ETIOPIA – Un paese… di corsa

Non si tratta delle visite alle nostre missioni
di chi vuole in pochi giorni conoscere
la cultura della nazione e vivere un’esperienza missionaria;
ma del verbo «correre», nel senso letterale
del termine: l’Etiopia è famosa per i suoi maratoneti; ma anche i ragazzi di un campo profughi alla periferia della capitale non scherzano.

V enti anni fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960.
Oggi, a 40 anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel centro di Addis Abeba.
Il giorno che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat, mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino. Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti; un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.
Queste vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.
Oggi, il numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.
C onfesso che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io. Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.
L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di 11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la loro tredicenne compagna Sinnàit.
Alla mia età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida. Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.
Le tute da bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

D a Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città, tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.
Abùsh va perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.
Da parte mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di scarto.
A i piedi delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada. È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta, mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto, come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina. Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla. Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt si mostra molto gentile: vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e dobbiamo rientrare prima che faccia buio.
La gente, al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.
Siamo quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti. Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più fortunato.

Vincenzo Clerici

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