GIUSEPPE ALLAMANO – Dalla Consolata al mondo
Chi passa per la casa madre dei missionari della Consolata a Torino si trova davanti a striscioni che ricordano i loro 100 anni di vita: «I missionari della Consolata compiono cento anni!».
Un anniversario ricco di stimoli. Ripercorrere la propria storia è motivo per vedervi la presenza di Dio. Ai missionari partenti, il fondatore, beato Giuseppe Allamano, spesso ripeteva la incoraggiante promessa di Gesù, quando affida ai discepoli di continuare la sua opera di evangelizzazione nel mondo intero: «Io sono con voi tutti i giorni». E commenta: «Egli parte con voi, sarà il vostro sostegno… Questo pensiero deve essere la vostra consolazione: il Signore parte con voi e sarà sempre con voi, non in modo generico, ma tutto particolare» (Conf. III, 470). È lui che opera attraverso i suoi messaggeri.
Ma, prima ancora, egli ha agito nel beato Giuseppe Allamano, a cui si deve la fondazione dell’Istituto. Egli ebbe sempre viva la coscienza di essere soltanto uno strumento nelle mani di Dio per la realizzazione di tante vocazioni alla missione: «Non avendo potuto essere missionario io – diceva – mi sono proposto di aiutare altri a esserlo». Ma si è preoccupato, anzitutto, che fosse il Signore a volerlo, secondo la direttiva fondamentale su cui ha regolato la sua esistenza: fare in tutto e sempre la volontà di Dio.
Alla fondazione di un istituto esclusivamente dedicato all’evangelizzazione dei popoli a cui non è giunto il messaggio del vangelo, l’Allamano pensò in modo abbastanza concreto fin dal 1891, ma non si mosse finché non ebbe la garanzia che ciò rientrava nei disegni di Dio.
La prova da lui ritenuta definitiva la ebbe nel gennaio 1900 quando, assistendo una anziana signora in una gelida soffitta, ne uscì con i brividi della febbre, sviluppatasi poi in broncopolmonite, che lo portò, debole di polmoni fin dagli anni del seminario, in fin di vita. Le suppliche alla Consolata ottennero la guarigione, ritenuta da tutti e dall’Allamano stesso, miracolosa. Erano le prime ore del 29 gennaio. Lui stesso davanti al quadretto della Consolata che stava ai piedi del suo letto promise che, se fosse guarito, avrebbe dato inizio all’Istituto. E mantenne la promessa. Diceva: «Avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale la fondazione si doveva fare: che io fossi guarito non si poteva negare».
Convalescente nella villa di Rivoli, il 24 aprile spedì al cardinale Richelmy la lettera in cui prospettava tutta la questione relativa alla fondazione dell’Istituto. La mise sull’altare dove celebrò la messa, chiedendo che il Signore manifestasse ancora la sua volontà, come aveva scritto al cardinale nella conclusione: «Rifletti alla cosa presso il Signore, e ritornando fra non molto a Torino, mi dirai il da farsi». Il cardinale gli disse che si doveva fare. E l’Allamano, con le parole di Pietro a Gesù, rispose: «Sulla tua parola getterò le reti». Secondo il suo stile, cominciò subito.
Dopo aver consultato il Dicastero romano di Propaganda Fide, interpellò i vescovi del Piemonte, riuniti alla Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900 per la loro assemblea annuale, sul progetto di fondazione dell’Istituto missionario. Il cronista del tempo riferisce che «vivamente caldeggiata dal cardinale Richelmy, l’opera venne discussa, lodata e approvata da tutti i presuli subalpini» (La Consolata, 1,1900, p. 163; cf. L’Italia Reale – Corriere Nazionale, 14-15 ottobre 1900).
Il cardinale manifestò pubblicamente la sua cordiale approvazione con un messaggio pubblicato sulla rivista La Consolata:
«Benediciamo con tutta l’effusione dell’animo al nuovo Istituto, che prendendo il nome della Consolata, ha per scopo di consolare il cuore stesso dell’amatissimo nostro Signor Gesù Cristo col far paghi i desideri del suo amore.
