FILIPPINE – Rivoluzione dei rosari

Per la seconda volta in 15 anni il popolo filippino ha cacciato
un presidente, definito dai vescovi «moralmente inadatto a governare».
È subentrata Gloria Macapagal Arroyo:
ha giurato di combattere povertà, ingiustizia, corruzione.
Sono sfide secolari, affrontate con grande speranza
e con il supporto di una chiesa
incarnata nelle realtà del paese.

D opo quattro giorni di cortei, con preghiere e proteste, il capo di stato Joseph Estrada, accusato di «saccheggio economico», è dichiarato decaduto. A mezzogiorno del 20 gennaio 2001 Gloria Macapagal Arroyo presta giuramento come 10° presidente delle Filippine. La cerimonia avviene davanti al santuario dell’Edsa (iniziali di Epifanio de los Santos Avenue, principale arteria di Manila), lo stesso luogo dove era partita l’insurrezione del 1986 contro il dittatore Marcos.
La neo-presidente enuncia le priorità della sua amministrazione: sconfiggere la povertà, combattere la corruzione, riformare lo stato, riportare la pace nel sud del paese. Programma ambizioso e urgente: tre quarti di risorse e poteri del paese sono in mano a pochi privilegiati; mentre il resto della popolazione è in via di «sviluppo». I problemi sono gravi e con radici secolari.
STORIA DI (IN)DIPENDENZA
Scoperte nel 1521 da Ferdinando Magellano, navigatore portoghese a servizio di Filippo II re di Spagna, le Filippine cominciarono a essere colonizzate nella seconda metà del secolo XVI. L’arcipelago era abitato da varie etnie autoctone e una miriade di comunità rurali autonome, discendenti da migrazioni malesi, cinesi, indonesiane avvenute nel corso di molti secoli.
Il sistema coloniale, basato su latifondismo e monoculture da esportazione (canna da zucchero, noce di cocco, canapa), espropriò molti contadini e li ridusse allo stato di servi dei grandi proprietari terrieri. Ancora oggi la terra appartiene allo stato o ai ricchi. Varie insurrezioni furono duramente represse dagli spagnoli.
Alla fine del secolo XIX la borghesia meticcia e varie categorie di oppressi formarono un movimento indipendentista, che nel 1897 riuscì a cacciare gli spagnoli dalla colonia, con l’aiuto degli Stati Uniti, già in guerra contro la Spagna per Cuba e Puerto Rico. Il 12 giugno 1898 fu proclamata la Repubblica delle Filippine, «sotto la protezione della potente e benevola nazione nordamericana».
Cinque mesi dopo, addio benevolenza: al trattato di Parigi, la Spagna cedette la colonia agli Stati Uniti in cambio di 20 milioni di dollari.
Tra il 1899 e il 1911 un milione di filippini morirono invano lottando contro i nuovi occupanti: l’economia del paese fu sottomessa agli interessi americani; l’inglese rimpiazzò lo spagnolo; fu diffuso lo stile di vita americano. Un effetto positivo: fu imposta la scuola d’obbligo e gratuita, per cui oggi il 95% dei filippini sono alfabetizzati.
Nel 1941 le Filippine furono occupate dai giapponesi e riprese la lotta di resistenza armata: il movimento degli huks, a base contadina e d’ispirazione socialista, forte di 118 mila armati, cacciò gli invasori. Toarono gli Usa e si affrettarono a concedere l’indipendenza: 4 luglio 1946.
Con una serie di trattati «ineguali» gli americani si assicurarono la salvaguardia dei loro interessi economici e strategici: una ventina di basi militari perpetuava il regime di protezione americana; le ultime due furono smantellate nel 1991-92: il senato rifiutò di rinnovare il contratto e le ceneri del vulcano Pinatubo seppellirono la base aerea di Clark.
CORRUZIONE GALOPPANTE
Per oltre 25 anni (1946-72) la vita politica delle Filippine fu dominata da un sistema bipolare, rappresentato dal Partito nazionalista e Partito liberale, sotto lo sguardo «benevolo» Usa. Ideologicamente molto simili, i due partiti si alternarono alla guida del paese basandosi sulle élites locali, capaci di procurare voti, specie nelle campagne, ma sempre pronte a coalizzarsi o cambiare campo a seconda della convenienza e del migliore offerente. Finite le elezioni, i vincitori s’affrettavano a recuperare le somme investite; finanziatori e sostenitori riscuotevano il premio della scommessa.
Così corruzione e frode si sono radicate nel sistema elettorale e amministrativo delle Filippine. Nazionalismo e riforme sociali, lotta alla corruzione, pace e ordine, progresso economico, indipendenza totale diventarono esercizi di retorica.
Anche Ferdinando Marcos, nel 1965, conquistò l’uomo della strada sbandierando i soliti temi elettorali, ma poi trasformò le Filippine in un feudo personale, affidando a parenti e amici le cariche nevralgiche del paese. Nella campagna elettorale del 1969 ridusse lo stato in bancarotta. Poiché la Costituzione non prevede un terzo mandato, nel 1972 proclamò la legge marziale, arrogando a sé tutti i poteri. Sciolse il Partito liberale e tarpò le ali alle élites locali, così che solo lui e i suoi amici potevano arricchirsi. Marcos divenne l’uomo più ricco dell’Asia.
Col supporto dei militari, cui diede mano libera nella corruzione, il dittatore soffocò nel sangue ogni tipo di opposizione: 6 milioni di filippini subirono l’«evacuazione forzata»; le loro terre furono cedute alle multinazionali americane. La vittima più illustre della dittatura fu Benigno Aquino, popolare oppositore del dittatore, assassinato nel 1983.
PARLAMENTO DELLA STRADA
Vista l’impossibilità di cambiare la società con i partiti tradizionali, nacquero numerose «organizzazioni popolari»; alcune scelsero la guerriglia, come il New People’s Army (Npa), d’ispirazione maoista; altre si battevano nella legalità per difendere interessi specifici di operai e contadini, donne e studenti. Sotto la dittatura tali organizzazioni si moltiplicarono e rafforzarono, riuscendo a convocare spettacolari manifestazioni di massa e dando vita al cosiddetto «parlamento della strada».
Nel febbraio 1986, l’indignazione per la morte di Aquino e per la rivelazione delle ricchezze nascoste del dittatore fu tale che Marcos fu costretto a indire elezioni anticipate. A sfidare il dittatore scese in campo la vedova di Benigno, Corazón (Cory). Con l’aiuto del cardinale di Manila, James Sin, la candidata riuscì a coalizzare l’opposizione moderata e mobilitare le organizzazioni popolari per vigilare contro i soliti brogli. E quando il dittatore si dichiarò vincitore, nonostante la sconfitta, decine di migliaia di persone scesero in strada per difendere la vittoria di Cory Aquino.
Dalla sua parte si schierarono anche il ministro della difesa Enrile e il comandante dell’esercito, il generale Fidel Ramos. Marcos mandò i blindati contro le caserme ammutinate; da Radio Veritas il cardinal Sin lanciò un appello alla popolazione «in difesa della verità e libertà»: centinaia di migliaia di persone, da tutte le province del paese, si ammassarono davanti al santuario dell’Edsa per poi invadere le strade della capitale, circondando i blindati con le mani tese, cantando e pregando, offrendo ai soldati viveri e bevande, recitando insieme il rosario.
Cinque giorni di rivoluzione pacifica misero fine a 20 anni di regime, 13 dei quali di dittatura: un evento memorabile, passato alla storia delle Filippine con varie definizioni: «miracolo», «rivoluzione dei rosari», vittoria del «potere popolare» contro quello delle élites, spirito dell’Edsa.
POLITICA NUOVA
Il governo di Cory Aquino ristabilì leggi e strutture democratiche; tentò di pacificare il paese concedendo l’autonomia ad alcune province di Mindanao e della Cordigliera; mise in cantiere riforme economiche e sociali, come quella agraria. Le sue buone intenzioni si scontrarono con le realtà del paese. Le riforme di Cory innervosirono i militari e inquietarono i politici tradizionali; i nostalgici di Marcos tentarono due colpi di stato. La «guerra totale» ai gruppi guerriglieri e indipendentisti, con relative violazioni dei diritti umani, appannò il prestigio della presidente, pur continuando a tenere viva la speranza in un futuro migliore.
Tale speranza si rivelò nelle elezioni del 1992, le più ordinate e trasparenti nella storia del paese, in cui fu eletto presidente Fidel Ramos. Sotto il suo governo migliorarono l’economia, i rapporti inteazionali, la pace sociale. La crescita economica faceva sperare che nel giro di 10 anni le Filippine avrebbero raggiunto il rango di «Nuovo paese industrializzato» (Nic), come le vicine nazioni del sudest asiatico.
PRESIDENTE SCERIFFO
Dalla rivoluzione del 1986 è nata la cosiddetta «nuova politica», anche se di nuovo c’è ben poco: gli aspiranti presidenti devono fare i conti col «potere popolare», deciso a votare più i programmi che le persone. Chi può forma un suo partito, come è capitato nel 1998: i candidati erano una quindicina, tra i quali quattro figli di ex presidenti.
Vinse Joseph Estrada, mediocre attore di telefilm polizieschi, riuscendo ad attirarsi le simpatie dei poveri, contadini e classi medie. Sembrava proprio la fine della vecchia politica, legata agli interessi delle élites.
Un passato da playboy, biscazziere e bevitore, Estrada non era uno stinco di santo. Per 16 anni sindaco di un sobborgo di Manila, per quattro senatore, non era neppure uno sprovveduto in politica. Presidente della commissione per la lotta alla criminalità, aveva radiato migliaia di poliziotti corrotti. La gente lo pensava una specie di «sceriffo», capace di perseguire la giustizia in modo deciso e implacabile, come nei films.
Invece le promesse elettorali restarono nel cassetto. L’economia cominciò a precipitare paurosamente. Frequentazioni di affaristi vicini alla famiglia Marcos, atteggiamenti da donnaiolo maschilista, favoritismi verso amici e parenti, sospetti di corruzione minarono il prestigio dello «sceriffo». Corruzione e impunità nell’amministrazione continuavano più di prima; anzi, si scoprì che anche lui era corrotto e corruttore.
All’inizio di ottobre del 2000, uno dei principali gestori del jueteng (lotteria illegale, diffusissima nelle Filippine) rivelò di aver consegnato al presidente una tangente di 10 miliardi di lire. Seguirono 100 giorni di fuoco. I vescovi dichiararono Estrada «inadatto a governare il paese» e lo invitarono a dimettersi. Molti suoi deputati passarono nelle file dell’opposizione: il 13 novembre il Parlamento approvò la mozione che metteva il presidente in stato d’accusa. Il 7 dicembre il Senato iniziò il processo. Al tempo stesso la chiesa continuava a chiedere le dimissioni con mobilitazioni di massa, in cui sfilavano Cory Aquino e il card. Sin.
Estrada respingeva ogni accusa. Il 16 gennaio 2001, quando il Senato rifiutò d’indagare su alcuni conti bancari segreti del presidente, il popolo insorse in massa, ripetendo, come da copione, la «seconda rivoluzione dei rosari»: il cardinal Sin lanciò l’appello e quasi due milioni di persone, 70% giovani, si riversarono nel santuario dell’Edsa, per poi sfilare pacificamente per le strade della capitale, chiedendo la destituzione di Estrada. Dopo quattro giorni di proteste, canti e preghiere, la Corte Suprema destituì Estrada e la vicepresidente, Gloria Macapagal Arroyo, prestò giuramento come nuovo capo dello stato.
SFIDE E SPERANZE

I regimi passano; i problemi restano. I salari sono bassi. Disoccupazione e inflazione galoppano. Per la maggioranza della gente la vita è una lotta quotidiana contro la povertà, ingiustizia sociale, corruzione e oppressione. Il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e approfondirsi. La crescita demografica è tale che le strutture sociali esistenti non riescono a far fronte ai bisogni della gente: 7,5 milioni di filippini lavorano in 194 paesi esteri (Italia compresa) per sostenere le proprie famiglie. Per il governo sono «eroi»: le loro rimesse superano i 15.000 miliardi di lire l’anno.
Tante sono le sfide; altrettante le aspettative. La rivoluzione del 1986 ha portato al paese la speranza e qualche sprazzo di prosperità; la «seconda rivoluzione dei rosari» l’ha riaccesa: questa volta bisogna fare in fretta per non deluderla.
Laureata in scienze economiche (fu compagna di classe di Clinton a Georgetown), figlia d’arte (suo padre Diosdado fu presidente nel 1962-65), Gloria Arroyo Macapagal, 53 anni, ha già lavorato sodo per attrarre nuovi investimenti; nel 1998 ha ottenuto molti più voti del popolarissimo Estrada (presidenza e vicepresidenza hanno elezioni distinte). La neo-presidente gode di grande prestigio e può contare su una popolazione giovane e scolarizzata al 95%, su numerose organizzazioni popolari, comunità coscienti e coraggiose, in lotta per il cambiamento del paese, e su una chiesa incarnata nelle realtà della gente.
CHIESA DEI POVERI
Negli anni ’60 la chiesa ha intensificato l’impegno nella difesa dei poveri; sotto il regime di Marcos, ha denunciato chiaramente le violazioni dei diritti umani e sostenuto le organizzazioni popolari: per questo è stata accusata d’infiltrazioni «comuniste» e decine di preti sono stati denunciati e arrestati.
Il prestigio dell’episcopato filippino, a partire dal card. Sin, è cresciuto negli ultimi 15 anni, riuscendo a esprimere leaders politici di grande statura, a partire dalle due donne che hanno conquistato il potere a furor di popolo. Ciò è stato possibile perché tale potere non è usato per fini politici, ma per difendere gli strati più deboli della popolazione.
Quella filippina è una chiesa fatta di poveri e per i poveri. Il suo ruolo profetico è stato riaffermato dal card. Sin in occasione del giuramento di Gloria Arroyo. Assicurando l’appoggio della chiesa, il cardinale ha detto alla neo-presidente: «Non mancheremo di criticarti per il bene della nazione». «Se il cardinale mi criticherà per il bene della nazione, ascolterò e cercherò di fare meglio» ha risposto la signora.

MINDANAO: LA GUERRA INFINITA

Troppo semplice scambiarla per guerra di religione. Il conflitto ha radici antiche. Quando occuparono l’arcipelago filippino, gli spagnoli incontrarono una quindicina di gruppi islamizzati, detti moro, che da oltre un secolo, avevano invaso il versante occidentale di Mindanao e l’arcipelago Sulu (Basilan, Jolo, Tawi-Tawi). L’immigrazione musulmana fu bloccata, ma i moro lottarono ferocemente contro la colonizzazione spagnola e la penetrazione del cristianesimo, rimanendo ai margini della formazione dello stato filippino.
Nella cessione dei suoi territori agli Stati Uniti, nel 1898, la Spagna incluse anche queste isole, benché non vi avesse alcuna sovranità. Le tensioni aumentarono. Ma agli americani bastò una manciata di anni per riuscire dove gli spagnoli avevano fallito per tre secoli. Mindanao e Sulu furono prima conquistati con autentici massacri, che suscitarono l’indignazione perfino negli Usa, poi «filippinizzati»: a partire dal 1912 ondate di famiglie cristiane dall’affollata Luzon furono risistemate nelle pianure di Mindanao. Dal 1926 industriali americani (Del Monte, Goodyear, Goodrich, Firestone) occuparono enormi distese di terra per coltivare ananas, banane, legname, caucciù e altri prodotti da esportazione.
Oggi i musulmani di Mindanao e Sulu sono un quarto dell’intera popolazione, anche se in qualche isola raggiungono il 97%. Inoltre i moro sono rimasti ai margini dello sviluppo economico e sociale delle Filippine: tra le 16 province più povere del paese, 13 si trovano a Mindanao, tutte con predominanza islamica.

Nel 1969 nacque il Fronte nazionale di liberazione moro (Fnlm), guidato da Nur Misuari, per rivendicare il Bangsamoro: stato islamico indipendente dalle Filippine. Rivendicazioni e relativi disordini offrirono a Marcos la scusa per proclamare la legge marziale. Scoppiò la ribellione vera e propria. Il dittatore inviò l’esercito contro i rivoltosi. La repressione provocò enormi distruzioni, la morte di 120 mila civili e la fuga di centinaia di migliaia di persone.
Alla fine del 1976, fu stipulato un accordo di cessate il fuoco, con la promessa di creare una regione autonoma per i musulmani di Mindanao. A tale soluzione si oppongono i cristiani presenti nella regione in causa, provocando la ripresa della guerra. Le trattative di pace ripresero nel 1986 con Cory Aquino, che concesse l’autonomia amministrativa a 4 province a maggioranza musulmana. Nel settembre 1996, un accordo tra Mnlf e governo centrale di Fidel Ramos istituì la Regione autonoma musulmana di Mindanao, composta dalle 4 province già autonome e aperta ad altre da stabilire attraverso referendum popolari. Gran parte dei guerriglieri del Mnlf furono integrati nell’esercito nazionale e polizia, il leader Nur Misuari diventò governatore.
Ma l’ala più radicale del Fronte nazionale non accettò il compromesso, fondò il Fronte islamico di liberazione moro (Film) e continuò la lotta di secessione. In seno al Milf, poi, è nato il gruppo Abu Sayyaf che rifiuta ogni autonomia e chiede uno stato indipendente, formato da tutta l’isola di Mindanao, gli arcipelaghi di Sulu e Palawan: il 40% dell’attuale territorio delle Filippine. Attestato nelle isole di Jolo e Basilan, Abu Sayyaf continua l’offensiva con fanatico terrorismo: «Allah guida i proiettili delle nostre armi». Minacce, omicidi, massacri, sequestri, rapimenti, saccheggi, distruzioni, estorsioni, contro civili e molti missionari, non si contano più. Nel luglio 2000 Estrada ha rilanciato il pugno di ferro contro il Milf, provocando altri 300 mila profughi.

Pur essendo la principale vittima di tale terrorismo e fanatismo, la chiesa continua nella testimonianza di carità: opere di promozione umana alla periferia delle città; cura dei profughi musulmani; rilancio del dialogo islamo-cristiano. Nel 1996 è nato il Bishop-Ulama Forum, che raccoglie leaders cristiani e musulmani attivi nella mediazione dei conflitti; nel maggio 1999 il movimento Silsilah ha inaugurato un Istituto di formazione, con corsi di educazione al dialogo interreligioso e alla pace per laici e religiosi, cristiani e musulmani.
La maggioranza degli stessi musulmani, infatti, sono convinti che una soluzione militare è impossibile e che uno stato islamico, staccato dalle Filippine, prolungherebbe la loro situazione di miseria. Ben venga l’autonomia, purché sia vera e accompagnata da impegni concreti nello sviluppo economico e sociale per tutti. Fino a quando non sarà sconfitta la miseria, questa continuerà ad essere il brodo di cottura dell’attuale guerra infinita e violenze di ogni genere.

Benedetto bellesi




Sì, no… tra verità e preconcetti

QUASI UN TORRENTE

I l numero sul Brasile è documentato, arricchente, completo. Ma su alcuni punti non mi trovo d’accordo.
n Sètte. Si diffondono in maniera impressionante per il bisogno di soprannaturale, unito all’ignoranza religiosa. Ma il criterio per valutare la loro ortodossia sta solo nel mancato impegno sociale o nell’allontanarsi dalla verità integrale? Non mi piace la frase di padre Fidéle: «Una religione non deve essere alienante. (Bisogna) liberare la gente dalla povertà e miseria». No! La religione deve rivelare Cristo morto e risorto, figlio del Padre, colui che per mezzo dello Spirito ci rivela la verità, il senso del nostro vivere e morire. La liberazione materiale, giusta e necessaria, è una conseguenza dell’annuncio. Attenti a non trasformare la chiesa in una organizzazione socio-umanitaria-rivoluzionaria!
n Cattolicesimo romano. Non mi piace quando se ne parla come di una realtà da cui liberarsi per vivere la vera, genuina e unica spiritualità. Le manifestazioni di religiosità (diverse quante le culture in cui Cristo si manifesta) hanno tutte pari dignità, se restano circoscritte dagli argini dell’ortodossia. È fuorviante contrapporre le une alle altre. Ognuna è valida ed insostituibile nel suo contesto.
n Belle le comunità di base, che rompono schemi, si cimentano con la Bibbia, si alimentano della Parola che giudica la vita. Attenti, però! Se non rettamente guidate da chi ne ha autorità e preparazione, rischiano di cadere in interpretazioni contrarie all’insegnamento ufficiale della chiesa, di finire tra le sètte nate da una interpretazione troppo libera della bibbia.
n Religiosità popolare. Non mi è piaciuto il presentarla come creativa e libera, a cui i retrogradi del Vaticano hanno affiancato i missionari che enfatizzano i sacramenti, «perché sono loro a distribuirli». Scherziamo? Che religione cattolica è mai quella senza sacerdoti e sacramenti? È protestantesimo. I sacramenti sono «canali di grazia» e sono stati istituiti da Gesù Cristo per la nostra salvezza. Solo restando uniti alla chiesa e al papa si evita di cadere in eresie. Quanto sia importante l’unione al pontefice l’hanno capito gli uniati dell’Ucraina e i martiri cinesi.
n Il trafiletto sulla teologia della liberazione è mistificante. Perché non avete pubblicato le pagine di quel signore che insegna teologia a Città del Messico e parla di religione come immaginario collettivo, di Gesù Cristo rivoluzionario liberatore dei poveri? Di fronte a tali deviazioni, la chiesa giustamente ha preso posizione.
n La lunga inchiesta sui riti afrobrasiliani è utile per capire una larga fascia di popolazioni. Ciò che non accetto è il presentare i riti come una religione altrettanto vera come il cattolicesimo ufficiale, anzi migliore. Certo, dovremmo imparare la cordialità, l’accoglienza e l’attenzione alla psicologia. Ma che religione è mai quella, ripiegata sui recessi dell’animo umano, aperta alle influenze di «divinità» che vengono presentate come veramente esistenti? Quale tipo di consolazione possono offrire, svincolate da una speranza ultraterrena? Per sopportare la sofferenza, la gente ha bisogno di un senso che trova solo in Cristo. La dichiarazione Dominus Iesus puntualizza, nel rispetto delle altre forme di religiosità, che Cristo è e resta la verità e la salvezza. Anche questa è una prevaricazione del «cattolicesimo romano»?
Queste pagine mi hanno causato sconcerto e sofferenza. Quanti errori possono causare!
Giulia Guerci – Castellazzo (AL)

P. S. Mi associo a Giulia. Particolarmente sollecito un pensare ed agire in armonia con l’insegnamento della chiesa e del papa. In lui sono evidenti la santità e l’azione dello Spirito Santo, che sostiene vigorosamente la sua fragilità fisica.
Francesco Zucca

Di fronte a questi interventi, il lettore (che non conosce le 132 pagine dello «speciale» sul Brasile) può chiedersi stupito: «Ma che cosa ha pubblicato Missioni Consolata da suscitare reazioni così forti?». Ebbene la nostra rivista:
– non mette in discussione Gesù Cristo morto e risorto, né si oppone al magistero della chiesa;
– non contiene le espressioni «retrogradi del Vaticano» e «prevaricazione del cattolicesimo romano»;
– non presenta i riti afrobrasiliani «come una religione altrettanto vera come il cattolicesimo ufficiale, anzi migliore».
La verità evangelica non è un dato astratto da imparare e salvaguardare. È una Persona da amare. E, con Gesù Cristo, vivere tutte le beatitudini.

RESISTERE

L o «speciale Brasile» è una miniera di informazioni. Complimenti e grazie per l’impegnativo lavoro che portate avanti. Con Missione Oggi, Mani Tese, Nigrizia e Adista, ci offrite informazioni di qualità. Basta leggere! Tempo e stanchezze permettendo.
Aiutiamoci a resistere…
Anna Xausa – Zugliano (VI)

«Non adattatevi alla mentalità di questo mondo, ma lasciatevi trasformare da Dio con un completo mutamento della mente» (Rom 12, 2).

IL PRECONCETTO

S iamo stupiti ogni volta che il preconcetto parte da affermazioni contraddette dalla realtà.
Poiché nostro Signore ci ha dato, oltre al cuore, soprattutto la ragione, applichiamola al problema demografico. È evidente che nel terzo mondo c’è un intreccio perverso tra sottosviluppo e numero di figli: è molto semplicistico affermare che è solo colpa del mondo civile la triste condizione degli abitanti poveri del Brasile. Le centinaia di migliaia di bambini abbandonati, lo sono perché adulti irresponsabili mettono al mondo 8, 10, 12 figli, senza preoccuparsi di come vivranno, se avranno la possibilità non dico di educarli, ma di nutrirli!
Saremmo d’altronde anche noi, ricchi abitanti d’Europa, in grave difficoltà se avessimo tutti quei figli! Affermare che la campagna contraccettiva è sbagliata significa non avere minimamente il senso della realtà.
Susanna Mondino – Torino

La contraccezione è la soluzione del problema dei ragazzi di strada in Brasile? Nel 1991, come riconobbe l’Istituto brasiliano di statistica, almeno il 45% delle brasiliane tra i 14 e 45 anni era già stato sottoposto a sterilizzazione. In tale caso, chi si oppone alla campagna contraccettiva non ha… «minimamente il senso della realtà»?

UNA PENSIONATA

H o in mente l’esperienza di suor Elena, alla periferia di Manaus, descritta da padre Paulo Gomes su Missioni Consolata di ottobre-novembre 2000, interamente dedicato al Brasile. Si parla anche di due genitori in cerca di cibo, mentre la loro figlia di sette anni cura i quattro fratellini più piccoli.
Sono una pensionata con 700 mila lire mensili. Vorrei devolvere ogni mese 50 mila lire a questi piccoli. Potrebbe essere loro di aiuto? È poca cosa. Ma è meglio di niente.
E poi, chissà, che qualche altro pensionato non sia invogliato a seguire il mio povero esempio e, insieme ad altri, adottare una famiglia bisognosa per aiutarla a crescere i propri figli in condizioni più umane.
Paola Mari – Firenze

Una lettera che ci ha mandati in crisi. Grazie, signora Paola. Grazie ai pensionati che seguono già il suo esempio.

aa.vv.




Dov’è finito l’uomo

Egregio direttore,
faccio parte della «sinistra antagonista», demonizzata dai mass media. Però ho individuato un punto in comune tra il mio pensiero e quello della sua rivista: l’umanesimo. Ma, oggi, sembra che solo una parte della chiesa abbia a cuore l’uomo nella sua globalità, cioè nei diritti civili, nel diritto a vivere in un ambiente salubre e nutrirsi in modo genuino.
I diritti umani dovrebbero essere ormai acquisiti in modo irrevocabile. Purtroppo non è così.
Com’è possibile che in Italia esista un partito come Forza Nuova, i cui militanti si dichiarano fascisti… e la repressione della polizia colpisce chi contesta le loro adunate?
Com’è possibile che uno stato mandi soldati a fare guerre umanitarie e, 10 anni dopo, si accorge che quanto diceva chi contestava le guerre non era privo di fondamento? I proiettili all’uranio non fanno tanto bene: lo si sa e dice da 10 anni!
Com’è possibile che almeno la metà dello schieramento politico italiano pensi che non sia sbagliato se noi siamo ricchi e tanti altri (quelli del sud e di tutti i sud) poveri? Sono poveri, perché non sono stati capaci di fare come noi. Oggi sono pure fastidiosi. Perché non se ne stanno a casa loro?
Com’è possibile che le generazioni precedenti la mia (ho 27 anni), nel campo lavorativo abbiano avuto più diritti di noi, sebbene abbiamo studiato molto di più?
Dove è finito l’uomo? Ne rimane traccia in qualche bel discorso, ma nella vita di tutti i giorni assistiamo alla proliferazione di un modello economico, il neoliberismo, con le conseguenze che paghiamo salate.
Lorenzo De Ambrosis
(via e-mail)

L’attenzione all’uomo certamente ci accomuna. Con parole più stringenti (per i cristiani), è Dio stesso che domanda all’assassino Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4, 9). Inoltre, fra i diritti dell’uomo, non si scordi la libertà religiosa. Anche dal punto di vista antropologico, l’uomo globale non può prescindere dallo Spirito. Ancora: accanto alla solidarietà dell’uomo verso il fratello, ci piace sottolineare quella del Padre verso i suoi figli.

Lorenzo de Ambrois




La via di Lilliput

Egregio direttore,
congratulazioni per il dossier «Sulla via di Lilliput» di Missioni Consolata, settembre 2000.
Condivido le parole di Serge Latouche sulla necessità di scelte etiche da parte dei consumatori e sul bisogno di resistere «all’impresa del lavaggio del cervello» dei media. Come sottolineato da Aluisi Tosolini, di fronte alla massa d’informazioni che riceviamo, avere notizie non viziate da esigenze di mercato o propaganda politica esige grande sforzo.
Ho trovato stupende le considerazioni di Antonio Nanni sugli stili di vita, sulla sobrietà felice e sull’etica del limite, che propongono valori che dovrebbero essere di tutti, a maggior ragione se credenti. Purtroppo non sono facilmente riscontrabili nella pur cattolica società del nord-est, manifestamente ricca, dove vivo.
Società nella quale operano tante associazioni di volontariato laico e cattolico testimoniando tali valori; nonostante ciò, «pare» prevalere l’«ideale-denaro». Società nella quale il proprio benessere è giustificato dal quotidiano e «faticoso» lavoro, mentre la solidarietà sembra essere sostituita dalla più facile beneficenza patealistica: il buonismo, di cui scrive Tosolini.
Società nella quale tanto successo hanno i modelli del neoliberismo, proposto da Berlusconi, confusamente mescolati con la fobia del «diverso» sostenuta per anni da Bossi e ora sinistramente affascinata dal modello «Haider».
Tamara Prest
Padova

«Lungi dal giudicare le scelte altrui – continua Tamara Prest -, ma per una necessità di comprendere, mi chiedo quale coerenza possa legare l’osservanza della fede cattolica, ampiamente manifestata, ai valori proposti dai suddetti personaggi.
Ciò che talvolta pare mancare è la consapevolezza delle proprie affermazioni, nonché la coerenza tra teoria e pratica.
La sensazione è che si sia perso il senso religioso, sostituito dalla spettacolarizzazione del rito (se n’è parlato nel giubileo) e dalla privatizzazione anche della fede.
In tale disorientamento sapere che c’è chi, come voi, s’impegna a diffondere una cultura alternativa fa sperare in un possibile futuro migliore».

Tamara Prest




La foto birbona

Caro direttore,
due rilievi circa l’articolo su padre Pietro Calandri (Missioni Consolata, gennaio 2001).
Primo. L’articolo è ben fatto. Padre Benedetto Bellesi ha saputo cogliere l’essenziale, affinché la personalità di Calandri apparisse nella sua vera luce: un personaggio vivo e tangibile, con tutte le sfumature umane e gli atteggiamenti di fede che ne rivelano la grandezza d’animo, lo slancio missionario con cui affrontava le vicende della vita. Emergono le molteplici capacità di pioniere, artista e il vigore con cui realizzava imprese difficili, fra contrasti che avrebbero stritolato persone meno determinate.
Secondo. La foto di fratel Corrado Maritano è originale e simpatica; ma… è stata confusa con quella di padre Calandri.
mons. Aldo Mongiano
Torino

Ah quella foto simpatica… e birbona! Missionari in paradiso, pietà!

Mons. Aldo Mongiano




Cent’anni: buon compleanno!

Carissimi missionari,
questa è la mia prima e-mail, e desidero che sia un grazie per il bene ricevuto da tutti voi e per quanto abbiamo condiviso in questi ultimi anni.
Partecipo con gioia al centesimo compleanno dell’Istituto Missioni Consolata, come farei per un amico con il quale condivido giornie e dolori. Dei 100 anni ne ho vissuti 23, da quando (ero un «fagottino» di 15 giorni) sono entrata in Corso Ferrucci 14 – Torino, in braccio ai genitori, per ricevere la benedizione di un padre.
Crescendo in una famiglia profondamente cristiana, i sacerdoti per casa non sono mai mancati. Nella mia visione di bimba (talora mi sbagliavo), il missionario era un uomo magro (perché nel terzo mondo si mangia poco), con una barba lunga e bianca che lo rendeva dolce e austero nello stesso tempo, con uno stuolo di bambini che lo ascoltavano attenti; e lui, seduto su un ceppo, raccontava la «favola vera» di un Dio fatto uomo.
Oggi conosco parecchi missionari della Consolata in Italia e nel mondo: dinamici, attenti alle necessità del prossimo, disposti all’ascolto, sempre pronti a donare la vita per l’annuncio del vangelo. Con alcuni di loro ho vissuto esperienze belle, che hanno contribuito alla mia formazione spirituale e missionaria.
Ho avuto anche il dono di osservare, nella casa di Alpignano (TO), i missionari anziani in preghiera nella cappella; è stata una visione che mi ha fatto comprendere che cosa significhi «vivere per Cristo»; nella loro debolezza ho visto la gioia, nel dolore della malattia e vecchiaia ho avvertito una forza… Ai piedi di «quel» Santissimo lavorano, soffrono e pregano uomini di tutto il mondo e di ogni colore, uniti in un’unica icona di amore a Cristo, tramite i piccoli-grandi uomini che io chiamo missionari.
L’Istituto Missioni Consolata, nell’arco della sua vita centenaria, è sicuramente cambiato molto. Ma spero non venga mai meno lo spirito di «famiglia» a cui il beato Allamano teneva tanto e che mi ha fatto sempre sentire a casa… Amici, buon compleanno!
Chiara

Chiara, Chiara! Anche il tuo nome è una vocazione missionaria.

Chiara




Le proposte di un fotografo

Caro direttore,
ho letto gli editoriali di dicembre e gennaio, che mi sono piaciuti. Oltre alla messa festiva, frequento anche gruppi e ritiri spirituali, ed è «scomodo» concretizzare nel quotidiano ciò che abbiamo sentito.
Certe scelte sono controcorrente e, inevitabilmente, si rinuncia ad amicizie e rapporti sociali. Il rinunciare ad alcune «alleanze» non è facile. Eppure dobbiamo essere credibili, soprattutto verso i giovani: «capire il presente e inventare il futuro», offrire testimonianze alternative per un domani più giusto (la «Scuola per l’alternativa» che organizzate è un esempio).
In gennaio Massimo Veneziano scrive: «La via non è la rivoluzione, ma la dissidenza, la discussione, il confronto di idee. Concetti, questi, che il “pensiero unico” vuole estinguere o appropriarsene a proprio comodo». Ed io esprimo delle proposte da attuare.
Per favorire sempre di più il regno di Dio (regno di pace e giustizia), appoggiamo piccole iniziative di solidarietà e volontariato, dove la gente unita lavora insieme; acquistiamo prodotti del commercio equo e solidale; cerchiamo di capire l’altro, mettendoci dalla parte del «vinto»; aiutiamo l’anziano, il malato, l’escluso; stimoliamo il confronto e il dialogo.
Spesso, vivendo tranquilli e non «disturbando», non siamo d’aiuto.
Daniele Dal Bon
Torino

Daniele è un amico. È anche un buon fotografo: «un fotografo per la solidarietà internazionale» ama definirsi. Vi sono fotografi che incassano soldoni. Non Daniele.

Daniele dal Bon




La pevertà… di una masai

L’articolo di padre Pino Galeone (Missioni Consolata, gennaio 2001) lascia irrisolte molte questioni: chiama in causa noi seminaristi, come pure il direttore della rivista.
Padre Pino racconta la propria esperienza nel seminario di Roma Bravetta ed esprime il suo punto di vista nei riguardi dei compagni non europei e, soprattutto, africani. Questi, secondo Pino, non hanno fatto il voto di povertà; invece, a causa del tenore di vita in cui sono sommersi e al quale devono sottostare, sognano la ricchezza e molto spesso cadono nel consumismo.
Non entro nella mente di Pino: egli può pensare ciò che vuole. Ma potrei e dovrei ricordargli che ci sono molti seminaristi africani che provengono da famiglie migliori della sua, dove «ha scelto la povertà».
La maggioranza di noi chiede al direttore di Missioni Consolata perché un tema (interno all’istituto) sia stato messo in pubblico. Ci sono altri modi di presentare un problema che interessa solo i fratelli dell’Africa, e non tutti i lettori della rivista.
Nello stesso tempo, non ci è chiaro lo scopo di pubblicare la fotografia di una donna masai con un bambino e il seno scoperto. Fino a quando saremo giudicati in base ad una minoranza? Quanti seminaristi provengono dal contesto di quella donna?
Wilson Kamami M.
Roma

L’esperienza di padre Pino non interessa solo l’Istituto internazionale dei missionari della Consolata, ma anche tutti i lettori della rivista. L’Italia è diventata una nazione plurietnica, con marocchini, boliviani, filippini…
È auspicabile un arricchimento reciproco, facendo tesoro dei valori di tutti: a cominciare dalla lingua del paese in cui si risiede. Non mancano scontri culturali, perché si è «diversi»… anche nel valutare la povertà. Padre Pino, però, non ha scritto che i seminaristi africani «non hanno fatto il voto di povertà».
Certo, vi sono famiglie di seminaristi africani più benestanti di quelle dei compagni europei. Ma non è la regola, anzi! E che i seminaristi, in genere, possano cadere nel consumismo è stato confermato pure da padre Giacomo Baccanelli, direttore del seminario di Roma Bravetta.
Circa la donna masai, la foto ha una didascalia che ne motiva la scelta.

Wilson Kamami




Per chi suona la campana?

Anch’io sto con Noè e accolgo con gioia le notizie riguardanti lo sviluppo di tecnologie non inquinanti (Missioni Consolata, gennaio 2001). Ritengo altresì che, nella valutazione del degrado ambientale attribuito all’industria automobilistica e a chi fa uso di autoveicoli, si debba considerare con maggiore attenzione il forte impatto della componentistica.
Già alcuni anni fa, gli ecologisti, i movimenti per i diritti umani, i gruppi ecclesiali più sensibili al tema del Sud ridotto a pattumiera del Nord del mondo, dimostravano che, anche quando sono fermi e non consumano carburante, tutti gli autoveicoli sono dei monumenti allo spreco, uno spreco che può avvenire solo con uno sfruttamento indiscriminato di risorse, vite umane e animali. Non dobbiamo dimenticare che la gomma per i pneumatici, il cotone per il rivestimento dei sedili, i metalli per la carrozzeria, il motore, la batteria, il radiatore sono tutti materiali che vengono prelevati nelle terre dei paesi poveri, con danni spesso gravissimi per gli ecosistemi e vantaggi praticamente nulli per le popolazioni locali.

Esaminiamo il caso della gomma. Non si dica che la tecnologia ha diminuito la pressione sugli ecosistemi e, se vi sarà ulteriore progresso tecnologico, questa pressione è destinata a diminuire ancora. Come ha scritto Andrew Revkin, «anche con l’avvento della gomma sintetica l’ineguagliata elasticità della gomma naturale e la sua capacità di disperdere il calore dell’attrito hanno fatto sì che continuasse a essere richiestissima. Oggi i copertoni radiali più sofisticati hanno le parti laterali di gomma naturale e i pneumatici delle navette spaziali sono di gomma naturale al cento per cento».
Un perentorio invito a non farsi troppe illusioni arriva anche dal mondo della Formula Uno. Fino a non molti anni fa tutte le monoposto, comprese quelle della Ferrari (Gruppo Fiat), partivano col loro carico di carburante, facevano le fermate ai box solo se qualcosa non funzionava e, salvo improvvisi acquazzoni, raramente avevano bisogno di sostituire i pneumatici. Oggi, nonostante l’elevatissimo livello tecnologico, la benzina non basta mai, le gomme vengono cambiate due o tre volte a gara, le soste vengono rigorosamente programmate.
Luca di Montezemolo, presidente della Ferrari campione del mondo 2000, ha lasciato chiaramente intendere che essere più tecnologici non vuol dire necessariamente essere più rispettosi dell’ambiente: maggiore tecnologia significa innanzitutto migliore strategia per vendere più auto e aumentare i profitti delle aziende. Impronta ecologica, erosione del patrimonio ecologico, tutela della biodiversità sono concetti estranei alla sua cultura, a quella degli italiani innamorati della Ferrari e a quella di chi è alla guida di molti paesi del Terzo Mondo. Pensiamo alla Malaysia che è tuttora un leader nella produzione della gomma e le cui foreste hanno pagato un prezzo salatissimo alla incontenibile voglia di auto. Il circuito di Sepang, realizzato a tempo di record, è stato costruito proprio dove sopravvive un bel pezzo di foresta tropicale.
La prossima volta che giorniranno davanti alle telecamere dei Tg e suoneranno le campane delle chiese per festeggiare le vittorie di Schumacher e Barrichello, i preti tifosi della Ferrari pensino all’osservazione di una lettrice del Corriere della Sera: «Con Cristo abbiamo compreso che il divino entra nell’umano e che l’umano è accolto nel divino così che tutto ciò che è autenticamente umano è in Dio. Ma l’uso delle campane a festa per la Ferrari è stato fuori luogo. Perché suonare le campane per festeggiare un mondo in cui i miliardi si bruciano nello spazio di un giro di pista?».
Francesco Rondina

Francesco Rondina