PAKISTAN: il paese islamico è retto da una giunta militare. I FRAGILI EQUILIBRI DI ISLAMABAD

Sorto
soltanto nel 1947, il paese asiatico ha già una lunga storia di conflitti
(interni ed estei), colpi di stato, dittature. La presenza di gruppi
fondamentalisti provoca frequenti scontri tra musulmani sunniti e
minoranza sciita. Ancora peggio stanno i cristiani, privi di tutele,
spesso accusati di blasfemia, reato punibile con la morte. Mentre, a causa
della contesa sul Kashmir, sono sempre molto tese le relazioni con
l’India, esasperate da una folle corsa alla bomba nucleare.

 

Sembrano
comparse di un film biblico, capitate tutte insieme su questo aereo un po’
macilento. Alcuni hanno un fagotto o un telo ripiegato sulla spalla e
sembrano i pastori del presepe. Uniche donne,  due madri velate di nero e
circondate da uno stuolo di marmocchi. Siamo appena atterrati
all’aeroporto di Karachi e, in attesa di scendere, si sono alzati in piedi
e ora mi scrutano con i loro occhi neri e brillanti. Il naso grande e
aguzzo  sembra un punto interrogativo.

Domani
inizia Eid ul Azhad, la festa islamica che commemora la decisione di
Abramo di sacrificare il figlio Isacco. L’aeroporto è pieno di pakistani
emigrati per lavoro, che tornano in famiglia per qualche giorno. La folla
spinge e strattona senza riguardo, spingendo i carrelli stracolmi di
scatoloni e grossi involti legati con lo spago. Un primo assaggio per noi
della violenza che caratterizza questo paese. Eppure il volo era iniziato
con l’esortazione: Allah uh Akbar, gridato per tre volte, seguito da altre
suppliche incomprensibili. Forse una preghiera. Alla fine ho inteso la
parola fatale: Inshallah! E siamo partiti.

LA DOTE E LE NOZZE COMBINATE

A Karachi
oggi le strade sono tranquille. Passano bus colorati, decorati da pitture
stravaganti con visi di donne e paesaggi montani, coi bigliettai che si
sporgono a chiamare i clienti. Passano «Ape» e camioncini che trasportano
mucche e pecore agghindate di corone di fiori e lustrini, pronte per il
sacrificio. C’è chi sta lavando accuratamente un agnello, chi sta dando
alle bestie l’erba fresca. Ameer mi accompagna in questi primi giorni
pakistani e mi spiega come intende questa festa.

Due
settimane fa ha comprato una capretta: «Le mie figlie devono affezionarsi
all’animale, prima che venga sacrificato. Le cai verranno poi
distribuite ai poveri. Noi non faremo il barbecue, come la maggior parte
dei pakistani. Dopo aver curato e nutrito la capretta per 15 giorni, le
bambine oggi piangeranno, quando arriverà il macellaio a sgozzarla. Questo
è il vero senso del sacrificio».


Rabbrividisco. Comincia così la mia esperienza in Pakistan, che mi porterà
a conoscere aspetti sconcertanti di quello che è un paese confessionale
islamico, fondato nel 1947, dopo la drammatica divisione dall’India.

Quando
esco nelle vie, pare che sia tutto finito: il sangue ha formato pozze
scure nei vicoli, mentre sui marciapiedi si lavora a tagliare in piccoli
pezzi le bestie sacrificate.   Ameer è andato presto in moschea, per la
preghiera, mentre le donne erano a casa a preparare il pranzo. La famiglia
di Ameer, originaria del Rajastan, è di fede islamica da molte
generazioni. I suoi antenati, di stirpe Rajput, si convertirono dall’induismo
seguendo gli insegnamenti dei mistici sufi missionari, provenienti dalla
Persia. Nel ’47 il padre di Ameer scelse di trasferirsi qui. Lasciò tutto
e prese il treno per Lahore, dove trovò condizioni di vita molto
difficili.

«I primi
anni vivevo in una stamberga con altri profughi. Poi mi sposai ed ebbi 10
figli». Munawar è un signore alto e magro, dalla pelle scura e segnata
dall’età, che parla bene l’inglese: «Allora a Karachi c’erano anche i
tram. Tutto funzionava bene, gli uffici pubblici e i trasporti. Oggi
abbiamo solo vecchi pullman privati, che cercano di attirare clienti con
le decorazioni fantasiose. Anche le scuole sono private; quelle pubbliche
non bastano, sono sporche e di basso livello». Parliamo anche del
terrorismo, finanziato dall’India, della guerra senza fine nel Kashmir e
delle armi che arrivano dall’estero.

Padre e
figlio hanno passato molti anni all’estero, anche in Giappone, lavorando
in ristoranti e caffè. Ora hanno una bella casetta e vivono tutti insieme,
nonno, figli e uno stuolo di nipoti. Il pomeriggio lo passeremo da loro,
stretti nel salottino coperto di tappeti, a sorseggiare il tè cremoso al
latte, mentre nel vicolo si sta asciugando la pozza di sangue della bestia
uccisa.

Parliamo
del matrimonio. Ameer ha visto la sposa solo il giorno delle nozze, che
erano state combinate dalle famiglie. «Credo sia meglio così. Sono molto
felice con mia moglie: i genitori sanno quello che è giusto per i figli».
In Pakistan convivono tradizioni islamiche con altre tipiche dell’induismo,
difficili da eliminare: come la dote per le figlie femmine, un peso grave
per la famiglia, che non è prevista nell’islam.

Toerò in
albergo passando dalla via principale, che prende nome dal padre della
patria, quel Jinna che morì di tubercolosi l’anno dopo aver visto
realizzare il suo sogno di un paese islamico libero e indipendente. Sulla
banchina spartitraffico, alla luce del tramonto, un uomo è ancora intento
a preparare la carne, tagliandola minuziosamente, dopo aver fatto a pezzi
la carcassa.

LA BLASFEMIA

«Amiamo
molto la musica e le canzoni napoletane». Conosco Julie e Austen a un
concerto: stasera suona un bravo sassofonista, accompagnato da un
pianista. Scopro che sono tutti originari di Goa.  «Mio padre era medico a
Bombay – mi dice Austen -. Prima della II guerra mondiale si era
trasferito a Karachi, come molti commercianti e professionisti indiani».
La moglie, che veste una camicia e una gonna all’occidentale, aggiunge:
«Siamo cristiani e viviamo in un paese islamico per il 97%, ma non abbiamo
problemi. Nelle campagne del Punjab, presso Multan, sappiamo invece
esserci situazioni molto gravi. I cristiani sono sovente ingiustamente
accusati di blasfemia, soltanto come pretesto per poter togliere loro la
terra». La legge islamica vigente nel paese  prevede la condanna a morte
per questo reato. Basta la testimonianza di 4 musulmani. La parola del
cristiano non conta.

GLI
SCHIAVI DEI GRANDI LATIFONDISTI

Moemjo
Daro è forse la più antica città del mondo. Certamente quella più
sorprendente, per le soluzioni urbanistiche. Edifici di mattoni disposti a
scacchiera e dotati di canalizzazioni per la raccolta delle acque,
palazzi, templi e bagni, tutto dominato dal gigantesco stupa (monumento)
buddista. Dopo 4.500 anni, solo ora il sito corre il rischio di
sbriciolarsi a causa dell’umidità e del sale.

Il
Pakistan ha sete d’acqua e le dighe costruite sull’Indo hanno innalzato la
falda freatica. Il grande fiume, che un tempo passava qui vicino, pare un
rigagnolo ormai, dopo tre anni di siccità. Attraversiamo Larkana, la città
feudo della famiglia Bhutto, con il suo mercato vivace. Si sta
festeggiando un matrimonio e lo sposo si esibisce con una decorazione
vistosa sul petto: un ventaglio di banconote che sembra porti fortuna agli
sposi. C’è chi non ha casa e vive ai margini, sotto ripari di fortuna, nel
centro cittadino, in mezzo ai rifiuti. La carne del sacrificio si sta
seccando, appesa ai fili, tra una tenda e l’altra.

