Lettere: cari missionari
Soldi…
coltello
Caro
direttore,
complimenti per il dossier «Soldi e missione» (Missioni Consolata, aprile
2001). Alla luce di quanto è stato scritto, faccio alcune considerazioni.
n Dopo il
fallimento dei programmi di cooperazione governativa e i processi di «mani
pulite» contro la corruzione, molte nazioni dell’occidente (specialmente
del Nordeuropa) inseguono i missionari nel destinare i fondi per lo
sviluppo nel sud del mondo: perché i missionari vivono con la gente, ne
parlano la lingua e conoscono la mentalità, non riscuotono salari e,
anche, salvano la faccia dei paesi donatori facendo sì che i soldi
arrivino veramente ai poveri. Circa i 1.900 miliardi di lire destinati
dall’Italia al terzo mondo, Giorgio Torelli, nel suo libro Baba Camillo,
affermava che i denari sarebbero stati spesi meglio attraverso i
missionari. Invece che fine hanno fatto?
n Anch’io,
come scrive padre Eesto Viscardi, autore del dossier, non ho mai capito
perché sia sempre complicato reperire soldi per erigere una cappella… e
non per un allevamento di animali. Ancora più sconcertante è che, quando
negli anni ’90 ero missionario in Uganda, varie associazioni cattoliche
europee (nonché il mio istituto) hanno negato i denari per completare una
cappella in costruzione dal 1972. È stata un’organizzazione luterana della
Svezia che mi ha aiutato a terminare l’opera!
n Non c’è
dubbio che gli italiani, di fronte ai problemi missionari, sono un popolo
generoso, se non il più generoso. Lo dico da canadese (che ha anche il
passaporto italiano). La generosità è da lodare sia per quantità che per
qualità. Gli aiuti italiani sono veramente «cattolici», cioè universali,
senza frontiere e condizioni.
n La
provvidenza ci mette a disposizione cospicue somme di denaro, frutto di
rinunce di tante persone semplici, spesso di condizione modesta. Mi
chiedo, come missionario, se sono degno di ricevere i frutti di tanta
bontà. I soldi sono come un coltello… che si può usare per spalmare il
burro sul pane o ammazzare qualcuno.
n Noi
missionari della Consolata dobbiamo essere amministratori trasparenti;
dobbiamo essere pronti ad aprire i libri di contabilità ad ogni persona e
a qualsiasi ora; soprattutto dobbiamo ricordarci che quanto ci è stato
donato non è nostro, ma dei poveri, e che dobbiamo avere uno stile di vita
semplice e sobrio.
p. Marco
Bagnarol
Cacém
(Portogallo)
Il beato
Giuseppe Allamano ricordava ai suoi missionari: «Non dimenticate mai che
le offerte sono frutto dei sacrifici dei benefattori e richiedono non solo
che preghiamo per loro, ma soprattutto che ai loro sacrifici
corrispondiamo con qualche sacrificio… Quando leggo l’elenco delle
offerte sulla rivista, vi assicuro che faccio una vera meditazione…
Quelle cifre sono lacrime, sono sangue!».
Per
ragioni di riconoscenza e trasparenza, da 103 anni la nostra rivista
pubblica l’ammontare delle offerte ricevute.
Claudia… e
le tigri!
Spettabile redazione,
un «bravo»
a Claudia Caramanti per i reportages da Armenia, Georgia, Turkmenistan e
Uzbekistan. Oltre ai testi, ho apprezzato pure le foto.
Penso, in
particolare, alla madrasa «sher dor» di Samarcanda, con le bellissime
tigri stilizzate: un tesoro dell’arte islamica. Abituati a vedere i grandi
felini dalla televisione (ossia nelle vesti di dominatori delle savane
africane e delle giungle indiane), forse non tutti sappiamo o ricordiamo
che, allo stato naturale, le tigri sono esistite anche in Asia occidentale
e centrale; se oggi sono scomparse da questa enorme area, ciò non è dipeso
dal normale processo evolutivo.
Fino a non
molti decenni fa, una frazione importante delle oltre 100 mila tigri
dell’Asia viveva proprio nelle tugaji, che si estendevano tra Dusanbe e
Tashkent, tra Bukhara e Samarcanda, tra Ashkabad e Teheran, ed erano
presenti anche in Azerbaigian, Georgia e Armenia (Varrone Reatino, nella
sua grammatica, scrive che «tigre» è una parola di origine armena…).
Se oggi le
uniche tigri visibili sono quelle di Sher Dor, il colpevole è solo
l’egoismo dell’uomo che, oltre a sterminare i grandi caivori per
trasformarli in pregiate pellicce e prestigiosi trofei, ha degradato gli
ecosistemi, togliendo spazi vitali a tanti erbivori, agli uccelli e
persino ai pesci.
