CARCERE E MISSIONE. UN FLACONE CONTRO IL MAL DI STOMACO
Che fa
un vescovo in prigione per 13 anni, di cui nove in isolamento? Risponde lo
stesso carcerato, dal 1975 al 1988 vittima in Viet Nam delle galere del
comunismo. Oggi presiede a Roma il Consiglio pontificio «Giustizia e
pace». Ed è pure cardinale.
In Viet
Nam ho vissuto oltre 13 anni in prigione, di cui nove in isolamento, senza
neppure una visita della famiglia, e con due poliziotti che non mi
parlavano. Senza radio, giornali, telefono, televisione. Una cultura di
morte. Ho trascorso da giovane vescovo questi anni di disperazione e
rivolta. Ma Gesù nell’eucaristia mi ha aiutato.
Pacchetti di
sigarette
Non molto
tempo dopo, il direttore della prigione mi chiama.
È una
bottiglietta di vino.
Con mia
grandissima gioia, grazie a quel vino, celebro le più belle messe della
mia vita. Offro il sacrificio eucaristico sul palmo della mano, con tre
gocce di vino e una di acqua. Ogni giorno posso rinnovare con il Signore
la mia «nuova ed eterna alleanza» di sacerdote.
L’eucaristia è un sostegno per me e per gli altri prigionieri cattolici.
Dormiamo tutti su uno stesso letto. La sera alle 21.30, nell’oscurità, mi
curvo per celebrare la messa, il cui testo conosco a memoria. Poi faccio
passare sotto la zanzariera la comunione ai cinque cattolici vicini a me.
La presenza di Gesù eucaristia ci conforta molto. L’indomani raccogliamo
carta di pacchetti di sigarette, con la quale fabbrichiamo dei sacchettini
per contenere il Santissimo.
Ogni
settimana, al venerdì, si tiene la sessione di indottrinamento marxista.
Tutti i prigionieri vi partecipano. Al momento della sosta, consegniamo ad
ogni gruppo di 50 persone un sacchettino… con Gesù dentro. Ciascuno
«intasca il Signore» e, nella prova, nella tristezza, nella tribolazione,
lo sente con sé: lo prega di notte, fa l’«ora santa». E, grazie
all’adorazione e alla comunione, i cristiani che hanno abbandonato la fede
ritornano praticanti.
Non potrò
mai dimenticare come ci abbia sostenuto il canto liturgico, lasciatoci da
san Tommaso per la celebrazione della festa del Corpus Domini, dove viene
affermata tutta la teologia in parole semplici. E avvertirò sempre il
senso mariano dell’eucaristia. Quando la celebriamo, siamo veramente figli
di Maria: Ave verum corpus natum de Maria virgine…
Con
l’eucaristia, i laici in carcere diventano coraggiosi nell’impegno e
sereni nella tristezza: servono tutti con carità, e la loro testimonianza
affascina i non cattolici (talvolta fanatici), che poi chiedono di
conoscere Gesù e la nostra religione; diventano catechisti; poi battezzano
gli altri compagni prigionieri facendo loro da padrini.
Con
l’eucaristia la prigione cambia: diventa una scuola di fede, una
catechesi.
«Sei hutu o
tutzi?»
Ricordo i
trappisti francesi in Algeria, monaci e missionari. I superiori hanno
chiesto loro di lasciare il paese, data la seria minaccia per la loro
vita; ma tutti decidono di restare e sono morti per la fede.
In Africa
non mancano le guerre etniche. Ma tanti nostri fratelli africani soffrono
con coraggio… Un sacerdote in Rwanda, all’arrivo dei soldati, indossa i
paramenti sacri. Gli domandano: «Sei hutu o tutzi?». E lui: «Sono un
prete…». Per la seconda e terza volta gli rivolgono la stessa domanda.
La risposta è sempre: «Sono un prete». Lo ammazzano. Muore da sacerdote. E
il sacerdote non ha frontiere: è per la chiesa universale. È testimone
della fede, grazie a quel Gesù che celebra ogni giorno nell’eucaristia.