A codesti figli novelli di Maria Consolatrice auguriamo collo spirito di zelo e di sacrificio i doni più eletti dell’apostolato cattolico; e affrettiamo coi voti più ardenti la conversione di quegli infelici, che nelle terre lontane ancor giacciono fra le tenebre e l’ombra di morte.
E mentre sull’opera novella imploriamo i favori del cielo, raccomandiamo la stessa a tutti i nostri figlioli, e specialmente alle anime devote della cara nostra Madre delle Consolazioni. Torino 12 ottobre 1900. Agostino card. Richelmy».
La data «ufficiale» di fondazione dell’Istituto venne stabilita dal card. Richelmy e dal beato Allamano al 29 gennaio 1901, anniversario della guarigione.
Alla culla della Madre
L’ispirazione della fondazione dell’Istituto è venuta dall’intenso dialogo di amore dell’Allamano di fronte alla icona della Consolata. Lì capì che lei è Madre di tutta l’umanità e a tutti desidera che sia fatto conoscere il suo Divin Figlio. Da lei è venuto il segno che doveva partire.
Lei è all’origine dell’Istituto. Il beato Allamano ne è fermamente convinto: «È lei che ideò il nostro Istituto, lo sostenne materialmente e spiritualmente, ed è sempre pronta alle nostre necessità. È lei la fondatrice. Non c’è dubbio che tutto quello che è stato fatto è opera sua».
Era logico che al suo santuario avvenisse la celebrazione principale a cento anni dalla fondazione dell’Istituto, il 29 gennaio 2001, con la presidenza dell’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, successore del Richelmy, del rettore del santuario, mons. Franco Peradotto, dei missionari e delle missionarie della Consolata con i loro superiori, e di tanta gente.
Il beato Giuseppe Allamano che ha sempre tenacemente rivendicato la sua funzione unica di trasmettere un carisma e uno spirito, ha anche avuto viva coscienza di non poterlo fare se non insieme a tante persone, dal Camisassa, ai sacerdoti della diocesi, alle tante persone che frequentavano il santuario della Consolata e hanno imparato a esprimere il loro amore alla Madonna contribuendo al cammino della missione e all’aiuto dei fratelli più bisognosi. Questo centenario è di tutta la gente, tante persone che hanno accompagnato, aiutato, incoraggiato e sostenuto l’Istituto e ne hanno reso possibile l’impegno missionario. Tutti insieme hanno espresso il grazie per i 100 anni dell’Istituto, che ha percorso le strade del mondo per portare ai popoli il vangelo, consolazione e vita.
Insieme alla riconoscenza, la celebrazione centenaria è occasione per rinnovare l’affidamento alla Consolata. «Portiamo il suo nome», ricordava l’Allamano; «siamo suoi figli»; da lei prende ispirazione la consacrazione alla missione. Per questo, il superiore generale ha offerto una lampada, che arda davanti a lei durante tutto l’anno, segno di adesione, di rinnovato impegno e fiducia. La Consolata, che «nei momenti difficili è intervenuta in modo straordinario», ha protetto i suoi missionari e le sue missionarie, ha fatto per loro «miracoli quotidiani», continui a prenderli sotto il suo manto e, insieme a loro, quanti ne accompagnano e sostengono il cammino di annuncio del vangelo.
A nome di tutti i missionari della Consolata, il padre generale ha affidato tutto l’Istituto alla loro Madre. Questo gesto ha voluto ricordare e fare proprio l’atteggiamento di fede del beato Allamano. Davanti all’icona della Consolata si inginocchiava affidando a lei i missionari lontani, in viaggio, tra i pericoli, ammalati, presi da sconforto o nostalgia. Nelle difficoltà più grosse, la sicurezza è venuta dal dire con fiducia alla Consolata: «L’Istituto è tuo, pensaci tu!». E ha percepito pure la risposta della Madonna: «Stai tranquillo, ci sono io!». Con questo stesso spirito, il padre generale ha pregato:
«Santa Vergine degli inizi, fidenti ti invochiamo
in quest’alba del secondo centenario di vita dell’Istituto.
