tra i nuovi abitanti arrivati da lontano. Gli
u’wa ribelli sarebbero brutalmente uccisi da squadracce di paramilitari
adibite appositamente a fare il «lavoro sporco» che l’esercito regolare
non può fare. Dove ora è pace e prosperità sarebbe solo distruzione e
morte.
Verso tutto questo
gli u’wa sono indifesi, come un bambino che si incammina inconsapevole
con l’orco.
La Laguna de Lipa
è un esempio di come potrebbe evolvere la situazione attuale. Gli
indigeni ghuababis che vi vivevano, dopo essere stati spostati nella
bidonville di Saravena, si sono trasformati in un branco di accattoni
alcolizzati, ombre lamentose che implorano monetine da 50 pesos.
La laguna ha perso
per sempre la propria originaria bellezza e versa in condizioni
ecologicamente disastrose, simile ad una palude di liquami tossici.
Il mercato globale
inteso come selezione darwiniana (il più forte vince, il più debole si
estingue) si abbatterà come una furia sulle vite degli u’wa…
Solo pochi
indigeni, debitamente incaricati dalle autorità spirituali negli anni
passati di formarsi con una cultura occidentale per avere un’arma in più
nella lotta contro la Oxy, comprendono quali drammi incombano sul
destino della comunità. Costoro, in genere giovani intorno ai 25-30
anni, non godono però della simpatia della popolazione, che mal vedono
la loro assenza prolungata dovuta ai lunghi viaggi, i loro nuovi
costumi, la loro contaminazione con l’uomo bianco.
SCONTRO TRA CULTURE
«Gibraltar One»:
così è stato denominato il primo pozzo di esplorazione petrolifera della
Oxy Corp. costruito pochi metri all’esterno del territorio sacro. Un
nome che ricorda le Colonne d’Ercole e il significato che ha avuto per
secoli quello stretto che divideva il conosciuto dall’ignoto.
Per arrivare
all’impianto bisogna sottostare ad estenuanti controlli da parte
dell’esercito, schierato a difesa dell’insediamento. Il sito è
disseminato di bidoni che portano il marchio Shell, altra benefattrice
dell’umanità.
Dopo una lunga
collaborazione con la Oxy nello sfruttamento petrolifero di questa
regione, quando incominciarono le proteste inteazionali in favore
degli u’wa, la Royal Dutch Shell si ritirò prontamente dall’affare,
memore del boicottaggio globale. Oggi la compagnia preferisce
acquistare pagine pubblicitarie sul Time, per spiegare come sia divenuta
una paladina dell’ambiente e dei diritti umani.
Sarebbe istruttivo
portare su questa montagna (un tempo ricoperta di selva, oggi
trasformata in pianura di cemento armato) i tanti «guru» della crescita
economica continua.
Eccolo di fronte
ai miei occhi questo famoso libero mercato, nella sua versione più
sfrenata, selvaggia, pura. Luogo nel quale non c’è posto per le culture
diverse da quella tecno-consumistica occidentale.
Esiste una sola
ragione per cui queste persone devono morire per fare posto ad un
impianto petrolifero? Di più: esiste una sola ragione per cui queste
persone debbano morire affinché noi occidentali si abbia il diritto di
non utilizzare mezzi pubblici perché un po’ scomodi?
Su questa collina
abitavano circa 150 persone. Un giorno arrivarono gli elicotteri
dell’esercito e le sfollarono. Resiste una famiglia sola che vive
arrampicata sulla montagna (con vista sul pozzo petrolifero), invasa dal
fetore nauseabondo che emette incessantemente il cantiere, circondata da
militari che vigilano giorno e notte. Che sguardo triste hanno questi
uomini e queste donne. Non parlano, ma resistono.
Giovani militari,
molti dei quali con caratteristici tratti somatici indigeni, controllano
tutto quello che facciamo. È vietato scattare fotografie, è vietato
parlare con gli operai, è vietato fare riprese video.
Sopra le nostre
teste volteggiano gli elicotteri che trasportano i tecnici della Oxy
dalla cittadina di Arauca al pozzo petrolifero. Vivono blindati.
Gli operai (coloni
con la faccia triste riconoscibili dalla mantellina gialla) viaggiano
ogni mattina su camion messi a disposizione dalla multinazionale, lungo
la pista che corre in mezzo alla selva, costruita nei decenni passati.
