Terra di contrasti stridenti: «favelas»
e grattacieli, dittature e democrazie, denunce
e omertà, guerra e pace, bianchi e neri,
indios e… Però l’America Latina
è anche un laboratorio missionario straordinario: alimenta grandi speranze,
specie dopo il Concilio ecumenico Vaticano II.
Accoglie i missionari della Consolata
e… ricambia il favore donando i propri figli
ai continenti più bisognosi.
I missionari della Consolata annunciano il vangelo anche in America Latina. Al loro arrivo, dopo la seconda guerra mondiale, il continente non presenta i tratti tipici della missione ad gentes: infatti, sino dalle caravelle della colonizzazione spagnola e portoghese, i paesi latinoamericani hanno raggiunto lo status di «chiesa autonoma» con vescovi, sacerdoti e istituzioni religiose locali.
I missionari delle «nuove caravelle» non trovano situazioni simili a quelle incontrate, per esempio, fra gli oromo dell’Etiopia o i wahehe del Tanzania. Pertanto lo scopo principale nel Nuovo Mondo non è la prima evangelizzazione, bensì di inserirsi nelle strutture ecclesiali esistenti; intanto formano missionari locali ad gentes e acquisiscono aiuti per le regioni più bisognose.
Tuttavia la «Consolata» in America Latina raggiunge anche territori eminentemente missionari: in Brasile gli indios macuxí e yanomami, in Argentina gli aborigeni tobas, in Colombia quelli nasa, in Ecuador i quichua, in Venezuela i guajiros e yequana. È la scelta dei più poveri tra i poveri, mentre soffia il vento di rinnovamento del Concilio ecumenico Vaticano II.
Inoltre la «Consolata» entra nelle baraccopoli delle metropoli o nelle regioni degli afroamericani, discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. I problemi sono drammatici.
L’articolo si sofferma su alcune situazioni missionarie in Brasile, Argentina e Colombia.
Brasile:
La scelta degli indios
È la prima nazione dell’America Latina a ricevere i missionari della Consolata nel 1937. Il paese appare loro (e ai successori) una soluzione transitoria, in attesa di trovare qualche altra missione sullo stile africano. L’Istituto è qui perché ha bisogno di vocazioni e mezzi per sostenere altrove la sua vasta e complessa attività. Nessuno crede che l’ultima sponda della missione sia l’abbastanza prospero sud del Brasile, fra le piantagioni di caffè. Tuttavia dagli stati di Paraná, Santa Catarina, Rio Grande do Sul, grazie all’animazione missionaria, sono sorti annunciatori del vangelo brasiliani, oggi in azione in diversi continenti…
L’interrogativo è: esiste nel paese maior do mundo un territorio che richiami le missioni d’Africa? Ed ecco la regione di Roraima, altamente di missione. I padri della Consolata vi mettono piede nel 1948.
Il territorio, da tempi immemorabili patria degli indios, agli inizi degli anni ’50 si presenta quasi come esclusiva proprietà dei bianchi: questi occupano vaste fattorie, dove gli indigeni sono costretti a vivere come residenti abusivi e in stato di servitù. È una situazione di ingiustizia insostenibile, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II.
I missionari, sorretti dalla scelta evangelica dei poveri, fanno causa comune con gli indios macuxí, wapichana, ingarikó e taurepang. E, per la prima volta dalla conquista portoghese del 1500, l’indio al cospetto del bianco incomincia a non chinare più la testa sottomessa, ma a fronte alta risponde «nossignore!».
Inizia una grande battaglia per la salvaguardia dell’identità culturale indigena e la riappropriazione delle terre contro il potere anche politico locale. È in tale contesto che viene lanciata la Campagna mondiale «Una mucca per l’indio», sottoscritta pure da tanti lettori di Missioni Consolata.
L’11 dicembre 1998 il Ministero della giustizia del Brasile decreta la demarcazione dell’area indigena Raposa-Serra do Sol, ma non arresta i latifondisti bianchi: costoro, forti dell’appoggio di alcuni politici di Roraima, sono disposti a difendere le loro pretese sul territorio anche con la violenza.
I missionari «scelgono» poi i yanomami, che vivono allo stato tradizionale (fermi a circa 12 mila anni fa) e rischiano il genocidio-etnocidio. Figli della foresta amazzonica, «il polmone del mondo», gli indios sono esposti alle malattie dei bianchi che ne invadono il territorio per cercare oro e legname prezioso. Tra lotte incessanti nasce il «parco dei yanomami». Il governo brasiliano riconosce agli indios il diritto alla proprietà e a vivere sulla propria terra. Ma la vittoria è tutt’altro che certa.
