Li potremmo chiamare «i missionari con la penna», pur essendo abilissimi anche con strumenti meno nobili. Hanno messo a servizio della missione le loro doti intellettuali, spesso eccellenti e brillanti. Mossi da affetto e simpatia per la gente, si dedicarono allo studio della lingua, tradizioni, costumi, arte, modi di vivere, folclore. Pur non avendo sempre la patente di specialisti, sono diventati linguisti, etnografi, cartografi, scrittori, romanzieri, esperti di scienze naturali. Oltre a portare alla ribalta, spesso per la prima volta, popolazioni e ambienti sconosciuti, sono stati educatori di generazioni di altri missionari.
CAPIRE L’ANIMA
padre Costanzo Cagnolo (1887-1961)
Scoccava la mezzanotte del 6 luglio 1961 quando, a Nyeri, padre Costanzo Cagnolo chiudeva la sua giornata terrena, durata 74 anni, 48 dei quali sul campo missionario. Nato a Draguignan (Francia) nel 1887, a un anno rimase orfano di madre e fu educato a Spinetta (Cuneo) da una zia matea. Entrato nell’Istituto nel 1906 e ordinato prete nel 1912, partì per il Kenya nel 1913.
Missionario geniale e polivalente, padre Cagnolo fu carrettiere e carovaniere, muratore e cappellano militare, direttore di seminario e vicario generale della diocesi; parroco e fondatore dell’Azione cattolica, direttore di tipografia e scrittore di articoli e libri; etnologo e musico. Costruì scuole-cappelle in paglia e fango e la prima chiesa in muratura della diocesi di Nyeri. Fu chiamato a svolgere incarichi di fiducia in India, Somalia e Sud Africa. Ma il cuore rimase sempre tra i kikuyu, dei quali conosceva la lingua kikuyu come le sue tasche: ciò gli permise di penetrare nell’anima di quel popolo.
È soprattutto nel campo culturale che padre Cagnolo profuse intelligenza e zelo missionario. Fu incaricato di ordinare il materiale raccolto da vari missionari che, fuso con i frutti della sua esperienza, venne pubblicato in inglese, nel 1933, col titolo: The Akikuyu. Questo studio etnografico, il primo del genere su costumi e tradizioni, folclore e religione dei kikuyu, riscosse grande interesse e fu altamente apprezzato in ambienti scientifici. Un estratto della monografia fu pubblicato in italiano nel 1954 col titolo: Kikuyu e mau mau.
Oltre ai numerosi articoli di carattere etnografico e missiologico, pubblicati in Missioni Consolata e altre riviste, padre Cagnolo compose un’infinità di articoli e libri di argomento religioso in kikuyu, come Athure a Eklesia: profili di santi per tutti i giorni dell’anno.
Spese gli ultimi anni della vita nel settore stampa della diocesi di Nyeri; diresse la tipografia e la pubblicazione del Wathiomo Mokinyu (amico vero), mensile che giocò un ruolo fondamentale nella formazione religiosa, civile e culturale del popolo kikuyu.
Anche il suo estro musicale si rivelò prezioso per l’evangelizzazione: studiò motivi ed elementi dei canti kikuyu e su di essi compose inni sacri e canzoni che incontrarono larga popolarità.
«Sovente muore l’uomo, ma non la sua idea» aveva scritto nel 1938 nella prefazione al direttorio dell’Azione cattolica. Mettere tutta l’intelligenza a servizio della missione, per incarnare il vangelo nella cultura locale, fu l’ideale perseguito da padre Cagnolo e lo vide realizzato: in punto di morte ricevette la prima benedizione del primo vescovo kikuyu, mons. Cesare Gatimo. Per tale evento, nel lontano 1915, aveva raccolto i primi seminaristi a Tuthu e poi, per tanti anni, era stato formatore nel seminario di Nyeri.
COME UN OROLOGIO
padre Giovanni Chiomio (1889-1979)
«Se si perdesse il libro delle regole – diceva l’Allamano – ognuno di voi ne sia una copia vivente». Padre Giovanni Chiomio lo prese alla lettera, fino a sconfinare abbondantemente nella pedanteria. Non perdeva occasione per abbordare i confratelli, specie i seminaristi, per ripetere le parole del fondatore, con precisi dettagli su giorno, ora e luogo in cui erano state pronunciate. E continuava per ore, finché qualche smaliziato accennava al suono del campanello. Sordo come un battaglio di campana, padre Chiomio si chiudeva la bocca con la mano e diceva: «È la voce di Dio!».
