FILIPPINE – Rivoluzione dei rosari
Per la seconda volta in 15 anni il popolo filippino ha cacciato
un presidente, definito dai vescovi «moralmente inadatto a governare».
È subentrata Gloria Macapagal Arroyo:
ha giurato di combattere povertà, ingiustizia, corruzione.
Sono sfide secolari, affrontate con grande speranza
e con il supporto di una chiesa
incarnata nelle realtà del paese.
D opo quattro giorni di cortei, con preghiere e proteste, il capo di stato Joseph Estrada, accusato di «saccheggio economico», è dichiarato decaduto. A mezzogiorno del 20 gennaio 2001 Gloria Macapagal Arroyo presta giuramento come 10° presidente delle Filippine. La cerimonia avviene davanti al santuario dell’Edsa (iniziali di Epifanio de los Santos Avenue, principale arteria di Manila), lo stesso luogo dove era partita l’insurrezione del 1986 contro il dittatore Marcos.
La neo-presidente enuncia le priorità della sua amministrazione: sconfiggere la povertà, combattere la corruzione, riformare lo stato, riportare la pace nel sud del paese. Programma ambizioso e urgente: tre quarti di risorse e poteri del paese sono in mano a pochi privilegiati; mentre il resto della popolazione è in via di «sviluppo». I problemi sono gravi e con radici secolari.
STORIA DI (IN)DIPENDENZA
Scoperte nel 1521 da Ferdinando Magellano, navigatore portoghese a servizio di Filippo II re di Spagna, le Filippine cominciarono a essere colonizzate nella seconda metà del secolo XVI. L’arcipelago era abitato da varie etnie autoctone e una miriade di comunità rurali autonome, discendenti da migrazioni malesi, cinesi, indonesiane avvenute nel corso di molti secoli.
Il sistema coloniale, basato su latifondismo e monoculture da esportazione (canna da zucchero, noce di cocco, canapa), espropriò molti contadini e li ridusse allo stato di servi dei grandi proprietari terrieri. Ancora oggi la terra appartiene allo stato o ai ricchi. Varie insurrezioni furono duramente represse dagli spagnoli.
Alla fine del secolo XIX la borghesia meticcia e varie categorie di oppressi formarono un movimento indipendentista, che nel 1897 riuscì a cacciare gli spagnoli dalla colonia, con l’aiuto degli Stati Uniti, già in guerra contro la Spagna per Cuba e Puerto Rico. Il 12 giugno 1898 fu proclamata la Repubblica delle Filippine, «sotto la protezione della potente e benevola nazione nordamericana».
Cinque mesi dopo, addio benevolenza: al trattato di Parigi, la Spagna cedette la colonia agli Stati Uniti in cambio di 20 milioni di dollari.
Tra il 1899 e il 1911 un milione di filippini morirono invano lottando contro i nuovi occupanti: l’economia del paese fu sottomessa agli interessi americani; l’inglese rimpiazzò lo spagnolo; fu diffuso lo stile di vita americano. Un effetto positivo: fu imposta la scuola d’obbligo e gratuita, per cui oggi il 95% dei filippini sono alfabetizzati.
Nel 1941 le Filippine furono occupate dai giapponesi e riprese la lotta di resistenza armata: il movimento degli huks, a base contadina e d’ispirazione socialista, forte di 118 mila armati, cacciò gli invasori. Toarono gli Usa e si affrettarono a concedere l’indipendenza: 4 luglio 1946.
Con una serie di trattati «ineguali» gli americani si assicurarono la salvaguardia dei loro interessi economici e strategici: una ventina di basi militari perpetuava il regime di protezione americana; le ultime due furono smantellate nel 1991-92: il senato rifiutò di rinnovare il contratto e le ceneri del vulcano Pinatubo seppellirono la base aerea di Clark.