Questi
territori, per decenni, sono stati controllati da partiti comunisti in un
regime che si è fregiato di «Unione delle repubbliche socialiste
sovietiche». Ma il modo con cui i burocrati locali hanno massacrato i
bacini del Caspio, Aral, Amu Darya e Syr Darya, ha nulla da invidiare a
quello del capitalismo ecocida presente e passato. E, se neppure gli
autori del libro nero sul comunismo hanno speso una parola per denunciare
questo crimine, ciò non significa che l’impatto sia stato meno devastante:
vite umane sacrificate, profughi, mancanza di prospettive per le future
generazioni.
Nelle
città e campagne intorno a quello che un tempo era il pescosissimo Mare
Aral, la mortalità prenatale e infantile è quattro volte superiore a
quella (peraltro drammatica) registrata nell’ex Urss europeo.
Spero che
pubblichiate altri servizi su questa regione, senza dimenticare l’Asia
centrale non sovietica. Anche qui il business del petrolio, la
sperimentazione nucleare, un’agricoltura volta solo a incrementare i
profitti delle mafie del cotone, tabacco, e oppio… hanno provocato dei
danni irreparabili. Penso ai bacini dell’Ili e Tarim, all’antica Zungaria,
al sistema di laghetti del Lop-nor, descritto dal grande esploratore
svedese S. A. Hedin.
Fino a
50-60 anni fa, anche questa era terra di tigri e uomini che sapevano
valorizzarla vivendo in equilibrio con tutte le specie animali. Oggi Tigri
Lop-nor è solo il nome di un movimento indipendentista e terroristico, che
lotta per sottrarre il Turkestan cinese (con forte presenza islamica) alle
prepotenze di regime di Pechino e al suo piano di omologazione culturale.
Un piano che non prevede spazi vivibili per le minoranze etniche e
religiose.
Ave
Baldassarretti
Fano (PS)
Grazie di
questa lettera, con in calce anche un’abbondante bibliografia da
consultare… Intanto l’amico-lettore si «goda», su questo numero, un
altro reportage della nostra collaboratrice Claudia Caramanti: questa
volta dal Pakistan (vedi pp. 52-59).
Non
perderti…
nella
corsa consumistica e materialistica, per inventare un modo diverso di
trascorrere il tempo libero, lo svago o qualcosa che ti realizzi: la
passione per il divertimento, il computer, le auto… Basta essere piccoli
volontari dell’amore in ogni occasione che capita.
Non avere
paura o riluttanza nel privarti di una parte del tempo (anche nei luoghi
di lavoro, se è possibile) per donare qualcosa. A volte basta un piccolo
gesto per accendere un sorriso.
Prova a
privarti di qualche bene personale, per andare incontro alle necessità
altrui (non solo economiche, di salute o lavoro), ricordando le parole di
Gesù: «Chi vuole essere il più grande sia il servo di tutti… Ciò che fai
al più piccolo dei fratelli lo fai al Signore stesso».
Massimo
Piermattei
(via
«e-mail»)
L’«incompiuta» dell’anno santo…
Caro
direttore,
da mesi le
celebrazioni dell’anno santo sono finite nella tomba dell’oblio. Io però
sento ancora, nelle mie orecchie, le promesse d’uguaglianza e giustizia
tra i popoli, promesse fatte da Dio come frutto dell’anno della
riconciliazione.
Fossi
stato io papa, la notte di natale 1999, al momento di aprire la porta
santa (ma può una porta essere «santa»?), mentre le videocamere e tutti i
mezzi di comunicazione erano puntati sul pontefice, mi sarei girato verso
di loro e avrei proclamato ai quattro venti: «Il papa non aprirà nessuna
porta santa, finché i paesi ricchi non avranno assunto un serio impegno di
condonare il debito ai paesi in via di sviluppo, e finché non saranno
varate leggi alle Nazioni Unite per risolvere il problema della fame nel
mondo. Buona notte!…».
Oggi, nel
sonnolento dopo-pranzo, dò un’occhiata a diversi giornali e riviste.
Constato che, dopo ben 18 mesi dal proclama al mondo di un anno speciale,
propizio alla concordia, ad accorciare le distanze tra i popoli e a
diminuire le differenze tra ricchi e poveri, non ci sono grandi risultati.
Anzi, i
milioni di poveri, che muoiono ogni anno per fame o malattie causate da
essa, continuano ad aumentare. Aumentano guerre e conflitti, armati o
meno. Non è diminuita l’intolleranza verso lo straniero, e i disadattati
sono in costante incremento.
