Per i fratelli coadiutori l’Allamano nutriva speciale predilezione; riteneva il loro contributo all’«elevazione dell’ambiente» indispensabile nell’evangelizzazione. Anche per gli aspiranti al sacerdozio il lavoro manuale è sempre stato materia di formazione. Il motto benedettino: «Ora et labora» (prega e lavora) è stato e continua a essere una caratteristica dei missionari della Consolata, padri e fratelli.
CAPOSTIPITE
fratel Benedetto Falda (1882-1969)
«Non piangere! Se vuoi bene a tuo fratello, pensa a raggiungerlo in Africa e lavorare insieme con lui per la salvezza di quei popoli» disse l’Allamano a Benedetto Falda, mentre questi salutava il fratello Luigi in partenza per il Kenya.
«Ero lontano mille miglia da una simile idea – racconterà fratel Benedetto -. Meccanico di precisione, a rimorchio dei compagni di lavoro, in gran parte socialisti e sovversivi, nutrivo avversione per tutto ciò che sapeva di chiesa. Ero affezionato a mio fratello, ma la sua scelta mi sembrava nient’altro che una teatralità.
Dopo alcuni mesi, mi recai alla “Consolatina”, come veniva chiamata la prima sede dell’Istituto, per avere notizie di mio fratello. L’Allamano mi ricevette come un vecchio amico. Mi mostrò lettere e fotografie appena arrivate dal Kenya… Mi disse che c’era bisogno urgente di tecnici per impiantare una modea segheria. Si pensava di impiegare operai disposti a prestare la loro opera al servizio della missione dietro un equo compenso. Discutemmo del progetto per due ore. A un certo punto sbottai: “Senta, reverendo, io sono un meccanico. Se crede, sono pronto a partire. Potrei essere il tecnico che lei cerca. Però intenderei fare parte dell’Istituto e non andare in Africa come salariato”. Le parole mi bruciavano le labbra. Si erano dileguati nubi e preconcetti. Sembrava che un altro parlasse in me. Seguirono altri colloqui. Il 6 dicembre 1902 entravo alla Consolatina».
Aveva 20 anni: era nato a Torino il 6 giugno 1882.
Sei mesi dopo fratel Falda era in Kenya. Raggiunse Tuthu, per impiantare la segheria nella fitta e umida foresta dell’Aberdare. Era una situazione da pioniere: viaggi estenuanti a piedi, lavori senza fine, mezzi e materiali limitati, oltre all’assillo della lingua per capire e farsi capire dagli indigeni e vincere la loro diffidenza.
Dalla segheria uscirono un’infinità di materiale per costruire case per padri e suore, chiese e altre strutture dei centri di missione. Finché anche in Africa inglesi e tedeschi cominciarono a combattersi per il dominio coloniale. Fratel Benedetto seguì padri e suore negli ospedaletti militari per curare i «carriers» (portatori africani), arruolati in massa dagli inglesi e sottoposti a immani fatiche e spostamenti.
Finita la guerra, fratel Benedetto ricominciò a costruire un’altra segheria a Nyeri. Quella di Tuthu, requisita dal governo e venduta agli indiani, era un ammasso di capannoni. Per l’energia furono usati i pezzi ricavati e adattati di tre locomotive messe fuori uso dalla guerra. Il lavoro riprese a tutto vapore.
Nel 1921 fratel Benedetto si seppellì nuovamente nella foresta di Oringo, a nord-est del monte Kenya: impiantò una seconda segheria e cominciò a fornire legname per costruire case, scuole, cappelle, mobilio e le suppellettili necessarie al lavoro missionario nel Meru.
Terminata l’opera (1927) il fratello fu chiamato a dirigere il reparto di falegnameria annesso alla scuola centrale della missione di Nyeri. Efficienza e qualità dei lavori, molto ricercati dai coloni inglesi, attirarono l’attenzione dell’ispettore del Dipartimento dell’educazione, che divenne grande ammiratore e amico di Benedetto e gli ottenne un salario da istruttore.
La fama della scuola attirò anche giovani protestanti. Molti di essi vollero presto seguire anche le lezioni di catechismo che fratel Benedetto teneva ogni sera. Più tardi furono ricevuti nella chiesa e, tornati ai luoghi di origine, diventarono a loro volta missionari tra i propri paesani. Attraverso di loro fu possibile aprire missioni e scuole in zone rimaste per anni impenetrabili, come quelle di Tumutumu, Ngandu e Karatina.
I n mezzo alle più svariate e pressanti occupazioni, fratel Benedetto non dimenticò mai di essere missionario. Oltre a insegnare un mestiere con cui vivere dignitosamente, cercava di trasmettere a operai e studenti l’entusiasmo della sua fede, mediante il catechismo serale e, soprattutto, con la testimonianza della vita.
