Turchia: «Mamma, li turchi»

Viaggio nel paese della mezza luna

"Ponte tra Oriente e Occidente", la Turchia è stata per millenni crogiolo di
popoli e civiltà, sfociate nell’attuale Repubblica, "candidata" a entrare
nell’Unione Europea (UE). È pure definita "seconda Terra Santa": milioni
di pellegrini cristiani vi cercano le tracce di san Paolo e delle chiese delle origini. Le
comunità cristiane dei primi secoli, oggi, sono ridotte a sparute presenze. Per entrare a
pieno titolo nell’UE, la Turchia dovrà aggiustare non solo i parametri economici, ma
fare passi da gigante nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa.

 Articolo 1

I nodi gordiani della Turchia

"Passaggio a Ovest"

Chiamata per un millennio Bisanzio, per 11 secoli Costantinopoli e da oltre 500 anni
col nome attuale, Istanbul è l’emblema della storia plurimillenaria della vocazione
europea della Turchia odiea. Diventata repubblica laica, essa chiede l’integrazione
nell’UE. Prima delle trattative, però, la nazione turca dovrà sciogliere molti
nodi, soprattutto in materia di diritti umani e rispetto delle minoranze etniche e
religiose. È un problema di democrazia e civiltà.

Dagli spalti del Topkapi, il palazzo dei sultani a Istanbul, lo sguardo spazia sul
Bosforo: la lunga striscia di mare, più che separare, sembra unire l’estrema punta
dell’Europa all’Anatolia, chiamata dai romani Asia Minore. Mentre osservo
petroliere e mercantili che solcano lo stretto canale, ripercorro a ritroso millenni di
storia, quando sulle due sponde approdavano le fragili imbarcazioni greche, poi le triremi
romane e dromoni bizantini, quindi i velieri genovesi, veneziani e ottomani, scambiando
tra Oriente e Occidente merci, cultura e civiltà.

COSCIENZA DOPPIA

Quando Byzas stabilì sul Coo d’Oro la prima colonia greca (659 a.C.), dandole
il suo nome, l’Anatolia era già entrata a pieno diritto nella storia da oltre 1.500
anni, grazie ai commercianti assiri e ittiti che vi avevano introdotto la scrittura
cuneiforme.

Di origine indoeuropea, gli ittiti dominarono l’altipiano anatolico per oltre un
millennio, finché il loro impero fu spazzato via (1200 a.C.) da misteriosi "popoli
del mare" e frantumato in una miriade di regni (cappadoci, cari, frigi, pamfili,
lici, cilici, lidi, misi, paflagoni, sciti, cimmeri). Contemporaneamente lungo le coste
dell’Egeo i colonizzatori greci fondarono importanti città-stato.

Da subito, l’Anatolia fu strattonata a est e ovest. Ne è un esempio il regno di
Troia, città distrutta e ricostruita nove volte. Il settimo periodo (1300-1100 a.C.)
corrisponderebbe al conflitto tra troiani e greci (achei), cantato dall’epica di
Omero.

Quando Ciro il Grande, re di Persia, conquistò l’Anatolia (547 a.C.) e
l’inghiottì nel suo impero e i suoi successori minacciarono di passare i Dardanelli
e occupare anche la Grecia, cominciò lo scontro tra Oriente e Occidente. Oltre a
riscuotere imposte e reclutare soldati, i persiani imposero elementi culturali, modelli di
vita, concezioni politiche e metodi amministrativi: le città greche dell’Asia minore
si ribellarono, tirando la madre patria nel conflitto.

Per 200 anni, greci e persiani si scontrarono su entrambe le sponde dell’Egeo, in
una guerra di civiltà senza quartiere, provocando nelle popolazioni coinvolte la
sedimentazione di una "coscienza asiatica" e una "coscienza europea",
con reciproche influenze morali, politiche e culturali, di cui l’Anatolia fu il punto
di confine e congiunzione insieme.

NUOVA ECUMENE

"Regnerà sull’Asia chi riuscirà a sciogliere la corda dal giogo del timone
del carro custodito nel tempio di Zeus" diceva la profezia del santuario di Gordio, a
pochi chilometri da Ankara. Alessandro Magno risolse il problema con un colpo di spada:
sconfisse i persiani e, tra il 334 e il 327 a.C., il re macedone fondò una monarchia
universale e multietnica in cui conciliava la civiltà greca con quella orientale:
l’Anatolia diventò un importante tassello della neonata ecumene (casa comune)
ellenistica.

Ma alla morte di Alessandro (323 a.C.), i suoi generali e loro successori si scannarono
per spartirsi le spoglie dell’impero. L’Anatolia toccò a Seleucio, fu
riassorbita nella sfera persiana e coinvolta in una spirale endemica di guerre. Delle
rivalità ne approfittò Attalo I (241-197 a.C.), che si ritagliò un piccolo regno, con
capitale Pergamo, lo estese con l’aiuto di Roma e ne fece un faro di cultura e
civiltà ellenistica. L’ultimo degli attalidi, rimasto senza eredi, lasciò il regno
alla repubblica di Roma (133 a.C.).

All’ecumene ellenistica subentrava quella romana, culminata nella completa
integrazione nell’impero, quando Caracalla (212 d.C.) estese la cittadinanza romana a
tutti i cittadini liberi dell’Asia Minore. Il dominio romano favorì un lungo periodo
di pace e sviluppo economico e culturale, grazie alla fitta rete di strade e comunicazioni
che collegava le province al resto dell’impero: di tale comodità si avvalsero anche
i predicatori del vangelo per spargere il seme cristiano in tutta l’Anatolia.

IMPERO BIZANTINO

Quando Costantino spostò la capitale da Roma a Bisanzio (324), ribattezzata
Costantinopoli, e Teodosio I impose il cristianesimo come religione di stato (392), per le
eterogenee popolazioni dell’Asia Minore la religione cristiana avrebbe dovuto essere
un ulteriore consolidamento dell’ecumene greco-romana.

Nel 395 invece, i figli di Teodosio, si spartirono l’impero: Arcadio si tenne
l’oriente; Onorio l’occidente. E fu l’inizio del progressivo distacco tra
est e ovest, in cui le divergenze di concezioni politiche, culturali e religiose giocarono
un ruolo fondamentale.

Quando i barbari deposero l’ultimo imperatore di Roma (476), Costantinopoli rimase
l’unica capitale dell’impero e della cosiddetta civiltà bizantina. L’Asia
Minore ne seguì appieno le sorti nel bene e nel male.

Per oltre un millennio popolazioni dell’odiea Turchia furono coinvolte in
innumerevoli tempestose crisi politico-religiose, alternate a periodi di bonaccia, in cui
i sovrani interferivano a piacere, nominando e rimuovendo patriarchi e vescovi, convocando
concili, ficcando il naso in dispute dogmatiche e dottrinali, imponendo per decreto di
seguire ora l’ortodossia, ora le correnti eretiche.

Gli imperatori dovettero lottare anche contro i pericoli provenienti da est: i persiani
ripresero tutta l’Asia Minore e, insieme ai nordici avari, assediarono Costantinopoli
(626). I territori furono subito ripresi da Eraclio; ma costui cancellò definitivamente
dall’impero ogni traccia romana: abolì il bilinguismo e il greco diventò unica
lingua ufficiale.

Le quisquilie bizantine continuarono a lacerare la chiesa universale, dilatando il
fossato tra papato e impero. La rivalità con Roma e la contesa per il primato
politico-ecclesiale raggiunse l’apice nel 1054: il patriarca di Costantinopoli,
Michele Cerulario e papa Leone IX si scomunicarono a vicenda, spezzando l’ultimo filo
che univa ancora Oriente e Occidente: ortodossia e cattolicesimo divennero sinonimi di
divisione europea.

GUERRE "SANTE"

Mentre a Costantinopoli teologi e sovrani discutevano sul sesso degli angeli, gli arabi
combattevano le loro "guerre sante" in nome dell’islam, espandendo il loro
dominio dall’India alla penisola iberica, sottraendo all’impero bizantino gran
parte delle regioni bagnate dal Mediterraneo.

L’Asia Minore fu attaccata dalle scorribande arabe (VII-X sec.), che trovarono
fiera opposizione in Cappadocia. Nulla, invece, poté contro i vari gruppi turcomanni,
provenienti dalle regioni dell’Asia Centrale. I turchi selgiuchidi (dal fondatore
Selgiuq, X sec.), appena convertiti all’islam, occuparono l’Asia Minore: fatto
prigioniero l’imperatore bizantino (1071), giunsero fino a Nicea (Iznik).

Respinti dai crociati, i selgiuchidi si arroccarono sull’altopiano anatolico,
fissando la capitale a Konya (Iconio) e islamizzando la regione. I viaggiatori occidentali
che attraversavano l’Anatolia nel XII e XIII secolo chiamavano "Turchia"
quel territorio; il turco era usato nell’amministrazione in varie forme letterarie.

Le imprese di arabi e turchi provocarono l’avvicinamento tra papato e imperatore,
ortodossi e cattolici: furono organizzate ben sette crociate (1096-1270). Costantinopoli
s’illuse di ritornare a giocare il ruolo di baluardo storico contro l’avanzata
dei popoli asiatici; a ogni vittoria sui turchi, cercò di affermare il proprio dominio
sui territori un tempo in suo possesso; ma finì per dover lottare contro il papato, che
intendeva servirsi delle crociate per riunire la chiesa greca a quella latina, e contro i
prìncipi cristiani che, mescolando l’ideale della liberazione dei luoghi santi
cristiani con gli interessi politici e commerciali, stabilirono regni feudali
nell’Asia Minore (Antiochia, Edessa, Trebisonda).

Il colmo della beffa fu raggiunto quando i veneziani dirottarono la IV crociata su
Costantinopoli: la presero e misero a ferro e fuoco (1204), dando vita ad un effimero
regno latino d’Oriente. Nel 1261, la dinastia greca dei paleologhi, con l’aiuto
dei genovesi, rientrò trionfalmente a Costantinopoli. Ma ormai l’impero greco era
ridotto a una pallida ombra di quello bizantino: mutilato e dilaniato da guerre civili,
sopravvisse per quasi due secoli, finché fu ingoiato dall’impero ottomano.

VOGLIA DI "MELA ROSSA"

Guidati da Osman o Othman, da cui il nome di "ottomani", questi misero piede
in Anatolia alla fine del XIII secolo e dilagarono in tutta l’Asia Minore, stabilendo
la capitale a Bursa. Poi, aggirate le inespugnabili mura di Costantinopoli, invasero la
Tracia e fissarono la capitale ad Adrianopoli (Edie, 1361). Quindi proseguirono verso
Bulgaria e Serbia, sognando di raggiungere Roma, ritenuta la vera capitale del mondo e
chiamata Kizil Elma (Mela Rossa).

L’improvviso arrivo in Anatolia dei nemici-cugini mongoli di Timur lo Zoppo,
Tamerlano, costrinse il sultano Beyazit, detto il Fulmine, a fare dietrofront, ma fu
sconfitto ad Ankara (1402).

I turchi parevano annientati; ma 10 anni dopo Mehmet I li riorganizzò e preparò per
la riconquista. Mehmet II Fatih (Conquistatore) arruolò i più abili artigiani europei
del tempo perché gli fabbricassero cannoni, con cui sbriciolò le mura di Costantinopoli
(1453), che divenne la capitale dell’impero sotto un nuovo nome. Non così nuovo in
verità. Istanbul deriva dal greco "eis ten polin", alla città (urbe):
espressione che i contadini ellenici dicevano orgogliosi quando si recavano nella
metropoli, l’unica al mondo, come l’antica Roma, meritevole di tale appellativo
d’eccellenza.

Invincibile per terra, cresciuto come potenza navale, l’impero ottomano raggiunse
l’apogeo con Solimano il Magnifico (1520-66). Si estendeva su tre continenti: dal Mar
Caspio e Golfo Persico all’Algeria, dalla Serbia e Ungheria allo Yemen, con una
popolazione di 50 milioni di abitanti, dieci volte più dell’Inghilterra.

A favorire l’espansione turca e alimentare il sogno della Mela Rossa contribuì
anche la divisione tra le potenze occidentali, che permisero agli ottomani di occupare
Otranto per un anno (1480), cingere d’assedio Vienna (1529), flagellare le coste
italiane e razziare la città di Nizza (1543).

A tenere unito un impero multietnico di tale dimensione contribuì la capacità di
adattamento delle istituzioni ottomane a quelle delle popolazioni annesse, rispettandone
norme, consuetudini e diritti. Anzi, in alcune regioni dei Balcani ed Europa
centro-orientale, i turchi furono acclamati come liberatori dal fanatismo
politico-religioso innescato dalle lotte tra cattolici e protestanti.

Va riconosciuta alla Sublime Porta, come veniva chiamato il governo turco, un elevato
grado di tolleranza religiosa. Ma senza esagerare. Prima di tutto la porta delle cariche
amministrative si apriva solo a chi era di provata fede musulmana. Tale tolleranza, poi
nascondeva motivi di convenienza: gli ebrei fuggiti dalla Spagna furono accolti per
contrastare le spinte indipendentiste di armeni e greci; i cristiani non subirono
l’islamizzazione forzata perché il loro passaggio all’islam avrebbe comportato la
perdita degli ingenti gettiti fiscali imposti ai cristiani.

Senza dimenticare, infine, che centinaia di migliaia di giovani cristiani, prigionieri
di guerra o strappati alle famiglie, furono sottoposti a un formidabile lavaggio di
cervello per formare il corpo militare dei giannizzeri, i più fanatici e intransigenti
difensori dell’islam.

Sebbene in ritardo, l’Europa cominciò a vedere nell’espansione turca una
minaccia per la cristianità e la civiltà occidentale: nel 1571 la flotta di varie
potenze europee sconfisse l’armata turca nelle acque di Lepanto, ponendo fine al mito
dell’invincibilità ottomana.

Nel secolo XVII i turchi continuarono a minacciare Polonia, Austria e Slesia:
assediarono di nuovo Vienna (1683), ma furono respinti dalle truppe tedesco-polacche. E
dovettero cedere Ungheria e altri avamposti dell’Europa centro-orientale a due
minacciose potenze confinanti: Russia zarista e impero asburgico.

