Trento / Incontro con il DALAI LAMA UN PIANETA DA CONDIVIDERE

 

Guida spirituale e
politica del popolo tibetano, premio Nobel per la pace 1989, il quattordicesimo Dalai Lama
è un personaggio affascinante, che ha saputo guadagnare rispetto e considerazione in
tutto il mondo. In questa intervista il Dalai Lama parla dei rapporti tra Oriente e
Occidente, e tra buddisti e cattolici. Senza dimenticare la lunga occupazione della sua
patria ad opera dei cinesi. Ma, assicura il premio Nobel, lo "spirito tibetano"
saprà sopravvivere agli invasori e al tempo.

 

La vicinanza del Dalai Lama non incute propriamente soggezione, anche
se la guida spirituale e politica del popolo tibetano, quattordicesima reincarnazione del
Bodhisattva Avalokitesvara, raduna ovunque si rechi in visita folle di curiosi. Persino in
una terra profondamente cattolica come il Trentino, che lo ha ospitato il 28 e 29 giugno
scorsi. Trasmette invece una sorta di benessere, finanche di buonumore; il prodotto di
un’umanissima simpatia, piuttosto che di reverenziale rispetto.

L’invito era partito nel 1994 dal Forum trentino per la pace,
emanazione della Provincia autonoma di Trento; da allora è stato costantemente rinnovato,
fino a quando il Tibet Bureau di Ginevra, rappresentanza ufficiale del governo tibetano in
esilio per l’Europa centro-meridionale, è riuscito ad accoglierlo. Al centro delle
due giornate di visita, lo Statuto di autonomia del Trentino, visto come un possibile
modello anche per una realtà come quella tibetana. Ed inoltre, i progetti di cooperazione
allo sviluppo rivolti verso le comunità dei tibetani in esilio.

Abbiamo incontrato il Dalai Lama privatamente, per un’intervista
concessaci in esclusiva, e poi nell’ambito della conferenza stampa organizzata al
Castello del Buonconsiglio, uno dei luoghi simbolici dell’Autonomia trentina, già
residenza dei principi-vescovi, e poi carcere degli irredentisti italiani (qui sono stati
giustiziati Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa). Durante gli incontri con i
giornalisti – così come nel corso dei numerosi colloqui pubblici tenuti in varie
località del Trentino – spesso si è interrotto per sorridere, ammiccare al fotografo,
riservare la dovuta attenzione ad ognuno dei presenti (non solo, insomma, alle autorità,
ma anche a chi era lì per lavoro, o semplicemente per vederlo da vicino). Davvero si ha
l’impressione che il grande e il piccolo, il vicino e il lontano, il visibile e
l’invisibile siano, per il premio Nobel per la pace 1989, concetti molto relativi.

Ma non c’è nulla di ieratico nel suo muoversi da un appuntamento
all’altro, in ossequio ai ritmi frenetici imposti dalle visite di carattere
diplomatico. Se le sue parole esprimono moderazione – anche quando parla
dell’occupazione cinese del Tibet o della globalizzazione –, gli occhi
tradiscono un’intelligenza vigile, insieme a un’insaziabile curiosità per il
mondo.

 

Sua Santità, Trento è la città dell’omonimo Concilio, molto
importante per la storia del cattolicesimo. La prima domanda, quindi, è in un certo senso
obbligata: quali rapporti ci possono essere fra cattolici e buddisti?

"Fra le diverse tradizioni religiose ve ne sono alcune che
accettano l’esistenza di un Dio Creatore, e altre, invece, che lo negano.

Il buddismo fa parte del secondo gruppo. Da questo punto di vista si
può dunque dire che c’è una grande differenza dottrinale fra buddisti e cattolici.
D’altra parte, vorrei ricordare che anche nell’ambito buddista vi sono diverse
scuole di pensiero".

 

Ad esempio?

"Vi sono alcune scuole che affermano l’esistenza reale delle
cose, mentre altre dicono che ciò che appare non è come noi lo vediamo, e che esiste un
livello di realtà più profondo. Quindi esistono anche nell’ambito buddista delle
grandi differenze dottrinali; alcune scuole ne accusano altre di nichilismo. Però, dal
punto di vista della pratica spirituale, per quel che riguarda lo sviluppo dell’amore
e della compassione, la religione cattolica e il buddismo si possono definire concordanti.