Non c’è promozione umana senza scuola. Ma l’alfabetizzazione dei yanomami è problematica. Una missionaria laica e tre padri, nel 1990, iniziano nel Catrimani una educazione scolastica speciale. Cosciente che la scuola nelle aree indigene è stata uno strumento di dominazione e distruzione culturale, l’équipe opta per un insegnamento slegato dal sistema statale e incarnato nella cultura locale. È un’alfabetizzazione etnologica, bilingue (yanomami e portoghese), biculturale, globale.
E l’evangelizzazione? «I yanomami – scrivono Guglielmo Damioli e Giovanni Saffirio – sono ancora un popolo neolitico (in gran parte illetterato) di cacciatori, raccoglitori e orticoltori, la cui storia evolve verso “la pienezza dei tempi” (plenitudo temporum): condizione necessaria per la scoperta e comprensione del messaggio cristiano».
Il missionario «sia coerente con le proprie convinzioni religiose – afferma l’enciclica Redemptoris missio, 56 – e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza chiusure e dissimulazioni, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno».
Ebbene i missionari della Consolata evitano ogni manipolazione della vita yanomami. Fin dal loro primo contatto, adottano semplici regole di convivenza, ma suggeriscono mutamenti culturali con la pratica palese e specifica di valori cristiani: il perdono, la valorizzazione di tutte le forme di vita, la generosità con tutti, le cure mediche tradizionali e allopatiche, l’istruzione, senza chiedere compensi o adesione alla fede cristiana (1).
(1) L’attenzione agli indios dei missionari si esprime anche attraverso importanti pubblicazioni:
– Silvano Sabatini, Tra gli indios dell’Apiaù, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1967; Massacre, Cimi, São Paulo 1998;
– Guglielmo Damioli – Giovanni Saffirio, Yanomami, Il Capitello, Torino 1996;
– John Saffirio, Ideal and kinship terminology among the Yanomama Indians of the Catrimani river (Brazil), University of Pittsburg, 1985 (tesi di laurea).
Argentina:
«descamisados»
e «desaparecidos»
Il generale Juan Perón è progressista, radicale, anticlericale. Grazie al favore dei descamisados (scamiciati), nel 1946 vince le elezioni in Argentina. È una vittoria contro la borghesia e inaugura una dittatura a larga base popolare, che governa il paese secondo la dottrina del justicialismo. Ma Perón, a modo suo, protegge i lavoratori attraverso il populismo e il dirigismo economico. Quanto basta per attirargli le simpatie delle masse, alienandole dalla chiesa.
Non è facile per i missionari della Consolata operare in Argentina dal 1947 (anno del loro arrivo) durante il peronismo. Un cattolicesimo nazionalista contende il potere a stato e chiesa, mentre i capi politici e religiosi si fronteggiano, con pari acredine, per accaparrarsi il favore del popolo e trascinarlo dalla loro parte.
Però è lo stesso Perón che sollecita i missionari a recarsi nella disagiata regione del Chaco… per risolvere il problema degli indios tobas. L’iniziativa è meritevole. D’altra parte che cosa aspettarsi da un presidente, se non di riparare le ingiustizie accumulate in secoli di colonialismo spagnolo? Ma si rivela propaganda politica.
Infatti, dalla seconda metà del XIX secolo, con la colonizzazione intea e l’impulso all’immigrazione, migliaia e migliaia di aborigeni sono ridotti a poche centinaia, intruppati in riserve (colonias) per coltivare cotone, allevare bestiame o disboscare la foresta. Inoltre, a causa dei loro continui spostamenti, è impossibile per i missionari instaurare un dialogo e sviluppare progetti di promozione umana.
Passato il fugace e illusorio idillio tra peronismo e chiesa argentina, le due società si fronteggiano in campo aperto mettendo in atto le rispettive forze: Peròn i suoi giovani, la sua milizia, le manifestazioni di piazza, le leggi contro la libertà religiosa nelle scuole… la chiesa incoraggiando l’Azione Cattolica, il clero e i fedeli a resistere con coraggio a violenze, arresti e soprusi.
È un braccio di ferro tra due diverse visioni del mondo, destinato a risolversi nel 1955 in un golpe militare, appoggiato da larghi settori del clero e dell’episcopato, da notabili e militanti cattolici.
