Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin




Ricordati del grembiule

Un giornocambia mestiere.
Un mestiere che lo «costringe» anche a vivere faticosamentecon africani e latinoamericani.
È la scelta di Pino, di San Vito dei Normanni (BR). Prete da pochi mesi, si appresta a raggiungere il Congo in guerra.

Negli anni ’84-85 infuriava la siccità in Africa, specialmente in Etiopia. I mezzi di comunicazione riportavano scene di morte. Ed io volevo fare qualcosa.
Visitai alcune associazioni di volontariato, offrendo la mia disponibilità per qualche mese d’impegno. Ma tutto era complicato, perché ero del sud, mentre quasi tutti gli organismi di volontariato operavano nel nord. Non potevo partecipare agli incontri di formazione.
Un giorno, a Lourdes, conobbi don Pietro De Punzio, che tutti gli anni andava in Africa per un’esperienza missionaria. «Pino – disse -, perché non vieni con me?». Ci andai: precisamente in Kenya, dai missionari della Consolata a Wamba. Non feci un granché, però vidi la vita tirata della gente e, soprattutto, compresi che non bastava un mese in Africa per essere missionario.
Intanto facevo il cuoco. Però l’esperienza di Wamba mi spinse a ricontattare in Italia i missionari della Consolata. «Posso lavorare con voi due anni?» chiesi a padre Giano. Poi lo raggiunsi a Bedizzole (BS). Qui capii che neppure due anni sono sufficienti per essere missionari. «Bisogna scegliere la missione ad vitam» disse padre Giano.
– Ad vitam! Che significa?
– È latino, ragazzo mio.
– Ma io sono cuoco.
– Un po’ di latino dovrai studiarlo, se vorrai essere prete-missionario.

Lasciai i fornelli
e, a 26 anni, ritornai sui banchi di scuola. Capii presto che il missionario vero offre agli altri tutta la propria vita, per sempre. Ecco cosa vuol dire «ad vitam».
Conseguii la maturità magistrale a Bedizzole, frequentai un biennio di filosofia a Torino e, dopo il noviziato a Vittorio Veneto, feci voto di povertà, castità e obbedienza. Con tale scelta, canonicamente ero missionario della Consolata. Cercai di spiegarlo anche a mamma Grazia, già vedova da 15 anni dopo la morte del papà per malattia.
– Pino, che significa missionario canonicamente?
– Significa che ora sono nella famiglia dei missionari della Consolata.
– E partirai subito per la missione?
– Non subito. Prima devo studiare teologia, per essere prete.
– Figlio mio, hai 32 anni. Chi troppo studia matto diventa.
Era la prima volta che la mamma si opponeva ai miei progetti. Ero l’ultimo di quattro fratelli e la mamma ha sempre avuto un debole per il più «piccolo», senza far torto agli altri figli già sposati. Mi concedeva libertà, che gestivo «facendo le stagioni» come cuoco in Puglia.
Ora, però, le costava perdermi. Il ragionamento della nuova famiglia non la convinceva. Inoltre, abituata a vivere con me e non più giovane, temeva la vecchiaia… Ma, dopo tante lacrime, sospirò: «Sia fatta la volontà di Dio». Lo mormorò in dialetto, che non so scrivere…
Studiai teologia a Roma in un seminario internazionale. Eravamo in 24 di 11 paesi. Nel primo anno ero l’unico italiano. Questo comportò delle difficoltà. Per esempio: accettare gli altri come sono e farsi accettare come si è. La diversità dell’altro, specie se di cultura diversa, fa paura. Ma non si deve accettarlo con idealismo, bensì con realismo, soprattutto negli aspetti discutibili. Discutibili siamo tutti.
Inoltre in seminario è facile farsi il nido. Al mattino si va all’università, poi ognuno studia in camera sua. Sì, c’è la preghiera comunitaria. Però il tempo per vivere insieme non è molto. Questo può favorire l’individualismo, che è pericoloso per un missionario.
Dietro a queste parole, c’è una verità scomoda, di fronte alla quale talora ci si tira indietro… Anch’io mi sono detto: «Lascia perdere, Pino. Ritorna a fare il cuoco».
In quel momento di crisi, il mio formatore mi ha chiesto a bruciapelo: «Com’è la tua preghiera?». Allora ho capito che, prima di riindossare il berretto dello chef, dovevo fare «qualcos’altro».

Divenuto prete
il 7 ottobre 2000, oggi sto studiando francese. Nel mio orizzonte c’è il Congo di Mobutu e Kabila, ma anche degli ugandesi e rwandesi che gli hanno dichiarato guerra. Una guerra che in due anni circa ha mietuto quasi tre milioni di morti. Volevo una missione «forte». Eccomi servito, a 37 anni, dopo 11 di attesa.
Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, ho ricevuto un regalo significativo: un grembiule. Mi ricorda il mio passato di cuoco e cameriere. Ho trascorso anni a servire nei ristoranti. Oggi inizio un servizio diverso con un nuovo grembiule.

Pino Galeone




ISOLE COOJ – Fra i marosi dell’oceano blu

«Reportage» dal remoto sud dell’Oceano Pacifico,
tra palmi di terra corallina e vulcanica,
dove le persone si contano sulle dita.
Sfidano le onde, ieri come oggi.
Cantano e danzano in una natura da favola.
Ma occhio al ciclone!

QUEI CATTOLICI…EXTRA LARGE
Manca ancora mezzora all’inizio della messa, e la chiesa è già gremita. Tutti i banchi sono pieni; ne sono stati disposti altri, per l’occasione, sul prato antistante la chiesa, anch’essi tutti occupati. Solo i fedeli ritardatari rimangono in piedi, dietro gli ultimi che hanno trovato posto. La celebrazione è, dunque, affollata e seguita con attenzione da tutti.
Siamo a Rarotonga, l’isola principale dell’arcipelago di Cook, nel remoto sud dell’Oceano Pacifico.
Padre Kevin, neozelandese, celebra la liturgia alternando l’inglese e la lingua locale, uno degli idiomi polinesiani. È una lingua priva di aspirate, utilizza molto le vocali e ripete spesso le sillabe. Ciò fa sì che sia molto dolce e particolarmente adatta ai canti, che si susseguono numerosi. In chiesa i testi da cantare vengono proiettati su una parete bianca, mentre il coro è sostenuto da una tastiera modea, dotata di accompagnamenti.
Il ritrovo è anche un’occasione per osservare le caratteristiche della popolazione e i suoi costumi. Le persone, uomini e donne, sono generalmente di struttura fisica robusta e persino poderosa. In seguito constateremo che le taglie delle camicie e delle T-shirt sono di dimensione abbondantemente extra… extra large!
Le signore indossano i vestiti migliori. Ma la nota più caratteristica è il loro cappello, a falda abbastanza larga, realizzato in fibra di pandano e decorato con fiori, anch’essi di pandano. Fra le chiome delle ragazze spicca, spesso, un fiore vero.
I cattolici nelle Isole Cook rappresentano solo il 4% della popolazione, che per il 90% circa segue la Cook Islands Christian Church (Cicc), fondata dalla London Missionary Society. La Cicc è una comunità tendenzialmente anglicana con influenze di altre chiese protestanti. Il resto della gente appartiene a sètte e ai mormoni. I fedeli della Cicc, di domenica, vestono spesso in bianco, sia uomini che donne. Si tratta di una sorta di divisa, obbligatoria in certi eventi.
Un tratto comune delle varie denominazioni religiose è il canto corale di composizione locale. Si vendono pure CD con musica sacra, e non solo.

L’uomo meglio del maiale
Gli abitanti delle Isole Cook non superano le 20 mila unità, e altrettanti risiedono all’estero, principalmente in Nuova Zelanda. Vivono su un arcipelago formato da isolotti piccoli e piccolissimi, dispersi nell’Oceano Pacifico, ad enormi distanze fra loro, tra l’equatore e il tropico del capricorno: sono di origine vulcanica e corallina.
Rarotonga, l’isola più grande, ha un perimetro di circa 30 chilometri e conta 10 mila abitanti, mentre a Palmerston (tanto per fare un esempio) ne vivono 50 e 6 a Suwarrow.
Etnicamente la popolazione fa parte dei popoli polinesiani emigrati dalla Papua parecchi millenni a.C.: occuparono progressivamente le isole del Pacifico, fino alle Hawai e alla Nuova Zelanda. Allorché entrarono in contatto duraturo con gli europei, nel secolo XVIII, i rapporti furono amichevoli e ostili ad un tempo. Lo stesso capitano James Cook (da lui il nome delle isole) fu ucciso nel 1779 durante una zuffa con i locali che aveva già visitato.
Ebbene, i rapporti con i bianchi non furono sempre idilliaci. I missionari furono negativamente impressionati dal paganesimo imperante nell’arcipelago e da pratiche saltuarie di cannibalismo.
Un missionario dell’epoca, William Gill, trascorse la maggior parte della sua vita sulle Isole Cook e nel 1892 pubblicò un libro, descrivendo gli usi dei nativi. Illustrò parecchi riti, come quello del trattamento del corpo dei nemici uccisi. Il missionario raccolse da un indigeno (cannibale) l’affermazione che «la carne dell’uomo è assai migliore di quella del maiale». Però il cannibalismo veniva praticato sporadicamente con lo scopo di acquisire gli eventuali poteri del nemico, ma anche per infliggergli l’estremo oltraggio.
In ogni caso i missionari inglesi non seppero percepire la complessità delle regole dei rapporti sociali di quei popoli. Cercarono di sradicare completamente la loro cultura tradizionale. E quasi ci riuscirono.
Una significativa manifestazione socioculturale (tuttora viva) era rappresentata dalla danza, eseguita da uomini e donne. Le movenze sono diversificate, probabilmente più variate quelle maschili di quelle femminili. Le donne si destreggiano bene con gesti delle mani e con l’ondulare ritmico delle anche, spesso cinte da un serto di fiori. Forse, per questo, padre Gill scrisse: «Circa la moralità dei loro balli, meno se ne parla meglio è; la danza upaupa, introdotta da Tahiti, è proprio oscena».

Perché non adottare
una balena?
Oggi sulle Isole Cook la vita scorre tranquilla, ma non pigra, in un ambiente curato e ordinato. Una piacevole abitudine della gente di Rarotonga, che si incontra al mattino, è quella di scambiarsi non solo il buongiorno, ma anche di chiedere: «Come ti senti stamattina?». Oppure: «La notte passata è stata gradevole?». Questo succede anche incrociando, in bici, la signora sconosciuta che sta tagliando, al mattino presto, la siepe del suo giardino. La bicicletta è il mezzo migliore per visitare Rarotonga, date le sue modeste dimensioni.
Solo una volta siamo stati salutati secondo il costume tradizionale, che consiste nel pronunciare una frase di benvenuto piegando la testa all’indietro e innalzando le sopracciglia. Ma i costumi cambiano.
Un altro aspetto caratteristico di Rarotonga sono le tombe. Queste sono raccolte, generalmente in piccolo numero, in luoghi che sembrano abbandonati o in vicinanza di edifici religiosi. Ma se ne trovano anche nei campi o in un angolo del giardino di casa; in questo caso le tombe sono molto curate.
Un fenomeno inatteso (per il visitatore) è il continuo rombo del mare, generato dal fluire della risacca sulla superficie superiore della barriera corallina: rombo a cui si sovrappongono i tonfi cadenzati dei frangenti più vicini. Qui il padrone di tutto è moana, l’oceano.
La barriera corallina separa il mare aperto, immenso e possente, dalla laguna con acque calme e trasparenti. Però basta la presenza contemporanea dell’alta marea e di un soffio di vento per trovare, al mattino seguente, la strada litoranea attraversata da ampie strisce di sabbia: l’oceano scavalca facilmente il piccolo ostacolo rappresentato dalla barriera corallina.
Nell’inverno locale le tempeste si ripetono regolari; ogni 15-20 anni diventano veri e propri cicloni. In ogni dove si leggono le istruzioni da seguire in caso di cicloni. Il fenomeno viene osservato da molta distanza e le informazioni relative sono date con grande frequenza alla radio.
Quando il ciclone si avvicina ad un’isola, le istruzioni prevedono l’obbligo di stare chiusi in casa, dopo aver fatto passare sul tetto dell’abitazione alcune corde, da legarsi al tronco di alberi robusti più vicini. Il ciclone sull’arcipelago è un evento «normale», anche se catastrofico: può durare giorni. Le isole coralline, assai basse, vengono interamente spazzate dal mare con una forza smisurata.
Ma gli abitanti delle Isole Cook sanno «gestire» l’oceano con bravura. L’hanno imparato fin da bambini, anche attraverso le favole della nonna. La dimestichezza col mare è evidente in tante leggende. In una si racconta di un ragazzo che aveva adottato come animale domestico una balena!

un paradiso terrestre?
L’arcipelago Cook appartiene a quelle terre spesso sognate da chi abita in climi temperati, contraddistinti dall’alternarsi di stagioni diversificate. Ci sono spiagge bianche, con palme che si chinano fin sul bagnasciuga, lagune dalle acque limpide e gremite di pesci coloratissimi. Il mare è blu cupo.
La temperatura è stabile e, nella stagione secca, si aggira fra i 26/28 gradi. Il tempo però è estremamente variabile: il cielo terso del mattino può, ad un certo istante, offuscarsi di nuvole che d’un tratto coprono le isole. Ne possono scaturire brevi pioggerelle.
La flora ha la tipica esuberanza della natura tropicale con grande varietà di fiori, coltivati spesso anche nei giardini delle abitazioni.
Un paradiso terrestre? Non è detto. Ogni paese ha i suoi vantaggi e svantaggi. La serenità esiste. Ma è un fatto interiore.