In Burundi
alcuni guerriglieri hutu fanno irruzione in un seminario per arrestare 40
studenti, chiedendo loro di dividersi: gli hutu da una parte e i tutzi
dall’altra. «Se siete hutu vivrete, se tutzi morirete!». Ma i 40
seminaristi restano uniti. Vengono tutti uccisi, fratelli nella vita e
nella morte. Sono martiri dell’unità dei popoli, quell’unità che Gesù ci
richiede: «Come tu, Padre, sei in me ed io in te, che tutti siano una sola
cosa…».
Nella
regione dei Grandi Laghi operano anche le suore «poverelle» di Bergamo, e
vengono contagiate dall’Ebola nella repubblica democratica del Congo.
Molti hanno lasciato il paese, ma esse no; anzi, sono giunte nuove
missionarie. I giornalisti incontrano suor Dinarosa Merelli.
Sono tutte
morte in Congo. Ma sono seme di nuovi cristiani.
La croce del
vescovo
Con quale
veleno li ha contaminati quel «cattivissimo vescovo», se non con quello
dell’amore di Cristo Gesù?
Un giorno,
durante i lavori forzati, taglio legna. Chiedo a un carceriere divenuto
amico: «Lasciami tagliare un pezzo di legno a forma di croce».
Il custode
non può resistere e si allontana. Io ritaglio un pezzo di legno nero a
forma di croce e lo tengo nascosto nel sapone fino alla liberazione nel
1988.
Trasferito
in un’altra prigione, vicino ad Hanoi, chiedo al carceriere un pezzo di
filo elettrico.
Tre giorni
dopo, il carceriere mi dice: «Le porterò l’occorrente. Però dobbiamo fare
tutto tra le 7 e le 11; se qualcuno vede, ci denuncerà». E in quattro ore
mi aiuta a fabbricare la catenella della croce vescovile che porto sempre
con me, perché non è solo un ricordo, ma una chiamata ad amare.
Diverse
volte i poliziotti mi pongono una domanda cruciale.
Così sono
vissuto in prigione sino alla fine.
«Corpus
Domini» in Serbia
Nel 1999,
in occasione della festa del Corpus Domini del 6 giugno, il papa mi invia
improvvisamente, quale presidente del Consiglio pontificio «Giustizia e
pace», nell’ex Jugoslavia in guerra. Con me ci sono altri due vescovi:
dobbiamo arrivare, ciascuno con una destinazione diversa, per la festa
eucaristica. Ma abbiamo soltanto tre giorni per prepararci.
Il santo
padre ci dice: «Voglio che preghiate e facciate pregare la gente con me,
mentre io celebrerò il Corpus Domini nella basilica di san Giovanni in
Laterano. Dite a tutti che il papa prega per la pace».
Partiamo:
io vado in Serbia, monsignor Martin in Macedonia e monsignor Crepaldi in
Albania, per mostrare che il santo padre ama tutti i popoli. Arrivo a
Belgrado la vigilia della festa. La città è deserta, senza acqua e senza
luce. Sono rimasti solo sei ambasciatori, che si chiedono: «Perché
Milosevic non ha accettato la proposta della Nato e tutti gli ambasciatori
sono fuggiti?».
A
mezzogiorno sono in nunziatura e ricevo una telefonata dalla Santa Sede:
«Come avete fatto? Avete celebrato la messa?». «Sì, abbiamo anche
annunciato che la pace è vicinissima». E da Roma: «Il papa lo dirà subito
a Kofi Annan, segretario delle Nazioni Unite».
La
preghiera a Gesù nell’eucaristia porta la pace nel mondo, come Gesù ha
detto: «La mia carne è per la vita del mondo». Ed è la più grande
missione.
Testimonianza rilasciata dal cardinale François Xavier Nguyên Vân Thuân
nella basilica di san Giovanni in Laterano, Roma 22 giugno 2000.
Adattamento della redazione.
Il cardinale François Xavier Vân Thuân
Trecento
frammenti di speranza
È nato il 17 aprile
1928 a Huê, Viet Nam. Discende da una famiglia che conta numerosi martiri.
Nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio materno furono bruciati vivi in
chiesa, eccetto il nonno (che studiava in Malesia).
La mamma Elisabeth
ha educato cristianamente François Xavier fin da quando era in fasce.
Allorché il figlio fu imprigionato, continuò a pregare per lui affinché
restasse sempre fedele alla chiesa.
L’incarcerazione
avvenne nel 1975 ad opera del regime comunista. François Xavier era da
pochi mesi vescovo, oltre che sacerdote dal 1953. Sopporterà la prigione
per 13 anni. Da carcerato visse momenti drammatici, come il viaggio su una
nave con 1.500 detenuti affamati e disperati. Per non parlare dei nove
anni di isolamento.
In carcere non
poteva tenere la bibbia: allora raccolse tanti pezzetti di carta e vi
scrisse tutte le frasi del vangelo che ricordava: oltre 300. Divenne il
suo vademecum quotidiano.
Liberato nel 1988,
tre anni dopo fu espulso dal Viet Nam quale «persona non grata».
Dal 1998 è
presidente a Roma del Consiglio pontificio «Giustizia e pace». E, dal 21
febbraio scorso, cardinale.
Ha pubblicato vari
libri, tutti all’insegna della speranza:
Il cammino della
speranza, I pellegrini del cammino della speranza, Il cammino della
speranza alla luce della parola di Dio e del Concilio Vaticano II,
Preghiere di speranza, La speranza non delude…
Il carcere "Le
Nuove" di Torino
e i missionari della Consolata (1931-44)
I missionari della
Consolata prestano assistenza spirituale ai carcerati de Le Nuove di
Torino dal 16 gennaio 1931 al 16 novembre 1944. Sono 14 anni cruciali,
condizionati da regimi dittatoriali contrapposti e segnati dalla
catastrofe della seconda guerra mondiale.
Questo periodo
assegna a Le Nuove una rilevanza politica a livello locale, nazionale ed
internazionale, poiché il carcere è spesso usato come repressione e
persecuzione contro i dissidenti politici. Le Nuove di Torino è luogo di
transito per chi viene trasferito in altre prigioni del nord e
dell’estero; racchiude detenuti italiani e stranieri per motivi
delinquenziali e politici. Durante il fascismo, e soprattutto nel 1943-45,
la vita carceraria rispecchia, prima, l’inasprimento della pena e poi il
terribile clima della guerra.
Come confortare un
morente in carcere che, talvolta, si dichiara innocente? Ancora più
difficile è accompagnare alla forca un condannato a morte, come avviene a
Vittorio Longo il 7 agosto 1935. A partire da questa data, tanti sono i
condannati alla pena capitale assistiti dai missionari della Consolata:
complessivamente 72, di cui 2 prima della guerra e 70 dal 17 marzo 1943 al
5 novembre 1944.
L’azione dei
missionari della Consolata, cappellani aggiunti ed aiutanti ne Le Nuove,
contribuisce alla salvaguardia dei valori umani e spirituali, che fondano
la Costituzione. Il loro ministero è svolto sempre a favore dei più
afflitti dalla sofferenza. Il modo di porsi di fronte ai condannati è
ispirato al rispetto della dignità umana e del fratello in Cristo.
Sulle
orme di san Cafasso
La prima
caratteristica dell’essere missionario in prigione è la prudenza, nel
rispetto delle norme penitenziarie.
Scrive padre
Giovanni Piovano sull’assistenza di padre Vittorio Sandrone a favore dei
carcerati: «Operò un grandissimo bene fra continue difficoltà, date da
quel luogo di pena, ma più ancora dalle circostanze e dagli eventi del
tempo, uno dei più gravi della storia di Torino e dell’Italia. Padre
Sandrone, dal primo all’ultimo giorno in cui esercitò il non facile
incarico, non solo ne conobbe la responsabilità e ciò che da lui si
richiedeva, ma lo compì con grande fede e anche con cristiano entusiasmo».
Padre Sandrone
raccomanda la prudenza per poter esercitare il ministero verso tutti. Nel
1940, allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Istituto impartisce
alcune disposizioni: «Nel parlare non si vada oltre al puro racconto dei
fatti… A nessuno è proibito di pensare gli avvenimenti secondo la
propria coscienza, però non deve esprimere con gli estranei la sua
opinione, ed anche con i confratelli si deve usare molta prudenza e
tolleranza, evitando ogni disputa accalorata. Il meglio sarebbe pensare,
come il beato Cafasso, al grande numero di anime che muoiono senza
sacramenti e procurare di ottenere loro da Dio una grazia particolare di
penitenza».