I missionari della Consolata vivono quei giorni di tensione accanto alle loro comunità parrocchiali. C’è anche chi paga di persona: padre Carlo Motta, nel natale 1955, viene malmenato da un gruppo di scalmanati; padre Ruggero Angheben finisce momentaneamente in carcere; i padri Guido Guerra e Armando Cecconi sono tenuti sotto sorveglianza. Tutti devono ricordare di essere stranieri in terra straniera.
La dottrina sociale della chiesa universale a favore dei diritti umani, scaturita dal Concilio Vaticano II e dalle Conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam), per ovvie ragioni non ha ripercussioni immediate nell’ambiente ecclesiale locale. Tuttavia, al tramonto delle dittature, trova terreno fertile nei Sacerdotes del Tercer Mundo, nella nuova Riflessione teologica sullo sviluppo e nelle Madri di Plaza de Mayo, che recriminano per i «soppressi» dalla dittatura (desaparecidos).
Sul versante politico, la fine della demagogia inaugura un corso che si dibatte tra giunte (risolute a frenare ogni infiltrazione comunista) e governi che tentano di instaurare la democrazia. Il paese è irrequieto, e anche la chiesa lo è, specialmente in alcune sue frange peroniste e di sinistra.
Morto Perón nel 1974, gli succede la moglie Isabelita, travolta nel marzo 1976 dal golpe militare di Jorge Rafael Videla, che ripristina la pena di morte contro i terroristi.
In tale contesto si inserisce l’arresto di padre Gianfranco Testa e la sua drammatica detenzione nei penitenziari del regime (vedi l’inserto «56 mesi nelle galere…»).
Però la missione in Argentina resiste, nella fedeltà alla chiesa locale e all’Istituto, anche se in condizioni sfavorevoli:
1/ un elemento perverso frena la popolazione e, di conseguenza, anche i missionari: è il sistema poliziesco che governa per lunghi anni con la paura, la censura, i desaparecidos, le esecuzioni sommarie, il carcere duro, i controlli capillari, la guerra per le isole Malvinas;
2/ la mancanza di informazione fa erroneamente credere che il paese, già meta di numerosi emigrati italiani in cerca di benessere, sia prospero; ne fanno le spese anche i missionari.
A partire dal 1984, con il faticoso ritorno alla democrazia, i missionari operano in condizioni sociali più favorevoli. Uno dei loro fiori all’occhiello è l’azione fra gli indios tobas.
Colombia: nel vortice
della violenza
«Violencia». È, purtroppo, una delle prime realtà che i missionari della Consolata scoprono giungendo in Colombia nel 1947.
Nelle elezioni presidenziali dell’anno precedente, il leader demagogo Jorge Gaitán viene sconfitto e, nel 1948, addirittura ucciso. Esplode la guerra civile tra liberali e conservatori, passata alla storia appunto come «la violencia».
Il fenomeno divampa per un decennio (1948-57): causa 300 mila morti, l’esodo di 2 milioni di contadini disperati verso le città, con il conseguente sovraffollamento e povertà di periferie (serbatorni dell’attuale criminalità); scatena guerriglie; traumatizza la coscienza del popolo; consolida la mentalità del conflitto come meccanismo di funzionamento della società.
Siamo negli anni ’50. Ma sembra la fotocopia della Colombia odiea, il paese più violento del mondo, che conta 25-30 mila morti ammazzati all’anno…
Però la Colombia vanta pure una lunga tradizione cristiana, dai connotati spagnoleschi, dal culto popolare e dall’arte ridondante. I missionari sono qui «per dare una mano», perché la comunità ecclesiale si sta espandendo senza un numero sufficiente di sacerdoti.
Che la chiesa abbia bisogno di aiuto è lampante. Secondo José Luis Sea, missionario della Consolata colombiano, nel 1964 sulle spalle di ogni sacerdote di campagna grava la responsabilità di circa 8 mila persone: e, fatto ancora più sintomatico, il 51 per cento dei preti che lavorano in missione sono stranieri. Grave è pure la situazione nelle aree urbane.
L’incontro tra i missionari e le parrocchie urbane e rurali comporta un reciproco vantaggio: l’Istituto attinge alle fonti di una pastorale creativa e popolare; la chiesa locale si avvantaggia di una mens missionaria aperta a tutte le culture.
Negli anni ’80 alcuni missionari si avventurano verso regioni più complesse, di «frontiera». Spiccano alcuni padri che piantano le tende tra i campesinos della Cundinamarca, a 40 chilometri da Bogotà, facendo di Tocaima il centro d’interesse: si dedicano ad un progetto basato sull’insegnamento sociale della chiesa: è la Promociòn integral de comunidades rurales. L’obiettivo è di creare in ogni centro rurale le condizioni per una promozione integrale dei contadini, diventati vittime del latifondo e delle monocolture per l’esportazione…
Dopo 15 anni di lavoro nel popoloso quartiere di Blaz de Lezo, nella diocesi di Cartagena de las Indias, i missionari si concentrano sul mondo indigeno e afro della Bahia, lungo la costa atlantica, ricettacolo di popolazioni meticce, forgiate nell’altofoo della schiavitù e messe alla prova da una povertà endemica. Così, dal piccolo centro di Pasacaballos, nel 1983 parte la missione tra i morenos: una missione da inventare e un popolo da scoprire. Nel 1988 sorgono altre due missioni: El Cabrero e Marialabaja (1)…
Quando lo stato non crea posti di lavoro, la popolazione è costretta ad arrangiarsi, spesso emigrando. Allora in Colombia si assiste ad una emigrazione intea che vede migliaia di persone riversarsi verso il Caquetà, nell’Amazzonia. Oltre che dalla mancanza di lavoro, il fenomeno è originato dal bisogno di fuggire dalla guerriglia e dai paramilitari. Dalla violencia, insomma.
Un milione e mezzo di ettari di alberi sono presto abbattuti (siamo in Amazzonia!) per coltivare coca, che nell’arco di 24 ore diventa cocaina: e alimenta il narcotraffico mondiale, procura facile ricchezza ai campesinos, ma li espone alle frequenti incursioni della guerriglia e alle spietate repressioni delle forze governative. Il numero delle vittime non si conta. Però nessuna proposta sociale, capace di dare alla gente una nuova prospettiva di sopravvivenza – denuncia padre Giacinto Franzoi – accompagna l’intervento militare.
La convinzione che, con i dispositivi militari di grandi proporzioni, si possa superare il problema «coca» una volta per sempre è illusoria. A questo quadro, già sconfortante, padre Giuseppe Svanera aggiunge gli effetti degradanti che il commercio della «polvere bianca» produce nelle popolazioni: perdita dei valori umani, caduta del senso religioso, sfiducia, malasanità, corruzione, prostituzione, analfabetismo. Solo l’8% dei ragazzi termina il ciclo delle elementari, e il 60% della popolazione in età scolare non varcherà mai la porta di una scuola.
Dopo aver toccato il fondo, ci si accorge che ogni illusione è crollata e che è urgente trovare una via di uscita: dai gruppi pastorali allargati delle missioni di Solano e Remolino, nel vicariato di san Vicente-Puerto Leguízamo, affiora la volontà di sostituire la coltivazione della coca con altre colture, meno vantaggiose economicamente, ma più sicure socialmente: caucciù, cacao. Il progetto è affascinante, ma non facile.
Nel 1995 il vicariato lancia pure una «pastorale sociale». Il problema di fondo è quello di battere la «narcoscienza», cioè non cadere nella trappola del soldo facile e immediato che la coca assicura. Ai cocaleros (che sono tali perché senza alternative di lavoro), la chiesa propone di convivere con la «loro» Amazzonia, valorizzandola: utilizzare la fauna terrestre e acquatica, la flora fruttifera e medicinale. E commercializzare il tutto. Un’impresa da giganti.
Afferma il cardinale Ersilio Tonini: «La Campagna “Non di sola coca” dei missionari della Consolata e i progetti che essa presenta sembrano piccola cosa di fronte all’immensità del problema; ma il loro significato è molto vasto, più vasto della Colombia e dell’America Latina».
N on si può concludere questo rapido (ed incompleto) excursus sulla presenza della «Consolata» in America Latina senza, almeno, ricordare i suoi missionari locali. Sono 151, fra cui quattro vescovi: José L. Sea, Luis A. Castro e Francisco J. Munera, della Colombia, nonché Walmir A. Valle, del Brasile.
Alcuni padri, fratelli e suore della Consolata, divenendo missionari al di là delle loro frontiere nazionali, hanno saputo «dare dalla loro povertà», ricambiando così il «favore» ricevuto dai missionari europei delle prime caravelle.
Ad esempio: i brasiliani Elio Rama e Luiz Emer, rispettivamente in Mozambico e Corea del Sud; Alonso Alvares nella repubblica democratica del Congo e Armando Olaya in Costa d’Avorio, entrambi colombiani. Senza scordare padre Oscar Goapper, argentino, schiantato dalla fatica nel suo ospedale di Neisu nel Congo in guerra.
(1) Padre Vincenzo Pellegrino ha approfondito i problemi degli afro-colombiani della costa atlantica nel volume La campana di Balbino, Emi, Bologna 1999.
Francesco Beardi