Durante il percorso immensi pascoli testimoniano la distruzione massiva
della foresta negli anni del «taglia e brucia» selvaggio.
L’autista che ci
guida (un giovane u’wa dal nome biblico, Samuel) spiega che questi
pascoli un tempo erano tutti territori ancestrali indigeni. Racconta le
storie narrate dai vecchi sciamani. Storie di un tempo, quando il
territorio u’wa era dieci volte più grande e la comunità più numerosa di
quanto sia attualmente. Ogni tanto spunta un bovino, un «long ho»,
come lo chiamano i locali.
Testimonianza che
una ricchezza (anche economica) come la foresta pluviale è tuttora
distrutta da capitali gringos, ansiosi di portare nei fast food
occidentali hamburgers a basso costo.
Petrolio e bovini,
lo sviluppo all’occidentale voluto, preteso e desiderato dalla classe
dirigente colombiana, come da tutti gli altri paesi dell’America Latina,
passa attraverso la distruzione delle ricchezze naturali e la cacciata
delle popolazioni locali.
GLI INDIGENI
È data in
Occidente, e non solo, l’idea che essi rappresentino un elemento
anacronistico. Un popolo ed una cultura, che rifiutano la proprietà
privata e lo scambio commerciale, esulano dal concetto occidentale di
civilizzazione.
«Per la mentalità
modea, il fatto di trincerarsi dietro un valore non commerciabile del
territorio rappresenta qualcosa di sfasato e contrario alla civiltà, che
merita qualsiasi forma di repressione volta a neutralizzare pretese così
assurde», ha sentenziato il giornalista Plino Apuleyo Mendoza durante
una trasmissione televisiva dedicata alla contrapposizione tra u’wa e
Oxy.
Un pensiero rozzo,
ma non lontano dalle dissertazioni economiche che quotidianamente si
sviluppano in prestigiose università occidentali.
Un’accozzaglia di
razzismo, idolatria del mercato ed ignoranza, solitamente riconducibili
ad un fantomatico interesse comune contro un piccolo interesse locale,
rappresentato da uno sparuto gruppetto di «selvaggi».
Accecati da
un’onnipotenza delirante, la civiltà tecno-consumistica ignora
bellamente che la distruzione continua dell’ambiente e dei tanti piccoli
popoli sparsi per il mondo ci sta portando verso una comodissima
catastrofe.
Una cultura come
quella u’wa, che mette l’homo tecnologichus di fronte alle proprie
responsabilità su quale tipo di mondo stiamo costruendo, è ingombrante.
E merita ogni forma di repressione. Non può spiegarsi altrimenti questo
spiegamento di forze, questo annientamento fisico silenzioso.
Ciò che quest’uomo
analfabeta, Berito, ci racconta attraverso tortuosi percorsi logici,
facendo ampi riferimenti ai miti, sono verità ecologiche
incontrovertibili. Anche scientificamente.
Il pensiero corre
ai chili e chili di carta scritta che l’IPCC (Intergovernamental Panel
Climate Change) ha pubblicato pochi mesi fa, contenenti un monito
all’umanità per il fenomeno del riscaldamento globale rapido, dovuto in
parte rilevante all’utilizzo di combustibili fossili.
Ma che importa! Là
sotto ci sono tre mesi di consumo petrolifero del mercato statunitense.
Là sotto ci sono milioni di dollari. Lontano di casa, immerso nelle
contraddizioni del mondo, con questi uomini miti e generosi che smontano
ogni pregiudizio occidentale sul selvaggio povero, sporco ed ignorante,
tutto appare chiaro, limpido. Ed allora le domande, soprattutto di notte
quando la conoscenza del buio vero ed assoluto scatena paure ancestrali
e non si riesce a dormire, piovono continue.
Due mondi
separati, uno popolato da una cultura indigena come gli u’wa e l’altro
da una civiltà tecno-consumistica: quale raggiunge il fine ultimo di
ogni essere vivente in natura, la prosecuzione della specie?
Indubbiamente il primo. O forse il fine ultimo dell’uomo è avere il
maggior numero di gingilli tecnologici? Qualcuno conosce un altro
pianeta dove andare a vivere? Il pozzo distante poche decine di metri da
me ne è un esempio chiaro.