IL GRANDE MALATO D’EUROPA

Sublimi lussi e mollezze, avidità e intrighi di corte indebolirono il potere centrale;
generali e nobili si ritagliarono fette di potere alla periferia dell’impero.
L’arretratezza fece il resto. All’inizio del XIX secolo per le potenze
occidentali lo stato turco diventò la "questione orientale" o il "grande
malato dell’Europa" e accorsero al suo capezzale.

Più che medici, si rivelarono becchini. Nessuno voleva il decesso dell’impero, ma
tutte fecero a gara, impiegando ogni mezzo finanziario, politico o militare, per mutilae
le periferie; ognuna mobilitò la propria forza diplomatica per impedire che un eventuale
vuoto di potere venisse colmato da potenze avversarie. Al tempo stesso, Londra, Parigi e
Pietroburgo soffiavano sul vento dei nazionalismi balcani, sfociati in stati indipendenti:
Serbia, Grecia, Romania, Montenegro, Bulgaria e Albania.

I paesi occidentali offrirono le loro tecnologie (telegrafo, ferrovie) per modeizzare
lo stato, ricevendo in cambio che le proprie compagnie commerciali si stabilissero negli
scali principali della Sublime Porta. Le manifatture francesi, inglesi e olandesi misero
in crisi gli artigiani locali, incapaci di competere con la tecnologia europea.

Indebitati fino al collo, sempre più dipendenti dall’Europa, i turchi furono
tirati per i capelli in una intricata girandola di alleanze pro e contro tedeschi,
inglesi, austriaci, francesi, russi, italiani, trovandosi sempre dalla parte sbagliata e
continuando a perdere i pezzi più pregiati. La prima grande guerra li spazzò via dai
Balcani; in Anatolia si precipitarono greci, italiani, inglesi e francesi; gli armeni si
dichiararono indipendenti. Nel trattato di pace di Sèvres (1920) il sultano ratificò il
fatto compiuto.

NUOVI CONNOTATI

La Turchia rischiava di scomparire dalla geografia politica, quando il generale
macedone Mustafà Kemal, detto poi Ataturk (padre dei turchi), impostosi come leader del
movimento nazionalista, respinse il trattato di Sèvres, combatté una guerra vittoriosa
contro i greci (1920-22), annientò la minoranza armena, destituì l’ultimo sultano e
proclamò la repubblica. Nel trattato di Losanna (1923) ottenne il riconoscimento di
quelli che, sostanzialmente, sono i confini odiei.

Con un regime a partito unico, Kemal iniziò la ricostruzione dello stato, cercando di
accorciae le distanze con l’Europa, anche se trasportò la capitale da Istanbul ad
Ankara.

Basata sui pilastri del laicismo e nazionalismo, la costituzione repubblicana sancì la
separazione tra stato e islam, che cessò di essere religione di stato. Furono abrogati i
tribunali religiosi, chiuse le scuole coraniche e abolite le confrateite musulmane. Il
turco sostituì l’arabo nei riti pubblici, compresi gli appelli alla preghiera. Per
accelerare la turchizzazione, fu introdotto l’alfabeto latino, fondate nuove scuole
di ogni ordine e grado, resa obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne;
cancellati i termini di origine araba e persiana, fu abolito l’insegnamento di tali
lingue nelle scuole superiori.

Per modeizzare e occidentalizzare la nazione fu abolita la poligamia, l’obbligo
del velo per le donne e del fez per gli uomini. Fu rinnovato il sistema giudiziario,
prendendo a modello il codice civile svizzero e quello penale italiano. Venne introdotto
il sistema metrico decimale; il calendario gregoriano sostituì quello musulmano e la
domenica prese il posto del venerdì come giorno di festa.

Per completare la modeizzazione, nel 1934 fu esteso alle donne il suffragio
universale (prima dei francesi); una dozzina di anni dopo venne introdotto il
multipartitismo.

Dopo la morte di Ataturk (1938) la Turchia ha continuato il passaggio a Ovest: entrata
nella Nato (1952), ne ha accolto le basi militari, diventando un avamposto occidentale,
prima in funzione antisovietica e poi anti-islamica. Stretta un’alleanza di ferro con
gli Stati Uniti, li ha appoggiati senza condizioni durante la guerra del Golfo contro
l’Iraq (1991), perdendo ogni legame con i paesi islamici del medio e vicino oriente.

Pur continuando il processo di modeizzazione delle sue strutture economiche, sociali
e culturali, la Turchia rimane ancora in bilico tra identità europea e ideali islamici.
Nel 1996 prese le redini del governo un partito neo-ottomano (il Refah) che avversa Nato e
UE, mentre propone un revisionismo pan-turco e pan-islamico sugli ex territori ottomani.

NODI DA SCIOGLIERE

Da oltre 30 anni la Turchia cerca il suo "passaggio a ovest", bussando alla
porta dell’Unione economica europea. Finora ha ottenuto di entrare nel regime di
unione doganale (1996) e, nel 1999, le è stato accordato lo status di candidato
all’ingresso nell’UE, fanalino di coda di 13 paesi in sala d’aspetto. I
negoziati saranno aperti quando il paese avrà dimostrato di avere raggiunto certi
parametri dettati dall’UE in materia di democrazia, diritti umani, tutela delle
minoranze ed economia.

Sulla democrazia turca incombe, come la spada di Damocle, il potere militare: in 20
anni, i generali, nuovi "pascià", hanno fatto tre colpi di stato (1960,
’71, ’80). Nel Consiglio nazionale di sicurezza, che ha lo scopo di
"garantire laicità e kemalismo", i sei massimi ufficiali dell’esercito e
forze dell’ordine danno "pareri" ai cinque massimi esponenti civili,
presidente e primo ministro compresi. Gestendo una delle tre o quattro principali società
finanziarie del paese, le forze armate fanno il buono e cattivo tempo anche nel mondo
economico.

Il primo ministro turco ha assicurato che presto il parlamento abolirà la pena di
morte. Ma intanto i diritti civili, politici e religiosi continuano ad essere calpestati;
le proteste represse con brutalità; le carceri sono un inferno e la riforma carceraria
sta provocando lo sciopero della fame tra civili e carcerati: sono già morti a decine e
altri 2.000 sono pronti al sacrificio; ma il governo sembra sordo. I mezzi di
comunicazione possono trasmettere solo la voce del padrone; contestatori e difensori dei
diritti umani sono incarcerati; i sospettati di terrorismo torturati.

In fatto di minoranze, i turchi si imbufaliscono quando in Europa si parla di genocidio
armeno e si chiede di riconoscere la responsabilità dello sterminio di oltre un milione e
mezzo di armeni (vedi a p. 41). Altra questione in sospeso riguarda il ritiro delle forze
d’invasione a Cipro del nord: occupata nel 1974, ha causato 5.000 morti e 200.000
profughi. Più ingarbugliata è la questione dei kurdi, che da secoli rivendicano la loro
identità. Il problema è ben lontano da una soluzione equa, se mai ci sarà (vedi
riquadro).

