La follia due terribili conflitti mondiali
DOV’ERA L’UOMO?
Due guerre devastano il mondo nella prima metà del 1900:con lo scontro franco-tedesco di Verdun (1916),
la disfatta italiana di Caporetto (1917),i bombardamenti sulla città inglese di Coventry (1940), la sconfitta americana di Pearl Harbor (1941),la bomba atomica su Hiroshima (1945)… Anche i «lager» nazisti, con l’olocausto di 6 milioni di ebrei, sollevano domande inquietanti. Dov’era Dio? E dov’era l’uomo?
Seminaristi all’arma bianca
«Dieci lunghi mesi (benché ancor fuori dell’ambito della guerra) noi siamo vissuti sotto l’incubo della conflagrazione gigantesca, inaudita nella storia delle nazioni, per cui “sulla misera Europa incombe tanta ruina”, va sconvolta ormai ogni regione della terra, e paiono vacillare gli stessi cardini fondamentali del diritto e del consorzio delle genti».
È l’amaro commento dei missionari della Consolata sulla prima guerra mondiale, riportato dalla loro rivista La Consolata, giugno 1915 (1).
«Le quotidiane notizie di combattimenti incessanti – prosegue il mensile -, di terribili stragi sui vari teatri di guerra, di crescente desolazione nei paesi belligeranti… ci son venuti penetrando di dolorosa compassione; mentre la carità di Cristo, che “a prezzo del suo sangue tutti gli uomini rese fratelli”, ci poneva sempre più accorata sul labbro la preghiera per la pace».
Il conflitto scoppia nell’agosto 1914. L’Italia vi entra il 24 maggio 1915. E La Consolata continua:
«Coll’entrar dell’Italia in guerra è iniziata pure per noi la terribile prova. Adoriamo i decreti imperscrutabili di Dio, il quale, se nella sua giustizia permette i flagelli, nella sapientissima sua misericordia sa da essi trarre il maggior vero bene delle sue creature; e quanto più è grande la calamità, tanto più si fa vicino a coloro che in Lui sperano.
La nostra fede di veri cattolici ci faccia forti a compiere il dovere di buoni cittadini… sia quelli che son chiamati alle armi, sia quelli che con inevitabile strazio e sacrificio, spesso più eroici dei soldati stessi, debbono darli alla patria.
Preghiamo con viva fede che il sacrificio sublime dei soldati d’Italia, come delle loro madri, delle spose, degli innocenti loro figlioletti, sia l’ultimo tributo che impetri dalla divina misericordia la cessazione dell’orrendo flagello della guerra, l’avvento della sospiratissima pace»…
Tra i militari si contano pure missionari della Consolata. Non solo: anche «una parte notevole degli alunni del nostro Istituto ci sono stati tolti – precisa La Consolata, agosto 1915 -. Separati d’improvviso dai superiori e compagni, essi ebbero rinnovato lo strazio provato nell’abbandonare i parenti; dalla casa dove, tra l’indefessa attività di studio e lavoro, tutto era serenità e raccoglimento, sono stati sbalestrati nelle caserme e nelle piazze d’armi. L’obiettivo di pacifiche conquiste tra gli infedeli, colla croce, s’è cambiato in quello di contribuire alle vittorie col fucile, col cannone e all’arma bianca».
È un lamento, ma anche una denuncia.
Quell’Ecatombe
di ignari Kikuyu
La prima guerra mondiale sconvolge anche il continente nero. In Africa orientale l’apporto delle colonie inglesi al conflitto è ingente. Per combattere i tedeschi in Tanzania (2), si arruolano persino africani. Più che militari, urgono portatori (carriers), che rifoiscano di vettovaglie e munizioni i soldati inglesi al fronte. In tale compito viene impiegato oltre mezzo milione di persone.
In Kenya, all’inizio, le autorità inglesi invitano i kikuyu ad «offrirsi» per la gloria dell’impero britannico. Ma l’ideale non attecchisce. Allora si ricorre alla coscrizione forzata.
Per sfuggire alla leva, i kikuyu si nascondono nella foresta durante il giorno; ma, al tramonto, rientrano nelle loro case. È questo il momento giusto, per i policemen bianchi, di sparpagliarsi nel villaggio, entrare nelle capanne e, armi in pugno, reclutare nuovi rifornitori di bombe.