Dove prima c’era
la vita donatrice di vita, ora c’è il cemento e l’acciaio. Le culture
indigene hanno sviluppato una cultura ecocentrica, noi antropocentrica.
Non è necessario
raggiungere il loro equilibrio ecologico perfetto, basterebbe che la
nostra visione del mondo che ha al centro l’uomo fosse contraddistinta
dall’amore, parola che tanto imbarazza, e dal rispetto per tutti gli
esseri umani.
Con i loro sguardi
sospettosi, questi piccoli grandi uomini sembrano cogliere il cuore del
problema che tuttora sfugge, forse volontariamente, a noi occidentali.
Un giorno, una
giovane indigena, madre di 5 stupendi bambini all’età di 25 anni,
laureata in sociologia a Bogotà, guardandoci con occhi profondissimi ci
domandò: «Perché l’uomo bianco non trova mai sazietà in quello che ha?».
Impossibile
rispondere a questa banale domanda. Forse perché, a differenza loro,
abbiamo deciso di sostituire i valori spirituali con quelli materiali.
Forse perché l’amore vero è difficile da raggiungere, ed allora è molto
più semplice comprarsi qualcosa che dia un po’ di soddisfazione
momentanea.
CHI DEVE AIUTARE
CHI?
L’impatto con gli
indigeni è disarmante. Da buon occidentale ero partito dall’Italia
pensando che la mia presenza sarebbe stata indispensabile nella vicenda
u’wa. Ci aspettavamo un’accoglienza calda e amichevole, da eroi, da
salvatori.
Arrivati al
Chuscal, luogo dove si teneva l’annuale assemblea u’wa, a bordo di una
camionetta scese il silenzio. Solo pochi bambini si misero a saltare
festosi intorno all’automezzo.
I delegati delle
autorità spirituali, dopo averci impedito di scendere dal mezzo (poiché
impuri), ci rispedirono senza tante storie al nostro alloggio, una
missione gestita da tre suore Teresine al di là del fiume Cubaron, in
mezzo alla selva.
Da subito capimmo
che la figura dell’occidentale, eroe indispensabile, non ha molta
ragione d’essere.
Passarono tre
giorni, in cui rimanemmo parcheggiati alla missione. Un luogo lontano
dal nostro mondo: senza luce, telefono, riscaldamento, acqua corrente,
circondato dalla selva e dai suoi rumori. Le tre suore vivono così, da
sempre. Anch’esse appoggiano gli u’wa. Dicono che in loro vi sia una
spiritualità profonda che li ha portati a conservare intatto il loro
credo religioso, nonostante le forti pressioni evangelizzatrici. E di
questo sono contente loro per prime.
Finalmente giunse
un ragazzo a comunicarci che potevamo raggiungere il Chuscal.
Ma quale
significato aveva la fredda accoglienza che abbiamo ricevuto all’arrivo?
Indubbiamente noi non eravamo che gli ultimi bianchi che si
presentavano, da 500 anni, a fare promesse. Inoltre le
strumentalizzazioni, in situazioni che attirano l’interesse
internazionale, si sprecano.
Le azioni di
alcune persone, che operano in stretto contatto con gli u’wa, sono
spesso dubbie e, molto probabilmente, interessate al ruolo di
intermediario unico tra gli indigeni e i capitali che arrivano
dall’Occidente. Per noi ci fu una breve cerimonia di accoglienza e tanti
buoni propositi sulle collaborazioni future. Nulla di più, nulla di
meno. D’altronde era meglio così.
Gli u’wa sono
timidi e silenziosi, non amano fare dissertazioni filosofiche. Inoltre
la realtà è di fronte agli occhi di tutti e non necessita di tanti
discorsi. Chiunque capirebbe il sopruso, la vergogna e il dolore che
vivono in questa terra. Allora è chiaro quale sia il compito di chi
viene quaggiù a vedere e a parlare.
Non soltanto per
aiutare, ma soprattutto per imparare. L’uomo occidentale deve
radicalmente cambiare i propri stili di vita. Si deve liberare del
consumismo dilagante, perché genera morte e distruzione. E non importa
se genera anche ricchezza. La ricchezza smodata non è un diritto.
Ed io di fronte a
quel pozzo mi sono sentito colpevole. Colpevole di far parte di una mega
macchina economico-sociale che trasforma ogni azione in danno o in
sopruso.