Alto e solenne come un monumento, barba bianca e bastone in mano, incuteva riverenza. Passo sicuro e misurato, un metro esatto, con 33 falcate raggiungeva il suo posto in refettorio e rimetteva a posto la sedia che i chierici burloni avevano spostato di qualche centimetro.
Il beato fondatore gli aveva detto che sarebbe morto a 90 anni. L’orologio della sua vita si fermò con appena due mesi di ritardo: era nato a Garzigliana (Torino) il 19 ottobre 1889; morì il 13 dicembre del 1979.
Poliedrico, metodico, esatto come un orologio svizzero, padre Chiomio è una figura eccezionale e irripetibile: «Dio lo ha fatto e poi ha gettato via lo stampo». Fu esploratore e cartografo, etnografo e linguista.
Arrivato in Kenya nel 1919, fu incaricato dell’amministrazione del vicariato di Nyeri e ispettore delle scuole. Nel frattempo tracciò una stupenda serie di mappe dei territori e attività dell’Istituto: presentate alla Esposizione missionaria vaticana dell’anno santo 1925, egli meritò la «medaglia di benemerenza» da parte della S. Sede.
Nel 1925-26 fu incaricato di esplorare le regioni del Mozambico comprese tra i fiumi Rovuma e Zambesi. Fibra robusta, inquisitore pignolo, pedometro a una gamba, notes e matita in mano, teodolite e strumenti vari nella borsa, percorse a piedi migliaia di chilometri, misurando distanze e rilievi, percorsi di fiumi e torrenti, registrando nomi di popolazioni e località, flora e fauna e quant’altro attirava il suo sguardo indagatore. Tutto si trasformava in schizzi e pagine di diario preciso e minuzioso fino all’inverosimile.
Fece altrettanto nel 1927-28, insieme a padre Giovanni Ciravegna, nell’esplorazione delle regioni dell’Etiopia meridionale, Kaffa, Alto Giuba e Uebi Shebeli.
Alla fine del 1928 padre Chiomio si stabilì a Torino e cominciò a sistemare materiale e dati raccolti in quegli anni. Sotto la sua direzione, la scuola cartografica dell’Istituto produsse un impressionante numero di carte geografiche, elogiate da vari enti e andate a ruba nei ministeri italiani, specie in quello militare.
Fioccarono i riconoscimenti. Nel 1938 il re d’Italia lo nominò commendatore dell’Ordine coloniale d’Italia «per benemerenza geografico-etnica, in seguito all’esplorazione del Sud Etiopia». L’anno seguente ricevette la medaglia d’argento dalla Società geografica italiana.
Altrettanto impressionante è il numero di studi sulle lingue dei popoli incontrati nelle sue esplorazioni: kaffina, wollana, galla, amarica, magi, hadiya (Etiopia), somala (Somalia), kemeru (Kenya), kibena (Tanzania), ronga, elomwe, chopi, citswa (Mozambico). Ogni studio, spesso consistente di centinaia di pagine, comprende introduzione etnografica, grammatica e dizionario.
Tanto lavoro aveva uno scopo preciso: scegliere i luoghi più adatti per la fondazione di stazioni missionarie e aiutare i confratelli a inserirsi con maggiore facilità ed efficacia nelle popolazioni a cui erano destinati.
Ciò non toglie che le sue opere trascendano il semplice scopo missionario. «Relazioni e disegni di padre Chiomio – affermò il governatore della Somalia, dr. Guido Coi – sono un lavoro veramente interessante e ancor più sta a dimostrare le grandi benemerenze che l’Istituto ha saputo acquistarsi non solo nella propaganda missionaria, ma oltresì nel campo della scienza».
Se Chiomio fu una copia ambulante della regola dell’Istituto, Vittorio Merlo Pich fu una icona vivente del padre fondatore. Ne ereditò lo spirito e calda umanità; lo amò profondamente e si sentì da lui amato fin dal giorno in cui la madre lo presentò all’Allamano: aveva appena 10 anni. Era nato a Nole Canavese (Torino) nel 1899. Fu un amore che si trasformò in venerazione e durò tutta la vita.
Ordinato sacerdote nel 1921, padre Vittorio raggiunse il Kenya nel 1923. Studiò per un anno lingua, usi e costumi kikuyu e fu subito lanciato nel lavoro missionario: a 24 anni, era superiore (da solo) di Kianyaga, la più isolata missione del vicariato di Nyeri. Continuò a farsi le ossa alla direzione di una fattoria agricola; poi come aiutante e superiore della missione di Limuru, finché furono scoperte le sue doti di intelligenza e preparazione culturale.
Nel 1931 fu nominato preside della scuola elementare e media di Nyeri. Venne quindi nominato «segretario per l’istruzione», con la responsabilità di rappresentare la diocesi di fronte al governo. Due anni dopo fu eletto membro del «Comitato per fissare l’ortografia della lingua kikuyu». Il suo valido contributo gli attirò la stima e simpatia delle autorità locali. Al tempo stesso si sentì stimolato ad approfondire lo studio delle lingue bantu. Nel 1938 pubblicò Elementi di grammatica kikuyu.
Per quasi 20 anni, salvo quelli passati in campo di concentramento, padre Vittorio fu responsabile dell’organizzazione scolastica della diocesi di Nyeri. Un lavoro intenso e delicato: si trattava di imprimere un contenuto religioso alla formazione laica proposta dal governo coloniale. Non mancarono le reazioni acerbe da parte dei protestanti, superate con la sua proverbiale bontà, ma senza cedimenti.
Alla fine del mandato di consigliere generale (1949-59), avrebbe voluto ritornare in Africa; il suo nome era apparso nella «rosa» per diventare vescovo del Kenya, ma la salute lo fermò in Italia: nel 1953 si era ammalato gravemente; ma riuscì a guarire (secondo la sua profonda convinzione) per grazia speciale del padre fondatore.
In Italia continuò la sua missione mettendo a disposizione degli altri la profonda conoscenza di lingue e culture africane. Nel 1953-54 portò a termine un lavoro iniziato già in campo di concentramento: la compilazione e pubblicazione della Grammatica della lingua swahili e il Dizionario kiswahili-italiano e italiano-kiswahili: due opere aggiornate a più riprese che, ancora oggi, rimangono strumenti insuperabili per lo studio di tale idioma. Aprì a Torino un corso di lingua e cultura swahili, il primo in Italia, che continua tutt’oggi.
Con la padronanza delle lingue, padre Vittorio era penetrato nell’anima del popolo. Lo testimoniano i numerosi articoli e libri di carattere etnografico, tra i quali: Miti e leggende kikuyu (1967); Favole kikuyu (1967); Ndai na gikandi – Kikuyu enigmas – Enigmi kikuyu (1973), raccolta di proverbi pubblicati in tre lingue; Cultura e letteratura kikuyu, in Africa (1968).
Nel 1974 fu insignito della massima onorificenza del Kenya dallo stesso presidente Kenyatta, che riconobbe nei suoi studi sulla cultura bantu un ponte di comunicazione tra l’Italia e l’Africa.
Un missionario linguista è anche il titolo della tesi di laurea con cui Adriano Bianco ha conseguito il dottorato in Scienze politiche presso l’università di Torino nel 1996: presentando le vicende missionarie di padre Merlo Pich e della sua copiosa produzione letteraria, il neo dottore non esita a definirlo uno dei massimi esponenti della cultura kikuyu.
MISSIONARIO
MONELLO
padre Ottavio Sestero (1901-1980)
Vivace, brioso, amante del gioco e un po’ sbarazzino; ma intelligente e buono come il pane: così lo ricordano quanti lo conobbero dal giorno in cui entrò tra i missionari della Consolata. Aveva 13 anni. Era nato a Chiusa S. Michele (Torino) nel 1901.
Socievole e arguto, zelante e di piacevole compagnia lo definiscono i confratelli che condivisero con lui la vita missionaria. Arrivò in Kenya nel 1926 e vi rimase per 40 anni, lavorando in varie parrocchie delle diocesi di Meru e di Nyeri. «Artista» è la parola che riassume la sua vita e personalità.
Artista nel cuore e nella fantasia, padre Ottavio Sestero maneggiava con la stessa facilità la zappa e la penna, il pennello e l’aspersorio, il flauto e la cazzuola.