Non potendo eludere la chiamata, i kikuyu si affidano ad un rimedio estremo: lo stregone. Costui, alla vigilia di una partenza per la guerra, presiede un drammatico sacrificio, alla presenza persino dei bambini. La vittima sgozzata è un montone nero, con strane chiazze sul pelo. Il tutto indica malaugurio.
Secondo una cronaca dell’epoca, al tempo stabilito, il partente avanza risoluto verso l’assemblea radunata; afferra la testa dell’animale ucciso e, roteandola in ogni direzione, lancia la maledizione: «Io andrò e morirò, ma che i bianchi siano maledetti!». «Maledetti e maledetti!» grida ostile la comunità…
I portatori kikuyu vengono distribuiti in diversi campi di concentramento. Si marcia dalle 6,00 alle 11,30 e dalle 14,00 alle 17,00; e se il passo rallenta, ecco subito l’ufficiale che, munito di scudiscio, ridà lena alla marcia. Dopo pochi giorni di cammino, il portatore si ammala e, sovente, è già cadavere nella fossa.
La causa di tanti decessi non è solo fisica, ma psicosomatica: fatica e malattia, unite alla nostalgia per la terra d’origine lasciata. Secondo V. Harlow, 127 mila kikuyu periscono in quell’infausta esperienza.
Uno Strano bottino
di Guerra
Poiché i carriers muoiono come mosche, già nel 1914 il governo coloniale decide l’allestimento di alcuni ospedali militari in Kenya: a Nairobi, Mombasa, Voi. Nel corso del conflitto gli inglesi ne installano altri anche in Tanzania, colonia tedesca.
Dal Kenya il vescovo Filippo Perlo offre i missionari della Consolata per l’assistenza spirituale e medica negli ospedali, ritenendola un’opera altamente umanitaria. Da Torino l’Allamano, il fondatore, approva, purché i missionari non si schierino con alcuno dei belligeranti, ma servano solo gli africani.
In un triennio 45 missionari, tra padri e suore, sono destinati alla cura dei malati. Ce la mettono tutta nel dedicarsi ai bisognosi. Grande è la carità.
Eroica la testimonianza di suor Irene Stefani, che opera nell’ospedale di Kilwa (Tanzania). Il suo bottino di guerra – scrive Gian Paola Mina – sono 3 mila battesimi conferiti a morenti (cfr. l’inserto «L’estrema pazzia»). Non è la sola a sentirsi missionaria oltre che infermiera. Gli altri credono negli stessi ideali, tanto che il 98% degli africani morti negli ospedali riceve il battesimo.
L’attività assistenziale si rivela efficace e riscuote il pubblico plauso anche delle autorità inglesi.
(1) La Consolata, fondata nel 1899, diventa Missioni Consolata nel 1928.
(2) La Tanzania si chiamò «Tanganyika» fino al 1964.
Kenya: Se L’inglese
ti Controlla
Il 10 giugno 1940 i missionari della Consolata in Kenya diventano nemici degli inglesi e sono allontanati dalle loro sedi. In un diario di missione si legge: «Si sente alla radio la dichiarazione di guerra dell’Italia e poche ore dopo, alle 21, veniamo sottratti alle nostre missioni dalle forze armate. Lasciamo ogni cosa nelle mani di Dio: chiesa e casa, cristiani e catecumeni, scuole e maestri». Analoghe scene si ripetono nell’intero vicariato di Nyeri e nella prefettura di Meru.
I missionari vengono deportati nel campo di Koffiefontein, in Sudafrica, dove condividono la sorte di altri 1.200 italiani. Almeno sono insieme e qualcosa riescono a fare: aiutare tutti, alimentare la speranza, fino a procurare l’insalata zappando un lembo di cortile. I padri Giovanni Casolati e Bartolomeo Favaro compilano anche una grammatica e un vocabolario kimeru e traducono il Nuovo Testamento.
Grande la nostalgia, soprattutto delle missioni sulle quali è sceso il silenzio. Nel Meru, più che nel Nyeri, l’abbandono è totale…
Il 14 agosto 1944 un telegramma annuncia il ritorno dei missionari in Kenya. «Toano – commenta Missioni Consolata, settembre 1944 – a riunire i figli dispersi. Toano a ricominciare e a ricostruire. Salutati dai trilli festosi dei cari aghekoio e bameru, tornano a rivedere le giovani cristianità, a far sorridere i bimbi, a riaprire catecumenati e ambulatori. Toano. E con essi la vita riprenderà il ritmo normale».
Però le autorità inglesi non esultano: esigono che sui missionari italiani sia esercitato il controllo di un britannico, che li tenga lontani da ogni attività illecita. Un’imprudenza diventa motivo per il rimpatrio sia dal Nyeri sia dal Meru.
La tensione è tale da esigere la visita del pro-delegato apostolico, padre MacCarthy, che incontra le autorità politiche britanniche del Meru. Giustizia vuole che si ascolti anche l’altra parte. Pertanto il pro-prefetto raggiunge le missioni per incontrare i padri: molti cadono dalle nuvole dinanzi all’ostilità nei loro confronti. In ogni caso, se errori sono stati commessi (ad esempio, coltivazione non autorizzata di terreni), essi sono pronti a rimediare.
Però sono false le accuse, secondo le quali la gente (anche cattolica) si lamenta dei missionari. Gli africani, invece, recriminano sia contro l’autorità coloniale che quella locale.
Lo conferma lo stesso MacCarthy.
Tanzania: «Ai nemici italiani stranieri»
Un cataclisma? Troppo poco, se non si aggiunge che è mondiale. E non è un disastro da addebitare all’incontrollabilità della natura o al destino, ma voluto da uomini contro uomini.
Il primo contraccolpo dell’entrata italiana in guerra piomba drasticamente sui missionari della Consolata in Tanzania. Essi si vedono stravolta la ragione della loro presenza nel paese. Ogni dispaccio del governo coloniale britannico (1) reca il marchio: «Ai nemici italiani stranieri». Stranieri? Anche gli inglesi lo sono. Nemici? Per nulla!
Il 16 giugno 1940 scatta l’ostracismo. «Tutti i nemici stranieri italiani» debbono radunarsi a Tosamaganga. L’esodo deve compiersi in cinque giorni. Le missioni dell’Iringa, sparse su un vasto territorio, vengono evacuate.
È il momento del primo distacco: i missionari-fratelli, caricati su un camion, vengono trasferiti al boma, il forte che comprende il quartiere della polizia e le prigioni. Fratel Eesto Viscardi, sulla sponda dell’autocarro, dà fiato alla fisarmonica… con qualche lacrima.
Il 18 giugno compare l’arcivescovo Edgar Maranta, vicario apostolico di Dar Es Salaam, cappuccino svizzero. Qual buon vento lo porta? Nella cronaca di Tosamaganga l’apparizione è motivata da «buoni uffici» da assolvere.
Il 20 giugno, come se nulla fosse, si solennizza la festa della Consolata. Ma la cristianità è in ansia. «La Vergine trionfa in una interminabile processione – recita la cronaca -. Alcuni poliziotti inglesi sorvegliano quasi con devozione».
Il giorno seguente, il vescovo Maranta parte per Mbeya, sede del governo provinciale da cui dipende il distretto di Iringa. Al suo ritorno, dopo due giorni di colloqui, a Tosamaganga deflagra la gioia: lo svizzero è accettato dagli inglesi come garante dei «nemici stranieri italiani». I missionari non sanno come ringraziarlo.
Dunque non ci sarà deportazione! «Fra il tripudio della gente le campane suonano fino a sera».
Intanto il vescovo Attilio Beltramino, missionario della Consolata, accetta la «garanzia» dell’arcivescovo Maranta. Essa si fonda sulla «parola d’onore» e impegna i missionari con clausole vincolanti:
– non allontanarsi oltre un miglio dalla missione;
– vietato ogni spostamento di personale missionario;
– controllo della corrispondenza;
– nessuna parola con estranei su politica, movimento di truppe, località strategiche;
– vietato contattare i prigionieri.
Che cosa ha indotto gli inglesi ad una mite decisione? Certamente le ottime relazioni tra i governanti, lo svizzero Maranta e l’italiano Beltramino, nonché l’amicizia tra i due vescovi. È lecito pure supporre un intervento del giovane sultano A. Sapi Mukwawa, musulmano, stimato dagli inglesi e fedele amico dei missionari della Consolata.
Infine non è detto che alcune personalità britanniche non abbiano apprezzato il lavoro dei missionari.
(1) La Tanzania (Tanganyika), colonia tedesca, diventa «mandato britannico» dopo la seconda guerra mondiale.
TRA I CADAVERI ACCATASTATI
Un mattino del 1917, all’ospedale di Kilwa (Tanzania), suor Irene non trovò più Athiambo, che aveva istruito il giorno prima e si riprometteva di battezzare quel giorno stesso. «Athiambo è morto – disse l’infermiere -. Verso mezzanotte è stato buttato sul carro e portato alla spiaggia». «Athiambo morto, e senza battesimo!» ripeteva inconsolabile suor Irene.
Ci volevano 20 minuti per giungere in spiaggia. Irene ne impiegò 10, tanto corse. Eccola di fronte all’Oceano Indiano, al cospetto di cadaveri accatastati alla rinfusa: nudi, enormi, oppure sparsi sulla sabbia ardente; chi con la fronte a terra, chi riverso supino, immobile, pauroso. «Dio, che orrore!». La suora rabbrividì. Aveva sempre avuto un ribrezzo sommo per i morti, ed ora tutti quei cadaveri…
Era sola con il suo rosario, la sua fede. Non aveva chiesto a nessuno di accompagnarla, perché nessuno avrebbe accettato di venire con lei. Meglio così: sarebbe stata sola a compiere l’estrema follia. Guardò l’oceano, le cui onde si facevano sempre più alte e vicine: fra poco avrebbero inghiottito i cadaveri, compreso Athiambo… Perché cercarlo? «E se non fosse morto? Si tratta di un’anima, Signore, un’anima!» si disse suor Irene.
Con gli occhi sbarrati da ansia e paura, si accostò ai morti: cominciò da quelli sparsi qua e là, scrutando i volti di chi giaceva supino e rivoltando gli altri. No, non era Athiambo. Athiambo si trovava nel mucchio. Ma se era lì, in mezzo o sotto gli altri, era di certo morto soffocato. «E se non fosse morto?».
S enza più esitare, suor Irene s’accostò alla catasta e rimosse i cadaveri uno ad uno, in cerca di Athiambo. Pesavano enormemente quei corpi rigidi, anche nella magrezza a cui erano stati ridotti dagli stenti. Pesavano e nauseavano. Erano sozzi di sangue e le imbrattavano di rosso le mani e il vestito bianco.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» ansimava la suora. Aveva già riconosciuto Luigi, Giovanni, Giuseppe, Ugo… tutti quelli battezzati ieri e avant’ieri. Ma Athiambo non c’era. Avanti ancora. Aveva le braccia e la schiena che le si spezzavano, il cuore in gola. Si sentiva svenire, morire come loro, in un incubo. L’oceano rumoreggiava a pochi passi, e avanzava minacciandola. In fretta! O sarà troppo tardi.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» singhiozzava ora la missionaria. Avanti ancora. Ne aveva contati 46, 47… e Athiambo non compariva. Solo otto cadaveri attendevano di essere passati in rassegna, e lei cominciava a domandarsi se per caso non l’avesse riconosciuto tra quelli già esaminati. Allora avrebbe dovuto ricominciare da capo. Ultimo cadavere: era Athiambo, seppellito sotto tutti, morto anche lui.
Morto? Con sforzo enorme lo trascinò lontano, là dove la marea non poteva raggiungerlo, e gli s’inginocchiò vicino. S’era accorta che il corpo era flessibile. Forse… «Ave Maria, Santa Maria… O Dio, salvatelo!».
Sperando contro ogni speranza, gli praticò la respirazione artificiale, distendendogli le braccia ritmicamente per 10, 20 minuti. Non sentiva più la stanchezza. Eppure era sfinita, il sole e la sabbia scottavano tremendamente. Il tempo passava. Ma lei continuava a massaggiare Athiambo, a sollevargli le braccia, spiandolo amorosamente, pregando con fiducia.
Avvenne l’incredibile: Athiambo sbatté le palpebre, emise un gemito impercettibile. Era ancora vivo… Poi tutti dissero che suor Irene l’aveva risuscitato!
Gian Paola Mina
Francesco Beardi