CONGO – L’amore grande di Anghele
Entusiasta e irruente come sempre,
padre Antonello è ritornato a Neisu,
la missione dove aveva lavorato 15 anni fa,
per rimettersi al servizio di un paese
spaccato in due e sommerso da problemi infiniti.
Annunciando l’amore di un Dio («Anghele»)
che ci salva con la croce
e vuole una vita migliore per tutti.
Dopo 15 anni, sono tornato in Congo con un sentimento di grande gioia, anche se offuscata dal fatto che non avrei più incontrato padre Oscar (vedi inserto), con il quale avevamo iniziato la missione di Neisu in piena foresta…
Ricominciare non è stato facile.
UNA povertà…
troppo visibile
Avevo lasciato lo Zaire. Mi ritrovo nel Congo (repubblica democratica), in una zona staccata dal resto del paese e occupata dai soldati dell’Uganda. Vigono ancora le vecchie cariche politiche, ma mancano i fondi. L’Uganda, occupando queste terre, porta via diamanti, oro, legname, senza investire. Ne consegue che l’intera classe politica (dai governatori ai commissari zonali), polizia, insegnanti, infermieri… non sono pagati. Gli unici che hanno qualcosa sono i missionari e pochi commercianti.
Chi ne patisce le conseguenze è, naturalmente, il popolo, oppresso da multe fantomatiche, requisizioni arbitrarie, imprigionamenti senza processo. Per esempio: un lavoratore della missione di Neisu è stato imprigionato per un litigio in famiglia; oltre un mese di assenza, senza processo, perché nel frattempo doveva lavorare… per il capo!
Avevo lasciato uno Zaire che, comunque, tirava avanti, e ho ritrovato una repubblica solo di nome e allo sfascio.
Nella nostra brousse (60 mila abitanti), 15 anni fa, esistevano una ventina di piantagioni di caffè, due fabbriche per l’olio e una per il cotone. Chi gestiva le piantagioni si preoccupava poco della gente, però assicurava l’assistenza medica agli operai e un salario: non molto alto, ma garantiva un minimo di liquidità per acquistare un vestito, pagare le tasse scolastiche ai figli, curarsi in caso di malattia, ecc.
Dopo la stagione del caffè, venivano le arachidi e, in dicembre, il riso. L’economia funzionava, perché si commercializzavano i prodotti. Alludo, per esempio, alla produzione di riso, a Isiro: i contadini non solo ne avevano per il loro fabbisogno, ma potevano venderlo alla brasserie (fabbrica di birra). E la gente aveva qualche soldo.
Ora, di quelle 20 piantagioni non ne esiste più una. Abbiamo una cappella, che si chiama Noula Huilerie; ma bisognerà cambiarle il nome, perché dell’oleificio esistono solo i muri, giacché hanno rubato anche le lastre zincate.
Funzionava pure la ferrovia: molti sacchi di cemento, per la costruzione del nostro ospedale, sono arrivati in treno. Oggi è solo un triste ricordo.
Ho trovato una povertà estrema, e stento a capirla.
Un giorno scaricavamo la macchina con delle mercanzie. C’era un ragazzo a torso nudo (è raro qui vedere, pur nella povertà, gente che viaggia senza camicia, a meno che siano bambini). L’ho rimproverato. Lui mi ha detto: «Padre, io ho una sola camicia e la uso per la scuola; l’ho lavata e sta asciugando al sole!».
Alla missione non mancano i bambini. Ciò che più mi impressiona è che non cercano più soldi, ma lavoro: tutti ragazzini delle elementari alla ricerca di un po’ di denaro per pagare la scuola. Uno mi ha detto: «Sono stato cacciato, perché non ho pagato la tassa scolastica».
– Chiama papà o mamma e digli che il padre vuole conoscerli per sapere come stanno le cose!
– Papà e mamma sono morti di aids…
Il catechista di un villaggio ha nove figli, quattro suoi e cinque del fratello morto, e li mantiene tutti. Nonostante la pena, i bambini sono accolti da altre famiglie… solo che la situazione diventa sempre più drammatica. Allora i bambini disertano la scuola. Non è colpa loro, come non lo è dei genitori, che stentano a sopravvivere. Le mamme non ce la fanno più. Mancando in casa di un salario, devono arrangiarsi, magari inseguendo i mercatini per racimolare due soldi.
Eppoi basta che ci sia un lutto in casa e tutti i risparmi se ne vanno: perché si deve ospitare le famiglie che arrivano, comprare un lenzuolo per avvolgere il cadavere, costruire la bara per non far torto al morto… Ho ricevuto, da una signora non vedente della Brianza, un pacco di lenzuola, ma stanno andando tutte per i morti, perché bisogna rispettare le tradizioni.
Quando sono arrivato nel dicembre 1999, un dollaro veniva cambiato a 900 mila nouveaux zaires. Oggi ne occorrono 7 milioni! Invitare al risparmio è assurdo, perché non esistono banche.
Facciamo un’opera educativa, per coinvolgere la gente nella gestione delle scuole e dell’ospedale. Infatti la scuola funziona, perché i genitori degli allievi pagano gli insegnanti; pagano pure l’ospedale. Interviene anche la missione per i casi pietosi.
Però mi chiedo di che cosa la gente deve ancora farsi carico, quando è abbandonata dallo stato e abita in un paese ricchissimo senza godee assolutamente nulla.
L’ultimo stregone
Sotto l’aspetto religioso, mi ha favorevolmente impressionato la crescita del clero locale. Anche noi, a Neisu, lavoriamo con un missionario della Consolata congolese: un segno che i tempi stanno cambiando.
Un’altra novità: un tempo si battezzavano quasi tutti adulti; ora il catecumenato è seguito in maggioranza da bambini. L’evangelizzazione di massa è stata fatta; oggi si tratta di approfondire la fede, che in molti è abbastanza marcata.
Un grosso aiuto ci viene dal movimento carismatico, soprattutto a livello familiare: fare ordine nelle famiglie dei poligami e in quelle che hanno difficoltà per la dote matrimoniale. Ci è venuta un’idea: scrivere una lettera (con i protestanti) e proporre ai parenti di chi è sposato già da sette anni di «condonare» la dote, anche se non è stata pagata tutta, e permettere ai figli-nipoti di celebrare il matrimonio religioso.
L’anno santo è stato un forte momento di evangelizzazione. Convinti che il cuore del vangelo è la croce di Gesù Cristo, abbiamo visitato tutte le cappelle, portando il grande crocifisso della chiesa parrocchiale. Abbiamo annunciato in kimgbetu che il compendio della bibbia è la morte di Cristo e che Anghele (Dio) ci ha amati fino alla fine.
L’amore di Dio sono in tanti a conoscerlo, ma un Dio che ci ami fino a morire… Non è buono solo perché ci dà i frutti della foresta o i figli, o perché ci fa felici qualche giorno e poi ci castiga quando le cose vanno male. No, Dio è sempre buono perché è morto per noi!
E non mancano «le conversioni». Un giorno padre Richard è tornato dalla brousse con lo strumento di divinazione di uno stregone. Ha voluto convertirsi al vangelo e, per questo, ha rinunciato ai suoi «strumenti di lavoro», causando dei problemi al capovillaggio, che diceva: «Se costui si fa cristiano, non so più dove mandare la gente a risolvere i problemi, perché è l’ultimo stregone».
Era… potente, perché con la sua soroka (pietra magica) riusciva perfino a mandare i fulmini su chi voleva! Un vecchietto furbo. Eppure si è convertito, non perché vicino alla morte, ma perché davanti alla croce di Gesù ha intuito quanto grande è l’amore del Padre per gli uomini, per lui. È stato un grande segno per tutta la popolazione.
Però la nostra gente non ha il senso dell’eucaristia. Questo ci richiede un grande impegno: la missione non arriva al suo fine se non giunge all’eucaristia. L’eucaristia è il crinale, è l’amore di un Dio che vuole vivere con noi nella storia. Oltre a dispensari e scuole, vorremmo allora costruire chiese in muratura, nei grossi centri, per celebrare e distribuire l’eucaristia la domenica: è attorno ad essa che si consolideranno le comunità cristiane, legate dalla stessa fede e impegnate a cambiare in meglio la realtà.
Puntiamo anche sulle comunità di base, come mezzo di inculturazione del vangelo: pensare ai problemi locali, ma dal punto di vista cristiano. Ad esempio, la morte.
Quando un mangbetu muore, arrivano parenti e amici. Allora sorgono i problemi, perché – dicono – la morte è stata causata da uno della famiglia (anche se il decesso è avvenuto all’ospedale). Con padre Oscar, avevo scritto un libretto, Nella sofferenza ti ho cercato, per evangelizzare il dolore e la morte: un piccolo tentativo per condurre la cultura locale (che di fronte alla sofferenza si ribella in modo violento) alla fede in Gesù salvatore e alla speranza cristiana.
Un messaggio che, se compreso, può allargare il cuore alla speranza e spingere a lottare, senza stancarsi, per costruire un paese e una comunità dove trionfi finalmente la vita.
Il «cuore» Nella missione del «cuore»
padre Oscar Goapper, missionario e medico
Missione di Neisu. Vi si arriva attraverso una via sterrata di 30 chilometri, tra le palme e i bambù della fitta foresta. Tempo, un’ora e mezza di Land Rover, se non piove.
Neisu, in lingua mangbetu, significa «cuore». Un cuore che oggi batte soprattutto nell’ospedale. È sorto in una notte di natale senza stelle, allorché i padri Antonello Rossi e Oscar Goapper si sono visti morire fra le braccia una bambina. «Che evangelizzatori siamo – si sono chiesti i due missionari – se non compiamo le opere del vangelo? Gesù curava gli ammalati. E noi? Quanti bambini moriranno stanotte di malaria! E domani, dopodomani?».
L’ospedale è stato, soprattutto, il capolavoro del genio di padre Oscar in un crescendo irresistibile: pediatria, chirurgia, medicina generale; sala operatoria, farmacia, gabinetto dentistico, laboratorio di analisi, raggi X, orto con piante medicinali locali per produrre, ad esempio, l’artimisia contro la malaria. A Neisu il dottor Oscar ha effettuato la prima ecografia di tutto l’Alto Zaire. Oggi vi si compie anche l’osmosi inversa, ossia la distillazione dell’acqua per ottenere un liquido epirogeno per le flebo.
I mprovvisamente, il 18 maggio 1999, il cuore-tornado di padre Oscar si è schiantato. Troppo lavoro, troppa fatica, troppa tensione in un paese maledetto dalle guerre. Al funerale, i suoi pazienti sono corsi a migliaia: vecchi, donne e bambini sbucavano da ogni spiraglio della foresta, dopo aver inseguito sentirneri anche di 50 chilometri. La scena si è ripetuta, 40 giorni dopo, per la tradizionale matanga (fine del lutto).
Secondo il costume dei mangbetu, padre Oscar è stato sepolto in casa, cioè nel cortile dell’ospedale. Così, di fronte a quella tomba, i nonni racconteranno ai nipoti la storia di mupe Oscari: (padre Oscar): un missionario della Consolata argentino che nel 1994, a 43 anni, si è pure laureato a pieni voti in chirurgia e medicina a Milano, dopo aver fatto la spola tra Africa ed Europa.
G iungiamo a Neisu una domenica, all’alba. E ci imbattiamo subito in… Oscar, «nel cuore della missione del cuore». Il cortile dell’ospedale è deserto. Sulla tomba del missionario si staglia una croce in ferro. Dopo alcuni istanti di preghiera, scorgiamo una decina di persone a pochi metri di distanza, in silenzio.
Un anziano ci invita a seguirlo, per introdurci in tutte le stanze dell’ospedale, zeppe di ammalati: ovunque campeggia il ritratto del grand docteur. Da ultimo, apre la porta di uno studio. «Padre Oscar è ancora qui – afferma -. Questo è il suo microscopio, come lui l’ha lasciato. Ecco perché l’attuale dottor Norbert, congolese, non ha voluto prendere posto in questo ufficio. Però, per fronteggiare le esigenze, sarebbe necessario almeno un altro medico. Le docteur Oscar lavorava per quattro».
Su una parete l’ennesima foto di padre Oscar Goapper, sorridente, che abbraccia un bambino.
Francesco Beardi
Antonello Rossi