Nella pittura non era un Michelangelo, eppure molti devoti africani s’infervoravano davanti alle sue madonne e santi che oavano le chiese. Molti amici custodiscono gelosamente un suo acquerello, rappresentante una scena di villaggio o il balzo di un leone che ghermisce un’antilope in fuga. Molti ufficiali inglesi di guardia ai campi di concentramento conservano nei loro salotti in Inghilterra la loro caricatura, eseguita dal simpatico missionario prigioniero. L’originalità e senso umoristico dei suoi disegni servivano soprattutto per rendere più attraenti i suoi scritti.
Padre Sestero è stato, infatti, un missionario scrittore, ricco di concetti e molta verve; sapeva cogliere nella vita quotidiana del missionario quei particolari che, tratteggiati dalla sua penna, formano una piacevole lettura. Nei suoi scritti manifesta le risorse inesauribili della sua mente, comunica la sua allegria semplice e ingenua, insieme al suo amore per l’africano.
Oltre ai Fioretti di padre Cencio (vita di padre Vincenzo Dolza), padre Sestero scrisse una quindicina di libri, pubblicati in collane dai titoli accattivanti: «I romanzi del brivido», come L’inafferrabile Dan (un generale della mau mau) e «I racconti della brughiera».
Ma quelli che lo resero famoso tra i giovani lettori, e anche meno giovani, furono i «Racconti per la gioventù», vivi, allegri, eroicomici, pubblicati a mo’ di romanzo d’appendice su Missioni Consolata dal 1947 al 1961. La sua creatività pareva inesauribile.
A conclusione seguiva la Storia di un missionario monello, una specie di autobiografia in cui raccontava le birichinate giovanili e qualche monelleria combinata «nonostante il duro lavoro di apostolato in terra africana». «Oggi – scriveva -, con la barba e i pochi capelli bianchi che mi sono rimasti, continuo a essere allegro: missionario allegro, anche se non più monello».
FORGIATORE DI UOMINI FORTI
padre Olindo Pasqualetti (1916-1996)
«La mia data di nascita l’avrò scritta centinaia di volte, in ogni occasione in cui la burocrazia civile, ecclesiastica, scolastica e accademica lo richiedeva: 12 settembre 1916; giorno di una delle tante feste della Madonna che, liturgicamente costellano (costellavano) i mesi dell’anno; quindi giorno di buoni, anzi, ottimi auspici. Effettivamente è stato ed è tuttora così: la Madonna è decus, clypeus, auxilium, consolatio (decoro, scudo, aiuto, consolazione)». Così inizia il curriculum vitae tracciato dallo stesso padre Olindo Pasqualetti pochi mesi prima di lasciarci.
Nel 1928 iniziò la sua formazione nella casa di S. Maria a Mare. «Ero entrato spiritualmente allo stato brado – continua -: ero soltanto battezzato, senza precise nozioni di catechismo. Ero entrato con il solo scopo di studiare. Ma dopo il primo mese, udendo attentamente le brevi conferenze del padre direttore, mi convinsi che avrei dovuto scegliere: andarmene o rimanere solo a condizione di seguire, rendendolo sempre più esplicito, il cammino della vocazione. E fin d’allora (avevo compiuto appena 12 anni) della vocazione non ebbi più dubbi, se non in qualche momento oscuro, in cui mi faceva velo la ricerca di un certo perfezionismo.
Anche le prime elementari nozioni di linguistica erano in sintonia con la vocazione: mi suscitò interesse l’etimologia di missionario e apostolo, che sentii dal padre rettore. Sicché il primo accostamento al latino e greco, che in seguito sarebbero state le due lingue antiche da me più conosciute e… professate, passò attraverso un richiamo missionario, sia pure a solo livello linguistico. Di più; la prima frase latina che cominciai a capire fu: «Ite: ecce ego mitto vos sicut agnos inter lupos» (andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi). La curiosità per il latino continuava, dunque, a passare attraverso l’interesse missionario».
A Torino, durante il biennio di filosofia, approfondì per conto suo lo studio del greco e cominciò quello della lingua ebraica, che continuò negli anni di teologia. «Leggevo e capivo gran parte della bibbia scritta in questa lingua. E oggi sono contento solo a pensare di essermi accostato alle fonti della rivelazione attraverso la lingua in cui furono concepite e scritte, e non attraverso la mediazione di un qualsiasi interprete antico o moderno.