Pier Giorgio Motta




Un calcio al “resistol”

Le storie di Kelvin, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos si assomigliano tutte. Sono bambini cresciuti
sulle strade di Tegucigalpa, tra indifferenza e fastidio, vivendo di espedienti, spesso inalando
il «resistol», la terribile droga dei poveri. Poi la sorte li ha portati a «Casa Asti», un centro di amicizia, solidarietà, tenerezza e integrità, diretto da Susanna Arrighi,una psicologa astigiana.

Avevo percorso la calle Real con Susanna, ma quella era la prima volta in cui camminavo da sola per le strade di Tegucigalpa, la capitale dell’Honduras. In quel momento, la città mi parve racchiudere una realtà ancora più tragica.
Bambini addormentati sui marciapiedi sopra i cartoni (1), uomini e donne, con mutilazioni e deformazioni di ogni genere, seduti ai margini della strada a chiedere l’elemosina. E ancora: venditori ambulanti (soprattutto donne e bambini), che urlavano in cerca di clienti; bambini che inalavano resistol, la droga dei poveri (2), fermi davanti alle vetrine di locali nella speranza di poter rubare immagini di vita felice dalla televisione; macchine e pullman che correvano all’impazzata sulle strade, indifferenti a tutto e a tutti.
Mi soffermai a guardare un grande albero secco, situato sulla riva del fiume, sul quale si erano posati grossi rapaci neri (zopilotes) e mi chiesi in quale razza di posto fossi finita. Mi voltai e, per concludere lo scenario, lo sguardo cadde su rifiuti, detriti, macerie risalenti ancora all’uragano Mitch (1998) e bambini scalzi che frugavano nell’immondizia. Erano le 8 del mattino e la città era nel pieno della vita.

Ero triste pensando a quei bambini, ai loro diritti e all’impossibilità di farli valere. Presa da questi pensieri, improvvisamente mi sentii chiamare: «Profesora, profesora».
Era Kelvin, un niño de la calle, che frequentava saltuariamente «Casa Asti».
– Hola! – gli dissi -. Vieni con me al centro?
– No – rispose secco.
Conoscevo bene la motivazione. Il suo capogruppo apparteneva alla squadra che abitava sotto il ponte e gli aveva detto di non andare a «Casa Asti», in quanto avrebbe dovuto guadagnare qualche lempira (la moneta locale) per comprare il resistol.
Io allora dissi a Kelvin che mi sarei fermata un po’ a fargli compagnia. Che gioia provai quando vidi i suoi occhi illuminarsi. Stetti con lui cercando di farmi capire (era solo una settimana che stavo in Honduras e a mala pena conoscevo lo spagnolo). Gli mostrai alcune cartoline dell’Italia, raccontando come si vive nel nostro paese. Dopo un’ora, ci salutammo con la promessa che sarebbe venuto a «Casa Asti».
Ero felice. Tutti i pensieri tristi dell’inizio-mattinata erano spariti. Ancora oggi, pensando a Kelvin, ho impresso il sorriso di quel giorno. Kelvin incominciò a frequentare regolarmente il centro. Diceva agli altri niños: «L’ho promesso alla profesora».
Con il tempo incominciò ad aprirsi, a dialogare raccontando di sé e della sua famiglia. Adorava disegnare, ma preferiva farlo da solo, in una stanza tutta per lui. Era uno dei pochi momenti in cui poteva avere un luogo «suo».
Si prendeva un peluche sulle gambe e dava libero sfogo alle emozioni: disegnava sempre una casa e un albero (è facile intuire quale forte desiderio comunicavano queste raffigurazioni). All’inizio, nei suoi disegni, il cielo era coperto da nuvole e pioveva; poi incominciò a spuntare il sole e, infine, quest’ultimo brillava alto nel cielo.
Un giorno mi venne vicino e felice mi disse: «Emanuela, sono tornato a casa!».
Andai a trovarlo. Viveva in una guarderia, una grande baracca fatta di tavole di legno e lamiera nella quale si ricavano quartos (stanze). Ho ancora presente l’odore di quei locali. Sono un po’ come le cantine dei nostri alloggi. Eppure Kelvin era orgoglioso della sua stanza.
Mi presentò la sua famiglia: la mamma, le sorelle, la zia. Raccontò loro che era mio amico e che io abitavo in un paese lontano (dovevo prendere ben tre aerei!).

Kelvin è uno dei tanti niños de la calle che ho conosciuto: ma ci sono anche Freddy, Nelly, Carla, Jimmi, Juan Carlos e tanti altri. Tutti hanno in comune il forte desiderio di trovare qualcuno che gli dia un po’ d’amore e affetto.
E tutto questo è ciò che Susanna Arrighi, una mia concittadina, sta cercando di fare con il progetto che, da più di un anno, è nato in Honduras.
Il progetto si chiama «Casa Asti» perché Susanna è un’astigiana. Ma «Asti» è anche un acronimo: a come amistad (amicizia), s come solidaried (solidarietà), t come tenuria (tenerezza) e i come integridad (integrità).
Il lavoro si rivolge ai «niños de la calle» (con l’ambizione di estendersi anche alle famiglie che si sono trovate a dover vivere per strada, dopo il disastro provocato dall’uragano Mitch e le false promesse di aiuto da parte del governo). Moltissimi bambini vivono, dormono, vagabondano, rubano, chiedono l’elemosina… Tutta la loro vita si svolge sulle strade della città, tra l’indifferenza generale.
Sono come un fenomeno di costume, fanno parte del paesaggio, nessuno si ferma a parlare con loro, la gente li evita, ha paura e ribrezzo. Eppure sono bambini!
Non aspettano che una parola buona, che qualcuno li consideri, li veda, dia loro un po’ di attenzione. E Susanna cerca di dare tutto ciò. «Casa Asti» è un rifugio dove poter vivere una giornata da bambini normali. Possono giocare, dormire, studiare, guardare un po’ di televisione, fare – perché no? – anche i capricci.

I niños de la calle vengono avvicinati per le strade. Si offre loro qualcosa da mangiare, vengono medicate le ferite, spiegato brevemente cos’è «Casa Asti», dove si trova, come arrivarci.
Se decidono di conoscerla subito, li si accompagna, in bus o camminando, approfittando del momento per conoscersi un po’ di più. Una volta giunti, li si presenta agli altri, li si invita a lavarsi e cambiare la roba che indossano. Viene offerta loro la colazione e vengono integrati alle varie attività che si sviluppano nel progetto, rispettando tempi, gusti, preferenze di ciascuno. Possono leggere, scrivere, disegnare, giocare, guardare la televisione, fare lavoretti di manualità, dormire, imparare a lavorare il vimini, discutere in gruppo, avere un supporto terapeutico; essi stessi possono suggerire argomenti ed attività agli educatori. Quando le loro condizioni fisiche lo richiedono, vengono accompagnati alle visite mediche, generiche o specialistiche (del cui costo si fa carico «Casa Asti»).
Non esistono regole rigide, a parte il rispetto reciproco e gli orari dei pasti, nonché la condivisione dei compiti (come aiutare nelle faccende domestiche: scopare, lavare i pavimenti, spolverare, ecc.). I niños possono venire all’ora che vogliono ed andare via all’ora che vogliono, o fermarsi tutto il tempo.

Il progetto si rivolge anche alle famiglie aiutandole in interventi di natura burocratica (fare i documenti, iscrivere i bambini a scuola, ecc.), medica (visite, vaccinazioni, medicinali, ecc.), socio-assistenziale (ricerca di un lavoro o di un impiego migliore e meglio retribuito, o di una casa più dignitosa, acquisto di mobilio di base, ricerca di un hogar dove eventualmente ospitare i bambini, ecc.), legale (denunce per maltrattamenti, violenza domestica e familiare, dichiarazioni di stato di abbandono o negligenza, ecc.), psicologica (supporto terapeutico, gruppi di auto-aiuto, ecc.), religiosa (battesimi, cresime, matrimoni, ecc.).
Tutti questi interventi richiedono molto tempo per la loro esecuzione, sia per la cultura imperante (un machismo esasperato, una autostima femminile bassissima) sia per il livello di ignoranza di molte famiglie. Senza dimenticare la grande diffidenza verso gli estranei e i problemi burocratici e legali, per lo scarso appoggio da parte degli enti governativi. C’è, infine, l’esiguità dei mezzi economici di cui «Casa Asti» dispone.

Il cammino è ancora lungo, la sfida è grande, le difficoltà sono tante. I problemi, a volte, paiono insuperabili, ma la consapevolezza di fare qualcosa, per poco che sia, per qualcuno di questi bambini, costituisce lo stimolo più forte per andare avanti.
Il sorriso dei bambini che, dopo mesi di vita di strada, hanno trovato la forza di lasciare il ponte sotto il quale vivevano e soprattutto il barattolo di resistol, è una ricompensa che ripaga le sofferenze e le fatiche di un progetto così grande.

NON MANCAVA CHE L’URAGANO

L’Honduras è una delle sei repubbliche che costituiscono l’istmo che lega America settentrionale ed America meridionale. Zona equatoriale dunque, tra i due oceani, l’Atlantico e il Pacifico.
Come superficie è un terzo dell’Italia, con una popolazione stimata di 6 milioni di persone. La parte nord, quella sull’oceano Atlantico, è la più sviluppata. Nelle pianure intee ci sono le grandi coltivazioni di banane, caffè, mais, tabacco, ananas. Il suolo, ove non presenta rocce o colline brulle e di non facile accesso, è generoso dal punto di vista agricolo. I raccolti dipendono molto dalle condizioni atmosferiche. Si sono alternati negli anni periodi di siccità forti e prolungati a periodi di allagamenti ed inondazioni. L’ultima, forse la più catastrofica, si abbattè con la violenza dell’uragano «Mitch» (fine ottobre 1998). Tutto il paese fu toccato brutalmente dalle forze della natura coalizzatesi nei turbini prodotti da venti ed acque fluviali terrificanti.
Il 51% degli honduregni è costituito da bambini e adolescenti. La popolazione dell’Honduras è dunque molto giovane. Il 46% dimora nelle aree urbane (la capitale Tegucigalpa conta circa un milione di abitanti) ed il restante 54% in zone rurali. Le famiglie in situazione di povertà sono ben il 76%, delle quali il 45% in condizioni di autentica miseria. Considerando la sola popolazione dei minori di anni 18, ben il 61% vive in stato di povertà estrema. E, come avviene in tutti i paesi in via di sviluppo, l’incremento demografico è dell’ordine del 3% annuo.
Secondo l’«Organizzazione degli stati americani» (Osa), tra tutti i paesi del continente per qualità e durata della vita l’Honduras è penultima, precedendo la sola Haiti.
Per ciò che riguarda la sanità, le condizioni sono ritenute «inadeguate» in termini di abitazioni, controllo igienico della persona e degli alimenti, acqua potabile, strutture ospedaliere ed ambulatoriali, fognature e raccolta di rifiuti.

Se vogliamo dare uno sguardo alle problematiche infantili, ne ricaviamo un quadro disastrato. Si stima che migliaia di ragazze, tra i 14 e i 17 anni, siano madri (madres solteras): esse, per le condizioni in cui vivono, sono esposte ad aborti o a procreare figli che nascono sotto peso. Abbandonate dalle famiglie d’origine, a loro volta queste ragazze, con una certa frequenza, abbandonano i figli.
Quanto all’educazione scolastica, 7 bimbi su 10 non ricevono attenzione prescolare, soltanto 3 su 10 terminano le elementari (durano 6 anni), il 24% dei bimbi in età dai 6 ai 13 anni non frequentano nulla. L’analfabetismo si aggira attorno al 45-50%.
E questo a confermare l’ennesimo fallimento dell’Onu. La «Convenzione sui diritti del bambino» era stata votata all’umanità dall’assemblea generale delle Nazioni Unite alla fine del 1989. Dopo 10 anni, la situazione è notevolmente peggiorata. In Honduras e in tutti i paesi del cosiddetto «Terzo mondo».

