Finalmente una “shara”

Cari missionari,
ho trovato molto interessante, su Missioni Consolata di giugno, la lettera della signora Shara Bocchetta di Melfi (PZ). L’interesse deriva dal fatto che ho riscontrato delle eloquenti somiglianze tra l’esistenza della signora e la mia.
Shara scrive: «Nel 1942-43 mio fratello partì a 17 anni per la guerra». Anche mio fratello maggiore nel 1944, a 18 anni, partì per la guerra; però combatté sul fronte opposto…
Poi scrive: «Finita la guerra, cadde in un esaurimento nervoso. Venne ricoverato nella casa di cura di Collegno (TO)». Dopo la guerra, anch’io ebbi un esaurimento nervoso, ma fui ricoverata in un centro di Londra. Però oggi abito a Collegno, non lontano dalla ricordata casa di cura.
Leggo ancora: «La madre partì per Collegno… si fermò in una bellissima cappella, chiese conforto alla Madonna… Quella Madonna era la Consolata». Ebbene, anche la mia parrocchia è dedicata alla Consolata. Oltre alla modea chiesa, c’è una bella cappella, dedicata a sant’Elisabetta, che fu la prima sede parrocchiale. Questa chiesetta fa parte del «villaggio Leumann» e fu costruita dall’imprenditore svizzero Napoleone Leumann. Ogni domenica vi partecipo alla messa: mi attira molto perché Leumann era un cristiano protestante, come me.
Però l’importante non è l’essere tutti sulla stessa strada, cristiani e credenti in altre religioni; l’importante è che le strade, anche partendo da punti diversi, siano «buone», che portino alla stessa meta, cioè a nostro Signore Gesù: qui sulla terra o nell’eternità. Ma forse il fatto ancora più importante non è la «strada buona» (ogni via può essere tale), quanto il verificare se stiamo andando «avanti» o «indietro» su quella strada.
Un’altra cosa strana è che la mia prima nipotina fu chiamata Shara, un nome assai raro per la sua ortografia (in inglese è Sarah e in italiano Sara). Dopo sette anni di ricerca, ho finalmente trovato nella signora Bocchetta un’altra «Shara». Mi auguro che possa leggere questa lettera, con i miei saluti.
Divisi e su fronti opposti in guerra e in chiesa, troviamo però l’unità in Colui che sa e può tutto, tramite una bimba di sette anni.
Sheila Warren
Leumann (TO)

La signora Sheila è una cara amica. Alcuni missionari della Consolata le devono riconoscenza, quale loro insegnante d’inglese.

Sheila Warren




Utopia e realtà

Spettabile redazione,
ho letto con molto interesse la riflessione di padre Giacinto Franzoi sul problema della cioccolata e dei suoi risvolti sui paesi poveri, in modo particolare in Colombia dove il missionario lavora.
Sicuramente, qui da noi, i consumatori più consapevoli devono fare promozione, meglio se organizzati, evidenziando le diseguaglianze e cercando di costringere a miti consigli le multinazionali che spadroneggiano.
Ma anche in loco (e mi riferisco particolarmente al dramma africano nella fascia equatoriale, per mancanza d’acqua e presenza di guerre) occorre creare una rete di «auto- aiuto», puntando su cultura e informazione tramite radio locali, più facilmente gestibili, e operando con cornoperative.
Queste possono nascere anche in Italia e poi trasferirsi dove necessario: ad esempio, per realizzare pompe solari che potrebbero essere volano di progetti più complessi.
Forse la mia è solo utopia; ma occorre aiutare la popolazione africana a camminare con le sue gambe, perché l’aiuto del nord, salvo eccezioni (leggi «missionari»), è troppo interessato a mantenere le diseguaglianze anziché colmarle.
Giorgio Tagliavini
Milano

«Utopia» significa «non luogo»: cioè una realtà o un ideale che non esiste, perché non ha trovato spazio o accoglienza. Ma potrebbe trovarli e, quindi, esistere. Il compito del missionario e delle persone di buona volontà (come Giorgio) è anche questo: passare dall’«utopia» all’«esistenza».
Un passaggio realizzabile, nonostante le difficoltà, anche in Africa. Specialmente se si opera «organizzati» o «in rete», come raccomandiamo da qualche tempo.

Giorgio Tagliavini




Speciale Brasile – Non tornare indietro

Non è «il più grande del mondo». Quanto a superficie, Russia, Canada, Cina e Stati Uniti lo superano. Ma tant’è. Il brasiliano dirà sempre: «Dio è grande, ma il Brasile è ancora più grande». Se poi vince il campionato mondiale di calcio, tutti scattano in piedi per proclamare: «Anche Dio è brasiliano».
Il Brasile è grande soprattutto per i contrasti. Ad esempio, in rapporto alla popolazione, è il quarto produttore al mondo di cibo, ma si dibatte nella denutrizione, preceduto solo da India, Bangladesh, Pakistan, Filippine, Indonesia. E 36 milioni di bambini si dibattono nella miseria. Perché?
Un’amica brasiliana ha risposto con una favola. «Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: “Fa’ scorrere fiumi maestosi in Brasile. Scarica terremoti e gelate in Europa, ma pianta alberi meravigliosi in Amazzonia e riempi la sua terra di minerali preziosi…”.
L’angelo interruppe: “Scusa, Signore! Perché al Brasile doni solo cose belle e agli altri cose brutte?”. “Ma tu non sai – replicò il Padreterno – che razza di politici goveeranno il paese!”».
Il problema del Brasile non è la povertà,
ma l’ingiustizia.