Non dubito
che, nell’anno santo, ci siano state delle conversioni personali e persino
comunitarie (le seconde, però, molto scarse). Queste santificano la chiesa
e la rendono migliore dal di dentro.
Io, però,
mi sarei aspettato pure qualche gesto esterno da parte della nostra chiesa
ufficiale. Magari una parola di speranza per il ritorno degli oltre 25
mila preti, tagliati fuori per decreto dal ministero perché hanno scelto
il matrimonio. Oppure dei passi significativi verso l’accettazione della
donna in qualche ministero ecclesiale, verso il suo inserimento effettivo
in cariche importanti, come avviene nella politica.
Non
sarebbe stata bella qualche mozione per una maggiore democrazia
all’interno della chiesa?
Non vi
sarebbe piaciuto che alla teologia della liberazione, relegata nell’ombra
della dimenticanza, fosse stato dato un colpetto d’incoraggiamento sulla
schiena? Sarebbe poi tanto male renderla ancora viva in una chiesa che, la
domenica mattina, sbadiglia durante le monotone prediche di numerosi
sacerdoti?
Come
sarebbe stato bello, per me e forse per tanti altri, vedere alcuni nostri
inamidati e «grandi della chiesa», a capo di dicasteri romani, sorridere
un po’ ai teologi condannati per motivi anche giusti, ma senz’altro
suscettibili di tolleranza. Non era, forse, l’anno della riconciliazione?
Quanto avremmo apprezzato un abbraccio tra il teologo ritenuto avanzato e
il rigido censore! Il tutto magari trasmesso per tivù all’intero mondo:
una riconciliazione globale!
Mi sarei
pure aspettato qualche passo in più verso l’unificazione delle chiese.
L’anno
santo è servito a molte entità (tutte del nord) per ingrossare i loro
conti in banca. A me sembra di ricordare che, agli inizi degli anni ’70,
un dotto papa aveva scritto che «l’aumento della ricchezza nei paesi
sviluppati dipende direttamente dall’impoverimento di quelli in via di
sviluppo». Ebbene, l’anno santo ha pure aumentato la povertà del Terzo
mondo?
Se oggi
l’umanità non ha ancora risolto, tra gli altri, il gravissimo problema
dell’equa distribuzione della ricchezza(e non si vedono soluzioni né a
corta né a lunga scadenza), ditemi voi a che cosa è servito questo
benedetto anno santo?
Il re è
veramente nudo!
Lettera firmata
Addis Abeba (Etiopia)
Il 6
gennaio 2001 si è concluso il giubileo del 2000. In tale occasione
Giovanni Paolo II, con la lettera apostolica Novo millennio ineunte, ha
tracciato un bilancio dell’evento. Tra i fatti significativi si ricordano:
la richiesta di perdono, il raduno dei giovani e l’incontro con i
carcerati, il pellegrinaggio in «terra santa», l’«apertura ecumenica» di
una porta santa (compiuta dal papa, dal primate anglicano e da un
metropolita del patriarcato di Costantinopoli), l’impegno per il condono
del debito estero dei paesi poveri, la riaffermazione della scelta
preferenziale dei bisognosi.
La lettera
«punta in alto» ricordando anche le sfide del futuro: il dissesto
ecologico, i problemi della pace, il vilipendio dei diritti umani, le
biotecnologie (con i loro problemi etici) e, non ultimo, il dialogo
interreligioso… per evitare «lo spettro funesto delle guerre di
religione».
Questo (e
altro) rivelano che l’anno santo è rimasto «incompiuto».
L’auto…
missionaria
Egregio
direttore,
sono un
lettore un po’ anziano della sua rivista: mi interessano molti articoli.
Inoltre ho visto personalmente che cosa fanno in Etiopia i missionari
della Consolata: cose meravigliose! Però, spesso, non sono d’accordo con
le tesi estreme sostenute da Missioni Consolata.
È proprio
vero (vedi l’editoriale di aprile 2001) che «anche quando sono fermi…
tutti gli autoveicoli sono un monumento allo spreco»? Questo vale anche
per gli automezzi, senza i quali il missionario vedrebbe paurosamente
restringersi il suo campo d’azione? E se no, perché scriverlo?
ing. Edmondo Schmidt
Roma
Il signor
Schmidt continua a leggere Missioni Consolata, nonostante le divergenze di
opinione con la rivista. Questa è una testimonianza di pluralismo e
tolleranza, che apprezziamo molto.