Nel 1940 ritoò in patria e gli fu affidata la formazione degli aspiranti fratelli. A lui e ai suoi allievi si deve, tra l’altro, l’allestimento di parte degli infissi usati nella ricostruzione della casa madre, distrutta dai bombardamenti del 1942, e della mobilia per arredare le stanze.
Col passare degli anni, il cuore dell’anziano fratello cominciò a dare segni di cedimento. Chiamato nella casa madre (1954), trovò lavoro nell’ufficio stampa, aggioando lo schedario degli abbonati a Missioni Consolata, felice di essere ancora utile. Sempre attivo e vegeto, continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1969.
Ma la sua figura è ancora viva. Pioniere eroico e leggendario, Benedetto Falda è il capostipite di una lunga schiera di missionari fratelli che hanno contribuito a forgiare generazioni di uomini e cristiani, con naturalezza e dedizione, con l’operosità del cuore e delle mani.
IL ROSARIO
DEL GAUCHO
padre Domenico Viola (1906-1990)
Era nato nel 1906 a Buchardo, una sperduta fattoria nella pampa argentina, dove il prete arrivava due volte all’anno. Quando la famiglia Viola toò in Italia (1921), Domenico fu mandato a studiare nel seminario di Giaveno: a 15 anni, aveva fatto la prima (e unica) comunione e andato a messa tre volte. Buono e spassoso, un palmo più alto dei compagni, insegnava loro i segreti del gaucho: sapeva prendere al laccio il piede di un ragazzo in corsa a 15 metri di distanza.
Cominciò a divorare il vangelo e riviste missionarie. Nel 1925 entrò fra i missionari della Consolata; nel ’32 era prete e missionario in Etiopia.
La guerra italo-abissina, costrinse padre Domenico a rifugiarsi in Somalia. Toò in Etiopia con le truppe di occupazione (1936) e si stabilì a Guder. In quattro anni trasformò la missione: costruì la chiesa e organizzò la Scuola agraria. Visitava i villaggi con zelo instancabile. Gli sembrava quasi di essere nella pampa, con la differenza che il territorio era più accidentato, i viaggi interminabili e il mulo più scomodo del cavallo. Poi la guerra mondiale fermò mani e piedi del missionario, costretto a rimpatriare (1943).
In Italia padre Domenico fu incaricato di dirigere due fattorie dell’Istituto; passò alla formazione dei fratelli; nel 1946 fu nominato amministratore regionale.
Le case dell’Istituto avevano bisogno di tutto, sia per lo sviluppo che per mantenere i seminaristi che le affollavano. Padre Viola si trasformò in agricoltore e camionista, pur di provvedere il necessario a tante bocche da sfamare. In tuta da facchino, caricava e scaricava dagli automezzi viveri e materiali vari; nei viaggi le dita sgranavano rosari.
Destinato all’Argentina (1959), paese di cui aveva conservato la nazionalità, padre Domenico raggiunse Pirané, sperduta parrocchia nell’immensa regione del Chaco. Aveva 53 anni. Dal volante del camion passò al manubrio della bicicletta, con cui raggiungeva le comunità più sperdute. Spesso veniva sorpreso dalla pioggia; ed erano guai: il fango bloccava le ruote della bici, che bisognava trascinare come una slitta.
Padre Viola sfoderò subito le sue doti di muratore, geometra e architetto, insieme al gusto per le cose belle, fatte bene e a buon mercato. E le inculcò nella gente del paese e delle comunità rurali, con le parole e con l’esempio. Era convinto che il progresso materiale è il piedistallo di quello spirituale. Ancora oggi Pirané è costellata di edifici pubblici e case private che si assomigliano come gocce d’acqua per lo stile dei muri, travature e lesene bianche e verdi, simili a quello della chiesa parrocchiale e di varie cappelle rurali.
Le mani callose alternavano cazzuola e rosario. Ma anche sul lavoro cuore e mente continuavano a sgranare «ave marie». Negli ultimi anni di vita dovette mettere da parte la cazzuola: diventò una preghiera vivente. Un giorno, in una delle rare confidenze, disse di aver recitato oltre cento rosari: alcuni interi, altri mentalmente. Aveva trasformato tale devozione mariana in contemplazione.
Era da tutti venerato come un santo, sia per l’esempio di preghiera e laboriosità, che per il suo cuore umile e generoso. Morì a Buenos Aires, il 16 febbraio 1990. Stava per essere interrato nel cimitero della capitale, quando la gente di Pirané lo reclamò con forza. Durante il funerale, il vescovo di Formosa disse senza esitazione: «Padre Domenico è un santo; un grande santo. Deve essere sepolto nella sua chiesa. Sono sicuro che la gente non lo lascerà in pace: dovrà ancora intercedere per noi».