Mentre guardavo
quegli uomini pensavo alla carta che sarebbe stata utilizzata per
denunciare questa storiaccia, al gasolio necessario per il volo aereo,
all’energia indispensabile per battere sui tasti del computer e mille
altre cose.
«Al mio ritorno
avrò il coraggio di dire a tutti che gli u’wa non sono lontani da noi,
dato che li incontriamo quotidianamente quando andiamo rifornire la
nostra auto di carburante? Avrò il coraggio di ammettere che noi tutti
siamo corresponsabili di un genocidio nella misura in cui non ci
impegneremo nel limitare i nostri sfrenati consumi? Avrò il coraggio di
dire che, prima di intervenire sulle multinazionali, dobbiamo pensare
alle nostre azioni quotidiane? Avrò il coraggio di andare contro tutti i
luoghi comuni, creati in questi secoli per giustificare la
subordinazione dell’uomo alle macchine e ai sistemi economici?».
Tutto questo mi
domandavo mentre, salito velocemente in una camionetta, assieme ai miei
colleghi scappavo dal territorio per evitare una colonna di guerriglieri
venuti a prenderci. Ennesima contraddizione di un paese dove, forse,
realmente batte il cuore del mondo.
Le
organizzazioni delle Farc e dell’Eln
Ma
con chi sta la guerriglia?
Nel dipartimento di Arauca, i guerriglieri delle Farc e
dell’Eln tengono comportamenti ambigui sia con il narcotraffico che con le
compagnie petrolifere. Forse anche per questo, da sempre gli u’wa si
dichiarano distanti da ideologie e azioni delle due organizzazioni
guerrigliere.
di
Antonio Mazzeo
L’inizio delle
esplorazioni petrolifere in Arauca ha richiamato l’attenzione di tutti
gli attori del conflitto colombiano, comprese le organizzazioni della
guerriglia, che a partire dal 1980 hanno fatto la loro comparsa nell’area,
avviando una offensiva per il controllo delle principali vie di
comunicazione.
Nel dipartimento di
Arauca operano stabilmente i Fronti n. 10 e 45 delle Farc e il Fronte
«Domingo Laín» dell’Eln. Di difficile lettura è il rapporto tra queste due
organizzazioni guerrigliere. Le relazioni non sono mai state stabili e si
sono alternate fasi di mutua collaborazione a veri e propri periodi di
conflitto per l’egemonia politica e territoriale. Le divergenze iniziarono
a presentarsi nel 1991, quando fu avviato il dialogo tra la guerriglia e
il governo di César Gaviria.
Tra Farc e Eln ha
pesato, in particolare, la competizione per il consenso da parte dei forti
movimenti popolari esistenti nel dipartimento di Arauca, in lotta per la
promozione degli investimenti sociali delle rendite petrolifere nel
deficitario settore dei servizi e dell’assistenza educativa e sanitaria.
Almeno sino alla
prima metà degli anni ’90, l’Eln ha operato combinando gli elementi
fortemente militari con il lavoro di propaganda ideologica, mentre le Farc
si sono presentate più legate ai movimenti sociali e meno radicali nelle
azioni militari. Nella seconda metà del decennio, l’atteggiamento dell’Eln
è mutato per ciò che riguarda il rapporto con i soggetti organizzati del
mondo contadino e sindacale. Tra i militanti di queste associazioni l’Eln
è riuscita a strappare alle Farc l’egemonia esercitata nel passato.
La perdita di
leadership ideologica si è fatta palese in occasione del massacro compiuto
il 12 giugno 1999 ad Arauca da parte di una colonna delle Farc-Ep di 6
leaders sociali. I responsabili del crimine vengono denunciati proprio
dall’Anuc (la forte Associazione dei contadini), dalla centrale sindacale
della Cut e dal Comitato indigeno di Arauca, i quali si dichiarano
«sconcertati per la serie di violazioni e fatti di sangue realizzati dai
membri dei Fronti n. 10 e 45 delle Farc».
