I l mondo della donna araba è circondato dal mistero e da tanti stereotipi. Solo la scrittura illuminata di qualche donna araba, colta ed intelligente, può aiutarci a penetrare e, in parte, a comprendere un mondo così lontano dalla nostra cultura.
Nata nel 1936 a Cherchel (Algeria), Assia Djebar è stata la prima donna algerina ammessa all’École Normale Supérieure francese. Nel 1957, ancora giovanissima, ha pubblicato il suo primo romanzo Le Soif e, un anno dopo, Les Impatients.
Testimone oculare ed avida raccoglitrice di storie vere, la Djebar riesce, nei suoi numerosi romanzi e racconti, a farci partecipi sia di tante tragedie umane e familiari, causate dalla crudele guerra algerina, sia del lento processo di evoluzione nella vita delle donne arabe, costringendoci ad ascoltare «la voce dei sospiri, dei risentimenti, dei dolori di tutte coloro che sono state murate vive».
La prolifica scrittrice algerina si è anche cimentata come cineasta, vincendo nel 1979 il Gran Premio della Critica Internazionale al Festival del Cinema di Venezia con il film Les Nouba des Femmes du Mont-Chenoua. Lo scorso anno ha, inoltre, presentato a Roma una sua opera teatrale, tratta dal romanzo Figlie di Ismaele.
Dal 1997 vive tra Francia e Stati Uniti, poiché lavora come professore e direttore del Center for French and Francophone Studies della Louisiana State University.
«C ome agire oggi da rabdomante per le migliaia di accenti ancora sospesi nei silenzi del serraglio di ieri, per le parole del corpo velato, per un linguaggio che, a sua volta, ha da molto tempo preso il velo?».
Si chiede Assia Djebar nell’introduzione alla sua raccolta di racconti, da lei stessi definiti «capisaldi di un percorso di ascolto che va dal 1958 al 1978», pubblicata in Italia con il titolo Donne d’Algeri nei loro appartamenti.
E’ un titolo ispirato dal famoso capolavoro di Delacroix, pittore francesce, che nel 1832, grazie all’interesse dell’ingegnere capo del porto di Algeri, signor Poirel, riuscì ad entrare nell’harem di un ex-comandante d’imbarcazione corsara e abbozzare disegni e schizzi corredati da tante note.
«Inebriato dallo spettacolo che aveva sotto gli occhi», Delacroix rielaborò per due anni le impressioni raccolte e ne scaturì il capolavoro Donne di Algeri, in cui – ci racconta la Djebar nella post-fazione del suo libro – «tre donne sono prigioniere rassegnate di un luogo chiuso rischiarato da una luce che scaturisce dal nulla, luce di serra o di acquario». Passarono 15 anni e Delacroix, all’esposizione del 1849, presentò una seconda versione delle Donne di Algeri, che al sol pensiero strappava lacrime a Renoir.
Infatti «uno dei muri della camera viene messo in evidenza, in modo da farlo pesare con gravità più ossessiva sulla solitudine delle tre donne… l’ombra nasconde come una minaccia invisibile».
L e donne, tratteggiate con grande talento dalla Djebar nei suoi racconti, rievocano spaccati reali di vite dall’Ottocento ad oggi e ci fanno partecipi di oppressioni, dolori, tragedie, nonché qualche raro momento di gioia e, persino, di gloria.
Ad esempio, l’eroina Messauda («la lieta»), nel 1839, con le sue grida di incitamento impedì che il forte di «Ksar el Hayran» fosse preso dai nemici. Messauda, come tante donne oggi impegnate nella resistenza, è una delle «donne guerriere, uscite dal loro ruolo tradizionale di spettatrici». Un ruolo così ben ricordato dal coro di donne, intervenute al funerale della mitica Yemma Hadda, che, divenuta vedova per la seconda volta, con severità e burbera tristezza pose «i nuovi cardini della vita al villaggio».
«Quelle donne il cui destino era sempre stato di essere le orecchie e i sussurri della città, la cui vocazione era stata di accovacciarsi ai piedi dello sposo per togliergli le scarpe la sera quando tornava a casa»; quelle stesse donne nel bagno turco si rivelano con «un baccano di voci sovrapposte, un colloquio sommesso di pene… Altre donne, mute, si fissano attraverso i vapori: sono quelle che vengono tenute rinchiuse per mesi o anni, tranne che per il bagno».
Queste donne devono, a causa del perenne stato di guerra o guerriglia, sopportare un’ulteriore atroce tragedia, perché lievito inconsapevole di figli adolescenti, improvvisamente risoluti a combattere e a morire («mio figlio… il mio fegato straziato… la mia carne dilaniata!»).
Chi, come la portatrice d’acqua e la massaggiatrice del bagno turco, si è ribellata al tragico destino di sposa-bambina, dopo una vita di sofferenze ed umiliazioni sussurra nel delirio: «Sono io – io? – che hanno esclusa, colei sulla quale è stato posto il divieto. Sono io – io? – colei che hanno umiliata. Io colei che hanno ingabbiata…».
Vi sono alcune donne, come l’evoluta Sarah o la coraggiosa Nfissa, che hanno sofferto la prigionia e tortura. Eppure Nfissa, tra profumi di menta e gelsomino, si sente dire dalla sorella diciannovenne: «Se tu hai conosciuto la prigione, io pure l’ho conosciuta, ma qui, proprio in questa casa che ti sembra meravigliosa».
La Djebar presenta, infine, con spietata ironia il simbolo di una cultura: la donna velata. «L’unico occhio scoperto scruta attraverso il buco dalla ostile forma triangolare, unica apertura nel volto interamente mascherato… La giovane guardona osserva ogni cosa con lentezza e gravità, spesso con disprezzo… Il mondo isolato delle donne contiene l’assillo di spiare ed essere spiate per provare, in questo modo, l’illusione del mistero…».
C’ è speranza? Djebar pensa di sì. Inoltre suggerisce: «Soltanto nei frammenti dei bisbigli antichi io vedo la via per cercar di restituire il dialogo fra le donne, quello stesso che Delacroix gela sulla superficie del suo quadro. Soltanto dalla porta aperta in pieno sole, quella che Picasso ha in seguito imposto, spero una liberazione concreta e quotidiana delle donne».
I racconti e romanzi di
Assia Djebar,
pubblicati in Italia, sono:
Donne d’Algeri
nei loro appartamenti;
Ombre sultane;
Lontano da Medina. Figlie
di Ismaele;
Nel cuore della notte algerina (Edizione Giunti);
L’amore, la guerra
(Edizione Ibis);
Bianco d’Algeria
(Edizione Il Saggiatore).
Sillvana Bottignole