Drammatica, infine, è la situazione economica. Trent’anni di sviluppo e
progresso, con costruzioni di strade, aeroporti, città, attrezzature turistiche, nonché
fabbriche, dighe, oleodotti, fonderie e altri complessi industriali ha fatto gridare al
"miracolo turco". Ma all’inizio del 2001 la Turchia si è improvvisamente
svegliata in bancarotta. Le cause sono molte: corruzione e collusione con la mafia di alte
sfere dell’apparato istituzionale; sistema finanziario e bancario al collasso; debito
estero che assorbe il 95% delle entrate; inflazione galoppante a due e tre cifre. Per un
dollaro (2.200 Lit.) oggi occorrono 1.260.000 di lire turche.

Il premier Ecevet ha chiamato al capezzale dell’economia una personalità con
esperienza internazionale, dandole pieni poteri: è Kemal Devis, ex presidente della Banca
Mondiale. Ha iniziato la cura da cavallo, che farà piangere a lungo lacrime e sangue.

PALETTI SÌ. STECCATI NO

Il processo per raggiungere i parametri richiesti dall’UE sarà lungo e difficile.
Gli osservatori più scettici dicono che l’integrazione nell’UE è rimandata
alle calende greche. "La Turchia – ha detto Pierre Moscovici, ministro francese per
gli affari europei – deve rendersi conto che l’UE non è solo una comunità di
nazioni, ma un modello di civiltà".

Alcuni settori del mondo cattolico sono allarmati: l’UE è frutto di cristianità,
legge romana e umanesimo greco; l’eventuale integrazione di 80 milioni di musulmani
turchi ne offuscherebbe l’identità.

Altri sostengono che la Turchia è stata protagonista a pieno titolo della storia
europea e deve continuare a fae parte in futuro con le carte in regola. Anche
"l’Europa deve trovare il suo "passaggio a ovest" – aggiunge un
giornalista turco, – se essa è veramente tolleranza, convivenza, multi-etnicità".
Passaggio che si chiama dialogo, fondato sulla conoscenza di se stessi e degli altri.

Non serve sbattere la porta in faccia ai turchi, si afferma in ambienti ecclesiali
italiani. L’islam l’abbiamo già in casa. La questione è come prepararsi a un
confronto serio e senza cedimenti: da una parte dobbiamo recuperare identità e dignità
di cristiani d’Europa; dall’altra si deve esigere da certi capi islamici
rispetto o un approccio pacato verso i cristiani.

Il dialogo dovrebbe far emergere nel mondo islamico l’accettazione dell’idea che
esiste la libertà della coscienza individuale, tale da non essere messa in forse né
dallo stato né da qualsiasi altra autorità. Non si aderisce all’Europa per i soli
benefici materiali, senza accettae contemporaneamente i valori.

"Non sarà un percorso facile – confessa don Elvio Damoli, direttore di Italia
Caritas -. Tuttavia, le barriere sono inutili. Serve il dialogo, anche se con i
paletti".

 

Scheda storica

2000 a.C.: nascita dell’impero ittita.

1500 a.C.: introduzione della scrittura.

1200-900.a.C.: tramonto dell’impero ittita e formazioni di regni anatolici.

850 a.C.: espansione delle colonie greche lungo le coste asiatiche.

700-500 a.C.: regni di Frigia (capitale Gordio) e di Lidia (capitale Sardi).

553 a.C.: inizia la dominazione persiana, in conflitto con i greci.

334-327 a.C.: Alessandro Magno sconfigge i persiani; inizia l’ellenismo.

240-133 a.C.: regno di Pergamo.

130 a.C.: inizia il dominio romano.

301: evangelizzazione dell’Armenia, primo stato cristiano.

325: 1° concilio ecumenico a Nicea contro l’arianesimo.

330: Costantinopoli capitale dell’impero romano.

379-95: regno di Teodosio I.

395: divisione dell’impero romano d’oriente e d’occidente.

431: concilio di Efeso contro Nestorio.

451: concilio di Calcedonia.

527-65: regno di Giustiniano, riformatore del diritto; costruzione di Santa Sofia.

600-900: scorrerie arabe in Cappadocia.

1054: scisma d’oriente.

1071-1300: regno dei turchi selgiuchidi.

1203-04: Costantinopoli presa e saccheggiata dai crociati.

1354: i turchi ottomani sbarcano in Europa e conquistano la Tracia.

1389: il sultano Murat I sconfigge i serbi nella battaglia del Kosovo.

1402: i mongoli invadono l’Anatolia.

1413: inizia il regno di Mehmet I; riprende l’espansione ottomana.

1453: presa Costantinopoli/Istanbul, nuova capitale dell’impero ottomano.

1520-66: regno di Solimano il magnifico.

1526: i turchi conquistano l’Ungheria.

1529: i turchi assediano Vienna.

1571: turchi vinti a Lepanto dai cristiani.

1683: i turchi assediano Vienna e sono sconfitti da Jean Sobieski.

1774: 1a guerra turco-russa e protettorato degli zar sui greci; nasce la
"questione orientale".

1877-78: 2a guerra turco-russa; Serbia, Romania, Bulgaria indipendenti.

1912-18: l’impero ottomano è ridotto ai confini attuali, sanzionati dal trattato
di Sèvres (1920).

1915-16: genocidio armeno.

1920-23: rivoluzione di M. Kemal (Ataturk) e fondazione della repubblica.

1938: morte di Ataturk.

1952: la Turchia entra nella Nato.

1960, ’71,’80: colpi di stato militari.

1974: la Turchia occupa Cipro nord.

1980-83: guerra al Kurdistan.

1994-95: il partito islamico Refah ottiene l’amministrazione di Istanbul, Ankara,
Smie e maggioranza in parlamento.

1999: la Turchia "candidata" ad entrare nell’Unione Europea.

 

Articolo 2

Dervisci: il volto mite e dialogico dell’Islam

Danzando con Allah

C i si toglie le scarpe per entrare nel mausoleo di Konya, sotto la cui cupola conica,
rivestita di maioliche turchesi, riposano Mevlana e molti suoi discepoli. Anche se da 76
anni è un museo di arte islamica, i turchi continuano a considerarlo "luogo
sacro", secondo solo alla Mecca. Domandarsi chi è Mevlana è come chiedersi chi è
Dante o Francesco d’Assisi, suoi contemporanei. È un grandissimo poeta e mistico,
uomo del suo tempo e di tutti i tempi. Espressione del volto più aperto e tollerante
dell’islam e fondatore della confrateita islamica dei mevlevi, meglio conosciuti
come "dervisci rotanti o danzanti", vestiti di tunica bianca, mantello nero e
alto cappello cilindrico di feltro.

S i chiamava Gialal ad-Din Rumi, detto poi Mevlana (maestro nostro). Nato nel 1207 a
Balkh, città persiana ora in Afghanistan, da piccolo vagò in esilio con il padre, dal
quale ricevette un’accurata educazione, completata poi con lo studio delle scienze
esoteriche. Salvo brevi soggiorni a Damasco e Aleppo, egli visse sempre a Konya, dove si
sposò, ebbe figli e insegnò nella scuola della capitale selgiuchide.