IL SOGNO
CONTINUA
fratel Ugo Versino (1918, vivente)
A 82 anni (è nato nel 1918 a Coazze, Torino) fratel Ugo Versino sogna ancora l’Africa come da bambino. Suo padre aveva conosciuto il cardinal Massaia in Etiopia e parlava spesso delle meraviglie compiute dal grande missionario. Ugo ne era rimasto affascinato. Conseguito il diploma nell’istituto tecnico salesiano (1936), a 18 anni, entrò tra i missionari della Consolata.
Tre anni dopo emise la professione religiosa: sarebbe voluto partire subito per l’Africa; solo alla fine della guerra poté imbarcarsi e raggiungere il Mozambico.
Spese cinque anni in varie missioni del Niassa, finché nel 1951 fu chiamato a Massangulo. Insieme ai fratelli Bartolomeo Peretti, Lorenzo Baroffio, Giuseppe Benedetto, Ugo organizzò un vero istituto tecnico professionale, da cui uscirono centinaia di falegnami, ebanisti, muratori, carpentieri, meccanici, calzolai, conciatori, sarti, agricoltori… e soprattutto bravi cristiani. Ne ricorda ancora i nomi; può raccontae vita e miracoli, soprattutto le persecuzioni che subirono per restare fedeli ai valori cristiani imparati dalla sua scuola e dal suo esempio.
Massangulo brulicava di quasi mille alunni; metà dei quali collegiali, quando venne la rivoluzione marxista, che nazionalizzò tutte le opere e proprietà della missione e proibì ogni manifestazione religiosa. Dapprima tollerati, i padri furono definitivamente allontanati. Fratel Ugo riuscì a restare più a lungo. «Ero venuto in Africa per stare con gli africani – racconta -; decisi di andarmene solo se mi avessero cacciato».
Fu sottoposto a inaudite umiliazioni. Per aver venduto le sue galline, prima che fossero anch’esse «nazionalizzate», fu accusato di boicottare la rivoluzione e il progresso del popolo: in pubblico processo fu condannato a sei mesi di reclusione in un campo di rieducazione socialista. Un amico lo salvò dal lavaggio del cervello.
Gli fu tolta ogni responsabilità diretta nella scuola, lasciandogli solo l’insegnamento del disegno. Faceva vita comune con i ragazzi: sveglia alle quattro del mattino; lavoro comunitario nell’orto o nella manutenzione della scuola; pulire i cessi dei ragazzi. «Fino ad oggi – dicevano i caporioni agli alunni – voi avete servito i colonialisti; è ora che anche costui impari cosa significhi servire».
La sera doveva sorbirsi, insieme ai ragazzi e insegnanti, interminabili lezioni di socialismo: ne sentiva di tutti i colori, specialmente contro i missionari. A volte, quando stavano per spararle più grosse, lo esoneravano dal resto della lezione: «Ora il colonialista può andare».
Più delle umiliazioni personali, era la distruzione sistematica della coscienza degli alunni che faceva soffrire fratel Ugo. Molti ragazzi erano confusi e gli domandavano perché ce l’avessero tanto contro la chiesa e i missionari. Rispondere apertamente era rischioso. Ma fu trovata la soluzione: mentre un ragazzo era a colloquio col fratello, altri stavano di guardia e, appena si avvicinava uno spione, dava l’allarme. Per cinque anni fratel Ugo resistette in quell’inferno, continuando a illuminare la mente dei giovani sulle falsità del marxismo e aiutarli a restare fermi nella loro fede.
Ma un giorno ricevette l’ordine di andarsene da Massangulo, con questa motivazione: «Indesiderato religioso». Era l’anno 1979. Come religioso, silenzioso, laborioso e discreto, fratel Ugo era una rovina per la propaganda rivoluzionaria.
Dopo un breve periodo di riposo in Italia, toò nuovamente fra i suoi mozambicani. Raggiunse Lichinga e riprese il solito lavoro di formazione tecnica e cristiana dei giovani. In alcuni locali messi a disposizione dalla Caritas diocesana, con macchinari racimolati facendo appello ad amici italiani, fratel Ugo riaprì una piccola scuola professionale per una trentina di giovani.
Scoppiata finalmente la pace (1992), il ministro dell’istruzione del Niassa gli propose di riaprire la scuola professionale di Massangulo. Declinò l’invito per motivi di salute. Era vero: il cuore non avrebbe retto al vedere lo scempio operato dai rivoluzionari.