In questa
regione, il Sind, i viaggi non sono sicuri. Ci sono i ribelli, i banditi
che negli anni passati hanno anche rapito alcuni stranieri. «Qui ci sono
ancora gli schiavi» mi sorprende Ameer. «I servi della gleba – continua –
ci sono sempre stati e il regime feudale è ben radicato, in questa zona. I
loro figli faranno la stessa vita, dato che ben pochi di loro possono
andare a scuola e avere la speranza di migliorare. Legati al lavoro dei
campi da generazioni, ricevono dal padrone un poco di cibo per
sopravvivere».


Naturalmente i grandi latifondisti non abitano qui, ma a Karachi, Londra o
nei paesi del Golfo Persico. Ameer aggiunge che ci sono anche i forzati,
prigionieri condannati per crimini comuni, che lavorano in campagna e la
sera rientrano in prigione.

LE
PREOCCUPAZIONI DEL VESCOVO

Polvere,
caldo, mendicanti e tombe. Così si presenta Multan, una città famosa sin
dal medioevo come centro spirituale islamico. Con due milioni e mezzo di
abitanti, ai margini del deserto del Cholistan, è ricca di mausolei dove
riposano i santi mistici dell’islam, tuttora meta di pellegrinaggi.

Siamo nel
Punjab, la regione più fertile del Pakistan, irrigata dai canali e dagli
affluenti dell’Indo. Numerose sono le foaci di mattoni, dove il lavoro è
svolto tutto manualmente, con l’aiuto di muli. Le strade sono percorse dai
carri trainati da buoi e nei fossi asciutti le bufale cercano un po’ di
umidità. Lembi di campagna penetrano anche nel centro storico di questa
città estesissima. Non lontano dall’animato bazar vedo un uomo che munge
una bufala e bambine che preparano le mattonelle di letame da seccare sui
muri. Dopo tre anni di siccità, ora scarseggia anche l’energia elettrica e
in tutto il paese i black out sono la regola.

Oggi è
domenica e la sera vado alla ricerca di una chiesa, nel cantonement, il
verde quartiere coloniale. So che c’è una piccola comunità cattolica, ma è
difficile trovare il complesso del vescovado, nelle strade buie.
Finalmente una croce, un portone che si apre su un vasto piazzale con la
grotta di Lourdes e la Madonna illuminata. Incontro subito il padre
Domenico, una persona aperta, comunicativa, che parla bene l’italiano. Ha
studiato a Roma e ora lavora sul territorio della diocesi , che è la più
povera del paese e ha tanti problemi. Deve essere lui il braccio destro
del vescovo Andrew Francis, che mi accoglie nel suo studio. Purtroppo
abbiamo poco tempo per parlare e domani devo partire. Il vescovo è
contrariato. Ha rinunciato ad un impegno, per potermi parlare, ma ora
insiste: «Devi restare alcuni giorni con noi, per poter testimoniare della
situazione. Voi in Europa dovete sapere i drammi che stiamo vivendo».

Allora mi
scrive un nome, Class (**) e un numero di telefono. Quando sarò a Lahore,
forse avrò tempo per documentarmi.

CRISTIANI SENZA PROTEZIONE

Eiga,
giovane collaboratrice di Class, mi dà le prime notizie sull’attività del
centro. Poi mi accompagna in ufficio, al primo piano di un edificio
anonimo nel centro di Lahore. Mr. Joseph Francis dirige l’associazione,
che si occupa di assistenza legale e accoglienza di donne e bambine che
hanno subìto soprusi e violenze. «La giustizia non esiste, in questo
paese. Con il denaro si mette tutto a tacere».

Mr.
Francis mi spiega che gli aiuti per il centro vengono dall’unione delle
chiese cristiane di Ginevra e dagli Usa. Poi mi presenta una delle giovani
donne che sta ricevendo aiuto. Una ragazza di campagna dal viso
spaventato. Anche lei vittima di violenza, perché cristiana, quindi donna
senza valore e non credibile. Qui i cristiani appartengono ai ceti più
poveri. La conversione avvenne durante i secoli, per opera dei missionari
in India, che riuscivano a convertire i «fuori casta», gli intoccabili,
che trovavano dignità e senso di comunità nella chiesa cristiana.

Nel
dossier che mi viene presentato vedo un articolo del Times. Leggendo le
testimonianze raccolte e pubblicate,  mi rendo conto che la situazione è
veramente tragica.

Nel Punjab,
dove vive la grande maggioranza dei cristiani, la comunità cristiana e
quella islamica sono sempre vissute una accanto all’altra in perfetto
accordo. Solo da alcuni anni  si manifesta un aumento di risentimento,
intolleranza e violenza. Posso solo fare un’ipotesi sulle cause: la
miseria senza speranza che coinvolge ambedue le comunità, e l’ignoranza. I
casi di violenze sono seguiti da persecuzioni che arrivano alla
distruzione di case e chiese delle piccole comunità contadine. I
capifamiglia vengono imprigionati, sottoposti a tortura e accusati di
crimini mai commessi.

Nel maggio
1998 fece scalpore il vescovo di Faisalabad, mons. John Joseph: non
riuscendo ad aiutare uno di questi disgraziati, si suicidò davanti al
tribunale. La sua fu una tragica denuncia contro il regime, che discrimina
i non-musulmani. Nonostante le lettere di protesta spedite al primo
ministro e al Vaticano, il giorno dopo un altro cristiano venne condannato
a morte.

Eppure,
quando il padre della patria Jinnah dichiarò solennemente la formazione
del nuovo stato,   disse: «Potete appartenere a qualsiasi credo, casta o
religione. Potete andare alla moschea o in altro luogo a pregare. Non ci
sarà discriminazione tra le diverse comunità». Oggi invece siamo in piena
crisi. La legge sulla blasfemia è recente. Nel 1986, durante una
conferenza, l’avv. Asma Jehangir, musulmana impegnata in progetti di
riforma, descrisse l’islam come una religione senza icone, nella quale i
credenti hanno un rapporto diretto con Dio. Chiunque, disse, trova la fede
come fece il profeta, nonostante la sua mancanza di educazione.

I mullah
più conservatori si risentirono e l’accusarono di blasfemia, per aver
insultato Maometto, definendolo illetterato. Si mobilitarono affinché il
parlamento modificasse una sezione del codice penale, introdotto dagli
inglesi nel 1860. Nel 1992 si arrivò ad approvare una legge, secondo la
quale «chiunque, con parole o scritti, insinuazioni o reticenze,
direttamente o indirettamente, sminuisce il nome del profeta Maometto,
sarà punito con la pena capitale». Quattro mesi dopo il primo cristiano
veniva condannato a morte.

I
PROFUGHI AFGHANI DI PESHAWAR

La strada
che sale al passo Khyber è sotto di noi, un nastro sinuoso d’asfalto tra
le montagne aride. Prima di partire da Peshawar ho dovuto chiedere il
visto alla polizia tribale della città, che ha giurisdizione nella zona
del passo, a statuto speciale.

Tutti sono
passati di qua. Dai persiani achemenidi ad Alessandro, dal cristianesimo
all’islam, ai mongoli e infine gli inglesi. Anche oggi il traffico
continua. Passano camion, carichi di farina per l’Afghanistan affamato, e
altri mezzi nella direzione opposta, con merce di contrabbando. Le case
sulle pendici dei monti, da entrambi i lati del confine, sono piene di
attività. Si fabbrica di tutto, ma specialmente armi. Siamo fermi in una
curva a tornante, dove due bambini sui 10 anni aspettano con un secchio di
latta. Vi hanno messo qualche vite e bullone di recupero, da vendere ai
camionisti di passaggio. Sono profughi afghani e parlano solo pathan, la
lingua delle tribù che abitano queste montagne.

Anche Khan
è un pathan, ma ha studiato all’università di Peshawar, parla bene
l’inglese e mi può aiutare a capire. La scuola è giù nel villaggio:
profughi e ragazzini ci andranno nel tuo di pomeriggio, per due ore.
«Gli afghani sono persone meravigliose, ospitali e gentili – mi assicura
Khan -; il loro è un paese stupendo. I profughi qui si danno molto da
fare. Sopravvivono senza alcun aiuto, accettando tutti i lavori più duri».

In
effetti, ho visto a Peshawar il vecchio accampamento dei profughi, che
negli anni si è trasformato in un villaggio di casette di fango, costruite
secondo la tradizione. Alcuni, tra gli afghani più furbi, trafficano con
la merce di contrabbando che continua ad entrare nel paese. Roba che viene
anche dal Giappone, dall’Italia o dall’America, che riempie il mercato
«dei ladri» di Peshawar. Sbarca a Karachi e non fa dogana, passando subito
la frontiera a Quetta. Poi rientra nel paese dal passo Khyber.
L’Afghanistan è un paese allo sbando, porto franco, e come sempre in
questi casi, c’è chi  fa molti soldi.

Come il
proprietario della villa che abbiamo visto sulla strada per il Khyber: un
grande parco chiuso da muro di cinta alto con le guardie al cancello. Un
signore della droga che è stato in galera negli USA per tre mesi, ma si è
poi comprato la libertà. Uno che ha offerto al governo la stessa cifra che
il Pakistan riceveva dalla Banca mondiale, per avere le mani libere nei
suoi loschi traffici.

LA
VALLE DELLO SWAT: VERDE, «STUPA» E POVERTÀ

La mattina
il cielo era scuro. Saliamo verso Bahrain e una lama di luce rischiara il
greto secco dello Swat. Uomini e muli stanno lavorando: trasportano sabbia
e sassi del fiume e le loro figure silenziose riempiono il paesaggio. Vedo
che sui monti più lontani è caduta la neve, nella notte. Saliamo, e i
villaggi umidi incollati alle pareti ripide hanno i camini che fumano.

Fa freddo,
per noi che veniamo dal calore del Punjab. Le cime che ci circondano
superano i 6.000 metri. Le case di Bahrain sono addossate le une alle
altre, piccoli cubicoli di legno e fango, scuri e fumosi. La moschea
vecchia ha perso le decorazioni e il portale di legno scolpito, sostituiti
da infissi nuovi, che stonano con il complesso antico. Forse sono stati
venduti ad antiquari stranieri. La gente è calorosa, gentile. Piove e,
dopo qualche incertezza, siamo invitati ad entrare. La povertà della gente
e delle case è impressionante. Questa località è meta di vacanze estive
per i ricchi pakistani di Lahore e Islamabad. Ma la gente vive in
condizioni terribili.

Lo Swat
potrebbe essere un piccolo paradiso, come forse era ai tempi di Alessandro
Magno. Pare che i soldati del grande condottiero si siano fermati qui,
sulla via del ritorno. La prova sarebbero i capelli biondi e gli occhi
chiari di alcuni tra gli abitanti, poverissimi, della valle.

Da qui si
diffuse il buddismo, grazie ad Ashoka, l’imperatore maurya. Qui fiorì
l’arte gandhara e per la prima volta il Budda venne rappresentato in forma
umana, con un sorprendente profilo greco e lineamenti occidentali. Il
regno dei Kushana (1° sec. a.C.) rappresentò un periodo di grande
prosperità e pace, mai più raggiunto. Centinaia di stupa, molti in rovina,
punteggiano la valle, mentre le statue e i rilievi salvati dalle ruberie
riempiono i musei pakistani.

LA
BOMBA ATOMICAE L’INGENUITÀ DEI POVERI

Uno dei
più belli è lo stupa di Shingardhar, che fu costruito in memoria di un
elefante. La leggenda dice che, all’epoca del grande imperatore Ashoka (3°
sec a.C.) qui sostò un principe. Ritornava da un lungo viaggio intrapreso
per portare nella valle dello Swat una reliquia del Budda. Il suo elefante
si ammalò, morì e fu seppellito qui, dove venne poi eretto il grande
stupa.

La casa di
Gulbar si trova accanto al monumento. La moglie e i suoi figli ci
accolgono tra le mura di fango secco. Tutto è lindo e ordinato, nella
povertà. Ci sono le nicchie per le stoviglie e il foo, ma non c’è una
porta. La casa si apre sul cortile che confina con l’antico stupa.  Marwan
è il figlio maggiore, conosce qualche parola di inglese e mi chiede subito
di portarlo in Italia. Con il passaggio di visitatori stranieri, ormai
Marwan ha capito che il mondo non finisce nella valle dello Swat. Una
valle protetta da un passo, il Malakand, che ferma il calore e l’aridità
del Punjab. Una conca verdissima che non soffre la siccità come il resto
del Pakistan. Qui si coltiva di tutto, e tutti potrebbero stare bene, se
non ci fosse miseria e ignoranza.

Le
priorità del governo, oggi, dovrebbero essere educazione e sicurezza. Ma
fino a 2-3 anni fa non se ne parlava nemmeno, di scuole. Gli ospedali
mancano di tutto, e se si vuole essere curati si deve pagare. Il bilancio
delle spese dello stato favorisce, per primi, esercito e armamenti.

Ho visto
uno strano monumento, presente nelle piazze di tutte le città pakistane.
Una montagna in scala ridotta, la copia di un monte del Beluchistan,
diventata famosa nel maggio del 1998, quando è stata fatta scoppiare la
prima bomba nucleare. I pakistani ne sono orgogliosi e questo fa
dimenticare tutto ciò che a loro manca.

 

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PAKISTAN


 Superficie:  kmq 796.100
   Abitanti:  134,5 milioni
   Capitale:  Islamabad
   Lingua:  urdu (ufficiale), punjabi, singhi, pashto, baluchi,
inglese
   Gruppi etnici:  punjabi (48%), pashtu, sindi, saraiki, urdu
   Religione:  musulmani (95%, in maggioranza sunniti), cristiani
(2%), indù (1,5%)

Forma di
governo:  repubblica islamica a guida militare; il Pakistan è una potenza
nucleare (la prima del mondo islamico e, oggi, la prima retta da militari)


Presidente:  generale Pervez Musharraf, dal 12 ottobre 1999, in seguito a
un colpo di stato che ha spodestato il presidente eletto, Nawaz Sharif; la
Corte suprema ha dato alla giunta militare un tempo limite di 3 anni,
scaduto il quale dovrebbero tenersi le elezioni generali

Risorse
economiche:  l’economia si basa sull’agricoltura (riso, frumento, canna da
zucchero, mais, patate) e l’allevamento (ovini, caprini, bufali); il paese
è un grande produttore di cotone, che alimenta l’industria tessile e le
esportazioni

Problemi
interni:  periodicamente, si verificano violenze tra sunniti e sciiti in
varie città del paese; il Pakistan intrattiene relazioni con l’Afghanistan
dei talebani, i quali sono arrivati al potere con l’indispensabile aiuto
di Islamabad; sempre grave la tensione con l’India per la regione del
Kashmir

Kashmir: 
la parte sotto il controllo pakistano si chiama «Azad Kashmir» ed ha
Gilgit come capoluogo; la parte sotto controllo indiano si chiama «Jammu-e-Kashmir»
ed ha in Srinagar il proprio capoluogo

Claudia Caramanti

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