A cambiargli la vita, nel 1244, fu l’arrivo di Shams (Sole) di Tabriz, giovane
predicatore vagante, che lo avviò sulla via del sufismo. Il maturo docente si mise alla
scuola del giovane maestro, immergendosi nell’ascetismo e meditazione. Tra i due
nacque un’attrazione mistica che suscitò la gelosia di familiari e discepoli e fece
spettegolare tutta la città.

Quando Shams decise di tornare in Persia, Mevlana lo accompagnò fino a Tabriz e toò
a Konya. Strada facendo, continuava le sue mistiche riflessioni, quando, divorato da un
fuoco interiore, cominciò a roteare su se stesso in una specie di rapimento estatico.
L’episodio è all’origine delle danze religiose della confrateita islamica da
lui fondata.

M evlana passò il resto della vita dedicandosi ad ascesi, insegnamento mistico e
lavoro letterario. Scritte o dettate in persiano, le sue opere furono più tardi tradotte
in turco per l’istruzione dei discepoli. Tra di esse figurano il Divan-i-Kibir,
sterminato e appassionato canzoniere composto sotto il nome del maestro Shams, e il
Màthnawi-i-mànawi (Poema spirituale), trattato colossale di mistica in sei volumi. Opera
affascinante e impareggiabile, il Màthnawi svolge le dottrine del sufismo con aneddoti,
favole, leggende, allegorie, digressioni dottrinali, miste a voli lirici di estatico
rapimento.

Se non fosse per il grandioso panteismo di cui sono impregnate le sue liriche, queste
sembrerebbero uscite dal cuore di mistici cristiani, come Giovanni della croce. Simili,
infatti, sono lo slancio e l’ardore del sentimento religioso con cui viene cantato
l’amore tra l’Amato (Dio) e l’amante (credente). Un Amato più intimo e
vicino di quanto possiamo esserlo a noi stessi.

Così ammoniva i suoi correligionari che andavano alla Mecca e facevano i dieci giri
attorno alla kaaba:

"O gente che partite in pellegrinaggio, dove mai siete?

L’Amato è qui, tornate, tornate!

L’Amato è un tuo vicino; vivete muro a muro.

Che idea vi è venuta di vagare nel deserto d’Arabia,

per vedere la forma senza forma dell’Amato?

Il Padrone è in casa e la kaaba siete voi.

Dieci volte siete già andati per quella via, per quella casa:

provate una volta da questa casa a salire sul tetto.

Bella è la casa di Dio; ne avete narrato i segni.

Provate ora a darci un segno del Padrone di quella casa".

L a scuola di Mevlana esercitò un influsso sociale, politico e culturale di primaria
importanza nell’impero ottomano ed ebbe un grande sviluppo: il suo monastero,
denominato "la soglia della presenza", fu la casa madre di numerosi conventi
fondati in Anatolia, Egitto, Siria e Balcani, cattedre dalle quali, per sette secoli, fu
propagato il suo messaggio d’amore.

La suprema autorità dell’ordine, detto "çelebi efendi", aveva il
privilegio di cingere la spada a ogni nuovo sultano. La cerimonia si teneva a Istanbul e,
per il suo significato, richiama da vicino l’investitura con cui nel medioevo i
vescovi di Magonza riconoscevano gli imperatori di Germania.

Nel 1925 Atatuk sciolse tutte le confrateite islamiche e mise i dervisci fuori legge,
perché troppo legati al decrepito regime ottomano e fautori di un irrazionalismo
inconciliabile con la coscienza laica della nuova Turchia. Essi, però, riuscirono a
sopravvivere come associazione culturale, ufficialmente riconosciuta nel 1957, destinata a
conservare una tradizione storica.

A metà dicembre di ogni anno, per l’anniversario della morte del maestro, i
dervisci eseguono le loro danze nel mausoleo di Konya; ma si esibiscono pure in altre
città della Turchia e nel mondo intero. Per il governo turco e per i curiosi le loro
danze sono espressioni folcloristiche, per i dervisci continuano a essere preghiera.

L’islam ufficiale disapprova tali danze, perché non trovano alcuna
giustificazione nel Corano; anzi, ritiene il sufismo un’eresia, perché antepone
l’amore all’obbedienza. Mevlana, invece, insegna che attraverso musica e danza
l’uomo entra nell’armonia cosmica e delle sfere celesti, fino a scoprire le avventure
affascinanti dello spirito e dell’amore di Dio.

È tradizione che Mevlana compose le sue più belle liriche spirituali nel rapimento
dell’estasi, mentre girava vorticosamente attorno a una colonna.

Vestiti e danza, compresi i singoli gesti e movimenti, hanno significati religiosi. La
cerimonia dei dervisci, detta "giro planetario", imiterebbe il roteare degli
astri attorno al sole. Per altri ripeterebbe la danza degli angeli attorno alla kaaba.

Cappello e mantello nero sono simboli della pietra tombale e la veste bianca del
lenzuolo mortuario del proprio ego. Quando i dervisci si tolgono i mantelli, rinascono
alla verità spirituale.

Comincia la danza: il derviscio incrocia le braccia all’altezza delle spalle per
riprodurre la prima lettera di Allah in caratteri arabi; poi le estende: la destra, aperta
verso il cielo, riceve i doni divini; la sinistra, girata verso terra, li dispensa al
popolo. Girando da destra a sinistra, egli stringe la creazione e tutte le nazioni del
mondo nell’amore.

La prima fase della danza è un elogio al profeta, nel quale sono elogiati tutti i
profeti e Dio loro creatore; nella seconda si sente il colpo del tamburo, simbolo del
comando di Dio; la terza segue un preludio del flauto, ovvero il soffio di Dio che ha dato
vita a tutte le creature. La quarta fase è costituita da tre marce circolari,
accompagnate da una musica ritmica, che simboleggia altrettanti saluti delle anime
nascoste nei corpi.

Il primo saluto, che esprime la nascita dell’uomo alla verità tramite il ragionamento,
segna la presa di coscienza dello stato di creatura e dell’esistenza di Dio creatore. Nel
secondo saluto c’è la rivelazione delle meraviglie della creazione: osservando il
mondo e se stesso, l’essere umano diventa testimone dello splendore e perfezione
dell’opera divina, si meraviglia davanti all’infinita potenza di Dio.

Il terzo saluto è il rapimento, il più alto grado dell’estasi mistica: l’uomo si
abbandona all’amore di Dio.

Quindi la musica si arresta; terminato il viaggio mistico e ascensione spirituale, il
derviscio ritorna ai suoi doveri terreni, come servitore di Dio e dispensatore di amore
verso tutte le creature e tutta la creazione.

Q uello di Mevlana è un islam dal volto mite e dialogico, ben lontano
dall’integralismo dei paesi arabi e arabizzati. Egli fu amico di saggi ebrei, preti e
vescovi bizantini. Si dice che abbia fatto 40 giorni di ritiro nel monastero di un monaco
suo amico. È certo che il suo insegnamento supera gli angusti orizzonti confessionali.
Predicava l’unità di tutte le confessioni religiose. Diceva: "Un giorno cadranno
tutti i minareti dalle moschee e le campane dalle chiese: allora ci sarà perfetta
unità".

Per questo si attirò molte simpatie. Alla sua morte nel 1273, partecipò gente di ogni
ceto, razza e fede, compresi ebrei e cristiani, che vedevano in lui una figura tanto
vicina a quelle di Gesù e Mosè.

I dervisci, da parte loro, hanno continuato a simpatizzare e dialogare sul terreno
filosofico con i cristiani: si opposero al massacro degli armeni in Turchia. Continuano a
predicare la pace universale, l’amore come fulcro di tutto, l’unione con Dio
come scopo della vita, l’accoglienza senza pregiudizio.

Sono eloquenti, al proposito, i versi del Màthnawi, che i dervisci hanno voluto
riportare su una parete del mausoleo di Konya:

"Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni.

Non importa se sei un infedele,

un idolatra o adoratore del fuoco.

Vieni, anche se hai infranto il giuramento cento volte,

vieni lo stesso.

La nostra non è la porta della disperazione e del tormento.

Vieni".

 

Articolo3

Sulle tracce di san Paolo e delle prime chiese cristiane

TERRA DI RELIQUIE

Una dozzina di missionari, pellegrini nella "seconda terra santa", culla
della missione ad gentes, rileggono le parole di Paolo dove furono pronunciate, ne
rivivono successi e persecuzioni, celebrano l’eucaristia dove Pietro e Paolo
radunavano le prime comunità cristiane per lo stesso rito… Sono emozioni
indimenticabili. Ma con tanto amaro in bocca: oggi la presenza cristiana è ridotta al
lumicino, frammentata in una miriade di minuscole chiese. Unica strada di sopravvivenza:
dialogo e testimonianza della carità.

Istanbul, prima tappa obbligata del pellegrinaggio, sembra una foresta di minareti
tutti uguali. "Ci sono oltre 3 mila moschee, 17 sinagoghe e 240 chiese cristiane, in
buona parte chiuse per mancanza di fedeli" spiega Alba, la guida turca, appena siamo
seduti nel pullman.

Un senso d’impotenza afferra il cuore dei missionari davanti a Santa Sofia, la
basilica fatta costruire da Giustiniano come "la più sontuosa dall’epoca della
creazione": inaugurata nel 537, trasformata in moschea dopo la conquista ottomana
(1453) con l’aggiunta di quattro minareti, ridotta a museo nel 1953, essa simbolizza
la parabola storica del cristianesimo in tutta la Turchia: florido, represso, ignorato.

E FU SUBITO CESAROPAPISMO

Nessun apostolo vi mise mai piede, anche se la leggenda fa risalire ad Andrea la
nascita della chiesa a Bisanzio e, appena questa diventò Costantinopoli, vi furono
traslate le sue reliquie, insieme a quelle di molti altri santi. Era la mania
politico-religiosa di quei tempi: l’origine apostolica e le reliquie dei martiri
servivano a dare alla nuova capitale prestigio e autorità nei confronti con Roma.

Più tardi anche i sultani, in competizione con la Mecca, vi porteranno i peli della
barba di Maometto, conservati nella sala del tesoro del Topkapi con le reliquie del
Battista.

Leggende a parte, la chiesa di Costantinopoli mostrò subito spirito missionario,
mandando evangelizzatori oltre le frontiere dell’impero. Il vescovo Wùlfila, per 40
anni (341-383), trasmise il cristianesimo nella versione ariana ai goti e visigoti a nord
del Danubio, elaborò un alfabeto e tradusse la bibbia nella loro lingua. Più tardi
l’imperatore inviò altri missionari a evangelizzare i popoli russi e slavi, tra i
quali i due fratelli di Tessalonica, Cirillo (826-869) e Metodio (815-885).

Può sembrare strano che fossero gli imperatori a inviare i missionari. Con Costantino,
infatti, nacque il cesaropapismo: i sovrani controllavano l’attività della chiesa,
compresa quella spirituale; a partire dal 754 essi cominciarono a fregiarsi del titolo di
isapostoloi (uguali agli apostoli).

In un clima del genere, Costantinopoli diventò il brodo di cottura in cui si
svilupparono varie eresie (arianesimo, monofisismo, nestorianesimo, origenismo,
macedonismo, monotelismo, monoergismo, iconoclastia) con gravi ripercussioni sulla vita
della capitale, dell’impero e della chiesa universale. Gli stessi sovrani
parteggiavano ora per l’una ora per l’altra eresia. Grandi vescovi, del calibro
di Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, lottarono per restituire alla chiesa la
legittima autorità, ma pagarono il loro coraggio con esilio e persecuzioni.

Per riportare la pace nella chiesa e nella società civile, gli imperatori convocarono
vari concili ecumenici: quattro furono tenuti a Costantinopoli e tre nelle immediate
vicinanze (Nicea e Calcedonia). Se non altro, eresie, concili e dispute teologiche
contribuirono a fissare la formulazione della fede della chiesa universale. Ne è un
esempio il credo niceno-costantinopolitano, in cui si riconoscono tutte le chiese
cristiane.

Purtroppo non tutte le comunità accettarono le decisioni dei concili, più per
fraintendimento di parole che per divergenze teologiche. Intrighi e intrallazzi politici
fecero il resto: la chiesa si frantumò gradualmente in una miriade di comunità
scismatiche, fino alla rottura definitiva dello scisma d’oriente (1054).

UNA CHIESA FRAMMENTATA

"A Istanbul – spiega Alba, rispondendo alle domande dei missionari -sono presenti
tutte le chiese cristiane: ortodossi greci, armeni, siriani, bulgari, siro-caldei;
cattolici di rito latino, siriano, caldeo, bizantino, armeno; anglicani, luterani,
evangelici… per nominare i più importanti".

Importanza relativa, se si fanno i conti: su 70 milioni di turchi, il 99% si dichiara
musulmano; i cristiani tutti insieme arrivano a 100 mila; sottrai quasi 60 mila armeni e
circa 30 mila cattolici, delle altre chiese rimangono reliquie.

"In teoria la Turchia è uno stato laico; in realtà manca la libertà religiosa –
risponde Alba alla nostra tempesta di quesiti -. Qui laicità non significa separazione
tra stato e chiesa, ma che il governo amministra, sorveglia e controlla l’islam. Gli
80 mila iman, per esempio, sono in pratica funzionari statali; i programmi
d’insegnamento sono fissati dal governo; sulla carta d’identità è scritta la
religione di appartenenza: musulmano, ebreo, cristiano. Se un musulmano passa al
cristianesimo, incappa in seri guai burocratici e giudiziari".

A schiacciare le minoranze religiose si aggiunge la discriminazione: cariche pubbliche
civili e militari sono tutte in mano ai musulmani; negli ultimi 10 anni, in Turchia sono
state costruite 10 mila nuove moschee; a Istanbul sono state aperte 400 scuole coraniche.
Zero nelle altre chiese.

Quella cattolica romana, poi, si trova in stato d’inferiorità assoluta: non è
riconosciuta come istituzione religiosa, anche se la Turchia ha un suo ambasciatore in
Vaticano. Di conseguenza le proprietà della chiesa sono intestate a singole persone;
difficoltà per i missionari (anche se vescovi) di ottenere o rinnovare i permessi di
residenza nel paese; possibilità di essere cacciati in qualsiasi momento e senza
spiegazioni.

"Che apostolato potete fare" domandano quasi in coro i missionari ai padri
domenicani della chiesa dei ss. Pietro e Paolo. "Dialogo e testimonianza della
carità – risponde padre Lorenzo, torinese, da 17 anni in Turchia e professore di latino
all’Università islamica -. Da tre anni abbiamo istituito un centro di documentazione
per il dialogo islamo-cristiano che raccoglie informazioni sul cristianesimo: ce
l’hanno chiesto i nostri amici musulmani e lo frequentano abbastanza. Inoltre, come
insegnante di latino, ho tante occasioni per stimolare negli studenti il confronto tra la
cultura cristiana e quella islamica e per rispondere alle loro domande".

PAOLO VIVE…

Ad Antiochia (oggi Antakya), nell’estremo sud della Turchia, i missionari
pellegrini respirano a pieni polmoni l’atmosfera della missione delle origini. La
celebrazione della messa alla Grotta di san Pietro è densa di emozioni: qui, appena un
anno o due dopo la morte di Cristo, fu predicato il vangelo dai discepoli scappati dalle
persecuzioni di Gerusalemme; qui Baaba, Paolo, Luca, Pietro (primo vescovo di
Antiochia), il successore e martire Ignazio radunavano la comunità cristiana per
l’eucaristia. Qui Baaba e Paolo "in un anno istruirono tanta gente" che
"per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani": un capolavoro di
"visibilità", se in pochi mesi riuscirono a distinguersi tra mezzo milione di
abitanti.

Da Antiochia fu provocato il concilio di Gerusalemme per risolvere il primo problema di
"inculturazione" della storia missionaria: "I fedeli provenienti dal
paganesimo devono farsi prima giudei (circoncisi) e poi cristiani?". La risposta fu
una liberazione. Nella pratica però, Pietro continuava a snobbare i pagani e, proprio ad
Antiochia, si scontrò con Paolo: una dialettica sempre attuale, risolta nella carità.
Qui, infine, nacque "l’aiuto tra le chiese sorelle", con la prima colletta per
soccorrere la comunità di Gerusalemme, colpita dalla carestia.

Durante la messa risuonano le parole dello Spirito: "Mettetemi da parte Baaba e
Saulo per l’opera a cui li ho destinati"; i missionari si sentono ancora una
volta chiamati per nome e, come Baaba, Paolo, Marco, inviati dalla comunità a portare
il vangelo ai confini della terra.

ECUMENISMO OBBLIGATORIO

A richiamare tutti con i piedi per terra ci pensa il cappuccino italiano padre
Domenico: "Nei primi secoli Antiochia aveva cinque vescovi di altrettante chiese
separate; oggi è ufficialmente titolare di cinque patriarcati; ma i patriarchi risiedono
a Istanbul, Aleppo o Damasco. Siamo rimasti solo due preti, quello ortodosso e il
sottoscritto".

La comunità è formata da una sessantina di cattolici armeni, siriani, maroniti; ma è
frequentata anche da ortodossi. "Dialogo ecumenico e interreligioso sono le uniche
forme di apostolato in Turchia – continua il padre -. Non è possibile alcun annuncio
diretto. Evangelizzare è dire ciò che siamo, spiegare la nostra fede. Con gli ortodossi
i rapporti sono buoni e costruttivi: da alcuni anni abbiamo aperto l’ufficio della caritas
per aiutare i poveri della città; facciamo assieme la campagna di quaresima e celebriamo
la pasqua nella stessa data; la domenica facciamo il culto in orari differenti per evitare
competizioni; spesso celebriamo insieme funerali e matrimoni".

Padre Domenico ha pure organizzato corsi di catechesi per i giovani, frequentati da
50-60 persone quasi tutte ortodosse. "Hanno capito che il nostro scopo non è il
proselitismo, ma aiutare i cristiani ad essere più cristiani – continua il padre -. È un
nuovo modo di essere chiesa. In situazione di minoranza l’ecumenismo è
d’obbligo".

Anche con i musulmani i rapporti sono buoni: molti vengono a informarsi sulla fede
cristiana. Nella chiesetta parrocchiale il padre ha posto alcune icone e se ne serve per
spiegare e rispondere alle domande sul nostro credo. In fondo alla cappella ha messo a
disposizione copie del vangelo e video-cassette: vanno a ruba.

I NUMERI NON CONTANO

Dialogo ecumenico e interreligioso anche ad Alessandretta (Iskenderun). Il movimento
neocatecumenale è composto quasi totalmente da ortodossi; anche qui molti musulmani sono
attratti dal cristianesimo, racconta padre Roberto, cappuccino italiano da 50 anni in
Turchia.

Nella testa dei missionari pellegrini affiorano come un chiodo fisso le solite domande:
la comunità cresce? quante conversioni?

"La chiesa cattolica in Turchia è divisa in tre vicariati – risponde il padre,
girando alla larga -: Istanbul per la parte europea, Smie e Alessandretta per
l’Anatolia. Qui non contiamo mai i fedeli; non è il numero che fa la chiesa. Cerchiamo,
soprattutto, di fare coraggio ai cristiani; altrimenti emigrano, perché non vogliono che
i loro figli soffrano ciò che essi hanno patito. Ad ogni modo, abbiamo vari giovani nel
catecumenato, ma andiamo molto adagio a battezzare. Chi si fa cristiano ha vita
dura".

Alessandretta conta circa 200 cattolici; poco più di un migliaio l’intero
vicariato. "Poi ci sono i cristiani nascosti, battezzati da bambini – continua il
padre -; ma hanno paura di manifestarsi, non tanto dello stato, ma dei parenti, società e
altre chiese".

Intanto l’afflusso di pellegrini che visitano i "luoghi santi" nel paese
serve a risvegliare i cristiani turchi, che non si sentano più soli e stanno riscoprendo
le radici della loro fede.

"MAMMA, LI CROCIATI!"

Lo sperano anche Emmanuela e Maria, due "Figlie della chiesa", che da sei
anni testimoniano la carità e accolgono i pellegrini a Tarso. "Non conosciamo ancora
alcun cristiano – dice Maria -. Forse ci sono. La vista di tanti cristiani potrebbe dare
loro coraggio per venire allo scoperto: allora si potrebbe raccogliere le firme per
chiedere il permesso di celebrare regolarmente i servizi religiosi in questa chiesa e
magari riscattarla".

Infatti, la chiesa dove celebriamo l’eucaristia, costruita dai crociati, è stata
requisita e dichiarata museo: per ogni azione di culto bisogna chiedere il permesso e le
chiavi al direttore. I tentativi fatti dal vescovo per comprarla sono andati a vuoto.
"La nostra presenza rinfocola paure secolari – spiega la suora -. Noi diciamo
"mamma li turchi"; essi rispondono "mamma li crociati"".

I missionari si tuffano nella memoria di san Paolo: visitano il pozzo che porta il suo
nome; baciano le pietre della strada romana da lui calcate… ma con un groppo in gola:
nella città dove l’apostolo nacque e predicò il vangelo almeno in due occasioni dei
suoi viaggi missionari, non è sopravvissuta neppure la reliquia di un mattone che possa
dirsi cristiana.

Anche a Iconio (Konya) i pellegrini devono accontentarsi della memoria, rinfrescata
dalla lettura degli Atti degli Apostoli: qui Paolo e Baaba predicarono a lungo nel loro
primo viaggio missionario (47 d.C.); fecero molti discepoli tra giudei e greci, suscitando
la rabbia degli "integralisti" ebrei, che decisero di lapidarli.

I due apostoli fecero in tempo a scappare; ma i più facinorosi li inseguirono per una
trentina di chilometri, fino a Listra: trascinarono Paolo fuori della città e lo
tramortirono a sassate. Ma alla fine del viaggio, tutti e due tornarono a Iconio per
rincuorare e organizzare la comunità, dicendo loro che "bisogna attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio".

Sono parole che i missionari sanno a menadito; ma rileggerle nel luogo dove Paolo le
visse sulla propria pelle fa un certo effetto, anche in quelli un po’ fissati con i
numeri di battesimi e successi a buon mercato.

A ricordare le tracce di san Paolo rimane una chiesa, costruita agli inizi del 1800,
dove si può pregare a volontà, senza bisogno di permessi. Nell’abside spiccano le
immagini di Paolo, Timoteo, suo grande collaboratore, e santa Tecla, nativa di Iconio,
discepola paolina e grande missionaria. Ma la comunità attuale è ridotta a cinque o sei
cristiani, tra cui due suore trentine, Isabella e Serena.

Dopo 2000 anni Iconio non si smentisce: è la città più conservatrice e integralista
della Turchia: s’incontrano donne velate da capo a piedi; la maggioranza dei
ristoranti non servono alcolici. In casa le suore indossano una croce; quando escono la
tolgono. Non per paura di essere lapidate. "La gente è gentile – spiega Isabella -.
Ma la legge vieta abiti e simboli religiosi e ideologici. La nostra è una presenza
discreta, fatta di accoglienza e contemplazione".

ESSERCI O NON ESSERCI?

A 230 km incontriamo un’altra presenza discreta: Heirich e David, laici trentini
della "Comunità di san Valentino", che da sei anni vivono a Uçhisar, nel cuore
della Cappadocia, dediti alla preghiera, ascolto della parola di Dio e della gente.
Insieme alle suore di Iconio, sono stati inviati qui dal vescovo di Trento, come gesto di
riconoscenza per il dono della fede, seminata in Val di Non da tre missionari cappadoci:
Sisinio, Martirio e Alessandro, martirizzati nel 397.

In questa regione turca il vangelo arrivò molto presto: il giorno di pentecoste a
Gerusalemme c’erano "abitanti della Cappadocia". Forse tra i primi
missionari arrivarono anche Pietro, partendo da Antiochia, e Paolo, in viaggio verso la
Galazia.

È certo che la fede vi si radicò in profondità, fecondata dal sangue di numerosi
martiri e illuminata da vescovi dotti e dinamici, come i padri cappadoci: Basilio di
Cesarea, suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Al Concilio di Nicea (325)
la Cappadocia era presente con 7 vescovi (di città) e 5 corepiscopi (di campagna).
All’inizio del IV secolo i missionari cappadoci erano arrivati ai confini
dell’impero e oltre: il vescovo Gregorio Illuminatore, per esempio, evangelizzò
l’Armenia.

Al tempo stesso ci fu una straordinaria fioritura di anacoreti, dediti alle forme più
fantasiose dell’ascesi cristiana: stiliti, reclusi, incatenati, solitari, senza
tetto, muti… San Basilio li mise in riga. "La vita solitaria è oziosa e senza
frutto, contraria al vangelo e alla natura sociale dell’uomo – diceva -. Solo la vita
comunitaria obbedisce al comandamento dell’amore verso Dio e verso gli altri". E
dettò le regole del monachesimo cristiano: piccole comunità di preghiera, servizio ai
poveri, malati, viandanti, avviamento al lavoro, missione e cura spirituale delle anime.

I pellegrini incassano la lezione: il missionario è un "contemplativo in
azione".

Ad attestare l’enorme sviluppo dell’eremitismo e monachesimo nelle valli
lunari della Cappadocia restano innumerevoli monasteri scavati nel tufo: attorno a Goreme
si contano 2 mila chiese rupestri. La resistenza dei cristiani alle invasioni arabe è
testimoniata dalle immense città-rifugi scavate sotto terra. Ma poi, sotto il rullo
compressore dei turchi selgiuchidi e ottomani non si salvarono neppure gli angeli, madonne
e santi, che decorano le chiese: in obbedienza al corano, che vieta ogni raffigurazione
umana, le loro facce furono prese a sassate.

"Siamo qui non per fare, ma per essere, anzi per "esserci" – spiega
fratel Davide -. Il ritmo di vita (5 ore di preghiera al giorno, lavoro di casa e
disponibilità) è un filo ideale che ci riallaccia ai monaci dei primi secoli; essendo
gli unici cristiani in Cappadocia, rendiamo presente Gesù col nostro esserci, aspettando
che il Signore realizzi i suoi piani".

Guardo le facce dei miei confratelli: gli occhi sbarrati per l’ammirazione; le
labbra torcono come se succhiassero un chiodo.

MERYEM ANA, PENSACI TU!

Il nostro pellegrinaggio si conclude a Efeso e sono emozioni a non finire. Prima di
tutto le rovine della grandiosa basilica fatta costruire dall’imperatore Giustiniano
(540) sulla tomba dell’evangelista Giovanni. In ginocchio sulla predella
dell’altare, mi pare di sognare: a pochi centimetri ci sono le reliquie del discepolo
prediletto. Vorrei dirgli tante cose, ma non mi riesce di formulare neppure una parola. E
resto in silenzio.

Passiamo alle splendide rovine della città greco-romana. Centinaia di europei,
americani e giapponesi si aggirano per le strade, come se Efeso fosse per incanto tornata
la città cosmopolita di 2 mila anni fa. E sembra di rivedere Paolo, che percorre le
stesse vie per recarsi alla sinagoga e, tre mesi dopo, quando i giudei gli rendono
difficile la vita, si sposta nella scuola di Tiranno: qui, dalle 11 alle 16, ogni giorno e
per tre anni, discute con una folla di artigiani che sacrificano la siesta per ascoltare
la buona notizia.

La fantasia non ha freni quando ci sediamo sui gradini del teatro: il battagliero Paolo
affronta l’ira di commercianti e argentieri che lo vogliono linciare: lo accusano di
mandare in malora i loro affari, poiché la gente non compra più statue e ricordini della
dea Artemide.

Nella cosiddetta basilica del concilio, prima chiesa al mondo dedicata alla Madonna, al
ricordo di Paolo si sovrappone quello di 200 vescovi, radunati (431) per controbattere le
teorie di Nestorio, patriarca di Costantinopoli: costui afferma che bisogna chiamare Maria
"Madre di Cristo" e non "Madre di Dio". Non è una quisquiglia: è in
gioco il mistero dell’incarnazione. Ma basta una sessione e i vescovi, con a capo
Cirillo di Alessandria, riaffermano unanimi che la Madonna è realmente la Theotokos
(Madre di Dio) e solennizzano l’evento con una fiaccolata in suo onore per le vie
della città.

Benedetto Bellesi

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