SPECIALE 100 ANNI – I generosi
FINO ALL’ULTIMO
RESPIRO
padre Giovanni Borra (1900-1986)
Domenica al tramonto. Dalla gradinata della chiesa della Consolata di Iringa (Tanzania) i cristiani sciamano, dilagando sul piazzale antistante. Appoggiato al bastone, un anziano missionario fende decisamente la folla, aggredito da un vespaio di marmocchi affettuosi e scoccianti che implorano una caramella. La scena è da gustare. Sul volto asciutto e forte del missionario, temperato da uno sguardo dolce e penetrante, vi sono tracce di stanchezza e soddisfazione: è padre Giovanni Borra, 86 anni, 62 dei quali trascorsi in Africa, felice di essere ancora sulla breccia.
Così lo ricorda un gruppo di amici toscani: «Volto dolce, occhi penetranti, sorriso sereno e cuore grande come l’Africa. Siamo subito commossi e conquistati da questo patriarca, nel quale generosità, affabilità e simpatia si fondono armoniosamente. Mente viva, voglia di lavorare, nonostante gli acciacchi degli anni, gli si legge sul volto la serenità di un uomo realizzato, che con fede, perseveranza e carità ha vinto tutte le battaglie».
Era nato il 26 luglio 1900 a Benevagienna (Cuneo). Entra nell’Istituto a 15 anni. Dall’inizio del 1918 all’aprile del ’19 cambia la tonaca con il grigio-verde, arruolato in fanteria come aiutante infermiere: di giorno fa il soldato; di notte studia filosofia, che «ovviamente ne uscì piuttosto malconcia e sbrindellata» affermerà egli stesso.
Nel 1924 è in Tanzania. A Bihawana (presso Dodoma) Giovanni subisce il primo shock umano e missionario: incontra spettri affamati e consunti da siccità e carestia. Immagine raccapricciante che ricorderà tutta la vita.
La trasferta a Tosamaganga (300 km) avviene su carri trainati da buoi: 15 giorni di carovana estenuante; per compassione delle bestie spesso si va a piedi. Un mese dopo padre Giovanni è di nuovo in marcia: altri sei giorni per raggiungere Mchombe, nella regione dell’Ulanga. Rimasto solo a reggere la missione, con una infarinatura su usi e costumi, si sente sperduto. Gli basta un anno per comunicare con la gente e non sentirsi più un pivello.
«Ulanga» significa «regno delle acque». Il territorio è una ragnatela di fiumi, torrenti e pantani; la vegetazione è lussureggiante; la terra fertilissima: sono possibili almeno due raccolti all’anno. Ma è anche il regno delle zanzare, che si accaniscono contro padre Giovanni. La malaria lo coglie spesso, con fremiti violenti, cefalee, nausee e dolori di ossa paralizzanti.
Durante un attacco malarico più irruente e prolungato del solito, il padre invia un giovanotto a Tosamaganga per implorare un po’ di chinino. Il superiore gli risponde: «Chinino non ne abbiamo. E poi, se sarai ancora vivo quando toerà quest’uomo, il chinino non sarà più necessario. Ti benedico». Quando la febbre è più vertiginosa, il missionario cerca sollievo dentro un fusto da benzina pieno d’acqua fredda: accovacciato, si fa versare secchi d’acqua fresca sulla testa scottante.
Solitudine e difficoltà finanziarie non permettono di fare grandi sogni. Con illimitata fiducia nella Provvidenza e rimboccandosi le maniche, padre Giovanni riesce a dotare la missione con un minimo di strutture e sostenee le varie attività: scuola, dispensario, catechisti, catecumenati. E non si scoraggia davanti agli insuccessi, come quello capitato col primo gruppo di giovani raccolti alla missione per prepararli al battesimo. Erano una trentina; per sfamarli ha procurato alcuni sacchi di granoturco, riso e fagioli con grandi sacrifici. Tutto procede bene, fino a quando il padre va a Tosamaganga per gli esercizi spirituali: al ritorno i 30 catecumeni sono spariti insieme alle vettovaglie. «Santa pazienza!» esclama il missionario e ricomincia da capo.
Dal 1930 al 1933 padre Giovanni deve ricominciare da capo spesse volte, cambiando missione: Taweta, Madibira, Ujewa, Mdabulo e finalmente Wasa. Qui rimane per 37 anni, spendendo tutto se stesso: intelligenza, lavoro, salute e soprattutto il suo grande cuore. Provate a pronunciare il suo nome con qualsiasi abitante del posto: il suo volto si illuminerà; molti di essi diranno con orgoglio: «Sono stato battezzato da padre Borra».