Un
editoriale è anche provocatorio. In tale senso va colto lo scritto a cui
si riferisce il lettore, consapevoli che gli automezzi, oltre che
consumare, sono pure inquinanti.
Circa il
«nostro» uso dell’auto, vale il detto
«est modus in rebus». Ma
il problema resta, anche per i missionari.
Il «nostro
genoma»
Felicitazioni per lo «straordinario» sul centenario dell’Istituto. Avete
usato il metodo degli archeologi: cioè avete scavato fra i vari «campioni»
della nostra famiglia, presentando un modo speciale di «fare missione». Le
figure che avete selezionato confermano la feconda radice del nostro
albero genealogico.
La
«memoria» della nostra storia non solo emoziona, ma stimola a conservarla,
obbliga a onorarla e incarnarla. Con umiltà e modestia, io, voi e molti
altri siamo tale storia, componiamo questa «epopea di Dio», senza rumore,
facendo bene il bene, fedeli al nostro genoma di missionari della
Consolata.
Il vostro
numero straordinario non è tutto l’Istituto e i suoi 100 anni. Però avete
saputo far vibrare il senso di appartenenza, tanto prezioso per noi
«anziani». Mi domando: saprà la generazione nuova bagnarsi nella «nostra
eredità»? Anche il metallo più vile, bagnato nell’oro, si trasforma!
Mi auguro
che i giovani missionari, appartenenti a varie culture, riconoscano con
giusto orgoglio «la roccia da cui siamo stati tagliati…». Voi, che cosa
avete provato dopo la fatica del numero speciale?
p.
Ermenegildo Crespi
Machagai
(Argentina)
«Fuori della chiese c’è salvezza»
PRENDERE O LASCIARE?
Il dossier
«L’alta teologia e il buon senso» (Missioni Consolata, gennaio 2001)
analizzava l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il dossier
era firmato da Igino Tubaldo, teologo e missionario. In aprile la rivista
ritornava sull’argomento con la puntualizzazione di Antonio Santucci,
vescovo di Trivento (CB), e la risposta di padre Tubaldo. Ora intervengono
anche tre lettori di Missioni Consolata.
Chiesa
«istituzione» e «corpo di Cristo»
A ppena ho
letto il «botta e risposta» tra il vescovo Santucci e il teologo Tubaldo,
mi sono venute in mente le parole di Dietrich Bonhoeffer: «La chiesa non è
un’associazione religiosa di adoratori di Cristo, bensì il Cristo che ha
preso forma tra gli uomini… Nel caso della chiesa, non si tratta di
religione, ma della forma di Cristo e del suo prendere forma in un gruppo
di uomini. Il fatto che solo una parte dell’umanità riconosca la forma del
proprio redentore è un mistero di cui non esiste spiegazione».
A questo
punto una nota del libro (da cui ho tratto la citazione) dice: «La
concezione che, anche indipendentemente dal fatto di essere “conosciuto”
dall’uomo, l’evento di Cristo riguardi tutti gli uomini, induce a pensare
all’idea del cristianesimo inconsapevole».
Prosegue
Bonhoeffer: «Dio diviene uomo significa che la forma di Cristo, per quanto
sia e rimanga una e identica, vuole tuttavia prendere forma in uomini
reali e cioè in maniere molto diverse».
Alla luce
di queste parole, non è che si faccia ancora confusione tra chiesa
«istituzione» e chiesa «corpo di Cristo»? Non è che l’eterna questione (se
vi sia o no salvezza fuori della chiesa) sia un non-senso o, almeno,
ampiamente superata?
Stefano Poli
– Zevio (VR)
Chiesa-gerarchia e Maria
Ho letto
le osservazioni del vescovo di Trivento e la risposta del teologo Tubaldo.
Seguendo le indicazioni di mons. Santucci, ho preso il Catechismo
universale e ho trovato la frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio
per padre se non ha la chiesa per madre». Però, se stacchiamo la frase dal
contesto della tradizione cristiana basata sulle sacre scritture, la
mateità di Maria dove finisce?
Se Maria è
madre della chiesa, come ha riconosciuto il Concilio Vaticano II, questa
mateità è decisiva per la salvezza. Come fa a salvarsi una chiesa che
antepone «la mateità» della sua gerarchia a quella di Maria?
Se Cristo
avesse voluto affidare alla gerarchia ecclesiastica il compito di essere
madre dell’umanità, avrebbe forse fatto sì che ai piedi della croce
andasse Pietro, non sua madre. E non si sarebbe rivolto a Giovanni, unico
rappresentante di un nucleo gerarchico smarrito di fronte al potere di
altre gerarchie, dicendogli (indicando Maria): «Ecco tua madre!».