CORRUZIONE GALOPPANTE
Per oltre 25 anni (1946-72) la vita politica delle Filippine fu dominata da un sistema bipolare, rappresentato dal Partito nazionalista e Partito liberale, sotto lo sguardo «benevolo» Usa. Ideologicamente molto simili, i due partiti si alternarono alla guida del paese basandosi sulle élites locali, capaci di procurare voti, specie nelle campagne, ma sempre pronte a coalizzarsi o cambiare campo a seconda della convenienza e del migliore offerente. Finite le elezioni, i vincitori s’affrettavano a recuperare le somme investite; finanziatori e sostenitori riscuotevano il premio della scommessa.
Così corruzione e frode si sono radicate nel sistema elettorale e amministrativo delle Filippine. Nazionalismo e riforme sociali, lotta alla corruzione, pace e ordine, progresso economico, indipendenza totale diventarono esercizi di retorica.
Anche Ferdinando Marcos, nel 1965, conquistò l’uomo della strada sbandierando i soliti temi elettorali, ma poi trasformò le Filippine in un feudo personale, affidando a parenti e amici le cariche nevralgiche del paese. Nella campagna elettorale del 1969 ridusse lo stato in bancarotta. Poiché la Costituzione non prevede un terzo mandato, nel 1972 proclamò la legge marziale, arrogando a sé tutti i poteri. Sciolse il Partito liberale e tarpò le ali alle élites locali, così che solo lui e i suoi amici potevano arricchirsi. Marcos divenne l’uomo più ricco dell’Asia.
Col supporto dei militari, cui diede mano libera nella corruzione, il dittatore soffocò nel sangue ogni tipo di opposizione: 6 milioni di filippini subirono l’«evacuazione forzata»; le loro terre furono cedute alle multinazionali americane. La vittima più illustre della dittatura fu Benigno Aquino, popolare oppositore del dittatore, assassinato nel 1983.
PARLAMENTO DELLA STRADA
Vista l’impossibilità di cambiare la società con i partiti tradizionali, nacquero numerose «organizzazioni popolari»; alcune scelsero la guerriglia, come il New People’s Army (Npa), d’ispirazione maoista; altre si battevano nella legalità per difendere interessi specifici di operai e contadini, donne e studenti. Sotto la dittatura tali organizzazioni si moltiplicarono e rafforzarono, riuscendo a convocare spettacolari manifestazioni di massa e dando vita al cosiddetto «parlamento della strada».
Nel febbraio 1986, l’indignazione per la morte di Aquino e per la rivelazione delle ricchezze nascoste del dittatore fu tale che Marcos fu costretto a indire elezioni anticipate. A sfidare il dittatore scese in campo la vedova di Benigno, Corazón (Cory). Con l’aiuto del cardinale di Manila, James Sin, la candidata riuscì a coalizzare l’opposizione moderata e mobilitare le organizzazioni popolari per vigilare contro i soliti brogli. E quando il dittatore si dichiarò vincitore, nonostante la sconfitta, decine di migliaia di persone scesero in strada per difendere la vittoria di Cory Aquino.
Dalla sua parte si schierarono anche il ministro della difesa Enrile e il comandante dell’esercito, il generale Fidel Ramos. Marcos mandò i blindati contro le caserme ammutinate; da Radio Veritas il cardinal Sin lanciò un appello alla popolazione «in difesa della verità e libertà»: centinaia di migliaia di persone, da tutte le province del paese, si ammassarono davanti al santuario dell’Edsa per poi invadere le strade della capitale, circondando i blindati con le mani tese, cantando e pregando, offrendo ai soldati viveri e bevande, recitando insieme il rosario.
Cinque giorni di rivoluzione pacifica misero fine a 20 anni di regime, 13 dei quali di dittatura: un evento memorabile, passato alla storia delle Filippine con varie definizioni: «miracolo», «rivoluzione dei rosari», vittoria del «potere popolare» contro quello delle élites, spirito dell’Edsa.