Nel 1952 è nominato superiore provinciale. Non c’è missionario che non abbia goduto della sua squisita umanità. Finito il mandato, ricomincia a Wasa, Ulete, Makalala, Mafinga, Tosamaganga, Iringa; magari come vice parroco, purché gli permettano di restare sulla breccia, fino all’ultimo respiro, esalato a Iringa, il 24 luglio 1986.
UN UOMO TUTTO CUORE
padre Vincenzo Dolza (1880-1946)
Ragioniere, impiegato con un buon salario, una ragazza già adocchiata… A 22 anni si presentò all’Allamano, chiedendo di andare in Kenya come fratello coadiutore. Il fondatore gli disse di studiare il latino per diventare prete. Alla vigilia dell’ordinazione chiese di rimanere diacono. «Vai avanti!» gli rispose l’Allamano. Nel 1910 Vincenzo Dolza diventò prete. Aveva 30 anni. Era nato a Novara nel 1880.
G li fu chiesto di fare il «missionario in patria» come aiutante economo di Giacomo Camisassa nelle multiforme attività dell’incipiente Istituto. Padre Vincenzo cominciò a scarpinare per Torino, per provvedere il necessario alla vita della casa madre e alle missioni. Per 12 anni i suoi sogni rimasero chiusi in casse e cassoni che spediva in Africa dopo accorati addii.
Esuberante ed estroverso, non gli era facile accontentare il meticoloso e precisissimo canonico; ma era uno specialista nell’imbonire i creditori con battute spiritose e aneddoti di missione, convincendoli a pazientare, fare sconti e perfino diventare padrini dei «moretti» abbandonati nella foresta.
Un giorno, in un ufficio pubblico, s’imbatté in una segretaria carina, ma «imbranata»: padre Vincenzo le sedette accanto, le mise in ordine i registri e le insegnò come tenere la contabilità, sotto gli occhi sgranati dei presenti. La notizia arrivò fino alle orecchie dell’Allamano, che, tra il serio e il faceto, lo rimproverò: «Caro figliolo, sei sempre lo stesso: tutto cuore e niente testa».
Nel 1922 Vincenzo poté partire per il Kenya. Arrivato in vista di Mombasa, afferrò con ambo le mani il crocifisso che gli pendeva sul petto e benedisse tutta l’Africa; rimettendolo a posto, la mano sfiorò una tasca rigonfia. «L’Africa si converte con la croce, non col denaro» esclamò: estrasse il portafoglio e lo gettò in mare.
Destinato al Meru, svolse la sua attività in varie missioni: Mikinduri, Oringo, Ighembe, Egoji. Di soldi ne ebbe sempre pochi, ma suppliva con la vita spartana, inarrestabile operosità e fiducia sterminata nella Provvidenza. La sera, davanti al tabeacolo e alla Consolata, raccontava crucci e problemi: iniziava sospirando «ma!» e continuava ad alta voce finché non avesse vuotato il sacco. A volte, vinto dalla stanchezza, si accasciava sulla predella dell’altare e vi dormiva tutta la notte.
Pioggia o sole, distanze e asperità dell’ambiente, niente lo fermava nella brama di donarsi, dovunque ci fosse un dolore da condividere e sollevare. E poiché con i motori era una frana, termina i suoi viaggi col cavallo di s. Antonio, cioè facendo decine di chilometri a piedi, sfinito dalla canicola e spesso con la febbre.
Ma sapeva parlare una lingua comprensibile da tutti: quella dell’amore, bontà e comprensione. La sua parola, ricca di arguzia e comicità, gli conciliava stima e affetto e riusciva sempre ad attirare recalcitranti e impenitenti.
Gli africani si accorsero subito del suo cuore vulnerabile: a nessuno rifiutava mai un aiuto. Venivano anche gli «scrocconi». Pur leggendo loro in fronte le bugie, dopo un lungo tira e molla, tra borbottamenti in piemontese, padre Vincenzo metteva la mano in tasca e consegnava i pochi scellini che vi erano rimasti.
I confratelli dicevano che padre Dolza aveva le mani bucate. Ma con se stesso egli era spartano fino all’indigenza. «Per andare avanti – scriveva in una lettera del 1935 – ho venduto anche la mia macchina fotografica, i vestiti di lana e il fucile».
R ientrato in Italia per riposarsi e riprendersi in salute, nel 1935 partì per il vicariato di Gimma (Etiopia). Mentre imparava l’amarico, fece il cappellano dell’ospedale italiano di Addis Abeba. Sulla porta dell’ufficio aveva scritto: «Avanti! Sempre aperto!». Civili e militari, sani e malati, europei e africani, cristiani e «mangiapreti» lo definirono: «Figura magnifica di missionario».
