BUTEMBO (CONGO, R.d.): diplomazia popolare.AMBASCIATORI IN SCARPETTE E CALZONCINI
Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti ha raggiunto
la regione orientale della Repubblica democratica del Congo per unirsi
alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare pace e
rispetto dei diritti umani. L’iniziativa ha seminato forti speranze che
attendono di diventare realtà.
Sembrava un’idea
temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso,
quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a
raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha
già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati
i costruttori di pace», «Operazione colomba» e «Chiama
l’Africa», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza
dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia,
Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo,
nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo
un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo,
per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con
la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.
PROGETTO
«VISIONARIO»
A volte la causa
della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto
profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni
schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa
l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante
appoggio logistico ai pacifisti.
L’ispiratore di tale
iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove
originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese
prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore
lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato
dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il
testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima
persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri
e manifestazioni varie.
Che i tempi fossero
maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro
arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo
giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I
militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo
della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.
Alla frontiera
ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman,
percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla
foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno.
In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!»
(pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al
tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?»
domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama:
la chiamano «Organizzazione non utile».
Dopo una sosta a
Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei
militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle
porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli
organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa
dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del
Rassemblement congolais pour la democratie (Rcd) di Goma, appoggiati
dai rwandesi.
A Butembo apparvero
ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la
popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di
persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari
gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse
commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha
esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo
all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati
ufficiali?».
SIMPOSIO PER
LA PACE
A Butembo i
pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in
Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di
organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e
integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e
protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali
attori politico-militari della regione.
«Simposio» è una
parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il
Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte
del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che
pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e
sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze
in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali
che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate
sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono
abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.
All’apertura dei
lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di
Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba,
presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte
dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da
una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di
Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale
ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i
cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia
assoluta».
La replica di Bemba
non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato
facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al
mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della
Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente
controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del
paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia
francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a
volte è necessario combattere».
Il Sipa chiuse i
lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra
l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio
congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may
may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili
del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza
intercongolese di pace.
Nonostante il
moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di
incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della
Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla
lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine
della giornata conclusiva.
IL CAPO
CHIEDE PERDONO
Lentamente, le
circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero
verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada
principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di
un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di
occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una
festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio
contributo.
La cerimonia finale,
che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani
e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a
dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga
preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può
definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla
provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi
durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di
persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa.
«Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da
noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -.
Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e
Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare
ritorno alle loro sedi».
L’annuncio è accolto
dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la
regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari
paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade
insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto
genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone
incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere
da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.
Stupore anche fra le
fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati,
obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni
specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo
intrapreso quest’avventura.
SPERANZA
APPESA A UN FILO
Solo il tempo dirà
se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un
processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a
Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco
villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla
violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il
dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la
resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati
dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua
volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente
comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative
della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.
Nessuno è così
ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma
sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato
la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a
Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da
chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae.
L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.
Le ultime notizie
che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may
del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali
ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle
truppe straniere di occupazione.
La smobilitazione
delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta
parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come
promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra
Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu
(uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.
Non è chiaro,
infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente
ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha
ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente
ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo,
il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a
Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.
Il futuro rimane
ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in
scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia
popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.
Marco Pontoni è
giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.
ULTIMI FATTI IN CONGO
16 gennaio 2001:
Laurent Désiré Kabila, presidente della Repubblica democratica del Congo,
rimane vittima in un attentato. Gli succede il figlio Joseph.
Fine di gennaio:
Joseph Kabila visita Europa e Usa, promette libere elezioni.
1 febbraio: Kabila
incontra a Washington Paul Kagame, presidente del Rwanda, che considera
necessaria per la sicurezza nazionale la sua presenza militare in Congo.
28 febbraio:
rimpatrio di parte delle truppe ugandesi presenti a Buta; i rwandesi
abbandonano Pweto, occupata alla fine del 2000.
15 marzo: parziale
ripiegamento degli eserciti stranieri dal Congo. Continuano le violenze
nei territori controllati dalla Coalizione democratica congolese-Goma,
sostenuta dal Rwanda.
30 marzo: 110
militari uruguayani, primo contingente di osservatori della Missione Onu
in Congo (Monuc), si insediano a Kalemie (Goma). Il mandato della Monuc,
istituita nel 1999, prevede l’impiego di circa 5.500 uomini.
6 aprile: il
presidente Joseph Kabila annuncia nuove elezioni per maggio o giugno,
purché tutti gli eserciti stranieri si siano ritirati dall’ex Zaire.
20 aprile:
contingente marocchino a Kisangani: finora sono solo 600 i soldati della
Monuc in Congo. L’operazione di ritiro degli eserciti stranieri e
sostituzione con soldati Onu si sarebbe dovuta completare entro maggio.
Marco Pontoni