Io ho degli amici cristiani che praticano alcune tecniche tipiche del
buddismo per lo sviluppo della pazienza e che cercano di rendersi conto dell’ira per
poterla controllare. E anche i monaci e le monache buddiste possono imparare dalla pratica
delle loro sorelle e fratelli cristiani".

 

L’Occidente e l’Oriente possono dunque arricchirsi
vicendevolmente? E se sì, in cosa la tradizione occidentale vi sarebbe debitrice?

"Tradizione occidentale è una definizione così vasta che è
difficile dire in che cosa essa possa essere stata influenzata dall’Oriente.
Comunque, io credo vi siano concetti di base del buddismo, come quello di interdipendenza,
che possono essere di grande interesse per gli occidentali. Per interdipendenza noi
intendiamo dire che nulla sussiste indipendentemente da altri fenomeni. Quando si verifica
un evento, di solito si è portati a cercare una causa particolare, mentre secondo noi
bisogna considerare piuttosto il complesso delle cause e degli eventi che l’hanno
generato, l’insieme delle interdipendenze e delle interrelazioni.

Circa l’apporto che l’Occidente ha dato all’Oriente, mi
è facile pensare ad esempio a papa Giovanni Paolo II: il suo insegnamento è stato di
fondamentale importanza sia per il messaggio di riconciliazione fra le diverse religioni
(che ha portato incessantemente in giro per il mondo), sia per il suo chiedere perdono per
eventi avvenuti nei secoli passati. Vorrei anche aggiungere che, ad un livello più
generale, non esiste una radicale distinzione fra occidentali e orientali: dopo tutto
siamo tutti esseri umani chiamati a condividere questa terra. E l’unione di genti
diverse produce bimbi bellissimi!".

 

Da quanto diceva poco fa, sembra di capire che vi sono rapporti
diretti fra clero cattolico e buddista.

"I rapporti esistono ormai da vent’anni. Monaci buddisti
vanno a vivere per qualche tempo nei monasteri in Occidente e, viceversa, vi sono
religiosi cattolici che visitano monasteri buddisti.

In generale, ciò che maggiormente colpisce i monaci buddisti è il
lavoro sociale svolto dai religiosi in Occidente. Da noi pochissimi monaci operano
all’interno della società. Da questo lato, ne abbiamo tratto un importante
insegnamento. Noi invece possiamo far conoscere ai religiosi occidentali le tecniche di
concentrazione e di mediazione, e i metodi per sviluppare un comportamento improntato alla
gentilezza".

 

Non crede che si stia diffondendo un atteggiamento di
"consumismo della spiritualità" e che esso interessi oggi anche il buddismo,
con conversioni spesso un po’ superficiali, anche da parte di attori, uomini di
spettacolo e così via?

"L’attrazione esercitata dal buddismo dipende da fattori
molto vari. Tuttavia in linea di massima è meglio che ognuno segua la tradizione nella
quale è inserito.

Cambiare religione è una cosa complicata e difficile, e può creare
dei problemi. Certo è possibile che su milioni di persone ve ne siano alcune che hanno
una predisposizione particolare per una religione diversa rispetto a quella con la quale
sono cresciuti. Ma le conversioni di massa non sono né possibili né auspicabili.

In ogni caso, chi decide di cambiare religione è bene che mantenga
sempre nei confronti della religione che ha abbandonato un atteggiamento di
rispetto".

 

Santità, in questi ultimi anni si è parlato molto di
globalizzazione, anche in termini molto critici. Lei pensa che globalizzazione e difesa
delle tradizioni dei popoli, compreso il popolo tibetano, siano conciliabili?

"Credo che la globalizzazione sia un fenomeno che riguarda
soprattutto l’ambito economico. Quindi è l’economia a causare anche quella che
definirei la "diffusione di abitudini simili", a cominciare dal mangiare e dal
bere. In verità, a questo livello non credo che produca cambiamenti profondi, se una
cultura è già forte e consapevole di sé. Certo, può cambiare certe abitudini, ma solo
ad un livello superficiale.

L’importante, ripeto, è vedere quanto le culture abbiano una
radice profonda. Il pericolo esiste per le culture che non hanno radici forti, o per le
persone che non conoscono a fondo la propria cultura di riferimento.

Quando noi tibetani chiediamo l’Autonomia, naturalmente
rivendichiamo il nostro diritto a preservare e sviluppare lo "spirito tibetano".
Ma questo non significa che vogliamo continuare a mangiare la tsampa (pietanza
tradizionale tibetana, ndr)! I tibetani che oggi vivono in Svizzera hanno assimilato molte
abitudini svizzere: vestono o mangiano come gli svizzeri. Ma non significa che non abbiano
conservato la loro tibetanità. I nomadi che un tempo si nutrivano solo dei proventi
dell’allevamento oggi hanno i thermos per il tè e mangiano anche verdura. Non è una
cosa negativa.

Penso che si possa godere delle cose di un altro paese o di
un’altra cultura – ad esempio del cinema o della musica occidentale – senza
tuttavia rinunciare alle proprie tradizioni, soprattutto spirituali".

 

Questo sotto il profilo culturale. Ma qual è la sua idea di
globalizzazione sul piano economico e delle politiche poste in essere da soggetti come il
G8?

"Riguardo alla globalizzazione come fenomeno puramente economico,
un pericolo esiste: quello che le economie più forti, a livello sia di nazione che di
singola multinazionale, operando nei paesi poveri possano soffocare lo sviluppo delle
economie locali. Questo è un pericolo reale sul quale bisogna vigilare.

Riguardo al G8, io penso che abbia un ruolo importante e, dunque,
bisogna che continui a riunirsi. Ma esistono questioni, in merito ad esempio al degrado
ambientale o al rapporto fra sistemi economici forti e sistemi deboli, che debbono essere
affrontate. Quindi, è giusto che ci siano persone che ricordano queste questioni ai
grandi della terra; se non c’è altro modo, anche con manifestazioni di piazza,
purché siano rigorosamente non-violente".

 

In Trentino lei si è confrontato con un moderno statuto di
autonomia. Quali speranze ci sono per una pace duratura in Tibet e per il conseguimento di
un’autonomia che soddisfi veramente le esigenze del popolo tibetano?

"Se si guarda la situazione specifica del Tibet e, in particolare,
quello che sta avvenendo in quest’ultimo periodo, si dovrebbe dire che per il Tibet
non c’è più speranza. Se poi si analizza come il mio paese e la mia gente siano
arrivati a trovarsi in questa situazione, si scopre che ciò che è accaduto e sta
accadendo è dovuto all’intervento della Cina, che ha chiamato questo intervento,
iniziato nel 1949, con un nome attraente come "liberazione", ma che in realtà
ha provocato enormi sofferenze nel mio popolo. Sofferenze che durano da ormai tanti anni.

Possiamo dunque dire che un cambiamento del Tibet dipende direttamente
dal cambiamento della Cina. Ora, se osserviamo la Cina, ci accorgiamo che essa sta in
effetti cambiando. Si può dire anche che, dato che quel paese sta diventando sempre di
più una grande potenza, non potrà cambiare in un modo discordante dal resto del mondo.
Quindi, se consideriamo inevitabile il cambiamento della Cina, ecco che si può dire che
esiste una grande speranza per il mio paese. Quando questo cambiamento avrà luogo, allora
si apriranno dei concreti spiragli di speranza anche per il Tibet".

 

E il ruolo della comunità internazionale?

"Dopo i pronunciamenti dell’Onu fra la fine degli anni
’50 e l’inizio degli anni ’60 in favore del popolo tibetano, il governo
tibetano in esilio ha smesso di chiedere l’appoggio della comunità internazionale,
perché pensava che fosse meglio cercare di intavolare relazioni dirette con la Cina.

Nei primi anni ’80 sembrò che questa strategia potesse avere
successo; ma poi la Cina è tornata ad irrigidirsi. Nel 1987 ho proposto un piano di pace
in cinque punti, che però il governo cinese si è rifiutato di prendere in
considerazione. Così, siamo tornati a rivolgerci alla comunità internazionale, che ci ha
espresso più volte il suo sostegno. Vede, è molto difficile trattare con la Cina, non
solo per noi tibetani, ma anche per altre realtà presenti all’interno del paese.

L’anno scorso siamo venuti in possesso di un documento riservato
del viceministro della cultura cinese, trasmesso agli studiosi cinesi di tibetologia, nel
quale si diceva che il Dalai Lama pronuncia solo menzogne, che purtroppo gli occidentali
scambiano per verità. Com’è possibile che la comunità internazionale sia così
ingenua da credere per trent’anni di seguito a delle menzogne? Voi qui che mi state
ascoltando siete forse usciti di senno?".

 

Così parlò il Dalai Lama. Da segnalare, nell’economia di una
visita complessivamente gratificante per tutti, un solo episodio spiacevole: la bufala
dell’inviata de la Repubblica, la nota orientalista Renata Pisu, che ha attribuito al
Dalai Lama una dichiarazione favorevole all’uso della violenza nei confronti del G8.
Quando si dice etica professionale…

 

(*) Alberto Faustini è responsabile dell’Ufficio stampa della Provincia
Autonoma di Trento. Marco Pontoni è redattore nella medesima struttura.

Le foto del Dalai Lama sono dell’agenzia AgF-Beardinatti Foto
(Tn).

 

I rapporti tra Tibet e Cina

PAZIENZA, CORAGGIO, DETERMINAZIONE

 

Il Tibet si è costituito in entità sostanzialmente unita e
politicamente organizzata circa nel VII secolo d.C., all’epoca della diffusione del
buddismo sull’altopiano (ma il Dalai Lama ha parlato a Trento di reperti archeologici
che attesterebbero la presenza di una lingua e una cultura tibetane già 3000 anni fa).
Esso non è mai stato tout court una provincia cinese.

Tra Tibet e Cina vi sono stati, com’è ovvio, stretti rapporti
culturali, economico-commerciali e politico-diplomatici, talvolta pacifici, talaltra
conflittuali. Entrambi i regni furono inoltre soggetti all’invasione mongola, che
comunque non cancellò le peculiarità religiose e culturali del popolo tibetano, il quale
anzi le trasmise in buona parte agli invasori.

Agli inizi del XX secolo la situazione cominciò a cambiare, anche a
causa della crescente attività britannica in Asia centrale, che veniva vista come
minacciosa da Pechino. Così, subito dopo la conquista del potere, nel 1949 i comunisti
cinesi stabilirono il proprio controllo diretto sul paese, lasciando inizialmente al Dalai
Lama e alla sua aristocrazia un certo controllo sugli affari interni. Questa politica
relativamente moderata ebbe termine con la rivolta del 1959, a cui seguì una durissima
repressione.

In seguito a questi eventi drammatici, le Nazioni Unite approvarono tre
risoluzioni sul Tibet (nel 1959, 1961 e 1965), nelle quali si invocava la cessazione di
pratiche contrarie ai fondamentali diritti umani e di libertà, incluso il diritto
all’autodeterminazione. Come molte altre risoluzioni dell’Onu, anche queste non
ebbero alcun esito.

A partire dal 1966, e per quasi un decennio, in Cina si scatenò la
cosiddetta "Rivoluzione culturale", causa di violenze inenarrabili. In Tibet
essa ha comportato, oltre all’incarcerazione e all’uccisione di migliaia di
persone, anche alla distruzione sistematica di gran parte del patrimonio religioso e
artistico (come testimoniato, ad esempio, dalla documentazione fotografica contenuta in
Segreto Tibet dell’orientalista Fosco Maraini, uno dei "classici" in lingua
italiana sul Tibet pre-occupazione). Nel periodo successivo si sono alternati momenti di
liberalizzazione e "giri di vite". Date le difficoltà politiche che incontrava
in Tibet, il governo di Pechino ha cercato, soprattutto nell’era del dopo-Mao, di
migliorare lentamente la propria immagine nei confronti della popolazione locale,
ricorrendo ad un intenso sforzo di modeizzazione e di sviluppo economico. La conseguenza
è stata però anche, assieme a nuove forme di sfruttamento del territorio tibetano, un
sempre più massiccio afflusso di non tibetani sull’altopiano. Oggi, secondo fonti
del governo tibetano in esilio (con sede a Dharamsala, in India), i tibetani che vivono in
Tibet sono poco più di sei milioni, mentre i coloni cinesi circa sette milioni. I
tibetani in esilio sono intorno ai 130 mila; oltre all’India, uno dei paesi nei quali
sono presenti in maggior numero è la Svizzera.

Recentemente il Dalai Lama ha sintetizzato così la sua posizione.
"Io mi batto per una vera autonomia dei tibetani, convinto che una soluzione del
problema porterà soddisfazione al popolo tibetano e contribuirà alla stabilità e
all’unità della Repubblica popolare cinese. Finora il governo cinese si è rifiutato
di accettare la mia delegazione, sebbene, tra il 1979 e il 1985, avesse accettato di
incontrare sei delegazioni tibetane dall’esilio. Questo è un chiaro segnale che
l’atteggiamento di Pechino si è indurito, e manca la volontà politica di risolvere
la questione. Pazienza, coraggio e determinazione sono essenziali per noi tibetani in
questa sfida. Credo fermamente che in futuro ci sarà occasione di discutere seriamente il
nostro problema e guardare in faccia la realtà, perché non ci sono alternative, né per
la Cina né per noi".

 

Ma.Po.

 

Chi è? DALAI LAMA

Quello di Dalai Lama non è un titolo ereditario. Secondo la tradizione
tibetana – resa popolare in Occidente dal film di Bertolucci Piccolo Budda – vi sono
alcuni illuminati o Bodhisattva i quali, anche dopo avere raggiunto il Nirvana, la
beatitudine eterna della buddità, decidono di restare tra gli uomini, per sostenerli
sulla via dell’illuminazione. Uno di essi è Chenrezig, chiamato in sanscrito
Avalokitesvara (il Budda della compassione), che si incarna nel Dalai Lama, massima
autorità religiosa dei tibetani. Il Dalai Lama è quindi espressione di un amore per il
genere umano che è anche consapevolezza dei limiti dell’umana esperienza, idea
quest’ultima che rimanda al primo discorso pronunciato dal Budda storico, Sakyamuni,
dopo avere raggiunto l’Illuminazione.

Nella prassi avviene che, dopo la morte di ogni Dalai Lama, bisogna
trovare il suo successore, che è all’apparenza un bambino come tutti gli altri. Per
questo vengono effettuate vaste ricerche in tutto il Tibet, e i presunti successori
vengono sottoposti ad una serie di prove – come ad esempio riconoscere degli oggetti
appartenuti al precedente Dalai Lama, mescolati ad altri del tutto identici – al fine di
fugare ogni possibile dubbio.

"Dalai" è un termine mongolo, e sta per "oceano".
"Lama" è il termine tibetano per "maestro spirituale". "Dalai
Lama", quindi, può essere tradotto approssimativamente come "oceano di
saggezza".

L’attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è nato a
Taktser, in un piccolo villaggio dell’altopiano tibetano il 6 luglio 1935,
originariamente con il nome di Lhamo Thondup. Dopo il suo riconoscimento, si è insediato
a Lhasa, la capitale del Tibet, nel 1939. All’epoca il governo del paese era in
sostanza una teocrazia; sotto il profilo economico e tecnologico, esso era parimenti molto
arretrato, e del tutto refrattario alla tradizione scientifica occidentale.

Dopo l’occupazione cinese, e in particolare dopo la repressione
dei moti nazionalisti di Lhasa (10 – 15 mila tibetani uccisi in tre giorni), il Dalai Lama
scelse, con circa 85 mila seguaci, la via dell’esilio. In seguito ha eletto a sua
nuova dimora Dharamsala, una cittadina dell’India del nord, dove oggi ha sede il
governo tibetano in esilio. Dopo avere lasciato il Tibet, il Dalai Lama ha
progressivamente laicizzato le istituzioni di governo, che ora sono elettive. Naturalmente
ciò ha un significato molto limitato, non potendo esercitare il governo in esilio alcun
potere reale sul Tibet.

Ma.Po.

Alberto Faustini Marco Pontoni

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