Passato alla missione di Cengia, sulle rive del lago Margherita, padre Dolza riprese a lavorare senza risparmiarsi: in sei mesi furono costruiti la casa dei padri e cinque capannoni per ospitare collegiali, catecumeni e bambini dell’asilo. Qui lo colse lo scoppio della seconda guerra mondiale e la successiva ribellione degli indigeni. Rifugiatosi ad Addis Abeba, seguì i connazionali nel campo di concentramento di Mandera, fino al rimpatrio (1943). Ridotto a pelle e ossa, continuò a prendersi cura dei dolori altrui. Benché riuscisse sempre a nascondere la ricchezza del suo cuore sotto una coltre di facezie. Un giorno confessò senza avvedersene: «Mai ho dovuto asciugare tante e tante lacrime come nel campo di inteamento e sulla nave».
A Torino, sebbene malandato in salute, trovò un nuovo campo di lavoro tra i soldati dell’ospedale militare. Finita la guerra ritoò in comunità; ma un tumore alla vescica lo costrinse a sottoporsi a un intervento chirurgico nell’ospedale del Cottolengo. Visitato dai confratelli e dalle suore vincenzine che avevano condiviso con lui le fatiche missionarie nel Meru, seguitava a scherzare sul suo male e a far progetti per il futuro. Spesso però finiva dicendo: «Sono un povero crocifisso».
Moriva il 7 ottobre 1946.
NEL CUORE DEI POVERI
mons. Antonio Torasso (1914-1960)
«Non mi darò pace finché vedrò un infelice che piange, finché non vi sarà pace in tutta la regione, finché non vi sarà gioia in tutti i cuori». Con queste parole, pronunciate nella chiesa di Florencia nel primo incontro con la popolazione del vicariato del Caquetá (Colombia), mons. Antonio Torasso sintetizzò il suo programma missionario e la sua vita.
Zelante senza riserve, organizzatore intelligente e dinamico, era il più giovane vescovo di quei tempi. Aveva 38 anni. Era nato a Verolengo (Torino) nel 1914. Entrato tra i missionari della Consolata a 12 anni e ordinato sacerdote nel 1940, svolse varie attività in Italia fino al 1947, quando fu scelto come superiore del primo gruppo di missionari destinati al nuovo campo di lavoro affidato all’Istituto nella regione del Rio Maddalena in Colombia.
Fermatosi a Bogotá per meglio provvedere allo sviluppo dei centri del Rio Maddalena, a padre Torasso fu affidata anche la nuova parrocchia del rione Vergel, alla periferia della capitale. In breve tempo portò a termine la chiesa-santuario della Consolata e residenza dei padri; costruì le strutture necessarie per le prime suore della Consolata: casa, noviziato, collegio femminile e scuola professionale.
Bastarono cinque anni per farsi conoscere e apprezzare: nel 1952 padre Torasso fu nominato primo vescovo del vicariato di Florencia, che Propaganda fide aveva da poco creato e affidato ai missionari della Consolata.
Il vasto territorio (102.000 kmq), che comprendeva la regione del Caquetá e parte del Putumayo, era teatro di immigrazione disordinata, con una presenza dello stato quasi nulla. A cavallo, in canoa o a piedi monsignore cominciò subito a visitare il vicariato e continuò fino alla morte, per portare a tutti, missionari e popolazione, il conforto della sua parola e l’amore del suo cuore.
Senza guardare in faccia ai politicanti e ai loro partiti, si schierò dalla parte della gente, difendendone strenuamente i diritti, specie di coloro che non potevano far udire la loro voce: poveri, deboli, sofferenti, malati, abbandonati e indios. Questi, soprattutto, amò con speciale attenzione e fu da essi tanto stimato.
Fedele al motto scritto sul suo stemma episcopale, «sicut palma florebit» (fiorirà come palma), con la collaborazione dei missionari, suore e laici, mons. Torasso disseminò il vicariato di numerose opere di carattere religioso, educativo e sociale. Per offrire un punto di riferimento alle famiglie sparse lungo i fiumi e nella selva amazzonica, fece costruire numerose chiese in muratura, attorno alle quali fiorirono grandi centri abitati fino allora inesistenti.
In una regione dove i governanti si facevano vivi solo in occasione delle elezioni, mons. Torasso organizzò una formidabile rete di scuole primarie e secondarie, curandone l’amministrazione e la formazione degli insegnanti, radunandoli spesso per corsi di aggioamento; nei centri più popolati e strategici fece costruire grandi collegi maschili e femminili e istituti professionali; per la gente sperduta nella foresta organizzò scuole radiofoniche.
Non meno importanti furono le opere sociali fiorite per sua ispirazione, tra le quali il barrio «La Consolata» in Florencia, un intero rione di casette per un centinaio di famiglie indigenti; la tipografia «Allamano», con annessa scuola tipografica; un ospedale in Villa Fatima; 52 km di strada per congiungere i fiumi Orteguaza e Caquetá.
Non è esagerato affermare che lo sviluppo civile e sociale di tutto il Caquetá è opera dei missionari e del loro ispiratore e guida.
Dopo otto anni di infaticabile attività, qualcuno cominciò a mettere il bastone tra le ruote delle iniziative di mons. Torasso. Ne parla lui stesso in una lettera dell’aprile 1960. «Quanti nemici hanno cercato di dividere il nostro popolo! L’ultimo attacco fu sferrato dai comunisti, protestanti e libertini; con una propaganda subdola e calunniosa cercavano di imbrattare tutto: vita e intenzioni, azione e successi dei missionari. Una vera tempesta, presto placata dal sole di verità e giustizia».
Fu una dura prova per il vescovo missionario. Le sofferenze morali si aggiunsero a quelle causate dallo stato di salute. Sottoposto a esami clinici, gli fu scoperta una «leucemia all’ultimo stadio». Sentì tutta la gravità del momento. Alla ribellione della natura sensibile oppose la forza della sua fede: «Voglio ciò che vuole lui! – scriveva a un suo amico -. Mi sento bene, con Gesù, in Croce. Forse il Calvario durerà poco, forse vedrò presto la Madonna: i miei occhi si riempiono di lacrime di gioia».
«Vieni, Signore Gesù!» furono le sue ultime parole. E fu un placido incontro: il 22 ottobre 1960.
Sulla sua tomba, nella cattedrale di Florencia, la gente continua a portare fiori freschi, chiedendo di continuare nella sua promessa, poiché nella regione per cui ha dato la vita molti infelici piangono ancora e la pace fatica a farsi strada.
TUTTO PER I POVERI CRISTI
padre Eugenio Menegon (1912-1996)
«Gesù, Gesù!» esclamava quando ingranava la marcia sbagliata della Land Rover. La caricava di materiali, persone e animali da farla schiattare. Spesso rimaneva in panne. E continuava il viaggio a piedi, arrivando a destinazione distrutto dalla stanchezza, ma sempre allegro e gioviale come d’abitudine. Erano leggendarie le sue camminate lungo i sentirneri accidentati delle missioni di Cobué e Metangula, nell’estremo nord del Niassa, per raggiungere la gente dovunque si trovasse.
Padre Eugenio Menegon era fatto così: con i motori non aveva dimestichezza né misericordia; di fronte alle necessità della gente non aveva pietà neppure per se stesso. Un esercizio cominciato presto. Nel 1940, con in tasca la destinazione al Mozambico, fu chiamato sotto le armi come cappellano in vari ospedali militari. «Arrivano direttamente dal fronte feriti gravi e leggeri, tutti bisognosi di qualcosa: telegrammi da compilare, denaro da cambiare, lettere da scrivere, piccole spese da fare – scriveva ai superiori -. E devo fare tutto subito. In fatto di adattabilità tengo come principio d’essere napoletano con i napoletani, toscano coi toscani, piemontese coi piemontesi». E sognava di farsi africano con gli africani.
Finita la guerra, fu fermato in Italia per svolgere il compito di animatore missionario in varie case, finché nel 1949 poté partire per il Niassa (Mozambico). Aveva 37 anni. Era nato a Montebelluna (Treviso) nel 1912.
«Signore, dammi due vite; una non basta» ripeteva spesso a mo’ di cantilena. Avrebbe voluto fare mille cose allo stesso tempo; e si lamentava che gli altri non facessero altrettanto. Forte come un leone, tenace come una quercia, instancabile, i giovani missionari stentavano a tenergli il passo. Per lui non esistevano tempi e orari, quando qualcuno ricorreva a lui per chiedere aiuto o semplicemente per essere ascoltato. Il suo cuore era aperto a tutti, piccoli e grandi, bisognosi e imbroglioni, ubriachi e senza bussola. Donava senza risparmio. Per sé non riservava nulla.