Non si può scordare
che il codice penale Rocco (1930) determina un aumento dei casi di reato
perseguibili e un allungamento della pena, fino a raddoppiarla rispetto a
quella del codice Zanardelli (1890). Inoltre il Regolamento penitenziario
del 1931 inasprisce la vita intramuraria con punizioni più severe e minori
controlli da parte della Commissione vigilatrice estea.
Padre Sandrone
assiste 40 detenuti che muoiono in carcere, lontani dagli affetti
familiari e dai luoghi domestici, in balia dell’università che utilizza i
loro corpi per esperimenti, come prevede il Regolamento.
Il 1° febbraio 1936
padre Sandrone lascia l’incarico di cappellano delle carceri. Gli succede
padre Pietro Dante, anch’egli coinvolto nell’assistenza dei condannati a
morte.
L’esperienza di san
Giuseppe Cafasso si ripete tragicamente. I padri Vittorio Sandrone, Pietro
Dante, Giovanni Bortolas, Giuseppe Moncher, Carlo Masera, Gerardo Bottacin,
Giacomo Fissore, Adriano Severin, Giuseppe Rubatto, Enzo Sommadossi
accompagnano i 72 condannati alla fucilazione o impiccagione con una
partecipazione umana e religiosa indicibile. Ecco una testimonianza.
«Erano le 17 circa
del 22 luglio 1944. Mi aggiravo nelle celle dei detenuti, quando mi sentii
chiamare affannosamente dalla superiora delle suore, addette alla sezione
femminile delle carceri, suor Giuseppina De Muro. Corsi al luogo
indicatomi. Nel cortile esterno dello stabilimento trovavo già in partenza
due camion carichi di truppa con mitragliatrici. Tentai di salirvi. Mi
fermò un tenente della Leonessa, perché (i tedeschi che comandavano il
famigerato 1° braccio) non lo permettevano. Mi arrampicai sul camion in
moto. Mi trovai fra soldati e mitragliatrici; seduti e ammanettati vidi
sei individui in borghese. Non li conoscevo affatto, perché provenivano
dal reparto tedesco, dove era assolutamente vietato al cappellano
l’entrarvi. Neppure sapevo dove andava. Mi avvicinai al primo che stava
nella parte posteriore della macchina. Vestiva decentemente, era pallido
in viso, per tutto il tragitto come sul luogo di esecuzione non disse una
parola: era un capitano (Ignazio Vian)… Quattro condannati vengono fatti
scendere. Le manette ai polsi e la lunga catena che li unisce ostacolano
la discesa… sotto gli alberi vengono liberati dai ferri. Un camion
retrocedendo si ferma, in modo che la parte posteriore, con sponda
abbassata, si trovi sotto i capestri. Salgono i condannati, cui quattro
tedeschi legano le mani dietro la schiena. Un diciottenne invoca la mamma:
“Sono innocente, la mia mamma resterà sola, senza aiuto e senza appoggio”.
Non avverto segnali. La macchina parte improvvisamente, mentre i soldati
danno una spinta alle vittime, che si trovano sospese nel vuoto. Le
assistetti con la preghiera, rinnovando l’assoluzione finché non le vidi
immobili».
Anche
un ragazzo di 20 anni
n Disponibilità,
altra caratteristica dei missionari della Consolata. Alcuni sono obbligati
per motivi bellici a tornare in Italia e prestano servizio nei campi,
negli ospedali militari e in carcere. Ad esempio, padre Giacomo Fissore
opera a Torino da giugno 1940 ad agosto 1942 come cappellano militare
presso l’ospedale da campo n. 2, poi aiuta il cappellano delle carceri dal
1943 al 1950.
n L’ascolto del
carcerato è costante nei missionari della Consolata. Di padre Fissore il
professor Luigi Sacchetti scrive: «Mentre parlavo, mi stava a guardare in
silenzio con l’occhio di chi sa cogliere le voci più sepolte e le sa
ricomporre nei disegni di Dio».