Nel 1990 quando conobbi Emanuela, essa frequentava le scuole superiori ad Asti. Con altri compagni di classe, si era impegnata nel finanziare un’adozione a distanza in Honduras, dove io nacqui nel 1922. Nello stesso anno (1990) ero ritornato a Tegucigalpa, la capitale, per occuparmi di bambini, i niños de la calle.
Così Emanuela incominciò ad accostarsi a quel paese. Sono trascorsi 10 anni ed Emanuela, come raccontato nell’articolo, ha trascorso le ferie a «Casa Asti». Durante queste vacanze ha anche visitato l’Hogar don Bosco, nato nel 1990 per iniziativa di un missionario salesiano, padre Ottavio Sabbatin, e sviluppato fino ad ospitare 50 bambini interni ed altrettanti estei nell’asilo nido (guarderia). Oggi è gestito da una associazione honduregna presieduta da un missionario salesiano spagnolo, padre Edoardo Martin, e ha l’appoggio economico di un nutrito gruppo di benefattori veneti. Per fortuna, l’uragano Mitch ne ha risparmiato le strutture.

(*) A «Casa Asti» è volontaria la figlia di Edoardo Arrighi, Susanna, psicologa. Per informazioni contattare l’autore al numero telefonico 0141.215051.

Emanuela Musso




Nell’occhio dei cicloni

Gioviale e sincero, cuore grande e sensibile, la vita di padre Calandri fu tutta in salita, costellata di difficoltà
e incomprensioni, senza mai arrendersi. Definito pioniere, eroe, artista, antropologo…
fu educatore, difensore e padre di migliaia di africani.

Da grande voleva fare il «bandito», diceva ai compagni delle elementari. Un palmo più alto dei coetanei, il collo oltremodo lungo, nel seminario di Giaveno (TO) lo chiamavano «cammello». Il nomignolo non gli dispiaceva; anzi, aumentava i suoi sogni di avventure per deserti e savane sconfinate. Voleva essere prete; ma non intisichire tra le mura di una canonica. «Come conciliare sogni e vocazione? – racconterà più tardi -. Eccoti saltar fuori la chiamata alla missione».
SOGNANDO LA MISSIONE
A 18 anni (era nato nel 1893 a Moretta, Cuneo), Pietro Calandri ottenne dal vescovo il permesso di entrare tra i missionari della Consolata. Il 3 marzo 1917 fu ordinato prete. Non scordò mai quel giorno, anche per un curioso extra rituale: dubitando di avergli imposto le mani sul capo, alla fine dell’ordinazione il vescovo ripeté tale cerimonia. «Mai avuto dubbi sul mio sacerdozio: sono stato ordinato due volte» raccontava spesso.
Per realizzare i suoi sogni bisognò aspettare il ritorno dei missionari mobilitati come cappellani militari nella guerra mondiale. Padre Pietro doveva dare una mano nei vari servizi della casa madre: formazione degli studenti e insegnamento di materie pratiche: fotografia, pittura, arti e mestieri.
Come ogni artista che si rispetti, era soggetto a madoali distrazioni: iniziare la messa senza paramenti; andare in tram con uova fresche in tasca e conseguente frittata. E rideva volentieri di tali disavventure.
Nel 1920 Calandri raggiunse il Kenya. Si buttò nel lavoro con tutto il suo entusiasmo. Ma ben presto si accorse che le savane e foreste dei sogni giovanili erano popolate da ingiustizie e soprusi da fargli ribollire il sangue, fino a definire la missione di Kanjo (ora Turu) «selvaggia e crudele» (vedi riquadro).
Nel 1925 fu scelto per formare il primo gruppo di missionari della Consolata destinati al Mozambico.
ORDINI E CONTRORDINI
Secondo gli accordi presi con il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, il drappello era destinato a Miruru, missione ai confini con lo Zimbabwe, fondata dai gesuiti e da vari anni senza preti. Ma a Torino i superiori avevano messo gli occhi sul Niassa, dove si poteva cominciare da zero, poiché nessun missionario cattolico vi aveva ancora messo piede.
Fu così che padre Calandri, con in tasca l’ordine segreto di andare nel Niassa, si staccò dal gruppo di Miruru e, insieme a padre Amiotti, raggiunse Mandimba, ai confini col Nyassaland (oggi Malawi). Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i permessi necessari alle autorità ecclesiastiche e civili . Di fronte al fatto compiuto, pensavano, sarebbe stato più facile ottenerli.
I due missionari cominciarono subito la costruzione di un capannone, una cappellina di canne di bambù e una casetta per accogliere una dozzina di orfanelli, figli di europei, impiegati del governo inglese in Malawi.
Secondo le istruzioni dei superiori, padre Calandri fece una bella relazione sulla situazione e la inviò a dom Rafael, dichiarandosi disponibile all’evangelizzazione del Niassa. La risposta giunse come una mazzata: «Uscire dal territorio entro un mese, dopo il quale scatterà la sospensione a divinis». Il che significa: proibizione di amministrare qualsiasi sacramento.
Da Torino arrivò l’ordine di restare, perché tutto si sarebbe aggiustato. Pure il vicario apostolico del Nyassaland, il monfortano francese mons. Auneau, consigliò di rimanere. I due missionari celebravano la messa di nascosto e ogni settimana passavano la frontiera per confessarsi e assolversi a vicenda nel territorio del vescovo amico. Per non dare nell’occhio degli ispettori della colonia portoghese, vari amici consigliarono loro di tagliarsi la barba e spacciarsi per coltivatori di tabacco.
Padre Pietro si lasciò un paio di baffetti e, oltre a coltivare tabacco, impiegò quel «tempo d’inedia» per esplorare il Niassa, studiare i posti più idonei per le future missioni, incontrare la gente e imparare la lingua ciyao. Scriveva ogni nuova parola su un pezzetto di carta, che infilzava in un ferro e, tornato a casa, ordinava i foglietti in ordine alfabetico. Ne risulteranno 13 volumi, confluiti nel dizionario italiano-ciyao, poi in quello portoghese-ciyao.
Ma per il cuore sensibile del Calandri fu «una situazione così terribile», da farlo piangere giorno e notte.
«TEGOLE» IN TESTA