Per contro le Farc
hanno ottenuto legittimità e consenso tra le organizzazioni dei piccoli
produttori di coca, vittime delle campagne di fumigazione del governo e
della pressione dei narcotrafficanti che monopolizzano i processi di
trasformazione e l’esportazione della cocaina. La distinta posizione
rispetto alla coltivazione della coca è stata causa di ulteriore frizione
tra i due gruppi armati. Mentre l’Eln non permette che nella zona si
sviluppino la coltivazione e il traffico della coca, nelle zone sotto il
controllo delle Farc, si sono diffusi piccoli appezzamenti e alcuni
laboratori per la lavorazione della pasta base.
LA
STRAGE DELLE FARC
In
questo complesso scenario di lotta per il controllo del territorio era
inevitabile che le organizzazioni guerrigliere si dovessero confrontare,
entrando talvolta in conflitto, con il popolo u’wa in lotta contro la Oxy.
Il cabildo mayor ha più volte denunciato la crescente pressione esercitata
dai gruppi armati, l’utilizzo del resguardo per il loro occultamento, i
tentativi di reclutare giovani u’wa.
«Chiediamo di vivere
secondo le nostre regole – chiarisce Daris Cristancho, rappresentante del
cabildo u’wa -. Siamo un popolo totalmente pacifico e non vogliamo
violenza nel nostro territorio. Rispettiamo le culture e le filosofie
diverse dalle nostre, anche quelle che fanno uso della violenza per
combattere le proprie lotte; ma, allo stesso modo, chiediamo il rispetto
della nostra cultura di pace e che le armi e i conflitti siano lasciati
fuori dal Territorio Sacro. Così siamo distanti sia dalle Farc che dall’Eln,
perché distante e differente è la loro cultura e filosofia».
Tuttavia, alcune
gravi vicende verificatisi negli ultimi tre anni hanno spinto le autorità
tradizionali indigene ad assumere atteggiamenti distinti rispetto alle
Farc ed all’Eln. Mentre con la prima organizzazione si è determinata la
rottura di ogni relazione, con la seconda il dialogo è aperto: il transito
nel territorio u’wa delle colonne dell’Eln, ad esempio, non è apertamente
osteggiato. Non sono isolati i casi di simpatia da parte di adolescenti
indigeni, ma il forte controllo sociale esercitato dagli anziani proibisce
loro l’ingresso nelle file della guerriglia, pena l’esclusione dalla
comunità.
Ciò che ha
maggiormente influenzato i rapporti guerriglia u’wa risale al marzo 1999,
quando una colonna delle Farc sequestrava tre ricercatori indigenisti
statunitensi in visita nel territorio u’wa: Terence Freitas, Ingrid
Washinawatok e Lahe’ena’e Gay. Il primo di essi era stato il redattore
principale del pamphlet «Sangue della nostra madre: il popolo u’wa, la
Occidental Petroleum e l’industria petrolifera», che aveva consentito la
campagna internazionale a favore degli u’wa. I tre ricercatori indigenisti
avevano discusso con gli u’wa la possibilità di implementare alcuni
progetti educativi popolari. Una decina di giorni dopo il sequestro,
furono rinvenuti i loro corpi crivellati da armi da fuoco alla frontiera
con il Venezuela.
Ad oltre due anni di
distanza dall’eccidio, non è stato possibile comprenderne le motivazioni
reali. Secondo il National Catholic Reporter, l’atteggiamento delle Farc
potrebbe essere stato influenzato dalle tangenti pagate dalla Occidental:
«Una pratica comune in Colombia da parte delle compagnie che fanno affari
in aree sotto il controllo delle forze ribelli».
Le Farc avrebbero
deciso di sostituire, alla vigilia del «Plan Colombia», gli ingressi
ottenuti con le coltivazioni della coca con la richiesta del pagamento di
tangenti da parte delle industrie petrolifere. L’opposizione ai nuovi
progetti di esplorazione sarebbe stato considerato in modo negativo, in
quanto avrebbe potuto mettere in crisi il «nuovo» sistema di
autofinanziamento. A prova di questo presunto «interesse»
dell’organizzazione combattente, rappresentanti u’wa hanno affermato che
l’arrivo dei macchinari della multinazionale per le perforazioni a Cedeño,
nei primi mesi del 2000, sarebbe stato «pacificamente» presidiato da
elementi vicini alle Farc.
La tesi è tuttavia
di difficile dimostrazione; inoltre presenta almeno un’incongruenza.