Il detenuto non
chiede giudizi politici, né strategie di difesa giudiziaria, ma di essere
ascoltato per alleviare un po’ il suo cuore oppresso e per dare un senso
alla sua mente offuscata da dubbi corrosivi. L’assistenza spirituale a chi
soffre la prigione e ai condannati a morte permette di capire il mistero
dei progetti di Dio sull’uomo, anche in situazioni assurde ed ingiuste.
n La solidarietà
crea un sostegno reciproco fra i cappellani militari e quelli delle
carceri. In una lettera del 1942 spedita da padre Fissore, cappellano
militare del 2° ospedale da campo a Bussoleno, si raccomanda un medico a
padre Sandrone, cappellano de Le Nuove: «È stato tradotto alle carceri un
suo carissimo amico, il dottor Prando, sospettato di avere maneggiato
denaro nelle licenze dei soldati. È padre di due bambine. Credo che sono
30-40 i medici implicati in simili cose. Due sono veramente colpevoli.
Anche noi cappellani siamo tenuti d’occhio».
La solidarietà si
anima anche con il Da Casa Madre, che raccoglie e trasmette informazioni
sui missionari sparsi ovunque. È un organo di stampa importante nella
guerra: riduce preoccupazioni, angosce, incertezze, e conserva la
ragionevolezza nei rapporti sociali.
n Il tatto
caratterizza la comunicazione di notizie tristi alle famiglie dei
condannati a morte. Nella lettera di padre Ezio Sommadossi al genitore di
Carlo Pizzoo, fucilato il 22 settembre 1944, si legge: «Carissimo papà
desolato, non sono vostro figlio, ma sono fratello di vostro figlio…
Tutti i suoi baci che infiniti stampò sul mio volto per l’adorato papà ve
li trasmetto; pegno troppo prezioso per me, e non mi sento la forza di
custodirli con quella fede e purezza che unì le nostre anime fino al
momento che volò tra le braccia della sua mamma adorata (morta tempo
prima). Come vorrei dirvi, padre… Permettete al mio affetto di non
chiamarvi con altro nome: troppo ne sento il bisogno, perché diversamente
non saprei spiegare il dolore che squarciò il mio cuore… La sua
scomparsa segna una tappa nella mia vita. Attendo di vedervi per
riscaldare il vostro dolore coi baci che conservo come sacro pegno di
Carluccio».
Padre Sommadossi è
cappellano a Le Nuove da luglio al 16 novembre 1944; assiste 16 condannati
a morte; il primo è proprio Carlo Pizzoo, fucilato al Martinetto. Viene
sostituito da padre Ruggero Cipolla, francescano, per motivi di salute,
secondo una nota dell’Amministrazione penitenziaria (1945). In realtà il
missionario rischia di essere catturato dai tedeschi, sospettosi del suo
operato.
n Il rischio del
martirio contraddistingue l’azione del missionario della Consolata in
carcere. In una lettera della moglie del generale Perotti, Fiorenza
Perotti, si legge: «Padre Fissore aveva assistito mio marito e i suoi
compagni e, avendo accettato le lettere che mio marito aveva scritto per
consegnarle alla famiglia, aveva avuto minacce e botte da alcuni
componenti il plotone di esecuzione. Ho parlato pochi minuti con padre
Fissore, che era malconcio fisicamente e moralmente».
Il rischio di essere
fucilato è alto per padre Fissore, tenendo presente che le SS non si
fidano dei repubblichini, e a maggior ragione di altri italiani. Tale
esempio di coraggio e resistenza ai processi di disumanizzazione, se non
di annientamento messo in atto in prigione, merita particolare attenzione.
n La conversione è
un’altra esperienza forte del missionario fra i carcerati. Padre Carlo
Masera partecipa a 10 esecuzioni capitali dal 1943 al 1944 e racconta di
un giovane sui 20 anni. «Non aveva mai pregato, né era mai entrato in
chiesa. Mi sorse il dubbio che non fosse nemmeno cristiano. Infatti mi
confessò che non era battezzato». Ma in punto di morte il giovane riceve
il battesimo e la prima comunione.
Nel giorno della
sepoltura di padre Masera, il 27 gennaio 1970, padre Damiano Fea afferma:
«Questo periodo per i missionari della Consolata, che hanno assistito
tanti prigionieri, deportati e condannati a morte, è stato pesante, penoso
e delicato».
Ricordarli oggi è un
dovere della società e della chiesa.
Personalmente lo
faccio anche in omaggio del centenario dei missionari della Consolata.
Felice Tagliente,
psicologo
delle carceri «Le
Vallette/Le Nuove» – Torino
F. Xavier Nguyên Vân Thuân