BAHAGAVAD-GITA: antico testo sacro dell’induismo. VERSO L’ASSOLUTO

San
Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti e
verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri
indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

 

Dio, Allah, Javhè,
Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda,
ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo,
esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi
diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si
sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino
all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso
millenni.

Senza pretendere di
dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri
fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i
concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.

È quanto tentiamo di
fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un
poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il
Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C.
al II d.C.

Il Bahagavad-Gita è
un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta
come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna
che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone
dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude
il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge
nell’intimo di ogni persona.

Questo libro ha
lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa
dell’India, da essere considerato un testo sacro.

 

Nel poema viene
esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a
cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è
il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che,
all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.

Brahaman, infatti, è
«l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto
che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il
Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me –
afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).

Nel Bahagavad-Gita
viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se
non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono
il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).

Seguendo i precetti
adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza
indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle
reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me;
per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).

Quindi è già
esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve
aspirare e tendere.

Tale salvezza non è
raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare
risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento:
quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il
fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si
presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in
realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano
poveri» (IX,23).

L’umiltà di Brahaman
si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore,
una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e
devotamente e con amore» (IX,26).

La fede non è un
aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza
divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che
sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman
stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi
insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di
saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

 

 

Brahaman possiede
una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad
una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere
all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare
la gloria della mia vista» (XI,12).

È interessante
notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare
Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima
esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato
testimone.

Anche per noi
cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli.
Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria
esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

 

 Dove risiede
Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come
creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo
appare reale ai nostri sensi,  in realtà è illusorio. Anche per noi
cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni
nostra capacità di comprensione.

Il concetto di
illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune
apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il
Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte
dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare
attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane
come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non
ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà
del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma
invisibile di Dio.

 

Come si può
raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del
controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia
nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere
l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è
paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non
è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e
dalla preoccupazione» (XII,13-15).

Cosa succede a chi
non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un
inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in
guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21).
Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza
(pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il
lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).

Da qui scaturisce un
ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è
assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo
obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare
salvezza eterna.

È interessante
notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati
raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del
lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo
stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile,
perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).

Il risultato di tale
fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per
non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la
pace del Nirvana» (II,72).

 

 In conclusione,
questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze
tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana.
Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È
tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e
religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a
prima vista.

Sono i «semi del
Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di
verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli
e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti
di salvezza.

Pier Giorgio Motta

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