Perché la Occidental dovrebbe negoziare con le Farc un suo intervento a
repressione di chi si oppone contro i nuovi progetti petroliferi, quando è
possibile continuare a sperimentare con successo la strategia di
finanziamento delle forze armate e di proliferazione dei gruppi
paramilitari? E quanto sono realmente antitetiche o distanti le posizioni
di Farc ed Eln rispetto al petrolio e le multinazioni che ne hanno
monopolizzato l’estrazione?
TANGENTI E SEQUESTRI
È un dato acquisito
che le Farc abbiano reso sistematica la riscossione di tangenti dalle
imprese petrolifere straniere operanti nel territorio colombiano, così
come risponde a verità che le stesse imprese abbiano accettato di
sottostare all’estorsione, mentre contemporaneamente finanziavano lo
sviluppo di organizzazioni armate di estrema destra per la lotta
all’insorgenza e l’eliminazione selettiva dei leaders politici e
sindacali. Tuttavia, anche la crescita dell’Eln è stata possibile grazie
all’accumulazione finanziaria, ottenuta attraverso l’estorsione e il
sequestro di funzionari ed impiegati delle compagnie petrolifere ivi
operanti.
Ciò non ha impedito
all’Eln di considerare i consorzi inteazionali come obiettivo strategico
delle proprie azioni militari. Per questo motivo, contro le imprese del
settore petrolifero sono stati eseguiti attentati mediante il sabotaggio
degli oleodotti e la distruzione di automezzi. La prima grande azione
dimostrativa risale al 14 luglio del 1986, quando, ad appena un mese
dall’inaugurazione dell’oleodotto Caño Limón-Coveñas, l’Eln ne dinamitó un
tratto. Nei 10 anni successivi l’Eln lo avrebbe dinamitato in 443
occasioni.
Nello stesso periodo
le Farc hanno, invece, preferito non partecipare alle distruzioni degli
oleodotti. Una importante mutazione strategica ha avuto avvio nel 1997: il
6 giugno effettuano il loro primo attentato contro la struttura
petrolifera. In questa occasione lo stato maggiore delle Farc dichiara
obiettivo militare l’oleodotto e «tutte le compagnie straniere che
sfruttano le nostre risorse naturali».
Una valutazione più
oggettiva dei recenti fatti di cronaca, sul conflitto in atto nella
regione di Arauca, permette di verificare che, pur nella forte dialettica
ideologica ed egemonica tra Farc ed Eln, non sono mancati i momenti di
collaborazione per la realizzazione di importanti azioni militari contro i
complessi petroliferi e contro le stesse infrastrutture della Oxy.
Il 16 dicembre 1999,
ad esempio, guerriglieri di Farc e Eln hanno dinamitato congiuntamente tre
pozzi del campo di Caño Limón. Due mesi più tardi (23 febbraio 2000),
guerriglieri Farc e Eln hanno realizzato il blocco della strada nella zona
di Samoré, per impedire il transito dei tir verso il nuovo impianto Oxy.
LE
TAPPE DELLA LOTTA
1988
I rappresentanti della Occidental Petroleum incontrano gli u’wa, offrendo
di partecipare alle spese della comunità per l’istruzione e la sanità.
1991
Adozione della nuova
Costituzione colombiana, che afferma i diritti degli indigeni.
7 aprile:
La Occidental,
nell’ambito di un consorzio che include la Royal Dutch/Shell e la
Ecopetrol, ottiene i diritti per l’esplorazione nel blocco di Samore.
agosto: La Occidental e alcuni rappresentanti degli u’wa
firmano un accordo per lo sviluppo di scuole e ospedali. La Occidental
sostiene che questo accordo riguarda anche le conseguenze sociali e
ambientali del progetto, ma il portavoce dell’autorità tradizionale u’wa,
Berito KuwarU’wa, che è analfabeta, sostiene che pensava di firmare un
accordo riguardante solo scuole e ospedali.
1995
3 febbraio: Il
ministero dell’Ambiente concede alla Occidental la licenza per le
esplorazioni sismiche intorno al territorio u’wa.
aprile:
Gli indigeni
minacciano il suicidio di massa se la Occidental inizierà a sfruttare i
giacimenti che potrebbero trovarsi nel loro territorio.
agosto:
Il difensore civico
deposita una denuncia contro il ministero dell’Ambiente presso la Corte
suprema di Bogotà, per la violazione dei diritti umani degli u’wa in
seguito alla concessione dei permessi di esplorazione alla Occidental
senza le consultazioni richieste dalla legge.