Dopo due anni di «purgatorio», il 1° maggio 1928 arrivò un telegramma dal Nyassaland: «Concessa giurisdizione. Cominciare i lavori». Calandri era felicissimo, ma a tasche vuote: gli ultimi due scellini li aveva dati al fattorino che aveva recapitato la bella notizia. Un amico, salvato dal padre da una febbre micidiale con un drammatico bagno freddo, gli infilò in tasca 500 scudi portoghesi, con cui organizzò subito una carovana per raggiungere Massangulo, 60 km a nord-est di Mandimba.
Gli orfanelli più grandi a piedi, gli altri in spalle ai portatori, a passo di lumaca, giunsero a destinazione il 20 maggio 1928; furono piantate le tende e si cominciò subito la fabbricazione di tegole e mattoni.
Passò un mese e un’altra «tegola» si abbatté sulla testa di Calandri: il governatore del Niassa ritirava ogni permesso, finché dom Rafael non avesse comunicato anche a lui l’autorizzazione ecclesiastica consegnata ai missionari. Era una ripicca contro il prelato; ma per aggiustare la faccenda il padre dovette correre a Porto Amelia: 1.600 km di andata e ritorno, con mezzi sgangherati, per sentirneri da capre.
Altre minacce pesavano sulla missione: ladri, leoni, ostilità dei capi musulmani. Contro i leoni aveva il fucile e una mira infallibile, tanto da essere chiamato in tutti i villaggi per liberare la gente dalle bestie feroci. Più dura fu con i musulmani: prima cercarono di depredarlo, poi gli ordirono trabocchetti per eliminarlo.
«La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso. I lavori continuarono frenetici per costruire le case dei padri, bambini e suore prima della stagione delle piogge. Alla fine dello stesso anno, infatti, arrivarono due padri, tre fratelli e otto suore.
Col nuovo personale fu aperta la scuola; si cominciò la visita sistematica ai villaggi, a curare gli ammalati nella missione e a domicilio. In poco tempo la situazione fu rovesciata come un calzino: la gente nutriva grande simpatia per i missionari; perfino i capi musulmani erano affascinati dalla carità delle suore.
Nel giugno 1930 padre Calandri fu chiamato a Beira dal delegato apostolico mons. Hinsley che, nervoso e imbarazzato, gli ordinava di chiudere immediatamente la missione. «Mi sentii cadere dalle nuvole – racconta il missionario -. Fatiche andate in fumo. Orfani ributtati sulla strada. Scoppiai in un pianto dirotto e irrefrenabile».
Per calmarlo il delegato gli chiese di Massangulo; sentendolo parlare di scuole e collegi per bambini e bambine, orfanotrofio per meticci, monsignore tirò un sospiro ed esclamò: «Se è così, è tutt’altra cosa. Vada pure avanti con la costruzione dei collegi; io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
BURRASCA… MAIUSCOLA
Alla fine del 1930 dom Rafael arrivò a Massangulo in visita pastorale. Padre Calandri era a caccia per procurare un po’ di carne per fare festa al visitatore. Il prelato ne approfittò per domandare agli alunni i nomi della capitale d’Italia, del re e primo ministro. I ragazzi cascavano dalle nuvole. Il prelato sospettava che i missionari fossero la «lunga mano» di Mussolini.
A pranzo padre Calandri presentò al vescovo i progetti per aprire altre missioni: una al lago Niassa e un’altra a sud, a Mepanhira, dove un laico convertito in Malawi aveva costruito una bella comunità cristiana e faceva battezzare i catecumeni oltre confine. La risposta fu glaciale: «Nessuno ti incarica delle anime di Mepanhira».
La sera, a quattrocchi, dom Rafael scaricò tutta la bile che aveva in corpo. Rivangò la disobbedienza del 1926 e accusò il padre di non aver creduto alla sua buona fede. Accusò i superiori di Torino di collaborare col fascismo, perché avevano mandato in Mozambico troppo personale; se la prese con vari missionari, rei di averlo denigrato. Padre Pietro pianse tutta la notte. Ricorderà quel fatto come «il giorno di burrasca con la B maiuscola».
Prima di partire, dom Rafael scrisse sul registro dei visitatori una mezza pagina di lodi sperticate per il lavoro dei missionari e missionarie.
In fondo il prelato era d’animo buono e nutrì fino alla morte grande stima per i missionari della Consolata. Ma in quegli anni si trovava tra l’incudine e il martello. Unico vescovo del Mozambico, aveva bisogno di personale per evangelizzare immense regioni che non avevano mai visto un prete cattolico. Pio XI aveva definito il Mozambico «arretrato di 300 anni; macchia nera nella storia delle missioni». Al tempo stesso egli non voleva apparire troppo facilone agli occhi del dittatore portoghese Salazar, sospettoso verso tutti i missionari stranieri, specie se italiani.
Da parte sua, padre Calandri era fatto così: per difendere giustizia e verità non guardava in faccia nessuno; a volte rispondeva senza peli sulla lingua; altre volte reagiva col pianto. Ma non si arrendeva mai, specie quando la gente più indifesa gli chiedeva aiuto contro le prepotenze dei capi e capetti locali: se non riusciva a farli ragionare, egli ricorreva ad autorità sempre più alte, fino a ottenere giustizia. Si procurava qualche nemico; ma la gente lo chiamava bwana cilima (signore forte).
Anche le autorità civili lo ammiravano. Il dottor Oliveira, che visitò più volte Massangulo, descrisse così padre Calandri: «Un misto di eroe e artista, che incarna in sé tutta l’anima di un romano. Lavoratore instancabile, tutto prevede, a tutto arriva. Ha sempre una soluzione per le maggiori difficoltà, che sono enormi in un luogo così lontano dai mezzi civilizzati e con poco denaro».
ESILIO BRASILIANO
Nonostante la diminuzione del personale, padre Calandri riuscì a terminare i lavori programmati: collegi e scuole per oltre 200 alunni delle elementari; avvio dei corsi di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle in molti villaggi, affidate a maestri formati alla missione; nascita dei primi nuclei di famiglie cristiane.
Nell’agosto 1936 da Torino arrivarono nuovi rinforzi con una lettera del superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, in cui era scritto: «Conveniente a padre Calandri andare a riposarsi in Italia».
La vacanza si trasformò presto in dramma: il superiore generale, senza tanti preamboli, lo destinò al Brasile per pitturare una grande chiesa. Calandri rimase impietrito; non riuscì ad aprire bocca per chiedere spiegazioni. Ma intuiva le ragioni: per risolvere il pasticcio del Mozambico, Roma aveva sostituito dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; Torino mandava padre Calandri in capo al mondo. «È l’obbedienza più costosa richiestami nella mia vita religiosa» racconterà più tardi.
Padre Calandri raggiunse il Brasile nel maggio 1937 e cominciò a pitturare la chiesa di Santa Teresina a São Manuel. Al tempo stesso si dedicava anima e corpo al lavoro pastorale, attirandosi la benevolenza della gente, dei poveri soprattutto. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma quando era solo ritornava a galla la domanda: «Cosa ho fatto di male?». Sentiva quella destinazione come un castigo immeritato.
A moltiplicare i crucci contribuiva una certa telepatia; i presentimenti venivano confermati dalle lettere di alcuni orfani: ragazze e ragazzi, ormai cresciuti, erano stati allontanati dalla missione e mandati allo sbaraglio. «Tali notizie sono spine acute che mi fanno tanto male – scriveva. – I superiori non potevano trovare un supplizio più grande per farmi scontare le loro vendette personali».
Quattro anni di lotta interiore lo fiaccarono fisicamente, fino ad ammalarsi e cadere in una depressione spirituale, paragonabile alla notte oscura di cui parlano i mistici: si sentiva abbandonato dal Cuore di Gesù, di cui era devotissimo; cominciò a dubitare della sua vocazione; pensava di ritirarsi in un ordine religioso di aspre penitenze «per dimenticare tutti e tutto il passato burrascoso».
A salvarlo dalla disperazione contribuì l’amicizia dei confratelli, Fiorina e Bisio soprattutto. Questi scrisse ai superiori in Mozambico e a Torino perché intervenissero con un gesto di umanità, una lettera di stima e comprensione, per liberare Calandri dall’«agonia e terribile oppressione» che lo stavano consumando.
RICOMINCIA LA LOTTA
Nel 1940 arrivò il permesso di tornare a Massangulo. Un mese dopo Calandri era a Lourenço Marques. Dom Teodosio lo accolse con affetto: «Questo abbraccio serva, caro padre, a riparare quanto le ha fatto il mio predecessore».
Intanto nel Niassa erano sorte altre missioni: Mepanhira, Maua, Mitucué. Massangulo, però, navigava in cattive acque: orti, piantagioni e campi erano divorati dalle erbacce; gli orfani allontanati gettavano discredito sulla missione. Padre Calandri riprese la direzione della barca, ma la barra non rispondeva ai suoi comandi, ma a quelli del superiore provinciale, Domenico Ferrero. Era costui una tempra di missionario pari a Calandri, ma di mentalità totalmente differente. Ne scaturirono scontri e arrabbiature indescrivibili.
Finalmente il superiore provinciale ebbe la bella idea (o l’ordine) di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità. Massangulo cresceva fino ad accogliere oltre 500 alunni.
NUOVO TORNADO
Alla fine di maggio 1948 il vescovo di Nampula, dom Teofilo de Andrade, ricevette da Torino un telegramma firmato dal superiore generale: «Imbarcare padre Calandri sul primo bastimento. Se ricusa, applicare sanzioni canoniche». Il vescovo girò il messaggio all’interessato che, appena lesse la missiva stramazzò a terra come un sacco di patate. In calce, però, il vescovo aveva scritto: «Restare fino a nuovo ordine; inviterò il superiore a visitare le missioni del Niassa; dopo si deciderà».
«Che cosa ho fatto per trattarmi così?» si domandava il padre. A parte il parlare a ruota libera per difendere giustizia e verità, non si sentiva colpevole di nulla. Da tempo, però, circolavano critiche poco benevoli: la scelta del posto in cui era stata costruita la missione era in una zona totalmente musulmana; perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; la sua ospitalità aveva trasformato la missione in un albergo… Critiche che, a distanza e senza vedere la realtà, diventavano macigni.
Altri confratelli, però, lo ammiravano, felici di lavorare con lui. Le autorità civili e religiose lo portavano in palmo di mano. Un giorno dom Teofilo non esitò a dire in faccia al superiore: «Se i missionari della Consolata sono conosciuti e rispettati in Mozambico lo si deve a padre Calandri».
Nei primi di dicembre 1948 arrivò il superiore generale: era la prima visita canonica alle missioni del Mozambico. E fu «una bufera con tuoni e lampi». Chiamato a Mitucué, padre Calandri si sentì definire «testardo, prepotente, dispotico». Per ritornare nella sua missione gli fu chiesto di firmare un documento in cui, tra i vari punti, figurava l’ammissione di aver disubbidito all’ordine di tornare in Italia.
Calandri spiegò che l’ordine era diretto al vescovo: sarebbe toccato a lui spedirlo in Italia. Rifatto il documento e tolta la condizione incriminata, il padre era talmente stufo che firmò la copia originaria. Il giallo diventò disperazione: padre Pietro era deciso a recarsi a Nampula e chiedere al vescovo di accettarlo come prete diocesano. Il suo autista, però, conoscendo il padre e visto come si erano messe le cose, era scappato nella foresta con le chiavi dell’auto.
Il giorno seguente mons. Barlassina raggiunse Massangulo, accolto con addobbi, luci, canti e danze. Rimase sbalordito e non finiva di ripetere: «Che bello! Meraviglioso! Che bei viali! Ma questa è una città…». Passando in rassegna le opere della missione continuava: «Non sapevo che esistesse tutto questo ben di Dio». E quando padre Calandri lo portò a visitare alcune famiglie di mulatti, raccontando la storia di ciascuna, il superiore concluse: «In tutto il tempo passato in Abissinia non ho mai visto famiglie così bene educate». E per il resto della vita continuò a definire Massangulo «una meraviglia».
E FU BONACCIA FINALMENTE
Padre Calandri continuò a lavorare con il solito entusiasmo, determinazione e cuore rappacificato. Finalmente poteva realizzare sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, posto strategico e, a quei tempi, quasi inaccessibile; un seminario «catacombale», poiché il nuovo vescovo di Nampula, dom Manuel de Medeiros, non era d’accordo; soprattutto la costruzione di una bella chiesa alla Consolata. «Cobué mi ha tolto dieci anni di vita» dirà più tardi. Nella costruzione della chiesa investì tutto il suo talento di architetto, artista e pittore: fu subito definita «la cattedrale del Niassa».
Intanto continuava a battagliare contro le ingiustizie, prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedeva terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Diabete e una ferita al piede lo convinsero a tirare i remi in barca: nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Cominciò a passare ore e ore in contemplazione sia nella sua bella chiesa, sia di fronte alle meraviglie del Niassa, trasfigurandole nelle sue pitture.
Furono anche gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona, Amerigo Tomas, volle appuntargli al petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; dal governo italiano fu nominato Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. «Brutto segno – commentava -. Ti danno le medaglie quando stai per morire».
Nel 1967 celebrò il 50° anniversario di sacerdozio. Fu l’ultimo trionfo. Tre mesi dopo cadeva ammalato e il 12 agosto moriva nell’ospedale di Nampula. «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo» disse prima di morire. Fu sepolto nella sua «cattedrale». E lì riposa ancora, venerato come un padre da tutta la popolazione del Niassa, cristiani e musulmani.

Benedetto Bellesi




Cristo in mano ai teologi

Il 5 settembre 2000 è apparso «Dominus Iesus»,
dichiarazione della Congregazione
per la dottrina della fede. Il documento,
firmato dal cardinale Joseph Ratzinger
e dall’arcivescovo Tarcisio Bertone,
gode del benestare di Giovanni Paolo II.
Per chi conosce il magistero della chiesa cattolica
la dichiarazione non presenta novità sostanziali.
Vi sono affermazioni vincolanti, quali «deve essere fermamente creduta la dottrina della chiesa»,
ma anche dei condizionali, come «sarebbe contrario alla fede cattolica»…
Tuttavia «Dominus Iesus» ha suscitato
reazioni vivaci e contrastanti.
Ecco qualche esempio (*).

Anche gli anglicani
sono vera chiesa

N el riaffermare la tradizionale opinione della chiesa cattolica sulla posizione delle altre chiese cristiane, la dichiarazione Dominus Iesus non dice nulla di nuovo, ma non riflette nemmeno pienamente la profonda comprensione raggiunta attraverso il dialogo e la cooperazione ecumenica nel corso degli ultimi 30 anni. Sebbene il documento non costituisca parte di quel processo, l’idea che gli anglicani ed altre chiese non siano «chiese in senso proprio», sembra mettere in discussione i notevoli successi ecumenici che abbiamo conseguito.
È importante che celebriamo il processo ecumenico. È un compito a cui resto impegnato in rappresentanza sia della Chiesa d’Inghilterra sia della Comunione anglicana mondiale. È questo un compito che continuerò a portare avanti sia con i leader cattolici sia con quelli di altre chiese sulla base di un profondo rispetto reciproco.
In occasione di un importante incontro di anglicani e cattolici svoltosi a Toronto (che ho presieduto con il cardinale Cassidy), si sono fatti eccezionali passi avanti, riconoscendo un sostanziale accordo su numerosi temi e proponendo che una nuova commissione mista sull’unità porti avanti questo lavoro.
Certamente la Chiesa d’Inghilterra, con la Comunione anglicana mondiale, non accetta che i propri ministeri e l’eucaristia abbiano difetti di alcun tipo. Essa, pertanto, ritiene di essere parte dell’unica, santa, cattolica e apostolica chiesa di Cristo, nel cui nome serve e reca testimonianza, qui e in tutto il mondo.
George Carey, arcivescovo
anglicano di Canterbury

Conta l’incontro
con Cristo

L a Dominus Iesus solleva nelle chiese evangeliche non poche riserve critiche. Il tema del pluralismo religioso (fenomeno in espansione in occidente), pone i teologi dinanzi a sempre nuove domande: non vanno condannati solo per questo. È vero che l’espressione «fuori della chiesa non c’è salvezza» ci viene dai tempi della chiesa primitiva, dove aveva un suo contesto storico e teologico preciso. Noi protestanti abbiamo sempre obiettato a questa formulazione, ritenendo che non è l’«essere nella chiesa» a garantirci la salvezza, quanto piuttosto l’incontro con Gesù Cristo a donarci la salvezza e metterci in comunione con altri credenti nella chiesa. La mediazione è operata esclusivamente da Cristo, mai dalla chiesa.
Quanto poi all’essere salvati o non salvati, Gesù ci ricorda che questo è un compito riservato esclusivamente a Dio Padre; e noi saremo sorpresi di trovare nei due gruppi persone che non avremmo mai immaginato (Mt 21, 31), e del tutto inconsapevoli (Mt 25, 31-40). A noi spetta il compito dell’annuncio dell’evangelo ad ogni creatura, del dialogo fraterno e attento, nel rispetto delle altrui convinzioni, non quello della condanna definitiva.
Da quando la chiesa ha preteso di essere non solo madre e maestra, ma soprattutto un’istituzione che, a suo insindacabile giudizio, dispensa salvezza e condanne, è diventata altra cosa dal modello prevalente del Nuovo Testamento.
Domenico Tomasetto, presidente delle chiese evangeliche in Italia
È la fine
dell’ecumenismo

È vero: lo stile redazionale di Dominus Iesus non è assolutamente lo stesso di quello dei testi del Concilio ecumenico Vaticano II. Assai spesso si adottano formule del genere: «i fedeli non sono tenuti a professare», «si deve credere fermamente che»… Ma io non sono del tutto convinto che questo potrebbe implicare o annunciare la fine di un impegno cattolico sul piano ecumenico o interreligioso. Tutti conoscono le iniziative di Giovanni Paolo II verso le altre religioni: dopo il memorabile incontro di Assisi, le iniziative si sono moltiplicate.
Quanto all’ecumenismo, non si possono trascurare le attese del recente accordo tra luterani e cattolici sulla giustificazione per la fede (31 ottobre 1999). In questo campo si è riusciti in qualcosa di notevole, precisando il punto fondamentale su cui siamo d’accordo, e perché le differenze che restano fra noi non devono essere considerate separatrici. La nostra speranza è che con il tempo l’intesa, riconosciuta possibile su questo punto centrale, possa divenirlo anche su altro.
Joseph Doré, arcivescovo cattolico
di Strasburgo

Un testo da esorcizzare

L a cosa più triste che emerge da Dominus Iesus è «il volto di Dio». Pare lecito chiedersi: in quale Dio crede l’estensore di questo documento del Vaticano? Avrà mai, qualche volta, sentito parlare di «Abbà», il papà di Gesù di Nazaret? Dove è andata a finire, nel testo romano, la gioia manifestata da Gesù per il fatto che Dio rivela i suoi segreti ai piccoli, che non riescono e non riusciranno mai a star dietro ai meccanismi di potere contenuti nel dogmatismo formulato dalle loro chiese? Perché un testo, proveniente da ministri dai quali ci aspetteremmo la conferma nella fede, è tanto pessimista e chiuso all’azione della grazia e alla libertà dello spirito di Dio?
Grazie a Lui, la fede alla quale ci educa Gesù è esattamente il contrario: «Io posso morire e uscire di scena, perché è il Padre l’ultima parola e troverà sempre la spinta di reiterare il suo sì alla vita dell’umanità». Un fratello mi ha ricordato che nel vangelo si dice che Gesù comanda ai demoni di tacere, anche quando dicono una verità: la professione di fede in lui. Sono spiriti diabolici (cioè divisori).
Mi pare che lo spirito del testo abbia bisogno di un esorcismo. Resto in preghiera per la chiesa, perché si lasci convertire ogni giorno ed accetti di morire se il prezzo è la vita dell’umanità. È necessario che mai più un popolo possa cantare, piangendo, come in questo poema maya:
«Quando gli stranieri giunsero qui
ci insegnarono la paura,
fecero appassire i loro fiori
e inghiottirono i nostri fiori…».
Gesù è venuto ad annunciare la vita per tutti i fiori e colori, le razze, culture e religioni. Solo così le chiese possono dare prova della loro fedeltà all’evangelo, senza correre il rischio di essere confuse con gli scribi di qualche congregazione romana.
Manteniamoci fedeli nella testimonianza dell’amore di Dio e nella fiducia che un giorno ci sia concesso il diritto che i vescovi latinoamericani già chiesero nel 1968, nella II Conferenza generale a Medellìn: «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa autenticamente pasquale, missionaria e povera, spogliata di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli uomini».
Marcelo Barros,
monaco benedettino brasiliano

Sarebbe tragico se…

L a dichiarazione Dominus Iesus ha sorpreso la cristianità. Rischia di chiudere porte che erano state aperte nei decenni passati dallo sforzo ecumenico. Ha provocato forte irritazione.
La causa ecumenica, cioè la ricerca dell’unità dei cristiani, è mandato inalienabile della chiesa di Gesù Cristo. Lo stesso papa ha enfatizzato che si tratta di un impegno irreversibile. Anche la chiesa cattolica confessa di aver bisogno di riforme. È quello che, tra l’altro, ha motivato Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint, a proporre il dialogo sulla modalità dell’esercizio del papato.
Come partecipanti al seminario, convocato dalla chiesa cattolica e luterana per riflettere sul tema del «ministero», riaffermiamo:
a) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone battezzate che invocano il nome di Gesù Cristo;
b) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone create ad immagine di Dio, anche se non si dichiarano cristiane;
c) esiste un vincolo di unione fra tutte le persone chiamate al servizio del regno di Dio, la cui vita porta a compimento la nostra speranza.
C’è poi un’unità anteriore alle divisioni cristiane ed umane, anche se con diverse sfumature e modalità.
Come chiese cristiane, ci impegniamo ad una maggiore fedeltà al vangelo. Confessiamo, insieme a tutti i cristiani, la salvezza che è in Gesù Cristo. Ricordiamo i segni di unità esistenti nelle nostre comunità, come la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la condivisione di vita, la Campagna di frateità ecumenica 2000, la cooperazione in questioni sociali.
Sarebbe tragico se il cammino ecumenico verso una maggiore unità subisse interruzioni o pregiudizi.
Ivo Lorscheiter, vescovo cattolico,
e Gottfried Brakmeier,
pastore luterano

Gesù è il Signore
(replica del card. Ratzinger)

E sprimo tristezza e delusione, perché le reazioni pubbliche (a parte lodevoli eccezioni) hanno ignorato completamente il tema vero e proprio della dichiarazione. Il documento comincia con le parole «Dominus Iesus»; si tratta della breve formula di fede contenuta nella prima Lettera ai corinzi (12, 3), in cui Paolo ha riassunto l’essenza del cristianesimo: «Gesù è il Signore».
Il papa con questa dichiarazione (la cui redazione ha seguito con attenzione) ha voluto offrire al mondo un solenne riconoscimento a Gesù Cristo Signore, nel momento culminante dell’anno santo, portando con fermezza l’essenziale al centro di questa celebrazione, sempre soggetta a esteriorizzazioni.
All’inizio del presente millennio ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da Giovanni alla fine del sesto capitolo del suo vangelo: Gesù ha spiegato chiaramente la sua natura divina nell’istituzione dell’eucaristia. Però nel versetto 66 leggiamo: «Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui».
Oggi, nei discorsi generali, la fede in Cristo rischia di appiattirsi e disperdersi in chiacchiere. Con Dominus Iesus, il santo padre, successore dell’apostolo Pietro, ha inteso dire: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68). Il documento vuole essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di Gesù Cristo come Signore.
Mi ha fatto piacere che il presidente delle chiese evangeliche della Germania, Kock, nella sua reazione (peraltro assai composta) abbia riconosciuto questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di Barmen (città), con la quale nel 1934 la Bekennende Kirche, ai suoi inizi, rifiutò la chiesa del reich creata da Hitler.
Ndr: la «Bekennende Kirche», o chiesa confessante (Cristo), era un movimento di opposizione al nazismo, sorto sotto l’influenza di Karl Barth.
Anche il professor Jungel, di Tubinga, ha trovato in questo testo (nonostante le riserve sulla parte ecclesiologica) un respiro apostolico, simile alla dichiarazione di Barmen. Inoltre il primate della chiesa anglicana, l’arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno grato e deciso al vero tema della dichiarazione.
Perché la maggior parte dei commentatori invece lo trascura?
Joseph Ratzinger,
prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede

Igino Tubaldo




Sarà una tentazione, ma il cristianesimo è bello

Che significa oggi «fuori della chiesa non c’è salvezza»?
La chiesa di Cristo «è» o «sussiste» in quella cattolica?
Forse non sono questioni di lana caprina…
È significativo che Dio voglia la salvezza di tutti,
a prescindere dalle religioni di appartenenza.
E «non nega la grazia a chi fa quanto può».

A volte basta cambiare
una virgola
Lo storico Eusebio di Cesarea (263-337) scrisse che a Costantino Magno, in occasione della battaglia decisiva contro Massenzio alle porte di Roma, apparve in cielo come presagio di vittoria una croce luminosa e le parole: «In questo segno vincerai». Era il 28 ottobre del 312.
Ma, nel secolo precedente, avvenne qualcosa forse di più importante, di certo storicamente più sicuro. Nel cielo della chiesa apparve una «meternora», che non sarebbe più scomparsa. In altre parole: il vescovo Cipriano (210-258) enunciò il famoso principio: Extra ecclesiam nulla salus (fuori della chiesa non c’è salvezza). «Non è infatti possibile – affermava il vescovo africano – avere Dio come padre se non si ha la chiesa come madre». Era la logica conseguenza di quanto gli apostoli Pietro e Paolo avevano affermato: «C’è salvezza solo in Cristo e in nessun altro» (At 4, 12).
Il motto «fuori della chiesa non c’è salvezza» è rotolato lungo i secoli, irrigidendosi come un ghiacciaio perenne. Al Concilio di Firenze (1442) il principio raggiunse persino la rigidità dell’acciaio: «La chiesa crede e annuncia che nessuno fuori della comunità cattolica (non solo pagani, ma anche ebrei, eretici e scismatici) potrà raggiungere la vita eterna, ma andrà nel fuoco eterno… se prima della morte non sarà ad essa unito». Qui, veramente, la chiesa cattolica appare una madre troppo possessiva.
Dopo il 1492, con la scoperta di nuovi popoli (che non avevano mai avuto contatti con il cristianesimo), e più recentemente, alla constatazione che le altre grandi religioni non solo non risultano assorbite dal cristianesimo, ma sono in continuo aumento, quel «blocco di ghiaccio» incominciò a sgocciolare.
Ora si preferisce enunciare il principio al positivo: nella chiesa c’è salvezza, meglio e più sicuramente che altrove. Come in algebra si insegna che tutto può andare a posto cambiando il «meno» in un «più».
Un’operazione
di microchirurgia
La meternora «fuori della chiesa non c’è salvezza» non abbagliava più gli occhi dei padri del Concilio ecumenico Vaticano II, né campeggiava sulla cattedra di san Pietro o nella gloria del Beini. Tuttavia era presente (almeno come un sassolino nella scarpa) in parecchi dei vescovi conciliari; e gli ortodossi e i protestanti osservavano con interesse come se lo sarebbero tolto. Se lo tolsero infatti.
E, da quel momento, i padri del Concilio camminarono più spediti.
I tempi erano maturi per una piccola ma importante operazione, forse una delle più delicate del Concilio. Un’operazione brillante: stupì i non cattolici dell’intero mondo, perché tutti erano consapevoli che si trattava di danzare su un vulcano in eruzione.
Il modo, poi, in cui l’operazione «chirurgica» venne compiuta fa sorridere per la sua semplicità.

Il cambio
di un verbo latino
Riguarda l’articolo 8 della Costituzione sulla chiesa Lumen gentium, approvata dopo molte discussioni il 21 novembre 1964. Da Cristo emana la chiesa, da Lui costituita nei suoi elementi essenziali. Però i padri si chiesero se la «vera» chiesa di Cristo esista ancora e dove si trovi.
Un primo testo affermava: «L’unica chiesa di Cristo, costituita e organizzata in questo mondo come società, è (est) la chiesa cattolica, ancorché fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e verità». In tal modo solo la chiesa cattolica è «la» chiesa.
Poi si giunse alla seguente formulazione: «L’unica chiesa di Cristo sussiste (subsistit) in forma integrale in quella cattolica». È l’«integrale» a fare problema; si dice infatti che solo la chiesa cattolica possiede gli elementi della vera chiesa di Cristo, anche se con il «sussiste» si ammette che essa può esistere, sia pure in modo non «integrale», presso altre comunità ecclesiali.
Il testo definitivo si colloca tra le due redazioni e afferma: «La chiesa (originale di Cristo), in questo mondo costituita e organizzata come società (cioè visibile), sussiste (subsistit) nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e verità, che, quali doni propri della chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica».
Il nuovo testo riconosce che nelle altre chiese possano esserci «parecchi elementi» della chiesa originale di Cristo. Perciò anche in queste sussiste, in qualche modo, la chiesa di Cristo. L’articolo 15 della Lumen gentium indica gli «elementi» che costituiscono i legami con la chiesa cattolica; essi sono: il battesimo, altri sacramenti (come l’eucaristia), la sacra scrittura, la devozione a Maria, ecc.
Poiché le varie chiese non insegnano le stesse cose (e non solo su aspetti marginali), qualcuno potrebbe concludere che la chiesa di Cristo non esiste più da alcuna parte; perciò nessuna comunità ecclesiale può considerarsi come l’erede autentica ed integrale della chiesa di Cristo. No. Essa sussiste ancora: in modo (più) perfetto in quella cattolica, ma anche in altre chiese.
Una dichiarazione congiunta di ortodossi e «vecchi cattolici», redatta tra il 1977 e il 1981, recita: «La vera chiesa (una, santa, cattolica e apostolica) sussiste senza alcuna interruzione, dalla fondazione fino ai nostri giorni, là dove viene custodita la vera fede, la liturgia divina e l’ordinamento della chiesa antica e indivisa».
Il Vaticano II, con subsistit al posto di est, ha adottato una terminologia «aperta». Il testo è uno stimolo, non una barriera. Se i padri del Concilio avessero voluto imporre barriere, avrebbero mantenuto est o, meglio ancora, sottolineato il secolare Extra ecclesiam nulla salus.
Un paragone per comprendere meglio. San Francesco d’Assisi fondò l’ordine francescano, che si divise in frati minori, conventuali, cappuccini, fraticelli, ecc. Oggigiorno l’ordine fondato da Francesco esiste ancora? Tutti i frati, a prescindere dalla loro appartenenza, rispondono di sì. Però si potrebbe discutere dove l’ordine di san Francesco «sussiste» nella forma genuina e cosa si è perso per strada.
non nega la grazia
a chi fa ciò che può
Il Concilio affrontò pure il problema della possibilità di salvezza per chi appartiene alle religioni non cristiane. L’articolo 16 della Lumen gentium è chiaro: «Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa e, tuttavia, cercano sinceramente Dio e, sotto l’influsso della grazia, si sforzano di compiere con le opere la sua volontà, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire l’eterna salvezza».
Questa soluzione contrasta il «fuori della chiesa non c’è salvezza». Il Concilio non poteva scordare quanto aveva sancito al numero ottavo, soprattutto perché continuava ad essere valido il principio altrettanto secolare: facienti quod est in se Deus non denegat gratiam (a chi fa ciò che può Dio non nega la grazia).
Resta oggi aperto un altro problema: quello degli agnostici e indifferenti, di coloro che appartengono alla società secolarizzata e alla laicità. È accettabile la loro provocazione di un «disarmo religioso», ritenendo le differenze come componenti benefiche della diversità umana?

La melassa
È per gli animali
Dal punto di vista cristiano, Gesù è «sorgente di vita per tutti», perché «la salvezza viene da Cristo», come scrive Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio (1990). Pertanto la missione ad gentes «ha per destinatari gli uomini che non conoscono Gesu Cristo, né il vangelo, né la chiesa» (55). È ugualmente pacifico che «Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini» (1 Tim. 2, 4).
Tuttavia è comprensibile che la chiesa si preoccupi di non svendere il proprio patrimonio in bancherelle di periferia. La chiesa cattolica, in particolare, mette in guardia contro due pericoli, che si propagano come una epidemia: il relativismo e il sincretismo.
Il relativismo religioso è «fare di ogni erba un fascio», ritenere che una religione valga l’altra… come se culture, lingue e manifestazioni artistiche fossero tutte uguali. Ma – si sa – l’argento non è oro, il coccio non è maiolica e il vetro non è cristallo! Come avviene pure nel campo monetario: ci sono monete fortemente inflazionate; dove sono in uso, servono al massimo a non morire di fame.
E ci sono monete forti. La chiesa cattolica ritiene di possedee una, garantita da una riserva in oro procuratagli da Cristo e dalla sua storia: una moneta sicura, anche se soggetta a sbalzi. Monete valide esistono pure in altre chiese e religioni. Ma, al cambio, occorre aprire gli occhi.
La ricchezza della chiesa sta nel saluto che Paolo rivolge ai suoi cristiani: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi». Come in natura: non tutto ciò che per l’uomo è commestibile, lo è alla stessa maniera; col grano buono cresce anche la zizzania; in una rete non tutti i pesci sono uguali.
Le chiese e le religioni non sono uguali: alcune, anzi, possono manifestarsi repressive, intolleranti, disumane; altre (con i valori positivi) possono celare veleni, come anche tra gli aspetti validi possono esistere differenziazioni rilevanti. Per questo occorre l’uso dei «raggi X», come fanno i medici per vedere sotto la pelle. Occorre dare uno sguardo «dietro le quinte».
Più pericoloso ancora (e banale) è il sincretismo, cioè il tentativo di costruire una super-religione prendendo un po’ da tutte, come sostiene il New Age o si è tentato di fare in passato senza nulla concludere. Giungere ad un «esperanto religioso» non è possibile. Il giornalista Igor Man ha adoperato l’espressione «sincretismo marmellata». Forse sarebbe meglio parlare di «melassa», che è quanto rimane dopo aver spremuto dalle barbabietole lo zucchero: una miscela informe, senza colore e gusto, che in Romagna si dà agli animali.

Dove abita il demonio?
Detto questo, la chiesa cattolica non deve più chiudersi in un atteggiamento di rifiuto o opposizione, considerando le altre chiese, l’ebraismo e le religioni come monete fuori uso, residuati da museo, scorie, reliquie rinsecchite, arti anchilosati. Con le altre chiese e religioni bisogna saper convivere, accettando il pluralismo con simpatia dinamica e calore. È un nuovo stile di convivenza cui nessuno è ancora sufficientemente preparato.
Una signora, alla Settimana ecumenica di La Mendola (Trentino), ha raccontato: «Sono nata in un paesino dell’Abruzzo e, vicino a casa mia, c’era un tempio protestante. Già da bambina tutti mi dicevano che, uscendo di casa, non dovevo guardare da quella parte, perché lì c’era il diavolo. Dopo il Concilio, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità della chiesa in gennaio, il parroco e il pastore un giorno pregarono nella parrocchia e, un altro, nel tempio evangelico. Fu uno shock per me entrare nel tempio, quando per tutta la vita mi avevano detto che vi abitava il demonio».
Con gli appartenenti alle altre religioni il dialogo è pure doveroso, ma assai più problematico: si rischia di discutere senza fine. Il dialogo è utile nella misura in cui serve, almeno, ad evitare atti d’intolleranza; o, anche, a far meglio capire le differenze e affrontare qualche problema pratico di solidarietà.
Ugualmente il dialogo è indispensabile con la massa dei contemporanei che fanno professione di ateismo, agnosticismo, indifferentismo.
Una comune aspirazione
di salvezza
L’atteggiamento di apertura e dialogo è necessario, poiché in ogni religione c’è una diffusa aspirazione di salvezza. Perché la chiesa cattolica è «cattolica», non per una universalità materiale di presenza, ma per l’onnipresenza dello Spirito.
Valgono i paragoni, portati da Cristo, dell’albero su cui si posano «tutti» gli uccelli dell’aria (Mt 13, 32), del lievito che fermenta l’«intera» massa (Mt 13, 33) e del banchetto con «ogni tipo» d’invitati (Lc 13, 29). Vale l’immagine delle «12 porte» della «Gerusalemme celeste» (Ap 21, 22), che permettono l’ingresso da ogni lato. Più ancora vale la visione da fantascienza che i salvati sono una moltitudine immensa che «nessuno può contare», proveniente da «ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7, 1-9). La bontà di Dio si leva su tutti, come il sole in cielo, e scende su tutti come la pioggia (Mt 5, 43).
Vale il passo degli Atti degli apostoli (17, 22-28), quando Paolo indica agli ateniesi «un Dio ignoto» (che adorano senza conoscerlo), nascosto in immagini e idoli. Ciò significa che le «religioni pagane» non si caratterizzano solo per il segno «meno».
Agli inizi – dice la Bibbia – il mondo fu avvolto da luce, e quella luce «era vita». E prima della luce «c’era il verbo», cioè la parola di Dio: parola, vita, luce che «illumina ogni uomo» senza eccezione.
Infine c’è lo spirito di Dio che «soffia dove vuole» (Gv 3, 8), anche al largo degli oceani e non solo al riparo dei porti.

E attenti ai cortocircuiti!
Fa riflettere quanto raccontò padre Arrupe, superiore generale dei gesuiti, circa la sua prima esperienza in Giappone.
«Nei miei primi tentativi missionari – affermò il gesuita – ricevetti una lezione dolorosa, ma molto utile. Istruivo quattro catecumeni accennando all’esistenza di Dio, l’anima immortale, la creazione, la divinità di Gesù Cristo. Tutto procedeva bene. Poi arrivò il momento di dimostrare l’unicità della vera religione. Dissi, in conclusione, che la religione cattolica era l’unica vera. Senza rendermi conto di dove stavo andando a parare, affermai che il cattolicesimo è il custode dell’unico e vero credo. Quando ebbi finito, i miei quattro uditori sembravano convinti. Non fecero alcuna obiezione, né mi chiesero spiegazioni. Ci salutammo e ci demmo appuntamento per il giorno seguente…
… L’indomani arrivò solo uno dei quattro. Gli altri tre non vennero più. Cos’era successo? L’unico scampato al naufragio me lo spiegò. La mia ultima lezione (esempio tipico d’inesperienza) aveva spento la speranza che quei tre catecumeni, onesti, avevano riposto nella nostra religione. Le riflessioni che si scambiarono dopo il mio discorso furono: “Non è possibile che Dio abbia potuto lasciare, per tanti secoli, i giapponesi fuori della conoscenza dell’unica vera religione. Se nessuno può essere salvato fuori della religione cattolica, quale sarà dunque la sorte di tutti coloro che ci hanno preceduto?”».
Dobbiamo annunciare Cristo, salvatore di tutti gli uomini, ma nel modo giusto.

L’unica tessera
di riconoscimento
La tessera di riconoscimento per essere ammessi in paradiso – come diciamo noi cattolici – è una sola: «Avevo fame e voi mi avete dato da mangiare», con ciò che segue (Mt 25, 31-46).
Come le beatitudini evangeliche sono un paradosso e una provocazione, così lo è il seguente racconto del giornalista Domenico del Rio.
«Budda vide un giorno i dannati che si aggrovigliavano là in fondo e, tra essi, c’era anche Kandata, il famoso brigante e incendiario di paesi. Ma Budda sapeva che nella sua malaugurata vita era stato capace di una buona azione. Un giorno, sulla strada, aveva incontrato un piccolo ragno: invece di calpestarlo, lo aveva posto a lato della via. Per tale piccolo atto di pietà Budda pensò di togliere Kandata dall’inferno. Su una foglia di loto vide il ragno color giada in paradiso, sospeso ad un filo d’argento. Spostò il loto, prese dolcemente il fragile filo e lo calò all’inferno. Kandata vide il filo d’argento e, senza sapere cosa facesse, vi si aggrappò e cominciò a salire. A metà percorso, si fermò un momento e guardò giù nel profondo dell’inferno. Con spavento vide che anche altri dannati, in una lunga fila, si erano aggrappati al fragile filo e salivano lentamente. “No, no – gridò Kandata -, è mio il filo del ragno. Si romperà. Andate via!”. E scuoteva furiosamente il filo per far cadere gli altri. Alla fine il filo si spezzò tra le mani del bandito, che ripiombò nella notte spaventosa tra il fuoco, a testa in giù».
La medesima lezione ci viene dal mondo musulmano. Ad Abur Bakar, mistico di Baghdad, morto nel 945, apparve in sogno un amico, che gli chiese: «Come ti ha trattato Dio?».
«Dio mi ha posto al suo cospetto e mi ha chiesto: “Abur, sai perché ti ho perdonato?”. Io risposi: “A causa delle mie azioni”. E Lui: “No”. Ed io: “Perché ero sincero nella mia devozione”. Dio rispose ancora “no“. “Allora per i miei pellegrinaggi, i digiuni, le preghiere”. “No, non è per questo che ti ho perdonato”. “Perché allora?”.
Dio disse: “Ricordi quando, camminando per le strade di Baghdad, trovasti un gattino che il freddo aveva reso debolissimo e che si muoveva appena da un muro all’altro in cerca di riparo dalla neve, e come tu, preso da compassione, lo sollevasti e lo tenesti sotto il mantello che indossavi e, così facendo, lo proteggesti dal gelo?”.
– Sì, ricordo.
– Perché avesti pietà di quel piccolo gatto io ho avuto pietà di te…».
Per dire che la bontà è senza limiti e apre tutte le porte, anche quelle del cielo.
Un giorno Nikolaevic Tolstoj raccontò una parabola. Un re si recò ad una battuta di caccia. Dopo aver abbattuto molta selvaggina, ebbe sete e andò in cerca di una fonte. Trovata una sorgente d’acqua chiara e fresca, riempì una coppa e fece per bere; ma il falco che teneva sul braccio si agitò e, con un colpo d’ala, la rovesciò. Di nuovo il re riempì la coppa, ma il falco, svolazzando, rovesciò anche questa. Il re, oramai nervoso, ripetè il gesto e, con maggiore attenzione, cercò di bere. Anche questa volta il falco si gettò sopra la coppa e la rovesciò.
Allora il re uccise il falco. Stava quindi per riempire un’altra volta la coppa, quando giunse ansante uno del suo seguito e gli gridò: «O re, non bere quell’acqua. È una sorgente avvelenata».
E Dio non terrà in nessun conto questi atti di estrema generosità, anche se compiuti da animali?

Goffredo, Isacco, Pavel
e Teresina
Che dire se qualche cattolico si recasse in pellegrinaggio a Torino, non nei luoghi sacri, ma in Piazza Castello, per sostare in preghiera di fronte alla lapide di Goffredo Varaglia? La lapide fu posta dai valdesi, l’11 novembre scorso, proprio sul luogo dove il 29 marzo del 1558 Varaglia fu impiccato e bruciato per eresia. Varaglia era un frate francescano. Inviato alla corte di Francia quale membro di una delegazione pontificia, a Parigi aderì al protestantesimo. Poi fu inviato come pastore nelle valli valdesi del Piemonte. Catturato dagli agenti dell’inquisizione e rifiutando di abiurare, fu condannato a morte.
E perché non recarsi anche, sempre a Torino, alla tomba dell’ebreo cuneese Isacco Levi, che gli ebrei venerano per la sua straordinaria carità?
Ancora: perché non invocare la protezione del prete ortodosso russo, Pavel Florenskij (1882-1937), considerato come scienziato un secondo Leonardo da Vinci e, come cristiano, un grande come Agostino o Rosmini? Venne deportato in Siberia e qui, per farlo tacere definitivamente, fu fucilato l’8 dicembre 1937. È un martire della fede.
Teresa di Lisieux (1873-1897), all’età di 14 anni, era preoccupata della sorte del famigerato Pranzini, accusato di assassinio, condannato a morte e ghigliottinato il 31 agosto 1887. Nonostante il rifiuto del reo di confessarsi, la giovane chiede a Dio un segno della sua salvezza. Sul patibolo, con il capo già sul «lugubre foro» – scrive la santa – Pranzini accettò di baciare il crocifisso che gli veniva presentato. Era il segno che Teresa aveva chiesto nella preghiera… In seguito, già sul letto di morte, l’11 luglio 1897, la santa fece questa dichiarazione: «Ha ragione, reverenda madre: se avessi commesso tutti i delitti possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sentirei che quel cumulo di offese sarebbe una goccia d’acqua in un braciere ardente».
Non è meraviglioso un cristianesimo che giunge a tali altezze?

Igino Tubaldo




KENYA – Uniti dalla croce

Per celebrare il grande giubileo, una pesante croce è stata portata
in processione attraverso le 22 parrocchie
della diocesi di Marsabit. Una iniziativa efficace per aiutare le comunità a crescere nell’impegno per la giustizia e pace
e promuovere
la riconciliazione
tra le varie popolazioni della diocesi.

A Baragoi fu deciso di portare la grande croce in tutte le cappelle della parrocchia. Per ogni tappa furono fissate alcune celebrazioni liturgiche comuni: via crucis o rosario; esortazione del diacono o della suora; sacramento della riconciliazione e celebrazione dell’eucaristia. Fu dato spazio anche ad altre manifestazioni religiose, secondo la creatività della comunità locale.
La prima cappella ad accogliere la croce, proveniente dalla parrocchia di Sererit, fu quella di Ngilai. C’era tutta la popolazione, maestri e alunni, bambini e adulti, guidati dal parroco, padre Giuseppe Da Fré, e vice-parroco, padre Giovanni Pronzalino. Era l’11 luglio 2000.
Lo scambio avvenne a un incrocio stradale, confine tra le due parrocchie. Padre Aldo Giuliani, parroco di Sererit, la consegnò solennemente dicendo: «Ecco la croce di Cristo! Prendetela: sono certo che vi farà del bene!». Consegna e accoglienza avvennero tra un tripudio di canti e danze delle due comunità.
Il giorno dopo, i cristiani di Ngilai passarono la croce a quelli di Bendera; questi, il mattino seguente, la consegnarono alla comunità di Marti. In ogni tappa i fedeli la onorarono con commoventi preghiere e danze giorniose.

A Marti, però, nutrivamo non poca apprensione. Il posto è tristemente famoso per una serie di scontri tra samburu e turkana che hanno lasciato profonde ferite nella popolazione. Fu, invece, un incontro sereno e tranquillo. Di fronte alla croce cantarono tutti di cuore la misericordia di Dio, meditarono attenti i misteri del rosario e, durante la messa, ascoltarono commossi la lettura della passione di Cristo.
Significativi furono i commenti della gente. «Ascoltare quanto Gesù ha sofferto per noi ci riempie il cuore di grande dolore» disse Peter Logilae. «Eppure, in un secondo tempo, eravamo pieni di gioia» incalzò Petro Echuka. «Le sofferenze di Cristo ci guariscono da odio e risentimento» concluse Augustine Nakio.
Da Marti la croce sarebbe dovuta andare a Nachola. All’ultimo momento gli organizzatori decisero di spendere un paio d’ore a Naturkan, una comunità appena nata nella valle di Suguta. «In questa zona – mi informò il catechista Andrea Dida – abbiamo circa 20 catecumeni e pochi cristiani provenienti da Marti, Kawop e Parkati».
Sembrava di essere fuori del tempo e in un altro mondo: sole caldissimo, pietre, spine dappertutto. Una visione impressionante. Dalla collinetta su cui si radunò la piccola comunità si vedevano in basso Ter-Ter, Nakupurat, Lochootom e, in lontananza, Lomaro e la valle di Suguta. Eravamo sulle pendici di quell’ampia e lunga spaccatura della terra chiamata Rift Valley.
Per raggiungere questa zona non esistono strade, eccetto una pista che la missione ha fatto tracciare, impiegando la gente del posto, compensandola col «cibo in cambio di lavoro». La popolazione vive col minimo necessario, che è sempre scarso. Abituato ad altre parti del Kenya, dove le comodità modee sono abbastanza diffuse, mi venne il dubbio che questo pezzo di terra non facesse parte della stessa nazione.
Mentre contemplavo tanta bellezza intatta e selvaggia, si avvicinò un bambino di circa sette anni, magrissimo, la pancia gonfia e ferite fresche e da poco medicate sulla testa e sulle braccia. Guardai con sorpresa padre Da Fré, che mi spiegò cosa era capitato: «Mentre stava mungendo una cammella per mettere qualcosa nello stomaco, fu battuto a colpi di panga (coltellaccio). Ora vive con il catechista. Sarà un nostro futuro seminarista!» concluse il padre accarezzando il bimbo.
Rimasi impressionato nel vedere la gente di quella zona così povera accogliere la croce con tanta gioia, che emanava dai volti sorridenti: sembrava non avere alcun problema.

D a Naturkan la croce proseguì per Nachola, come stabilito; il giorno seguente raggiunse Baragoi, sede parrocchiale.
Nel mese di maggio, questa comunità aveva programmato la celebrazione del proprio giubileo. Come momento culminante e a ricordo dell’evento, era stato deciso di piantare una croce, con la scritta «2000 anni di Redenzione», in cima alla collina di Logeterni, a circa 5 chilometri dal centro abitato. Ma i rischi contro la sicurezza delle persone, causati dalla tensione tra turkana e samburu, consigliarono di rimandare tutto a tempi migliori.
La peregrinazione della croce attraverso la diocesi e il suo arrivo a Baragoi offrirono l’occasione per concretizzare tale desiderio. Al suono della campana, tutti i cattolici e molti non-cattolici si radunarono nell’Huruma Village (villaggio della misericordia), la casa per anziani costruita dalla parrocchia.
Poiché la maggioranza della gente che vive vicino a questa casa è turkana, si temeva che potesse sorgere qualche problema con i samburu, poiché la tensione non era ancora del tutto smaltita. Ma non ci furono problemi: turkana e samburu si radunarono insieme pacificamente, consapevoli che Cristo è al di sopra di ogni differenza.
La croce preparata dalla parrocchia, portata a spalle da giovani, apriva la processione; seguiva lo stendardo parrocchiale, sostenuto da due donne: l’una turkana e l’altra samburu. I vari gruppi della comunità intercalarono canti, ognuno nella propria lingua. Mentre la fiumana di gente guadava il fiume Baragoi e il torrente che scende da Logeterni, pensavo al passaggio degli israeliti attraverso il Mar Rosso.
In cima alla collina la comunità di Logeterni aveva fatto un bel lavoro: strade pulite, altare addobbato, area circostante decorata con pietre bianche. Piantata la croce, fu celebrato il sacrificio eucaristico.
Al termine Thomas Lolkirik mi sussurrò: «Mi ha molto impressionato vedere quelle due madri, rivestite degli oamenti caratteristici delle rispettive etnie, portare lo stendardo in processione in perfetta armonia. Un fatto che ha commosso molta gente: ho visto persone versare qualche lacrima. Due donne semplici, che non hanno mai messo piede in un’aula scolastica, sono state una testimonianza di ciò che la fede cristiana può operare. Un bellissimo esempio per la comunità di Baragoi; uno stimolo per lavorare insieme, mettendo da parte le rivalità tribali che da troppo tempo provocano sanguinosi conflitti».
È pure la speranza di noi missionari: possa la celebrazione giubilare portare a tutti gli abitanti di Baragoi, cattolici e non cristiani, pace e unità, amore e fiducia reciproca!

Daniel Lorunguya




Forse Dio è malato

INCONTRO CON DEREK WALKOTT

Walcott, alla Fiera del libro:
La realtà e l’esistenza della poesia in ogni paese del mondo dimostrano la necessità poetica tra gli uomini. Noi però facciamo una cosa molto brutta, perché non permettiamo che i bambini sviluppino la loro immaginazione poetica.
Un bambino, ad una certa età, è un poeta puro. Questo è quanto William Blake continua ad indicarci. Il bambino è poeta. Ma noi facciamo «sporche azioni» contro l’immaginazione poetica del mondo, perché trasformiamo un poeta in ciò che pensiamo essere un adulto ragionevole.

Signor Walcott, grazie al cielo la sua creatività poetica non è stata uccisa dal mondo, come dimostrano questi bellissimi versi che rievocano l’incantato sapore dell’infanzia:

La pianta d’arancio, in varia luce/ Proclama quella favola perfetta ora/ Che il culmine estivo della sua ultima stagione/ Si piega da ogni ramo sovraccarico (da «In una verde notte», 1965).
Quando ha iniziato a scrivere i suoi poemi? Chi sono stati i suoi maestri?
Mia madre era insegnante e mi incoraggiò moltissimo. Da quello che ricordo, in vita mia ho sempre scritto. Forse iniziai all’età di sei anni o forse prima. Qualche volta recitai anche nel teatro della scuola metodista da me frequentata e ricevetti molto incoraggiamento.
Assai presto fui certo che avrei fatto lo scrittore. Anche mio padre era scrittore e pittore. Amavo memorizzare poesie. Giovani insegnanti mi incoraggiarono a scrivere, mentre una solida istruzione inglese mi permise di leggere i migliori poeti sotto la guida di bravi professori. All’età di 18 anni, mia madre mi aiutò a pubblicare la prima antologia poetica.

La sua vita e poesia rivelano sofferenza, documentata da alcuni versi come:
E la mia vita…/ non deve essere resa pubblica/ Finché non ho imparato a soffrire (da «Preludio», 1948); Io cerco/ al modo che il clima cerca il suo stile (da «Isole», 1962); Per cambiar lingua devi cambiar vita (da «Codicillo», 1970).
È, comunque, riuscito a mantenere la curiosità tipica dei bambini?
Quando una persona cresce non è più un bambino. Un genitore non è un bambino. Ho, però, lavorato moltissimo e continuo a farlo su me stesso per mantenere la chiarezza di visione del mondo che caratterizza i bambini.
Walcott, alla Fiera del libro:
Colombo, che forse pensava di essere in Cina, ha dato il nome «Santa Lucia» all’isola in cui sono nato. È un’isola sulla quale francesi ed inglesi hanno combattuto alternandosi nella sua proprietà per ben 13 volte. L’isola aveva un grande valore strategico, anche per la coltivazione della canna da zucchero, per non parlare della sua bellezza. A scuola i bambini cantano un inno dedicato a Santa Lucia, definendola «Elena delle Indie Occidentali».
Molti abitanti di Santa Lucia derivano i loro nomi da fonti bibliche o classiche, che ricordano quelli dati agli schiavi per alcune loro caratteristiche fisiche. Achille ed Ettore sono molto spesso pescatori, che non conoscono i personaggi di Omero.
La realtà dell’arcipelago caraibico è unica, anche se le immagini (con le quali sono cresciuto) di canoe che lasciano terra come una flotta o di canoe che rientrano verso terra… ricordano quelle di altri arcipelaghi.
La direzione di una cultura può essere indicata dalla sua musica. La musica dei Caraibi è un misto di tante fonti: francese, africana, indiana. In questo contesto anche uno scrittore attinge alle stesse fonti e non ha senso che la sua opera sia classificata nella fase «coloniale», «multiculturale», «indipendente».
Immaginate il carnevale di Port of Spain (Trinidad) con una banda di ottoni formata da bianchi, neri, indiani e cinesi che suonano, saltano e ballano. Se fossi in testa alla banda e la fermassi chiedendo «siete multiculturali?», quale sarebbe la loro risposta?… Solo quando lascio i Caraibi incontro queste definizioni.
La definizione «multiculturale» proviene dai centri accademici o dai politici del mondo. Personalmente provo risentimento quando la mia cultura è marchiata con tale termine. Qual è l’opposto di «multiculturale»? Forse «uniculturale»? «Multiculturale» ricorda «politicamente corretto». E che significa?

Le sue critiche sull’uso ed abuso di «multiculturale» dovrebbero essere meditate ed apprezzate. Colpiscono i seguenti suoi versi, che aboliscono ogni distinzione di razza e colore:
Gente di mare/ cristiana e intrepida (da «Un canto di marinai», 1962).
Se uno è cristiano…
Questa è la realtà dei Caraibi: noi ci sentiamo cristiani. Io sono metodista, ma nel mio teatro ho presentato anche personaggi cattolici; però, di fatto, nei Caraibi noi ci sentiamo cristiani. Non comprendiamo, perciò, tutte le barriere e divisioni che si incontrano nel mondo occidentale tra i cristiani: uno appartiene ad una chiesa, l’altro ad un’altra. Le chiese sono in lotta tra loro, per non parlare dell’alta percentuale di non credenti.

Citando questi suoi versi
di Dio la solitudine si muove nelle sue più minuscole/ creature
il poeta russo Brodskij afferma che «nessuna “foglia” (cioè noi) né quassù né ai tropici amerebbe sentirsi dire cose simili». Come credente, confesso che questi suoi versi mi piacciono, perché rivelano che lei crede in Dio.
Sì, ci credo veramente. Dio è presente in tutto il creato e in ogni creatura dell’universo. Penso, però, che Dio in una formica si senta proprio solo. La meravigliosa opera di Dio si manifesta anche nell’oceano maestoso. E allora…

Walcott, alla Fiera del libro:
Uno scrittore del Caraibi può soltanto scrivere al meglio. Il dovere di uno scrittore non è quello di istruire, ma di illuminare. Uno scrittore non deve essere accondiscendente con l’analfabetismo del suo pubblico. Noi scriviamo per la sensibilità della nostra cultura. Parlare di letteratura del Caraibi, formata da scrittori elitari (con il sottoscritto compreso), è stupidità accademica.
I drammaturghi greci, ad esempio, per chi scrivevano? Per molte persone analfabete. Chi ha mai chiesto ai drammaturghi greci di non essere elitari? Che cosa ci avrebbero lasciato? Aristofane che parla come Tarzan? Shakespeare per chi ha scritto? Per migliorare le nostre conoscenze. Se i classici non avessero «volato alto», non avremmo migliorato la nostra letteratura.
Ho fondato la compagnia teatrale di Trinidad e ho scritto opere al meglio delle mie possibilità. Questa è stata una benedizione, perché ho suscitato le emozioni degli spettatori, senza preoccuparmi della loro preparazione culturale. Forse gli spettatori non capiscono tutto il testo, ma recepiscono i sentimenti che scaturiscono dall’opera. Questa è la base del bravo scrittore caraibico: non sottomettersi a nessun sistema.
Il mio pubblico migliore è una grassa donna nera ai piedi del palco che ride e piange. E lei si merita che io scriva nel miglior modo possibile.

Il teatro caraibico è stato inventato da lei. Leggendo «Ti-Jean e i suoi fratelli» e «Sogno sul monte della scimmia», pare che fedi, credenze, sofferenze, speranze e sogni dell’Africa lontana, immersi in una scenografia ricca di musica e colori, caratterizzino questo teatro.
Il teatro caraibico è proprio così. Ho fondato il «Trinidad Theatre Workshop» 40 anni fa; l’ho seguito sempre con grande interesse e passione. Tanti bravi attori, ballerini e musicisti hanno contribuito al successo degli spettacoli. Ancora oggi continuano a rappresentare le mie opere teatrali con consenso di pubblico.

Nel 1970 a New York lei fu brutalmente assalito da una «baby gang», che ispirò questi versi:
E questo negro giallo lo picchiarono/ fino a farlo blu e nero/… Ragazzi a cui manca un po’ d’amore (da «Blues», 1970).
Con questi versi ci aiuta a capire le cause dell’inquietante fenomeno delle «baby gang», che ormai troviamo anche in Italia.
Quella fu un’esperienza molto dolorosa, che mi segnò profondamente e che ancora ricordo con tristezza. C’è molta violenza nel mondo, non solo fisica ma anche intellettuale. Credo che sia causata principalmente dalla mancanza di amore nei confronti di persone che possono avere tutto materialmente, ma non ricevono quell’amore fatto di ascolto e di attenzione.

Ecco, infine, alcuni suoi versi che lanciano messaggi di speranza:
tutto nella compassione ha fine (da «Rovine di una grande casa», 1962); o stella, doppiamente compassionevole (da «Stella», 1970); Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io (da «Amore dopo amore», 1976); Gli amici che trattieni, o terra, sono più di quelli rimasti da amare (da «Canne marine», 1976).
Lei ci indica come valori importanti della vita: amicizia, amore, compassione.
Questi sono i valori veri. Non è forse stato scritto «amerai il prossimo tuo come te stesso»?

CHI E’ DEREK WALKOTT

Nato nel 1930 a Castries (Santa Lucia – Caraibi). Conta un bisnonno olandese, un nonno inglese e nonni africani. Cresciuto nella piccola comunità anglofono-metodista di Santa Lucia dalla madre, insegnante, e nella memoria del padre, pittore e poeta morto nel 1931, Walcott perfeziona l’istruzione al Saint Mary’s College dei missionari irlandesi della presentazione.
Laureatosi in inglese all’università delle Indie Occidentali di Mons (Giamaica), Walcott si fa conoscere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con poesie ed opere teatrali, scritte in un inglese raffinato ed elegante.
Maestro della metafora, cantore delle bellezze dei Caraibi e profondo conoscitore dell’animo locale, inventa il teatro caraibico: nel 1959 fonda a Port of Spain il Trinidad Theatre Workshop che dirige fino al 1997 portandolo in touée nei Caraibi, Stati Uniti e Canada. Dal 1979 Walcott insegna nelle università di Harvard, Yale, Boston. Nel 1990 pubblica Omeros, ritenuto il suo capolavoro. Nel 1992 vince il premio Nobel per la letteratura.
n In Italia Derek Walcott è poco conosciuto. Una minima parte della sua poderosa opera è stata tradotta in italiano. L’editore Adelphi ha pubblicato due libri: Mappa del nuovo mondo; Ti-Jean e i suoi fratelli – Sogno sul monte della scimmia.

Silvana Bottignole




Noi stiamo con Noè

Disse Dio a Noè: «Questo è un mondo avvelenato da affogare».
E così fu. Poi Noè rigenerò la terra…
Al patriarca biblico hanno pensato alcuni giovani tecnici di Torino
di fronte ad un pianeta nuovamente inquinato,
condannato ad un altro diluvio. A meno che…

Da convegni nazionali e inteazionali emerge sempre di più la necessità di trovare con urgenza energie alternative. Esse sono necessarie per tutti, ma specialmente per i popoli disagiati nel sud del pianeta. È un dovere morale, non rinviabile, aiutare queste genti.
Chi ha trascorso un po’ di tempo in un paese del terzo mondo (ospite magari di qualche missionario) racconta, al suo rientro, come questa esperienza sia stata arricchente. Ma, a tale fine, bisogna lasciarsi catturare dall’atmosfera che si respira in quelle terre e vedere le cose da un punto di vista completamente nuovo, conferendo un valore diverso alla vita, al tempo, al denaro. È necessario liberarsi dai propri numerosi condizionamenti, imparare a giornire del poco che c’è e a condividerlo.
Si rileva, soprattutto, la grave situazione di povertà in cui vive, ad esempio, la grande maggioranza degli africani. Nel contempo, affascinano gli spazi immensi e la bellezza della natura, mentre si prova rabbia nel vedere come le potenziali ricchezze della terra non siano debitamente sfruttate. Spesso ci si ferma, impotenti, di fronte a realtà ritenute immutabili.
L’amicizia con i missionari della Consolata e la collaborazione con dei volontari hanno suscitato, in alcuni giovani amici di Torino, interrogativi profondi; hanno avvertito la necessità di trovare, pur nei loro limiti, delle valide soluzioni a qualche problema del nostro pianeta.
L’inquinamento dell’ambiente, ad esempio.

In molti paesi dell’Africa (e non solo) esiste una massa di persone impoverite anche dal progressivo inquinamento ambientale, dovuto anche allo sfruttamento indiscriminato del territorio. Per gli abitanti, già costretti ad un’esistenza precaria, si aggiungono altre difficoltà, dato il rapporto di forte dipendenza economica con l’ambiente. Allora diventa indispensabile favorie lo sviluppo privilegiando il reperimento di nuove forme d’energia.
A tale scopo, il suddetto gruppo di amici di Torino ha deciso di lavorare con impegno per offrire un aiuto positivo e una speranza concreta. Da qui è nata l’idea di fondare l’Associazione culturale e umanitaria «Noè», che svolge ricerche finalizzate alla valorizzazione dell’habitat nel sud del mondo, grazie a confronti d’idee e sperimentazioni di nuovi progetti.

Tra le iniziative dell’Associazione «Noè», un progetto è particolarmente significativo.
In breve: si tratta di effettuare un tour con mezzi di trasporto sperimentali ad energia alternativa che, partendo dall’università di Tolosa, attraversi l’Africa e raggiunga l’università di Kinshasa, nella repubblica democratica del Congo; da qui, costeggiando l’Africa orientale, rientrare a Torino dopo aver toccato città, villaggi sperduti e missioni tra le più bisognose.
Il viaggio si prefigge, come scopo primario, di fornire informazioni tali da favorire la presa di coscienza di uno dei più grandi mali del terzo millennio: l’inquinamento ambientale, prodotto da emissioni di gas nocivi.
Sovente, però, tale problema viene proposto in maniera non consona alla realtà, provocando disinteresse. Sono ormai numerosi i trattati che, confortati da inoppugnabili dati, mostrano a livello mondiale i disastri ambientali, tra i quali: il surriscaldamento della terra e il recente susseguirsi di sconvolgimenti meternorologici in ogni parte del pianeta, Italia inclusa.
Chiunque consideri l’ambiente la casa dell’uomo e un dono di Dio da salvaguardare anche per i propri figli e nipoti intuisce facilmente gli ideali del progetto di «Noè».
L’intento è quello di sfruttare il sapere e le tecnologie disponibili, al fine di rallentare (almeno) il processo d’inquinamento, destinato altrimenti ad un irreversibile incremento. «Noè», pertanto, intende convogliare subito gli sforzi là dove le condizioni sociopolitiche sono più vulnerabili e minore importanza viene attribuita al problema.
Il «testimone» di questa operazione sarà «una colonna di veicoli sperimentali», spinti da propulsori ad energia alternativa, cioè ad idrogeno.
Durante il viaggio verranno fotografate e documentate le varie situazioni di povertà, le realtà missionarie, le necessità energetiche delle popolazioni. Le informazioni raccolte potranno essere divulgate in tempo reale con un browser web e opportuni programmi televisivi.
Nel frattempo sarà possibile analizzare il territorio e i bisogni energetici più urgenti dei luoghi visitati, studiando così la possibilità di realizzare in loco sistemi alternativi, come centrali eoliche, solari od idriche.

L’Associazione «Noè», in sinergia con studi tecnici italiani, oltre alla campagna di sensibilizzazione, cornordinerà il progetto e ne curerà l’attuazione sino al collaudo finale. Inoltre, in stretta collaborazione con varie facoltà universitarie e alcuni missionari della Consolata, provvederà alla formazione di tecnici locali, al fine di dare «un valore aggiunto» agli sforzi profusi e garantire, soprattutto, che le opere durino nel tempo.
Il 29-30 settembre 2000 l’iniziativa è già stata presentata all’università di Parigi da Luigi Toscano, presidente dell’Associazione «Noè», su invito di Antonio Gioelli, rettore magnifico dell’università.
L’Assemblea universitaria, favorevole al progetto, ha delegato quale cornordinatore tecnico della progettazione l’ingegnere Massimiliano Longo, direttore generale del «Centro per le ricerche ed energie alternative» di Bruxelles.
L’elemento cardine del progetto sarà il motore ad idrogeno, brevettato negli anni ’70 dallo stesso ingegner Longo e riconosciuto come valido dal premio Nobel 1977 Giulio Natta, collaboratore scientifico dell’Università europea del lavoro di Bruxelles (Uet).

L’Associazione «Noè» si rivolge a quanti credono che si possa (anzi si debba) rispettare la terra e le risorse che il Creatore vi ha elargito, usandole non solo per i propri bisogni, ma anche con metodi di conservazione, onde garantire anche ai posteri un mondo più vivibile e «a misura d’uomo».
«Noè» sollecita tutti ad unire al più presto le forze, per ingaggiare una «crociata» contro l’inquinamento. Purtroppo sono brutte le notizie giunte dall’Aja, durante la Conferenza mondiale sui mutamenti climatici (24-26 novembre 2000): Stati Uniti ed Europa hanno penosamente litigato, mancando l’accordo per ridurre i gas che producono l’effetto serra.
D’altro canto, non è più possibile ascoltare le notizie allarmanti dei mass media e pensare: «Sono problemi troppo grandi per noi. Non possiamo farci nulla!». Al contrario, ognuno deve assumersi la sua responsabilità e dire «basta!» per mutare politica.
È risaputo che una fresca, limpida e pura sorgente d’acqua di montagna è costituita da tante piccole gocce.

Luigi Toscano