Globalizzazione: l’opinione di Riccardo Petrella

Nel conflitto dell’«oro blu»

Intervista rilasciata nell’ambito
della "Scuola per l’alternativa" (fondata a Torino dai missionari della
Consolata, Cisv e Vis). Temi affrontati: ideologia della competitività, "oro
blu", inevitabilità della globalizzazione, mercificazione delle culture.

L’interlocutore è un "europeo": presidente del "Fast",
fondatore del "Gruppo di Lisbona",docente e autore di testi di economia
politica.

 

 Professor Petrella, cos’è il Fast, di cui lei è stato presidente?

"Fast" (Forecasting and Assesment in Science and Technology) è stato un
programma della Commissione europea di previsione e valutazione delle conseguenze
economico-sociali della scienza e tecnologia: circa il lavoro, l’energia solare, la
clonazione delle cellule. Individuati e giudicati i fenomeni, occorreva operare per
scongiurare gli aspetti negativi.

  Oggi lei è presidente del "Gruppo di Lisbona", dopo
essee stato fondatore. Con quale scopo?

Nel 1991 ho fondato il "Gruppo" invitando una ventina di studiosi, impegnati
nella scienza e nella politica, a scrivere un manifesto contro l’ideologia della
competitività: questo perché, lavorando nel "Fast", avevo notato che in
occidente la scienza serviva in grande scala le imprese nazionali e private sui mercati
mondiali. È una perversione che in Italia, per esempio, lo scopo principale dello
sviluppo tecnico, scientifico e politico sia quello di consentire alle imprese di essere
competitive.

  Questo discorso, nel "Fast" e nel "Gruppo di
Lisbona", è rivolto agli imprenditori, ai politici o anche alla gente comune?

Il "Fast" aveva come scopo di elaborare una politica della scienza-tecnologia
per i leaders dell’Europa; invece il "Gruppo di Lisbona" è
un’iniziativa per parlare alla gente. Al posto dell’ideologia della
competitività, abbiamo proposto che la scienza e tecnologia creino una maggiore ricchezza
mondiale, con beni comuni, per permettere a tutti il diritto alla vita.

  Vi siete pure dati un appuntamento per il 2020. State conseguendo
qualche risultato?

Abbiamo detto: diamoci 20-25 anni di coscientizzazione, affinché la scienza e
tecnologia consentano a tutti il diritto all’acqua, all’alimentazione, alla
salute. Ma i capi dell’Unione Europea, a partire dalla Commissione presieduta da
Prodi, riaffermano la subordinazione della scienza alla competitività delle imprese. Nel
marzo del 2000, al Vertice di Lisbona, i 15 governi dell’Unione hanno sottoscritto il
documento "E Europe" (Europa elettronica): hanno accolto la tesi che saremmo
diventati e economia, e politica, e sanità, e istruzione. Tutto è elettronico, al
servizio della competitività esasperata.

  Di conseguenza lei punta ad una istruzione diversa e mette tutti in
guardia da alcune "trappole". Oggi non vale più l’"io so… quindi
posso"?

Vale, eccome! Altrimenti, che ci farei all’università?

  Ma ci sono delle trappole. Quali?

La prima trappola è l’istruzione al servizio delle risorse umane, e non della
persona. Si dice: a scuola ci vai per diventare una risorsa redditizia e sfruttabile sul
mercato, non per crescere come cittadino critico.

Seconda trappola: la formazione necessaria è quella che permette di aumentare la
competitività del paese. Quindi c’è una separazione crescente tra conoscenze
"utili" e "non utili". L’"utile" riguarda la finanza,
il marketing, l’informatica. Oggi se, nel consiglio di amministrazione
dell’università, proponi una cattedra di letteratura bizantina, ti deridono perché
"a che serve"? Ma, se sostieni una cattedra per insegnare le tecniche di
riconoscimento della voce… del frigorifero (che, al tuo "apriti!", risponde
"sì, amore!"), allora tutti ti applaudono.

Piano piano (terza trappola) trasformiamo l’educazione da servizio pubblico e
collettivo ad una attività mercantile, subordinandola alla logica dei prezzi. La scuola
non è più un bene per tutti, ma soltanto di chi paga: è merce. Grazie ad internet, a
distanza non si vende solo il profumo personalizzato, ma anche il programma educativo. È
nata l’università virtuale, con studenti che pensano di autoeducarsi on line. Una
delle trappole più negative!

Ma ce n’è un’altra più pericolosa ancora: l’educazione come
legittimazione delle disuguaglianze sociali, dovuta alla disparità di conoscenze.

Si dice: poiché tutti hanno pari opportunità iniziali di studiare, se tu non ce la
fai, la colpa è solo tua.

  Il che è falso.

Spudoratamente falso, perché di fronte allo studio non c’è par condicio. A
prescindere dal sud del mondo, mi riferisco anche agli studenti del medesimo quartiere in
Europa. I miei figli sono andati a scuola, come quelli dell’emigrato marocchino (che
abita sulla stessa via a Bruxelles), ma con risultati diversi: e non perché i figli miei
siano più intelligenti. Le ragioni della disparità di rendimento sono altre. In Belgio
il 20% degli studenti frequenta l’università e (guarda caso!) il 92% di costoro
appartiene a famiglie ricche.

 

Professor Petrella, nel suo libro Il manifesto dell’acqua, lei affronta
un’altra disparità, legata al problema dell’"oro blu", cioè
l’acqua. Che dire dell’"oro blu" in Africa nella tragica guerra dei
"Grandi Laghi"?

Nella regione dei Grandi Laghi è evidente che una delle cause del conflitto è
l’accesso alle risorse idriche.

Ma esiste anche il problema mondiale dell’"oro blu", che è un discorso
di dominio. Perché l’acqua è "oro"? Perché è stata mercificata,
conferendole il valore di scarsità, rarità, preziosità… Il 70% dell’uso
dell’acqua è per fini agricoli, il 20% per scopi industriali e il 10% per impiego
domestico. E si dice: siccome l’acqua agricola e potabile è inquinata, bisogna
purificarla. Così diventa "oro" sempre più costoso.

  Ma l’acqua da chi è inquinata?

È questo il punto, perché se rimoviamo le cause dell’inquinamento delle acque,
non sarebbe più "oro".

Poi si dice: nei prossimi 20 anni la popolazione nel mondo crescerà di 2 miliardi, con
un ingente fabbisogno di acqua, mentre le risorse idriche resteranno stabili. E chi usa
l’acqua? L’occidente consuma l’88% delle risorse idriche mondiali per
l’agricoltura, il cibo, l’igiene, ma anche per l’industria: occorrono 400
mila litri di acqua per i 3 mila pezzi di un’auto. Siamo nel settore automobilistico,
che copre solo il 20% del mondo industriale. In media un europeo consuma acqua 80 volte di
più di un asiatico. Quindi 1 milione di italiani consuma acqua quanto 80 milioni di
indiani. Allora il problema non è la crescita demografica nel sud del mondo, ma la gente
nel nord; è la conservazione del sistema economico nel nord, assetato anche di acqua.

  Acqua minerale (imbottigliata) o del rubinetto?

Io parlavo dell’acqua del rubinetto. La minerale esige un’altra riflessione.
Oggi sembrerebbe che il 52% degli europei bevano solo acqua minerale (con l’Italia in
testa), che costa 500-1000 volte di più di quella potabile del rubinetto. In Italia
l’acqua che si beve maggiormente è San Pellegrino (della Nestlé) e Ferrarelle
(Danone). Dati i prezzi, gli affari sono elevati. Ma bisogna stigmatizzare anche il
comportamento dei consumatori. Inoltre va ricordato che l’acqua del rubinetto è più
sana di quella minerale. Questa, secondo la legge italiana, non è considerata potabile,
bensì terapeutica, che il marketing ha trasformato in bene di consumo. Nelle acque
minerali si possono trovare dosi di arsenico.

 

Questo è terrorismo psicosociale?… L’attuale sistema economico non
avrebbe alternative. È noto l’acrostico "Tina" (cioè "There is no
alternative"), di cui si fa scudo la globalizzazione. O l’alternativa c’è?

Non esiste l’inevitabilità nei sistemi economici. Se al presente privatizziamo
tutto, non significa che non ci siano progetti economici alternativi. L’Inghilterra
con la Thatcher ha privatizzato le ferrovie, però oggi discute se nazionalizzarle,
perché "i treni sono usciti dal binario"… Dal 1945 al 1973 vigeva un sistema
finanziario internazionale basato sul cambio fisso, con un tasso di crescita mediamente
più confortante rispetto al 1973-98, quando i cambi non sono più stati fissi e si è
imboccata la via della privatizzazione. Può darsi che si ritorni al sistema precedente…

Il MAI (1) era ritenuto inevitabile, ma fu bloccato. Nel software per ora vince
Microsoft, ma Linus potrebbe prendersi la rivincita, perché nulla è scontato. Anche
"il popolo di Seattle" (a prescindere dalle violenze di pochi scalmanati)
dimostra che la globalizzazione non è l’unico modo di impostare l’economia.

Il 27 aprile il papa, all’Accademia delle scienze in Vaticano, ha detto
che la globalizzazione a priori non è né positiva né negativa; dipende dall’uso
che se ne fa…

In una valutazione a priori Giovanni Paolo II ha ragione. Però, calandoci hic et nunc
nella realtà, non si può dire che "questa" globalizzazione sia neutra.

  Per questo il papa pone dei limiti: l’attenzione alla persona
e il rispetto di tutte le culture. Diversamente, la globalizzazione è colonialismo.

Però attenzione al tranello, perché la globalizzazione accetta le diversità di
cultura. Oggi le potenze scientifiche mediatiche ostentano di valorizzare, per esempio, la
religiosità plurimillenaria dell’Asia grazie ad internet. E lo fanno. Poi c’è
lo studio delle lingue…

  Ebbene, dov’è il tranello?

Il tranello è che ti offrono solo culture "mercificate". Si accettano altri
modi di vestire, mangiare e cantare, ma non di pensare. Non si accetta una politica
diversa da quella occidentale. Qui il papa ha ragione quando parla di colonialismo.

I dominatori della globalizzazione vogliono convincerci che "le guerre di
civiltà" sono inevitabili. È una tesi condivisa pure da indù e musulmani, fautori
delle "guerre di religione" per difendersi, specie se minoritari. Perché gli
indù ammazzano i musulmani in India e viceversa in Indonesia? Perché i cristiani (se
possono) vogliono conquistare il mondo con l’evangelizzazione? I dirigenti, invece di
promuovere sempre il rispetto dell’altro, ne criticano la mancanza solo quando loro
conviene. La difficoltà del missionario o dell’intellettuale è eloquente: pur
aperti, sono sempre parte di una cultura che li condiziona. L’arroganza del
"pensiero unico" è in agguato (2).

  Ha fatto sensazione nel 1991 il libro E se l’Africa rifiutasse
lo sviluppo? di Axelle Kabou (camerunense), con la tesi: mentre lo sviluppo si è
realizzato in occidente e in qualche paese dell’Asia, è fallito in Africa, perché
la cultura locale è parassitaria, pigra.

È abbastanza vero che la cultura africana è antropologicamente refrattaria allo
sviluppo del capitalismo mercantile. Ma questo potrebbe tramutarsi in una opportunità per
i popoli africani. Forse il XXI secolo sarà dell’Africa.

 

 Il fatto è che l’Africa, stretta dal Fondo monetario internazionale
o dall’Organizzazione mondiale del commercio, è in crisi e deve accodarsi al più
forte che le impone il "pensiero unico" (2).

Mi auguro che questo sia un fatto passeggero. Io sono prudentemente fiducioso sul
futuro dell’Africa.

Circa il "pensiero unico", ritenuto (come la globalizzazione) necessario per
tutti, noto qualche significativo "distinguo". Si veda il Giappone, il paese
asiatico più occidentalizzato, che ha conservato il culto degli antenati con gli altarini
in famiglia; ha il culto della vita, corpo e anima, che gli deriva dallo scintornismo… Pur
nel "pensiero unico", il pluralismo non è morto. Oggi si parla di
globalizzazione dal volto umano, con nuove regole, sconfessando quindi quella precedente.
Anche questo è pluralismo.

  Professore, se lei dovesse presentarsi ai lettori di Missioni
Consolata, cosa direbbe di se stesso?

Che sono "un operaio della parola", presente per indicare soluzioni
alternative alla mondializzazione dell’economia di mercato.

 

  

(1) Il MAI (Multilateral Agreement on Investment, accordo mondiale sugli investimenti)
prevedeva non solo libertà di investire, ma anche garanzia di protezione persino nel sud
del mondo; in caso di perdite, lo stato avrebbe dovuto risarcire gli investitori.
L’"accordo" (che aveva il benestare di Renato Ruggiero, allora direttore
dell’Organizzazione mondiale del commercio) venne bocciato nel 1998 (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 1999).

(2) Sul "pensiero unico", cfr. Ignacio Ramonet (e AA. VV.), Il pensiero unico
e i nuovi padroni del mondo, Strategia della lumaca, Roma 1996.

Francesco Beardi