14 settembre:
La Corte suprema
si esprime a favore degli u’wa. La Occidental presenta ricorso alla stessa
Corte.
19 ottobre:
La Corte suprema
accoglie il ricorso della Occidental. Della causa viene interessata la
Corte costituzionale, competente per le questioni relative ai diritti
umani.
1996
gennaio:
La Corte
costituzionale accetta di esprimersi sulla decisione della Corte suprema,
affermando la legittimità della licenza ottenuta dalla Occidental.
1997
12 gennaio:
La causa degli u’wa
viene presentata davanti alla Corte costituzionale colombiana, che il 3
febbraio si esprime a favore degli indigeni, richiedendo opportune
consultazioni entro 30 giorni.
4 marzo:
Il Consiglio di
stato si pronuncia sulla richiesta del difensore civico, dando torto agli
u’wa e in contraddizione con la Corte suprema.
1999
marzo:
Una colonna delle Farc sequestra e giustizia tre
ricercatori statunitensi in visita al territorio u’wa.
24 agosto:
Il Goveo
colombiano e le autorità tradizionali sottoscrivono l’allargamento dei
confini ufficiali della riserva u’wa. Gli indigeni ribadiscono la loro
opposizione alle esplorazioni e allo sfruttamento petrolifero nel loro
territorio tradizionale.
21 settembre:
Il ministro
dell’Ambiente concede alla Occidental il permesso di effettuare scavi
esplorativi nell’area di Gibraltar. La Occidental propone quindi di
scavare il pozzo «Gibraltar 1», a 500 metri dal confine della riserva. Gli
u’wa non vengono consultati.
2000
19 gennaio:
Agenti dell’esercito
colombiano irrompono nel territorio u’wa. La Occidental trasporta
macchinari sul sito del «Gibraltar 1». Il giorno dopo giungono poliziotti
anti-sommossa e gli u’wa che abitano vicino al pozzo vengono circondati.
22 giugno:
Polizia e
militari tentano di costringere gli indigeni ad abbandonare i loro
villaggi. I lacrimogeni vengono lanciati nelle case. Gli u’wa resistono
passivamente a questa azione.
24 giugno:
Centocinquanta
poliziotti anti-sommossa attaccano violentemente un sit-in degli u’wa nei
pressi di Cubarà. Almeno venti persone vengono ricoverate per i danni dei
gas lacrimogeni, un uomo viene colpito da un proiettile, diversi vengono
arrestati.
25 giugno:
I manifestanti
vengono di nuovo aggrediti dalla polizia: 33 persone sono arrestate senza
motivo.
2001
gennaio:
Bulldozer
dell’esercito abbattono le barricate degli u’wa lungo la pista che porta
al sito destinato alla costruzione del pozzo «Gibraltar 1». Muoiono due
bambini indigeni.
gennaio:
Al pozzo «Gibraltar
1» inizia la prospezione. Centocinquanta persone vengono sfollate con gli
elicotteri.
aprile: Due rappresentanti indigeni, Daris Cristancho e
Roberto Berito Cubaria, iniziano un giro di sensibilizzazione in Europa.
aprile: L’udienza con il papa a San Pietro, organizzata da
tempo, viene rimandata dal Vaticano per non ben specificati motivi.
luglio:
Attraverso una nota
Reuters, la Oxy Corp. comunica il mancato ritrovamento di petrolio durante
la prospezione nel sito «Gibraltar 1».
La multinazionale
americana informa anche di riservarsi nuove esplorazioni in loco.
Tra
storia e leggenda
IL
SUICIDIO DI MASSA
«Il Padre del Cielo
diede loro questa storia vera: non possiamo consegnare ciò nelle mani
della Morte. Per questo il cacique disse: non resterò qui. Consegnerò il
mio spirito nelle mani della Madre terra insieme a tutta la comunità».
Rimasero solo alcune donne gravide, con compito di perpetuare la
discendenza. Gli altri si lanciarono da un dirupo.
A Guican è ben
individuabile il «penòn de los muertos», la rupe dei morti. Vuole la
memoria storica, e la leggenda, che in questo luogo gli u’wa, intorno alla
metà del 1600, attuarono un suicidio di massa contro la colonizzazione
violenta cui furono assoggettati. Fu la protesta estrema contro la
violenza sistematica dei conquistadores.
