BURUNDI – Via dalla mia terra

Nel calderone dei Grandi Laghi africani, il Burundi continua a mietere le sue vittime. Anche tra i missionari italiani. In quattro mesi, due sono stati uccisi (Antonio Bargiggia e suor Gina Simionato) e un terzo gravemente ferito (don Carlo Masseroni). Chi resta si domanda perché e chiede giustizia. Nel frattempo, l’assassinio di Kabila (16 gennaio), presidente del vicino Congo (rd), ha reso più instabile tutta la regione. Qualcuno parla anche di una «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto controllo ruandese…

Quel mattino stavo andando a Murayi a 25 chilometri da Gitega, la seconda città del Burundi. Un amico mi chiama sul telefono portatile: «Pare ci sia stato un attacco vicino a Kibimba, ne sai niente?». Ero a tre chilometri dal posto.
Cerco di informarmi e mi accosto alla posizione militare di un campo di déplacés (sfollati, a maggioranza tutsi, che vivono in villaggi artificiali lungo le strade principali). Il soldato conferma: «Sì, è successo qualcosa, ma non c’è problema, non ci sono scontri in corso nella zona. Continuate pure. Nessun rischio». Sta per proseguire a piedi quando, tornato in dietro, in modo un po’ beffardo mi guarda e rivela: «È stato ucciso un muzungu (bianco), ma la situazione è sotto controllo».
In Burundi muoiono ogni giorno decine di persone a causa della guerra. Civili uccisi dalla guerriglia; contadini che cadono nelle rappresaglie dell’esercito regolare, altri presi tra i due fuochi. Ma, quando la vittima è uno straniero, il significato è molto più forte. È un messaggio che qualcuno vuole mandare.

È il tre ottobre scorso, quando Antonio Bargiggia, volontario laico consacrato, si ferma ad una barriera sulla strada che ogni settimana percorre per raggiungere la capitale.
Qualche discussione con i quattro uomini che lo hanno fermato. Poi uno finge di andare verso la parte posteriore dell’auto, si gira e gli spara un colpo alla nuca. I suoi compagni di viaggio (tre burundesi) fuggono incolumi.
Fratel Antonio (così era conosciuto in Burundi) era nel paese da 20 anni. Apparteneva a «Fratelli dei poveri», gruppo di religiosi e laici di Milano riconosciuto dal cardinal Martini. Da alcuni anni viveva a Buterere, uno dei quartieri più poveri della capitale. Zona di case di fango e lamiera, che ogni sera alle sei viene «chiusa»: nessuno può entrare o uscire fino al mattino dopo. Abitava in una casa burundese, come i burundesi più umili. Caso unico per un muzungu in questo paese.
«Antonio era una persona che mi incantava per la sua umiltà e per il saper stare con i locali. Era l’unico a preoccuparsi anche dei soldati. Diceva: “Poveri ragazzi, anche loro soffrono ma nessuno li considera”. Come apostolato, seguiva all’ospedale militare i feriti senza parenti, portando loro conforto». È la testimonianza di un volontario italiano, subito dopo l’accaduto. Eppure sono stati quattro giovani militari sui vent’anni gli esecutori.
Fuggiti con la sua macchina (strano errore, forse erano certi dell’impunità garantita dal loro mandante), sono stati arrestati un’ora dopo. Il governo si è subito preoccupato di affermare che erano disertori. Dopo un processo sommario, uno di loro (quello che aveva premuto il grilletto), è stato fucilato davanti ai suoi compagni e alla gente di Gitega.