Da te, Consolata, è venuta a noi la vita;
per te il Signore ci ha elargito doni
con munificenza regale.
Specchio della nostra identità,
ispiratrice della nostra vita
rendici fedeli collaboratori del regno che viene.
Vincolo della nostra comunione,
ravviva nelle nostre comunità lo spirito di famiglia,
la capacità di lavorare in unità di intenti,
la sollecitudine per i fratelli che ci vivono accanto.
Non si spenga in noi la lampada della speranza,
nella certezza che nulla è impossibile a Dio;
arda in noi il fuoco della missione per illuminare
quanti non conoscono la luce da te generata;
brilli in noi la gioia della consolazione,
perché si diffonda nelle case dei poveri,
degli oppressi e smarriti di cuore.
L’Istituto è opera tua, o Consolata;
alla tua protettrice assistenza ci affidiamo.
Imprimi nel nostro cuore
le parole del beato padre fondatore:
“Coraggio! Avanti!”,
per muovere i nostri passi verso le frontiere dell’umanità,
portando la vera consolazione, Gesù Cristo,
e il lieto annunzio del suo vangelo. Amen».
Tante vite donate
All’inizio della celebrazione è stato espresso il senso di profonda comunione con quanti hanno contribuito alla nascita e alla crescita dell’Istituto; con i missionari e le missionarie e le loro comunità in ogni parte del mondo; con coloro che in cento anni hanno speso la vita per la missione.
Tra questi un posto singolare hanno avuto i missionari, le missionarie, i laici uccisi a causa dell’annuncio del vangelo. Con il dovuto risalto è stata portata all’altare della Madonna una ampolla intrisa del sangue di catechisti martiri del Mozambico. In essi erano presenti tanti altri, molte vite sacrificate per il regno di Dio. Sono il fiore e frutto più valido della missione, la più potente intercessione. L’arcivescovo l’ha invocata a conclusione della preghiera universale, tenendo tra le mani questa ampolla, chiedendo:
«Sia preziosa davanti a te, Signore, questa terra intrisa del sangue di missionari e catechisti martiri; renda a te accetta la nostra preghiera, efficace la nostra intercessione. La loro testimonianza sia seme da cui germoglia la vita, fioriscono nuove vocazioni alla missione, coraggio nell’impegno di oggi fiducia nel futuro».
Dal grembo della diocesi
Nell’omelia, dopo aver fatto memoria dell’evento storico che sta alla base della celebrazione, l’arcivescovo di Torino ha proseguito:
«Da dove è nato l’Istituto dei missionari della Consolata? La risposta ovvia, anche da quello che abbiamo già sentito, è che è nato qui, nella casa della Madonna Consolata. Ha preso il nome da questo nostro carissimo e importante santuario. Potremmo anche dire che è nato dal cuore della SS. Trinità, perché ogni opera, ogni iniziativa di bene viene da Dio: “Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce”, ci ricorderebbe S. Paolo. Credo che sia molto importante, volgere questo sguardo verso le vere origini, che sono la SS. Trinità e l’ispirazione della Madonna, accanto a cui l’Allamano è vissuto per ben 46 anni. Lo sguardo però alla realtà storica ci conduce a dire che l’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. Un sacerdote della diocesi di Torino, nato a Castelnuovo Don Bosco, terra di santi, nipote del Cafasso, patria di s. Giovanni Bosco, paese dove è morto, in una frazioncina, anche s. Domenico Savio. Un comune che annovera già al suo interno ben quattro santi, già proclamati tali dalla chiesa.
Il giovane Giuseppe Allamano ha attinto la sua formazione dalla famiglia, indubbiamente profondamente cristiana, ha coltivato la sua preparazione con gli studi filosofici e teologici, fino a raggiungere la laurea in teologia, e ha costruito in questo santuario, accanto alla Vergine e attraverso la devozione alla Consolata, la storia del convitto ecclesiastico, il suo cammino di santità cristiana, lo slancio per attuare l’ispirazione di fondare l’Istituto dei missionari della Consolata, e poi delle missionarie della Consolata.
L’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. E non perché sono arcivescovo di Torino, ma per aderenza alla realtà storica, dico anche che è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino. L’Allamano, con il consiglio e l’approvazione dell’arcivescovo del tempo, card. Richelmy, e, come abbiamo sentito, di tutti i vescovi del Piemonte, si poneva il problema dell’annuncio del vangelo a immense popolazioni del mondo, ancora distanti dalla conoscenza di Cristo. La situazione, tanto diversa da oggi, era di grande abbondanza di clero locale, da arrivare al punto che l’arcivescovo non sapeva dove mandare i sacerdoti appena ordinati. Ecco allora che all’interno del presbiterio diocesano, l’Allamano intuisce di poter chiamare un gruppo di sacerdoti, che diventeranno il primo nucleo dell’Istituto.
Ci tengo a ripetere che l’Istituto è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino e, in senso più largo, da questa santa chiesa di Torino. La grande tradizione di santità e di spirito apostolico dei secoli XIX e XX è diventata il giardino in cui sono germogliati tanti fiori, tanti istituti religiosi, tanti esempi di santità e di missionarietà. Questo è il ricordo storico che desideravo fare a cento anni dalla nascita dell’Istituto della Consolata, sottolineando il legame di parentela tra l’arcidiocesi di Torino e il vostro Istituto. Il vostro fondatore è sempre rimasto prete diocesano e per 46 anni, fino alla sua morte, rettore di questo santuario della Consolata; questo mi ha impressionato».
Motivi per dire grazie
«Dalle piccole esperienze dirette che anch’io ho avuto dell’azione dei missionari della Consolata – ha continuato l’arcivescovo – posso dire che il loro stile è quello tipico di coloro che partono per la missione ad gentes. Andare in un luogo dove non si conosce Gesù Cristo, annunciare il vangelo, far sorgere la comunità cristiana, attendere pazientemente che essa si esprima in sacerdoti, laici impegnati, catechisti, per poi spostarsi da un’altra parte, e lasciare che questa comunità cammini con le proprie gambe. Questa caratteristica del missionario non solo della Consolata, ma di tutti gli Istituti missionari, di essere sempre sulla frontiera dell’annuncio, ha caratterizzato i cento anni di storia dei missionari della Consolata.
La vostra storia, nel profondo, ha avuto quello spirito che l’Allamano aveva sempre raccomandato: una grande preparazione culturale, soprattutto teologica, grande santità e fervore di vita, e soprattutto una carità tale da essere disposti a morire anche martiri per l’annuncio del vangelo. Credo che davvero questi cento anni sono stati un camminare su questa traccia indicata dal Fondatore: formazione umana, teologica, spirituale, santità di vita, eroismo fino all’effusione del sangue.
La terra intrisa del sangue dei martiri del Mozambico, come è già stato ricordato nell’introduzione, dà pieno significato al rendimento di grazie che oggi innalziamo al Signore e alla Vergine Consolata.
Vanno pure ricordate le chiese locali nate dall’apostolato dei missionari. Io ne ricordo diverse in Kenya e in Tanzania, dove sono stato, per vostra benevolenza, a predicare un corso di esercizi spirituali ai padri. Dove non c’era niente, ora ci sono parrocchie, fiorenti comunità cristiane. Anche per questo rendiamo grazie».
Riprendere slancio
«Siamo qui anche per un rilancio. Il santo padre nella lettera apostolica che ha voluto donarci a conclusione del grande giubileo del 2000, prende lo spunto dal testo di Luca, dove Gesù dice a Pietro “prendi il largo”, e getta le reti per la pesca. Non bisogna fermarsi al passato, ma guardare il futuro e rilanciare il fervore della prima ora, l’entusiasmo e lo slancio dei primi missionari. Questo ci propone la parola di Dio che abbiamo ascoltato. S. Paolo nel bellissimo inno della lettera agli Efesini (1,3-14) ricorda che siamo dentro il grande progetto di Dio. Un Dio che “ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo”, non per realizzazioni umane “ma per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”. Un Dio che ci chiama ad entrare nella grande avventura del suo mysterium, “il progetto di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra”.
Cari missionari della Consolata, questo è uno slancio che dovete riprendere nel cuore, nella mente e nelle azioni. Entrare dentro al progetto che il Padre ha di ricapitolare, riassumere, riconciliare nel Signore Gesù Cristo tutta l’umanità. E questo è possibile se noi, come diceva il vangelo (Gv 15,4-15), siamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite. Uniti a lui portiamo frutti, e abbondanti, come quelli che avete raccolto in questi cento anni.
Se siamo uniti a Cristo dobbiamo anche accettare di essere potati, provati, nelle difficoltà e nella sofferenza. Anche i missionari della Consolata, come i seminari diocesani, stanno tribolando per la scarsità di vocazioni. Sono tutte prove che il Signore ci dà per purificare la nostra vita, la testimonianza, lo spirito. Il Signore ha i suoi disegni, per cui se un tralcio porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto. Questa unione con Cristo è certezza della sua amicizia, “vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto ciò che il Padre mi ha detto”. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. E vi ho detto queste cose, vi comunico la mia amicizia, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
Lo slancio lo prendiamo qui, ai piedi della Vergine Consolata, il modello, la protettrice, colei che ci sostiene e dà forza nelle difficoltà. Qui l’Allamano ha trovato ispirazione e forza per seguire la sua vocazione e dare al vostro Istituto le caratteristiche che lui ha ricevuto dalla Madonna Consolata. Qui è il riferimento irrinunciabile».
Per sempre
«Ho incontrato alcune missionarie della Consolata a Nairobi nella loro casa per le suore anziane. Dicevano: “Noi siamo partite per l’Africa 50 anni fa, quando eravamo giovani, e non siamo mai più tornate in Italia”. Ho chiesto: “Come mai? Adesso vanno e vengono con i voli aerei, adesso c’è facilità di viaggiare”. “E no – risposero -. Quando siamo partite, il nostro santo fondatore ci diceva che si parte per sempre. E anche se i superiori ci concedono di ritornare, vogliamo rimanere qui fedeli al nostro impegno”. Questo mi ha scioccato, mi ha impressionato: “Siamo partite e non siamo mai ritornate in Italia, vogliamo morire qui ed essere sepolte qui”.
Il “per sempre”, fratelli e sorelle carissimi, oggi non è così ovvio. Tuttavia, anche se oggi non è tanto di moda, è una caratteristica fondamentale dell’amore. Uno che ama Dio, ama Gesù Cristo, e sente il bisogno di portare il vangelo agli altri, dice sì come ha detto Maria, per tutta la vita, per sempre. Così ha fatto il beato Giuseppe Allamano, che si è consegnato a Dio nella fedeltà alla sua vocazione. Così ha fatto la serva di Dio Irene Stefani (speriamo che anche voi suore abbiate poi la vostra santa proclamata tale dalla chiesa). Siamo qui nel santuario della Vergine Consolata, per rinnovare nel ringraziamento, nel ricordo storico, il nostro proposito di perseveranza e di fedeltà alla missione che il Signore ci ha affidato. Questa fedeltà deve durare per sempre».
L’ inizio del centenario, al santuario della Consolata è stato veramente una festa «di famiglia» per la missione: nella «casa della Madre», nel ricordo del padre che ha dato avvio all’Istituto, con la rappresentanza di tutta la diocesi, che ha condiviso attivamente l’intento dell’Allamano e ne ha reso possibile la realizzazione.
Circondati da un gran numero di testimoni fedeli a questo progetto, suscitato da Dio per attuare l’opera di salvezza di Cristo, si è rafforzata la volontà di proseguire per la strada intrapresa.
È cresciuta la fiducia che il beato Giuseppe Allamano aveva per il futuro: «La nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata. Passeranno gli uomini, cadranno pure alcune foglie, ma l’albero prospererà e verrà un albero gigantesco: io ne ho prove prodigiose in mano».
Redazione