Sui
pericoli cui va incontro l’uomo quando baratta la vera pateità e
mateità con i loro surrogati, le sacre scritture dicono cose importanti:
ad esempio, quando a Gesù dicono che sua madre e i suoi fratelli lo stanno
cercando, Egli risponde: «Mia madre e i miei fratelli – risponde Gesù –
sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
Inoltre quando, nella folla intorno a Gesù, una donna inneggia a «colei
che gli è madre», l’Interessato risponde: «Beati piuttosto chi ascolta la
parola di Dio e la custodisce».
Ogni
cristiano è chiamato a essere «madre di Cristo».
Francesco
Rondina – Fano (PS)
Affermano le
stesse cose
M i
permetto di interloquire nella «diatriba» tra Santucci e Tubaldo. Ritengo
che nella replica del missionario ci sia una presunzione di teologicità:
Tubaldo sostiene le stesse cose del vescovo, almeno per chi ha
interpretato nel giusto senso i documenti del Concilio.
Non vedo
la ragione di contrapporsi polemicamente, ribadendo gli stessi concetti.
Può creare sconcerto in chi ha a che fare con cristiani che non conoscono
più l’abbicidì della religione, e deve essere considerato un «missionario
interno»; per cui giustamente si preoccupa che le parole siano intese
bene, senza equivoci.
Però
riconosco la difficoltà dei missionari, costretti a confrontarsi con
popolazioni non cattoliche; capisco anche il fervore con cui si battono
per sostenere le proprie convinzioni e quelle di cristiani autentici, che
vogliono scuotere le coscienze. Forse viene loro meno la capacità di
comprendere il contesto in cui calano le parole, con effetti talvolta
negativi per la realtà che stiamo vivendo.
A tutti
sta a cuore l’affermarsi del regno di Dio nelle forme che il Signore
stabilisce, e tutti, come cristiani, dobbiamo dare testimonianza della
nostra fede. Manifesto il disagio per quanto ho letto, consapevole che
tutti dobbiamo pregare anche per i terremotati che muoiono senza aver
sentito parlare di Cristo, e così per tutti gli uomini, come credo faccia
ogni cristiano che sia tale. Un vero privilegio, peraltro, di cui non ci
si rende conto… io per primo.
Giannantonio
Grigolato, Crocetta del Montello (TV)
box2
Lettere di famiglia
Cari
missionari, faccio seguito all’offerta inviata a favore delle vostre
missioni per chiedere di ringraziare la Madonna, con le vostre preghiere e
quelle delle persone bisognose da voi beneficate, per le numerose grazie
da me ricevute in situazioni disperate.
Ho sentito
la forza della Consolata che, per ben due volte, ha liberato me e la mia
famiglia dal maligno. Questi «miracoli» sono avvenuti l’anno scorso, nel
mese di ottobre, mese dedicato proprio alle missioni.
Scusate
queste parole di una povera mamma.
mamma Angela
– Bari
Caro
direttore, questa volta, invece di un articolo, ti invio una semplice
foto. È un po’ sfocata, ma la ritengo abbastanza significativa. La si
potrebbe intitolare: «Amicizia kenyana-etiopica» (padre Nicholas Makau,
del Kenya, fra Marta e Meseret dell’Etiopia). Se non ti va, cestina tutto.
Sarà
possibile un futuro di pace e amicizia tra i diversi popoli e gruppi
etnici dell’Africa? Il Signore è il principe della pace. Ma ciò non
dispensa l’uomo dall’impegno.
fr. Vincenzo
Clerici – Addis Abeba (Etiopia)
Cari
missionari, mi sia concesso di ricordare il fratello Tonino, morto nel
1997 in Calabria, dopo aver vissuto tanti anni a Torino. Tutti dicevano
che era anche un missionario… Servendosi di lui, il Signore ha
convertito diverse persone.
Tonino era
pure innamorato della Madonna Consolata. Una volta (che ero a Torino) mi
chiese per telefono di rinnovargli l’abbonamento alla vostra rivista. Ora
la ricevo io e in agosto, se Dio vuole, verrò a Torino e rinnoverò ancora
l’abbonamento a Missioni Consolata.
Sto
scrivendo dal letto: soffro per una brutta cervicale e porto il collare.
Spero che passi. Altrimenti, «fiat voluntas tua…».
sr. Martina
Belvedere – Napoli
Tre
lettere di «famiglia» scritte quasi con pudore. O, meglio, con amore…
Nel libro dei Proverbi si legge: «Un piatto di verdura con amore è meglio
di un bue grasso con odio» (15, 5).
AAVV