Durante la lotta contro il potere coloniale, non esitò ad affrontare la polizia segreta portoghese per liberare dalla prigione varie persone sospettate di appoggiare la guerriglia. Neppure le pallottole dei ribelli riuscivano a intimorirlo, finché, in un agguato, fu ferito a una gamba, mentre si recava in visita ai suoi cristiani. All’ospedale ci fu una processione mai vista di visitatori.
Indipendenza del paese (1975) e rivoluzione marxista gli resero più difficile la vita: le opere della missione nazionalizzate; restrizione dei movimenti dei missionari e fame per tutta la popolazione del Niassa. Padre Eugenio non poteva rassegnarsi di fronte alle sofferenze della sua gente: racimolava dappertutto un po’ di sapone, sale, cibo, vestiario da distribuire ai più poveri. A Metangula i rivoluzionari lo sorpresero mentre dava a un poveraccio un pezzo di sapone: fu accusato di candongueiro (contrabbando) e condannato a domicilio coatto nella casa del vescovo a Lichinga; poi espulso dal Niassa (1979).
Toò in Italia per qualche settimana; poi eccolo di nuovo a Maputo, la capitale del Mozambico.
«Gesù, Gesù! Cosa ho mai visto! Non te lo dico!» diceva spesso. E cominciava a raccontare, sia perché il suo cuore non reggeva alle miserie incontrate, sia per chiedere aiuto. Non gli restava mai un soldo in tasca; ma tutti dovevano aiutarlo, perché potesse aiutare tutti.
A Maputo padre Eugenio cominciò una seconda vita a servizio dei poveri, ammalati e carcerati. Per raggiungerli più rapidamente, a 70 anni suonati, diede l’esame di patente per guidare il motorino. Ogni giorno, zaino da alpino sulle spalle, attraversava la caotica città e raggiungeva le sue mete.
Era proibita qualsiasi assistenza religiosa agli ammalati, tanto più ai carcerati. Ma quando poliziotti, vigili, dottori, membri del partito lo vedevano, non potevano fare altro che sorridere e lasciare passare quel vecchietto, diventato segno vivente della carità. Si fermava accanto a tutti, credenti o non credenti. Arrivava carico di ogni cosa, anche giornali e riviste, che elemosinava nelle case, ambasciate, negozi, «perché – diceva – non si sentissero abbandonati e tagliati fuori dalla vita».
Molti poveri venivano a casa per chiedere un aiuto. Di fronte al via vai di estranei nell’abitazione, qualche confratello borbottava. Un giorno il superiore sorprese nell’atrio della casa un povero in mutande che, sotto gli occhi innocenti del missionario, provava un vecchio paio di calzoni; e gli espresse il suo disappunto. «Padre, ma è Gesù!» disse candidamente padre Eugenio.
Se padre Menegon vedeva Gesù in tutti i poveri, questi vedevano il volto di Cristo in quello del missionario.
«I poveri danno fastidio – soleva dire -, ma non a chi ha un cuore misericordioso». Lui stesso era un uomo scomodo per tutti. Per le autorità civili, prima di tutto, che nel Niassa vedevano nel suo amore verso i poveri un atteggiamento «controrivoluzionario». Per i confratelli e per la chiesa in generale era coscienza critica: la sua carità senza calcoli e barriere metteva in discussione le loro «strategie e cammini di liberazione». Quando sentiva parlare di azione politica, educativa… il padre soffriva: «La carità troppo programmata non era più carità, perché fagocitava i più poveri» ripeteva.
Non pensiate, però che padre Eugenio fosse un rompiscatole. Era, invece, un uomo di grande compagnia. Divoratore di giornali e riviste, si interessava di tutto e sapeva parlare su qualsiasi argomento. Aveva un cuore di fanciullo, che si incantava e commuoveva per qualsiasi cosa, come gli capitava quando vedeva il tricolore sventolare davanti all’ambasciata italiana di Maputo. Amava la vita, con tutte le sue giornie e dolori. Bisognava vederlo seguire alla televisione le partite di calcio: a 80 anni sembrava un tifoso da curva nord.
«Che sbaglio ho fatto lasciare il Mozambico!» gli sfuggì una volta: era rientrato in Italia all’inizio del 1996, perché l’età e gli acciacchi non gli permettevano più di guidare il motorino e non voleva essere di peso ai confratelli. Nei pochi mesi di vita che gli restarono (morì il 2 ottobre 1996), continuò a stare vicino ai suoi poveri, con la preghiera. Passava lunghe ore davanti al tabeacolo, dimenticandosi dei pasti. Bisognava andarlo a chiamare. «Padre, è ora di mangiare!» gli disse una sera un confratello. «È quello che sto facendo», rispose seraficamente padre Eugenio.
Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti