SPECIALE 100 ANNI – L’Etiopia è italiana

Per il «trionfo» dell’Italia in Etiopia del 1936, nelle sedi del fascio si raccolgono fedi di mogli, medagliette
di senatori, croci pettorali di vescovi e si fondono campane: l’evento catalizza il consenso della maggioranza del popolo e, persino, di molti antifascisti.
I cattolici si allineano con «ingenuoentusiasmo»; c’è qualche eccezione.
Compromessi con il fascismo anche i missionari. Pochi i «distinguo».

«È scoccata l’ora di Dio!»

«Anche il sangue, anche le lacrime degli araldi di Roma in terra etiopica ottengono oggi il loro esaudimento. La giustizia, invocata dalle sacre ossa di tanti eroi di verità ed amore, finalmente trionfa. Il glorioso compimento dello sforzo immane, la trionfale riuscita della più grande spedizione coloniale che la storia ricordi, viene ad incastonare la più fulgida gemma nella corona di Roma imperiale».
È sempre la rivista Missioni Consolata (giugno 1936) a manifestare gli ideali politici degli omonimi missionari. E sono ideali fascisti.
«Il tricolore d’Italia, che si alza nel cielo d’Etiopia a sventolare sulle rovine d’una barbarie finalmente disfatta, intona una peana immortale alla gloria dell’urbe eterna, faro di fede e civiltà – incalza il periodico missionario -. L’Etiopia è italiana! E alla irrevocabile parola del duce, un fremito di fierezza scosse tutta la fiorita penisola; un delirio di commozione pervase tutti i cuori.
Inchiniamoci riconoscenti all’uomo provvidenziale, al duce del fascismo, a questo acuto conoscitore delle nostre necessità e forze, a questa adamantina tempra di lottatore e dominatore, che questa impresa ispirò, volle e condusse alla mèta».
«L’Etiopia è italiana! Quale smagliante visione di gloria latina si profila davanti allo sguardo del mondo attonito!… Chi, più dei campioni del Vangelo e della civiltà, ha diritto di vivere questo trionfo, l’alba di un’era di libertà e di pace, di luce e di amore?
No! Non più un apostolato di catacomba, una vita randagia tra continui rischi (1)! Ma, nella chiarità del torrido sole equatoriale, parta la parola eterna ad annunziare ai mansueti la Buona Novella, a curare i contriti di cuore, a bandire franchigia agli schiavi e liberazione ai prigionieri.
No! Non più in un sudicio tukul, ma nelle ampie chiese, dalle eccelse cuspidi, che il genio latino innalzerà a dentellare quell’azzurro fatto nostro, potran le anime redente pregare e cantare al Dio, Padre di tutti i popoli!
A Lui e alla nostra soave Patrona, regina di pace e consolazione, il nostro umile, inesprimibile ringraziamento per la sovrabbondanza di benedizione con cui premiano i sacrifici dei nostri missionari d’Etiopia.
Appena il successo delle armi italiane ci fu annunciato, sentimmo il bisogno di gridare forte la nostra gioia, riuniti nella cappella pubblica coi nostri amici e benefattori. E, la sera del 7 maggio 1936, partecipammo all’imponente cerimonia di ringraziamento tenuta nel santuario della Consolata, coll’intervento di tutte le autorità cittadine…
“L’angelo di Dio vi condurrà” aveva detto il Papa Pio X a padre Barlassina, affidandogli la prefettura del Kaffa. E l’angelo del Signore ha veramente ricondotto, dopo pochi mesi d’esilio, gli ardenti paladini della fede nelle terre delle loro fatiche.
Già i nostri missionari, cappellani militari dei combattenti, avevano fatto il loro ingresso ad Addis Abeba coll’esercito glorioso. E al più presto anche gli altri illustri proscritti raggiungeranno i loro posti d’avanguardia religiosa e italiana, per riprendere, con nuovo ardore di forze e nuova volontà d’amore, la loro sublime missione, sotto l’egida d’un nuovo impero d’umanità e di civiltà, “immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro”».

Il missionario
in Colonia. Che fare?
Tra i missionari «fascisti» che operano nell’«Etiopia italiana», sono interessanti le linee d’azione suggerite da padre Giovanni Gaudissard. Questi, pur allineato alla politica del tempo, sa compiere importanti distinzioni.
«Il missionario – ragiona padre Gaudissard – ha a cuore di mantenere presso gli indigeni il prestigio della sua patria e dei suoi compatrioti. Però il tacere davanti alle ingiustizie rischierebbe, di fronte agli indigeni, di fare causa comune coi loro oppressori. Ma il missionario, se si decide a parlare e difendere i diritti degli indigeni, si espone il più delle volte ad alienarsi la simpatia dell’autorità e a privarsi dei suoi appoggi ufficiali. Che fare?».
Padre Gaudissard suggerisce alcuni comportamenti.
1) Il paese dove il missionario opera è per lui una seconda patria. Tuttavia deve essere prudente, astenendosi da interventi personali su questioni spinose… «Le questioni politiche non ci riguardano, noi dobbiamo predicare il Vangelo. È però dovere del missionario, in territorio soggetto a colonia, aiutare l’élite indigena ad elevarsi fino alla concezione cristiana di un governo a base di giustizia per tutti».
2) «Il missionario è il pioniere di Dio. Non è suo compito far l’avanguardista agli eserciti conquistatori. Tuttavia la patria ha qualcosa da aspettarsi da lui? Sì, ma per altra via e con mezzi più sublimi. Stima, rispetto, simpatia e confidenza: ecco ciò che il missionario con la sua condotta guadagna alla patria. Ed ottiene tutto questo senza ricercarlo, per il fatto stesso che egli appartiene alla tal nazione e che come tale è conosciuto. Essendo suo dovere far del bene alle anime e ai corpi con la dedizione, il buon esempio, i buoni consigli, le opere di misericordia e l’insegnamento, fa conoscere il suo paese in quello che esso ha di meglio…».

L’autocritica
di padre Vladimiro
Con la sconfitta dell’Italia in Etiopia nel 1941, i missionari della Consolata devono lasciare il paese. Il loro fine ultimo è stata l’evangelizzazione, «elemento indispensabile per la vera trasformazione degli indigeni», che hanno amato e per i quali hanno dato la vita in maniera silenziosa e, talora, cruenta. «Senza la mediazione dei missionari – scrive Alberto Trevisiol -, molti etiopi sarebbero periti nella conquista coloniale italiana».
D’altro canto, hanno accompagnato la penetrazione militare italiana ritenendola «morale e civile».
Eloquente, al riguardo, è l’autocritica postuma di padre Vladimiro Bazzacco (1992). «L’onore? – si chiede il missionario – L’avevamo perso con l’illusione di avere portato civiltà e benessere. Doveva essere un posto al sole. Doveva essere la liberazione degli schiavi, che in realtà furono liberati. Si fece del nostro meglio per seguire le vie del Vangelo e portarlo alle genti».
«Con quali mezzi? Con i militari, al servizio di un esercito conquistatore: ecco l’accusa. Anche noi eravamo patrioti e sovente autoritari, nella convinzione di essere persone superiori. Eravamo dotati di cultura e tecnica. Insieme ai militari, eravamo, agli occhi di molti, degli invasori. Avevamo due volti: missionari sì, ma anche figli dell’Italia che conquistò l’Etiopia. Dovevamo andarcene. Però, a prescindere dalla conquista, in genere i vecchi etiopici hanno un buon ricordo degli italiani, specialmente dei missionari».
Il «sogno dell’Etiopia», iniziato con l’Allamano stesso, ha sempre riscaldato il cuore dei missionari della Consolata… a tal punto che nel 1970 ritornano nel paese. Si stabiliscono temporaneamente in alcune missioni del vicariato di Harar, per assumere nel 1980 la prefettura apostolica di Meki.

(1) Allusione alla presenza clandestina dei missionari della Consolata in Etiopia dal 1916 al 1924. Durante questo periodo era vietata ogni conversione al cattolicesimo di cristiani ortodossi.

Francesco Beardi

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