Di salute, infatti, ne aveva da vendere ai più giovani di lui. Ogni giorno percorreva più volte i tre chilometri di strada che separano la missione dalla scuola, e sempre in bicicletta. Una volta una guardia municipale voleva multarlo per «eccesso di velocità».
A 82 anni suonati, fratel Ugo si è arreso alle conseguenze del tempo che scorre inesorabile per tutti. Dalla casa di riposo di Alpignano (TO) continua a sognare l’Africa, come da bambino.
MANI PER LA VITA
padre Oscar Goapper (1951-1999)
«Le nostre lacrime dicono ciò che sentiamo, perché noi non abbiamo parole per dirti grazie» diceva la gente di Neisu (Repubblica democratica del Congo) il giorno del funerale di padre Oscar Goapper. Aveva 48 anni. Era nato nel 1951 a Venado Tuerto (Argentina).
Entrato tra i missionari della Consolata, venne in Italia per il noviziato e i corsi di teologia. Ordinato sacerdote nel 1976, toò in patria per dirigere il seminario di Buenos Aires. Al tempo stesso frequentò un corso da infermiere, in attesa di partire per le missioni.
Nel 1982 raggiunse lo Zaire (oggi R. d. Congo) e si buttò senza esitazioni nel lavoro apostolico e pastorale tra i mangbetu della nascente missione di Neisu.
Il primo natale, una bambina gli morì tra le braccia per mancanza di assistenza medica: per la prima volta gli venne l’idea di diventare medico. Cominciò a frequentare un medico-chirurgo di Isiro, da cui apprese i rudimenti della medicina e i segreti delle malattie tropicali. Il piccolo dispensario della missione, sotto la sua guida, iniziò a funzionare e ad ampliarsi.
Nel 1985 chiese ufficialmente di studiare medicina. Superate le iniziali titubanze dei superiori, padre Oscar si iscrisse all’Università di Milano dove, ogni tanto, arrivava per dare alcuni esami. A Neisu, intanto, costruiva un piccolo ospedale e, con pochi mezzi e tanto coraggio, curava la gente come e più di un esperto professionista.
Seguirono anni stracolmi di lavoro, pieni di difficoltà, ma anche di tante soddisfazioni. «L’ospedale è sempre pieno – scriveva nel 1991 -. Crescono gli ammalati di Aids: i protestanti dicono che sono mie invenzioni; anche la gente dice che sono bugie e noi gridiamo nel deserto! La notte di natale, dopo la messa di mezzanotte, ho fatto un cesareo a una poverina, portata a spalle dal fratello catechista per più di 40 km. È tornata a casa sana e salva. Gesti che la gente non dimentica: è la propaganda giusta che il vangelo fa di se stesso».
D al 1992 al ‘94, padre Oscar si fermò a Milano per terminare gli studi: conseguì il dottorato (110 e lode) in medicina e chirurgia. Tornato a Neisu, cominciò il dramma della guerra civile: nel natale del 1997, missione e ospedale furono saccheggiati; pochi mesi dopo, arrivarono i soldati sbandati dell’esercito zairese: padri, suore e volontari dovettero rifugiarsi nella foresta.
Invitato a Roma in un convegno sulle malattie infettive in Africa, descrisse le sue «Esperienze nella selezione e uso di piante medicinali» e poté divulgare i progressi fatti nella cura della malaria mediante l’Artemisia annua; annunciò la scoperta di un’erba che migliora notevolmente la qualità di vita dei malati terminali di Aids. «L’abbiamo chiamata Spes Neisu (speranza di Neisu). Recenti pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato che è la stessa pianta utilizzata dagli scimpanzé per curarsi da schistosomiasi, paludismo, ferite infette».
In quell’occasione parlò a lungo dei suoi progetti: ampliamento dell’ospedale, produzione di siero per fleboclisi, sviluppo dell’omeopatia, miglioramento delle condizioni sanitarie nei villaggi, programmi di vaccinazione e nutrizione per bambini poveri, formazione di personale medico e tecnico, costruzione di una strada nella foresta, pista di atterraggio…
Mille progetti, alcuni già realizzati e altri appena iniziati, animavano il cuore del giovane missionario, sempre teso a «dare la vita per la sua gente». E fu preso in parola: all’inizio sembrava una semplice influenza e continua a fare interventi chirurgici, fino a 24 ore dalla morte. Donò l’ultimo respiro il 18 maggio 1999.
Mupe Oskari, così lo chiama la gente, è sepolto davanti alla sua casa, l’ospedale, secondo il costume mangbetu, che lo considerano uno di loro.
Benedetto Bellesi e Giacomo Mazzotti