Cominciai a studiare l’arabo e il siriaco, lingue di cui purtroppo ora leggo solo l’alfabeto; lo stesso mi succederà per il sanscrito, appreso molto bene durante i due ultimi anni di università e poi rimasto anch’esso allo stadio di pura lettura d’alfabeto».
Ordinato sacerdote nel 1940, fu destinato alla casa di Montevecchia (Como), come insegnante alle medie. «Iniziava la lunghissima serie dei miei anni d’insegnamento. L’anno successivo ero professore nel nostro liceo di Cereseto (AL), dove mi preparai per gli esami di maturità classica (1943), sostenuti da privatista nel senso più stretto della parola: non avendo alcun attestato civile di studi antecedenti, venivo ammesso agli esami per età, ma con la qualifica di analfabeta.
L’anno seguente m’iscrissi all’Università cattolica di Milano: portai in segreteria il diploma di maturità avvolto nella pompa della bicicletta per non sgualcirlo. Nei primi due anni di sporadica frequenza universitaria, mi servivo della bicicletta per recarmi da Cereseto a Milano».
Conseguita la laurea in lettere classiche (1948), padre Olindo cominciò a insegnare latino e greco nel liceo di Varallo Sesia. A partire dal 1959, fu chiamato a tenere corsi di esercitazione presso l’Università cattolica. «Il duplice insegnamento, al liceo e all’università, durò fino al 1970, quando, dopo aver vinto il concorso di assistente ordinario, attesi soltanto all’attività didattica e scientifica presso l’Università cattolica.
In 53 anni d’insegnamento, sono stato professore di tutti gli ordini e gradi di scuola a base umanistica: ginnasio inferiore e superiore, liceo classico privato e statale, teologia biblica, università, istituto di filologia classica.
A partire dal 1950 circa, ho pubblicato oltre un centinaio di saggi in varie riviste: Latinitas, Aevum, Euphrosyne, Vox Latina, Latina Lingua, Gymnasium (di Torino e Bogotá), Hermes Americanus, Commentarii curante Instituto Studiis Romanis provehendis, Gioale Filologico Ferrarese. Sono composizioni poetiche e prose saggistiche in lingua latina e italiana, commenti a scrittori antichi per le scuole medie superiori, liriche greche, voci per l’Enciclopedia Virgiliana, Fondazione Treccani.
Molti sono i premi in medaglie d’oro o d’argento, publicarne e magnae laudes, in concorsi nazionali e inteazionali di prosa e poesia latina: Certamen Hoeufftianum (Amsterdam), Certamen Vaticanum, Certamen Capitolinum, Certamen Vergilianum, Certamen Catullianum, Certamen Avenionense, Certamen Pascolianum, primi premi Fermo, Montalto (AP), Popoli (CH)».
Padre Olindo è stato uno dei massimi latinisti del secolo. I suoi capolavori di poesia greca e latina, raccolti in due volumi dal titolo Gemina Musa, sono presenti in quasi tutte le università italiane e in molte straniere.
È stato e rimane, soprattutto un missionario della Consolata «speciale» per la formazione impartita a generazioni di missionari e laici, che continuano a nutrire per lui stima e venerazione. «Sì, venerazione, perché per noi, già suoi alunni sparsi in tutto l’orbe terracqueo, egli era il professore per eccellenza, il dotto umanista, padre, guida – affermava un ex alunno nel discorso di addio -. Sapeva mutare l’aula scolastica nella sacra officina dello spirito, dove si temprano e si forgiano gli uomini forti. Era l’uomo di valore, il “forgiatore”, il docente per antonomasia, che formava carattere e cultura.
Ti rivedo sulla cattedra, ma senza atteggiamenti cattedratici, col tuo sorriso aperto e cordiale, la tua figura quasi dimessa, ma piena di umanità, fratello maggiore o padre, a spiegarci e farci gustare le bellezze della lingua di Roma; ricordo la tua gioia, intima commozione, quando qualcuno di noi si affermava nella scuola o nella vita» (Gabriele Nepi).
Padre Olindo se ne è andato in punta di piedi, con la modestia che gli era propria, il 21 novembre 1996, festa della presentazione della Vergine Maria: un giorno mariano come quello della sua nascita.
benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti