LA DONNA-SGUARDO E LA DONNA-VOCE
«Per le donne arabe
vedo un solo modo di sbloccare questa situazione: parlare, parlare
senza sosta di ieri e di oggi, parlare fra noi in tutti i ginecei… La
donna-sguardo e la donna-voce… Ma non la voce delle cantanti che gli
uomini imprigionano nelle loro melodie zuccherose… la voce che non hanno
mai sentito, perché accadranno molte cose sconosciute e nuove, prima che
questa voce possa cantare: la voce dei sospiri, dei risentimenti, dei
dolori di tutte coloro che sono state murate vive… La voce che cerca
dentro le tombe aperte!»
Il
mondo della donna araba è circondato dal mistero e da tanti stereotipi.
Solo la scrittura illuminata di qualche donna araba, colta ed
intelligente, può aiutarci a penetrare e, in parte, a comprendere un mondo
così lontano dalla nostra cultura.
Nata nel
1936 a Cherchel (Algeria), Assia Djebar è stata la prima donna algerina
ammessa all’École Normale Supérieure francese. Nel 1957, ancora
giovanissima, ha pubblicato il suo primo romanzo Le Soif e, un anno dopo,
Les Impatients.
Testimone
oculare ed avida raccoglitrice di storie vere, la Djebar riesce, nei suoi
numerosi romanzi e racconti, a farci partecipi sia di tante tragedie umane
e familiari, causate dalla crudele guerra algerina, sia del lento processo
di evoluzione nella vita delle donne arabe, costringendoci ad ascoltare
«la voce dei sospiri, dei risentimenti, dei dolori di tutte coloro che
sono state murate vive».
La
prolifica scrittrice algerina si è anche cimentata come cineasta, vincendo
nel 1979 il Gran Premio della Critica Internazionale al Festival del
Cinema di Venezia con il film Les Nouba des Femmes du Mont-Chenoua. Lo
scorso anno ha, inoltre, presentato a Roma una sua opera teatrale, tratta
dal romanzo Figlie di Ismaele.
Dal 1997
vive tra Francia e Stati Uniti, poiché lavora come professore e direttore
del Center for French and Francophone Studies della Louisiana State
University.
Si chiede
Assia Djebar nell’introduzione alla sua raccolta di racconti, da lei
stessi definiti «capisaldi di un percorso di ascolto che va dal 1958 al
1978», pubblicata in Italia con il titolo Donne d’Algeri nei loro
appartamenti.
«Inebriato
dallo spettacolo che aveva sotto gli occhi», Delacroix rielaborò per due
anni le impressioni raccolte e ne scaturì il capolavoro Donne di Algeri,
in cui – ci racconta la Djebar nella post-fazione del suo libro – «tre
donne sono prigioniere rassegnate di un luogo chiuso rischiarato da una
luce che scaturisce dal nulla, luce di serra o di acquario». Passarono 15
anni e Delacroix, all’esposizione del 1849, presentò una seconda versione
delle Donne di Algeri, che al sol pensiero strappava lacrime a Renoir.
Infatti
«uno dei muri della camera viene messo in evidenza, in modo da farlo
pesare con gravità più ossessiva sulla solitudine delle tre donne…
l’ombra nasconde come una minaccia invisibile».
L e donne,
tratteggiate con grande talento dalla Djebar nei suoi racconti, rievocano
spaccati reali di vite dall’Ottocento ad oggi e ci fanno partecipi di
oppressioni, dolori, tragedie, nonché qualche raro momento di gioia e,
persino, di gloria.
Ad
esempio, l’eroina Messauda («la lieta»), nel 1839, con le sue grida di
incitamento impedì che il forte di «Ksar el Hayran» fosse preso dai
nemici. Messauda, come tante donne oggi impegnate nella resistenza, è una
delle «donne guerriere, uscite dal loro ruolo tradizionale di
spettatrici». Un ruolo così ben ricordato dal coro di donne, intervenute
al funerale della mitica Yemma Hadda, che, divenuta vedova per la seconda
volta, con severità e burbera tristezza pose «i nuovi cardini della vita
al villaggio».
«Quelle
donne il cui destino era sempre stato di essere le orecchie e i sussurri
della città, la cui vocazione era stata di accovacciarsi ai piedi dello
sposo per togliergli le scarpe la sera quando tornava a casa»; quelle
stesse donne nel bagno turco si rivelano con «un baccano di voci
sovrapposte, un colloquio sommesso di pene… Altre donne, mute, si
fissano attraverso i vapori: sono quelle che vengono tenute rinchiuse per
mesi o anni, tranne che per il bagno».
Queste
donne devono, a causa del perenne stato di guerra o guerriglia, sopportare
un’ulteriore atroce tragedia, perché lievito inconsapevole di figli
adolescenti, improvvisamente risoluti a combattere e a morire («mio
figlio… il mio fegato straziato… la mia carne dilaniata!»).
Chi, come
la portatrice d’acqua e la massaggiatrice del bagno turco, si è ribellata
al tragico destino di sposa-bambina, dopo una vita di sofferenze ed
umiliazioni sussurra nel delirio: «Sono io – io? – che hanno esclusa,
colei sulla quale è stato posto il divieto. Sono io – io? – colei che
hanno umiliata. Io colei che hanno ingabbiata…».
Vi sono
alcune donne, come l’evoluta Sarah o la coraggiosa Nfissa, che hanno
sofferto la prigionia e tortura. Eppure Nfissa, tra profumi di menta e
gelsomino, si sente dire dalla sorella diciannovenne: «Se tu hai
conosciuto la prigione, io pure l’ho conosciuta, ma qui, proprio in questa
casa che ti sembra meravigliosa».
La Djebar
presenta, infine, con spietata ironia il simbolo di una cultura: la donna
velata. «L’unico occhio scoperto scruta attraverso il buco dalla ostile
forma triangolare, unica apertura nel volto interamente mascherato… La
giovane guardona osserva ogni cosa con lentezza e gravità, spesso con
disprezzo… Il mondo isolato delle donne contiene l’assillo di spiare ed
essere spiate per provare, in questo modo, l’illusione del mistero…».
I racconti
e romanzi di
Assia
Djebar, pubblicati in Italia, sono:
L’amore,
la guerra (Edizione Ibis); Bianco d’Algeria (Edizione Il Saggiatore).
Silvana Bottignole