Quindici ottobre. Verso le sette del mattino, la macchina delle suore Dorotee di Venezia lascia il seminario maggiore di Songa, nei pressi di Gitega, per dirigersi alla parrocchia di Gihiza dove le suore abitano. Il giorno prima erano venute a dormire al seminario, perché c’erano «strani movimenti» intorno alla missione. Poco prima di arrivare vedono un gruppo di persone sulla strada. Partono alcune raffiche di mitra che investono suor Gina Simionato, unica italiana, al volante. La suora trevigiana è colpita al volto e muore sul colpo. Delle tre consorelle burundesi che la accompagnano, una si fa un graffio. Si dirà che la macchina è caduta in un attentato dei ribelli che hanno sparato all’impazzata. Osservando la vettura, risulta invece chiaro che i colpi erano tutti indirizzati al guidatore muzungu. Un proiettile ha lasciato un buco molto grosso nella carrozzeria posteriore: non si trattava forse di un semplice kalashnikov.
Al contrario dell’attacco di Kibimba, qui non si scopre chi sia l’autore. L’accusa cade subito sui ribelli che da alcuni giorni girano nella zona. Ma l’attentato è avvenuto a circa cinque chilometri da una posizione militare e le testimonianze lasciano molti dubbi sulla cronologia esatta dei fatti. «Non sembra lo schema utilizzato dalla ribellione», confida un giornalista della capitale. Possono essere stati i militari, ma anche le bande di estremisti tutsi, già famose a Gitega, pilotate da un potere nascosto ma presente ed efficace, che forse sta riacquistando consensi a causa della situazione politica.
Il Burundi è devastato da una guerra civile dal 21 ottobre del 1993, quando il primo presidente democratico, l’hutu Melchior Ndadaye, fu arrestato e ucciso da un gruppo di militari estremisti. Da allora l’esercito, a maggioranza tutsi (oggi però, per mancanza di forze, esso impiega anche molti giovani hutu), e diversi gruppi armati ribelli a dominante hutu, si scontrano. O meglio, saccheggiano e massacrano la popolazione civile dei due campi.
Dopo diversi tentativi di pacificazione, Nelson Mandela, mediatore della crisi burundese dal dicembre 1999 (succeduto allo scomparso Julius Nyerere), è riuscito a portare 19 partiti burundesi a siglare un accordo-quadro il 28 agosto scorso ad Arusha, in Tanzania. La debolezza di questa firma sta nel fatto che molti partiti (soprattutto quelli legati all’estremismo tutsi) hanno firmato con riserve. Questo vuol dire che tutti i passi più importanti sono da ridiscutere e negoziare (presidenza di transizione, rappresentanza etnica nell’esercito, nella giustizia e nell’amministrazione). Ancor peggio: nonostante gli sforzi di Mandela, i due maggiori gruppi ribelli hutu, le «Forze per la difesa della democrazia» (Fdd) e le «Forze nazionali di liberazione» (Fnl), quelli che hanno gli eserciti sul campo, non erano presenti ai negoziati che hanno portato alla firma.
Incontri diretti tra il presidente della repubblica, il maggiore Pierre Buyoya, e il leader dell’Fdd, Jean-Bosco Ndayikengurukiye sono in corso in Sudafrica e potrebbero portare a qualche passo positivo. Nel paese, però, domina la paura. Paura dei tutsi che, come minoranza, temono un esercito misto, perché le forze armate burundesi, guidate da ufficiali tutsi, soprattutto del sud, sono la loro unica vera garanzia di non essere prevaricati dall’80-85% hutu e di mantenere i loro privilegi. Paura del popolo contadino a maggioranza hutu, che subisce sempre più i saccheggi della guerriglia e le rappresaglie dei militari. Paura dei pochi intellettuali hutu delle città, che rischiano di essere presi di mira, come è già successo in passato.
Per questo, dal 28 agosto le azioni di guerra, invece che diminuire, si sono intensificate. Da un lato i guerriglieri sono tornati a far sentire le armi, per mostrare il loro potere negoziale, dall’altro cresce il malcontento tra gli ufficiali dell’esercito che si oppongono alla firma e le frange estremiste tutsi hanno ripreso a organizzarsi. «Il tempo è poco – racconta un membro della delegazione governativa ad Arusha – il presidente potrebbe avere problemi a tenere calmi i vertici militari ancora per molto. D’altro lato i ribelli sono ben equipaggiati anche grazie al loro intervento in Congo e non hanno tutta questa voglia di scendere a patti». Kinshasa fornisce all’Fdd di Jean-Bosco armi e protezione, in cambio l’armata ribelle difende il fronte a Lubumbashi (capitale dello Shaba, nel sud) contro l’avanzata dell’esercito regolare burundese. Una guerra con caratteristiche sempre più regionali.
L’assassinio di Kabila, in Congo, il 16 gennaio scorso, ha l’effetto di sbilanciare ancora di più l’instabile equilibrio dei Grandi Laghi. Gli alleati burundesi del defunto presidente congolese si trovano ora in una posizione di svantaggio, perché viene loro a mancare un partner importante. Sentendosi meno forti potrebbero essere più disponibili a trattare. D’altro lato, il governo del Burundi (ma soprattutto gli estremisti tutsi) si irrigidiranno, forti della scomparsa del nemico di Kinshasa. Andando oltre, gli eserciti ruandese, ugandese e burundese, che occupano e saccheggiano quasi la metà della Repubblica democratica del Congo, potrebbero, ancora una volta, avanzare verso la capitale, oppure tentare l’annessione formale dei vasti territori occupati.
Già da tempo si parla di una fantomatica «Repubblica dei Grandi Laghi», sotto il controllo ruandese.

Intanto, in Burundi, si cercano ancora delle risposte. «Ma perché questi attacchi a religiosi italiani?». Si chiede un missionario da anni nel paese. «Se contiamo anche la pallottola sparata a freddo in faccia a don Carlo Masseroni (missionario fidei donum di Novara), vivo solo per miracolo, a luglio, siamo già a tre: tutti con modalità simili». Già, perché? Non è la prima volta (nel settembre 1995 due padri saveriani e una volontaria furono giustiziati a casa loro dai militari). Perché sono testimoni scomodi, perché lavorano a fianco della popolazione più abbandonata e sono tra i pochi a sapere e, a volte, a denunciare, in questo paese dove la stampa è ancora imbavagliata. Ma anche perché spesso sono gli obiettivi più facili e indifesi.
Fratel Antonio era a conoscenza di molti problemi di Buterere, tra cui questioni di terra. Don Carlo aveva riconosciuto i militari che, per la seconda volta in pochi mesi, erano tornati a rubare alla missione. Chi ha ucciso fratel Antonio era stato visto il giorno prima, nello stesso luogo, a informarsi sui movimenti dell’italiano. Allo stesso modo, alcuni sconosciuti chiedevano quando sarebbero tornate le suore, i giorni precedenti all’imboscata di Gihiza.
Ma secondo altri (per prima la comunità internazionale) «sono casi isolati di banditismo, senza nessuna relazione tra loro»; a scopo di furto, è la tesi più accreditata, quando invece i religiosi non avevano soldi addosso. Addirittura si sente dire: «Le vittime viaggiavano a orari non conformi alle norme di sicurezza, nei quali il governo burundese non può garantire la protezione degli stranieri».
Questi sono i ragionamenti di chi vuole archiviare il caso e non creare problemi ai propri partner governativi. I media locali non danno spazio a questi gravi fatti (soprattutto il secondo passa sotto silenzio) e gli operatori umanitari di Nazioni Unite e organismi inteazionali non ricevono (tranne quelli italiani) particolari consegne di sicurezza.

Tra i religiosi e volontari italiani si accusa il colpo. Molta tristezza, condivisione, ma anche un po’ di remissione: «È la vita dei missionari», confida un’anziana suora. «Vanno bene i martiri, ma vogliamo pure giustizia», replica un missionario laico.

Marco Bello

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