POLITICA NUOVA
Il governo di Cory Aquino ristabilì leggi e strutture democratiche; tentò di pacificare il paese concedendo l’autonomia ad alcune province di Mindanao e della Cordigliera; mise in cantiere riforme economiche e sociali, come quella agraria. Le sue buone intenzioni si scontrarono con le realtà del paese. Le riforme di Cory innervosirono i militari e inquietarono i politici tradizionali; i nostalgici di Marcos tentarono due colpi di stato. La «guerra totale» ai gruppi guerriglieri e indipendentisti, con relative violazioni dei diritti umani, appannò il prestigio della presidente, pur continuando a tenere viva la speranza in un futuro migliore.
Tale speranza si rivelò nelle elezioni del 1992, le più ordinate e trasparenti nella storia del paese, in cui fu eletto presidente Fidel Ramos. Sotto il suo governo migliorarono l’economia, i rapporti inteazionali, la pace sociale. La crescita economica faceva sperare che nel giro di 10 anni le Filippine avrebbero raggiunto il rango di «Nuovo paese industrializzato» (Nic), come le vicine nazioni del sudest asiatico.
PRESIDENTE SCERIFFO
Dalla rivoluzione del 1986 è nata la cosiddetta «nuova politica», anche se di nuovo c’è ben poco: gli aspiranti presidenti devono fare i conti col «potere popolare», deciso a votare più i programmi che le persone. Chi può forma un suo partito, come è capitato nel 1998: i candidati erano una quindicina, tra i quali quattro figli di ex presidenti.
Vinse Joseph Estrada, mediocre attore di telefilm polizieschi, riuscendo ad attirarsi le simpatie dei poveri, contadini e classi medie. Sembrava proprio la fine della vecchia politica, legata agli interessi delle élites.
Un passato da playboy, biscazziere e bevitore, Estrada non era uno stinco di santo. Per 16 anni sindaco di un sobborgo di Manila, per quattro senatore, non era neppure uno sprovveduto in politica. Presidente della commissione per la lotta alla criminalità, aveva radiato migliaia di poliziotti corrotti. La gente lo pensava una specie di «sceriffo», capace di perseguire la giustizia in modo deciso e implacabile, come nei films.
Invece le promesse elettorali restarono nel cassetto. L’economia cominciò a precipitare paurosamente. Frequentazioni di affaristi vicini alla famiglia Marcos, atteggiamenti da donnaiolo maschilista, favoritismi verso amici e parenti, sospetti di corruzione minarono il prestigio dello «sceriffo». Corruzione e impunità nell’amministrazione continuavano più di prima; anzi, si scoprì che anche lui era corrotto e corruttore.
All’inizio di ottobre del 2000, uno dei principali gestori del jueteng (lotteria illegale, diffusissima nelle Filippine) rivelò di aver consegnato al presidente una tangente di 10 miliardi di lire. Seguirono 100 giorni di fuoco. I vescovi dichiararono Estrada «inadatto a governare il paese» e lo invitarono a dimettersi. Molti suoi deputati passarono nelle file dell’opposizione: il 13 novembre il Parlamento approvò la mozione che metteva il presidente in stato d’accusa. Il 7 dicembre il Senato iniziò il processo. Al tempo stesso la chiesa continuava a chiedere le dimissioni con mobilitazioni di massa, in cui sfilavano Cory Aquino e il card. Sin.
Estrada respingeva ogni accusa. Il 16 gennaio 2001, quando il Senato rifiutò d’indagare su alcuni conti bancari segreti del presidente, il popolo insorse in massa, ripetendo, come da copione, la «seconda rivoluzione dei rosari»: il cardinal Sin lanciò l’appello e quasi due milioni di persone, 70% giovani, si riversarono nel santuario dell’Edsa, per poi sfilare pacificamente per le strade della capitale, chiedendo la destituzione di Estrada. Dopo quattro giorni di proteste, canti e preghiere, la Corte Suprema destituì Estrada e la vicepresidente, Gloria Macapagal Arroyo, prestò giuramento come nuovo capo dello stato.
SFIDE E SPERANZE
I regimi passano; i problemi restano. I salari sono bassi. Disoccupazione e inflazione galoppano. Per la maggioranza della gente la vita è una lotta quotidiana contro la povertà, ingiustizia sociale, corruzione e oppressione. Il divario tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e approfondirsi. La crescita demografica è tale che le strutture sociali esistenti non riescono a far fronte ai bisogni della gente: 7,5 milioni di filippini lavorano in 194 paesi esteri (Italia compresa) per sostenere le proprie famiglie. Per il governo sono «eroi»: le loro rimesse superano i 15.000 miliardi di lire l’anno.
Tante sono le sfide; altrettante le aspettative. La rivoluzione del 1986 ha portato al paese la speranza e qualche sprazzo di prosperità; la «seconda rivoluzione dei rosari» l’ha riaccesa: questa volta bisogna fare in fretta per non deluderla.
Laureata in scienze economiche (fu compagna di classe di Clinton a Georgetown), figlia d’arte (suo padre Diosdado fu presidente nel 1962-65), Gloria Arroyo Macapagal, 53 anni, ha già lavorato sodo per attrarre nuovi investimenti; nel 1998 ha ottenuto molti più voti del popolarissimo Estrada (presidenza e vicepresidenza hanno elezioni distinte). La neo-presidente gode di grande prestigio e può contare su una popolazione giovane e scolarizzata al 95%, su numerose organizzazioni popolari, comunità coscienti e coraggiose, in lotta per il cambiamento del paese, e su una chiesa incarnata nelle realtà della gente.
CHIESA DEI POVERI
Negli anni ’60 la chiesa ha intensificato l’impegno nella difesa dei poveri; sotto il regime di Marcos, ha denunciato chiaramente le violazioni dei diritti umani e sostenuto le organizzazioni popolari: per questo è stata accusata d’infiltrazioni «comuniste» e decine di preti sono stati denunciati e arrestati.
Il prestigio dell’episcopato filippino, a partire dal card. Sin, è cresciuto negli ultimi 15 anni, riuscendo a esprimere leaders politici di grande statura, a partire dalle due donne che hanno conquistato il potere a furor di popolo. Ciò è stato possibile perché tale potere non è usato per fini politici, ma per difendere gli strati più deboli della popolazione.
Quella filippina è una chiesa fatta di poveri e per i poveri. Il suo ruolo profetico è stato riaffermato dal card. Sin in occasione del giuramento di Gloria Arroyo. Assicurando l’appoggio della chiesa, il cardinale ha detto alla neo-presidente: «Non mancheremo di criticarti per il bene della nazione». «Se il cardinale mi criticherà per il bene della nazione, ascolterò e cercherò di fare meglio» ha risposto la signora.
MINDANAO: LA GUERRA INFINITA
Troppo semplice scambiarla per guerra di religione. Il conflitto ha radici antiche. Quando occuparono l’arcipelago filippino, gli spagnoli incontrarono una quindicina di gruppi islamizzati, detti moro, che da oltre un secolo, avevano invaso il versante occidentale di Mindanao e l’arcipelago Sulu (Basilan, Jolo, Tawi-Tawi). L’immigrazione musulmana fu bloccata, ma i moro lottarono ferocemente contro la colonizzazione spagnola e la penetrazione del cristianesimo, rimanendo ai margini della formazione dello stato filippino.
Nella cessione dei suoi territori agli Stati Uniti, nel 1898, la Spagna incluse anche queste isole, benché non vi avesse alcuna sovranità. Le tensioni aumentarono. Ma agli americani bastò una manciata di anni per riuscire dove gli spagnoli avevano fallito per tre secoli. Mindanao e Sulu furono prima conquistati con autentici massacri, che suscitarono l’indignazione perfino negli Usa, poi «filippinizzati»: a partire dal 1912 ondate di famiglie cristiane dall’affollata Luzon furono risistemate nelle pianure di Mindanao. Dal 1926 industriali americani (Del Monte, Goodyear, Goodrich, Firestone) occuparono enormi distese di terra per coltivare ananas, banane, legname, caucciù e altri prodotti da esportazione.
Oggi i musulmani di Mindanao e Sulu sono un quarto dell’intera popolazione, anche se in qualche isola raggiungono il 97%. Inoltre i moro sono rimasti ai margini dello sviluppo economico e sociale delle Filippine: tra le 16 province più povere del paese, 13 si trovano a Mindanao, tutte con predominanza islamica.
Nel 1969 nacque il Fronte nazionale di liberazione moro (Fnlm), guidato da Nur Misuari, per rivendicare il Bangsamoro: stato islamico indipendente dalle Filippine. Rivendicazioni e relativi disordini offrirono a Marcos la scusa per proclamare la legge marziale. Scoppiò la ribellione vera e propria. Il dittatore inviò l’esercito contro i rivoltosi. La repressione provocò enormi distruzioni, la morte di 120 mila civili e la fuga di centinaia di migliaia di persone.
Alla fine del 1976, fu stipulato un accordo di cessate il fuoco, con la promessa di creare una regione autonoma per i musulmani di Mindanao. A tale soluzione si oppongono i cristiani presenti nella regione in causa, provocando la ripresa della guerra. Le trattative di pace ripresero nel 1986 con Cory Aquino, che concesse l’autonomia amministrativa a 4 province a maggioranza musulmana. Nel settembre 1996, un accordo tra Mnlf e governo centrale di Fidel Ramos istituì la Regione autonoma musulmana di Mindanao, composta dalle 4 province già autonome e aperta ad altre da stabilire attraverso referendum popolari. Gran parte dei guerriglieri del Mnlf furono integrati nell’esercito nazionale e polizia, il leader Nur Misuari diventò governatore.
Ma l’ala più radicale del Fronte nazionale non accettò il compromesso, fondò il Fronte islamico di liberazione moro (Film) e continuò la lotta di secessione. In seno al Milf, poi, è nato il gruppo Abu Sayyaf che rifiuta ogni autonomia e chiede uno stato indipendente, formato da tutta l’isola di Mindanao, gli arcipelaghi di Sulu e Palawan: il 40% dell’attuale territorio delle Filippine. Attestato nelle isole di Jolo e Basilan, Abu Sayyaf continua l’offensiva con fanatico terrorismo: «Allah guida i proiettili delle nostre armi». Minacce, omicidi, massacri, sequestri, rapimenti, saccheggi, distruzioni, estorsioni, contro civili e molti missionari, non si contano più. Nel luglio 2000 Estrada ha rilanciato il pugno di ferro contro il Milf, provocando altri 300 mila profughi.
Pur essendo la principale vittima di tale terrorismo e fanatismo, la chiesa continua nella testimonianza di carità: opere di promozione umana alla periferia delle città; cura dei profughi musulmani; rilancio del dialogo islamo-cristiano. Nel 1996 è nato il Bishop-Ulama Forum, che raccoglie leaders cristiani e musulmani attivi nella mediazione dei conflitti; nel maggio 1999 il movimento Silsilah ha inaugurato un Istituto di formazione, con corsi di educazione al dialogo interreligioso e alla pace per laici e religiosi, cristiani e musulmani.
La maggioranza degli stessi musulmani, infatti, sono convinti che una soluzione militare è impossibile e che uno stato islamico, staccato dalle Filippine, prolungherebbe la loro situazione di miseria. Ben venga l’autonomia, purché sia vera e accompagnata da impegni concreti nello sviluppo economico e sociale per tutti. Fino a quando non sarà sconfitta la miseria, questa continuerà ad essere il brodo di cottura dell’attuale guerra infinita e violenze di ogni genere.
Benedetto bellesi