Un popolo che in
tutta la sua storia mai conobbe il giogo oppressivo dell’invasore, nemmeno
da parte degli incas che mai arrivarono in questi luoghi, pose termine
alla disperazione senza futuro in maniera irreversibile. «Il fiume si
riempì di corpi di uomini, donne e bambini. Così tanti che il corso
d’acqua da quel giorno cambiò percorso», raccontano i vecchi saggi.
La notizia che gli
u’wa abbiano nuovamente minacciato il suicidio collettivo, qualora il
sistema di pozzi fosse costruito, è smentita da alcuni, mentre da altri è
confermata.
È facile immaginare
che gli u’wa abbiano paventato questa minaccia (attraverso giornali
ansiosi di fare «il colpo»), affinché il silenzio che circondava la loro
lotta, fino al 1995, fosse rotto. La combattività che dimostrano non
lascia, infatti, intendere che gesti così estremi siano nelle loro menti.
Questo però è
accaduto e fa parte della loro cultura e della loro storia. È bene non
dimenticarlo.
Ma.P.
L’assemblea politica degli u’wa
POLITICA
E SPIRITUALITÀ
Annualmente gli u’wa
indicono un’assemblea per decidere collegialmente quali misure adottare
per opporsi al progetto della multinazionale statunitense Oxy Corp. e del
governo colombiano.
Le modalità di
questa riunione, preceduta da un lungo digiuno purificatore, possono
considerarsi un esempio di democrazia e di vera partecipazione popolare
alla vita della comunità.
Nel territorio del
Chuscal, nei paraggi di una scuola non più utilizzata, si stabiliscono i
rappresentanti di tutte le famiglie che compongono la comunità.
All’esterno della scuola si costruiscono dei luoghi di riparo e ristoro.
Ogni partecipante porta viveri in abbondanza, affinché le esigenze di
tutti siano soddisfatte. All’interno dell’edificio si svolge l’assemblea.
Subito si nota una
grande presenza di donne, molte delle quali intente ad allattare un
piccolo. Non vi è gerarchia. Tutti hanno diritto ad esprimere le proprie
opinioni. L’assemblea è accesa e partecipata. Non esistono momenti di
tensione anche se le vedute, talvolta, sono molto diverse.
Le decisioni finali
non vengono prese a maggioranza. Bensì si discute ad oltranza, fino al
raggiungimento di una linea comune nella quale si possano riflettere i
pensieri di tutti gli u’wa.
Contemporaneamente i
vecchi werjayas, le autorità spirituali, anziché esercitare un potere
decisionale diretto come si potrebbe immaginare, pregano e svolgono riti
sacri affinché all’interno dell’assemblea vengano prese le decisioni
migliori.
Questo dà anche una
valenza sacrale alle decisioni finali, coerentemente con la cultura
spirituale della comunità u’wa.
Ma.P
Luglio 2001
LA
OXY SI RITIRA?
In un comunicato
stampa della fine di luglio, la Occidental Petroleum dichiarava che i
sondaggi, durati nove mesi, nel sito esplorativo «Gibraltar 1» escludevano
la presenza di petrolio.
Un moto di speranza
ha pervaso il fronte che ha avversato per lunghi anni questo progetto. «Il
petrolio si trasformerà in acqua perché noi stiamo pregando Sira, la Madre
terra, affinché compia questo prodigio. La Oxy non troverà oro nero e sarà
costretta ad andarsene, lasciandoci finalmente in pace». Così mi disse un
giorno un capo indigeno, ma io nel mio incrollabile determinismo scossi il
capo e pensai che il futuro sarebbe stato molto amaro per questa gente.
Gli ultimi sviluppi della storia danno, metaforicamente, ragione agli
indigeni.
Nei giorni
successivi il comunicato stampa ho preso contatto personalmente con il
vice presidente della Oxy Corp., Lawrence Meriage, a Seattle, che in una
stizzita risposta affermava che non è stato rilevato petrolio, ma che i
tecnici si riservano la possibilità di ordinare nuovi sondaggi in futuro
nella stessa zona.
Particolarmente
antipatico è stato inoltre il sarcasmo con cui sottolineava il mancato
suicidio collettivo degli u’wa.