«o maior do mundo»,
numero speciale di Missioni Consolata sui 500 anni del Brasile, coglie la triste verità:
n ripercorrendo la storia, mentre «la telenovela
continua»;
n analizzando le questioni sociali, dove «i nodi
vengono al pettine»;
n seguendo il cammino della chiesa, che presenta
«un vangelo
dai tanti volti».
I diversi volti del Brasile (dall’indio al piccolo proprietario, dal nero all’ex emigrato italiano) dovrebbero essere accomunati dalla frateità. Essa è soprattutto spirituale; ma reale, visibile, storica. Non basta la comunione fra spiriti. L’indio, il nero e il bianco non sono fratelli: infatti appartengono a genitori, paesi e culture differenti. Eppure sono fratelli spirituali se vivono nella reciproca accettazione e condivisione dei loro beni, sapendo di appartenere tutti alla stessa famiglia umana, che è la famiglia di Dio.
E poiché l’uomo, più che fratello, è «lupo dell’uomo», da sempre si lotta per la liberazione da se stessi e dalle strutture oppressive.
È necessario spezzare le schiavitù, specialmente quando «i faraoni» e i loro lacché hanno «il cuore indurito» (cfr. Es 10, 1). Anche Gesù di Nazaret soffre con le folle che accorrono a lui a piedi da ogni città, perché «sono pecore senza pastore» (Mc 6, 33-34).
In Brasile le masse di senza-terra, che partecipano a qualche romaria da terra (marcia-pellegrinaggio), si accodano alle folle cui Gesù Cristo rende giustizia con la liberazione.
Con buona pace di chi vorrebbe imprigionarlo nel tabeacolo, fra lini dorati.
La chiesa, dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, «se torna indietro», sbaglia.
Parola di non pochi vescovi.
Francesco Beardi

Francesco Beardi




Dal Pentagono a St. Patrick

Nato a Filadelfia da una famiglia
di origini irlandesi,
a lungo cappellano della U.S. Navy,
John O’Connor ha guidato
la diocesi di New York per 16 anni.
Con determinazione
e piglio da leader.

John O’Connor è stato tumulato in una cripta della cattedrale di S. Patrizio lunedì 8 maggio, accanto a quella dove riposa Pierre Toussant, lo schiavo haitiano che due secoli fa si distinse in opere pie e per il quale lo stesso O’Connor aveva avviato in Vaticano la causa di beatificazione.
Una folla di 3.500 persone gremiva la cattedrale, compresi 15 cardinali, 150 vescovi e 800 sacerdoti. Tra i politici spiccavano il presidente Clinton e la moglie, il vice Gore e la moglie, l’ex presidente Bush, il governatore Pataki, il sindaco Giuliani. Il cardinale Angelo Sodano, rappresentante del papa, ha celebrato la messa; il cardinale Beard Law, amico intimo di O’Connor, è venuto da Boston per rivolgere la omelia.
Il cardinale Sodano ha ricordato ai presenti che O’Connor, con i suoi 80 anni, era il più anziano tra i vescovi americani in attività. Dal 1984 guidava l’arcidiocesi di New York e dal 1985 era stato nominato cardinale da papa Giovanni Paolo II. O’Connor era ritenuto molto vicino al pensiero e all’apostolato di papa Wojtyla, dal quale si era recato in visita a Roma per l’ultima volta lo scorso febbraio.
Tra gli altri oratori, il presidente Clinton ha esaltato la forza d’animo non comune e il coraggio e la fede dimostrati nella malattia. L’associazione degli ebrei americani ha sottolineato che O’Connor ha avuto un merito notevole nel costruire un ponte fra ebrei e cattolici. Per il candidato alla Casa Bianca, George Bush, gli Usa hanno perso una voce eloquente a favore dei diritti umani e della dignità dell’uomo. E per il sindaco Rudolph Giuliani il cardinale è stato una bussola morale, ammirato da tutti i newyorkesi, credenti e non credenti.

L’ultima volta che avevo incontrato il cardinale era stata la prima domenica di quaresima (in coincidenza con l’inizio del giubileo della città di New York) nelle cattedrali di S. Patrizio e di S. Giacomo. I sacerdoti, i religiosi, le suore e i fedeli avevano riempito le navate che, in occasione delle celebrazioni, hanno esibito a caratteri cubitali il grande motto «Aprite le porte a Cristo».
Le parole del cardinale e dei vescovi, il canto delle litanie dei Santi, l’invocazione della benevolenza divina su tutti coloro che abitano questa grande metropoli e lo scambio della pace, come dono di responsabilità e di coinvolgimento, avevano fatto della celebrazione un significativo atto penitenziale-giubilare.
«Noi come chiesa saremo sempre con le vittime dell’ingiustizia e della violenza – avevano detto i prelati – e ci impegneremo a garantire a tutti i mezzi necessari per vivere in modo dignitoso e in un ambiente di ascolto e fratea accoglienza».
La frase evangelica più eloquente che il cardinale aveva voluto consegnarci era stata: «Io sono con voi fino alla fine dei tempi». E l’aveva spiegata così: «Queste parole di Gesù ci assicurano che nell’annunziare e vivere il vangelo della carità non siamo soli. In questo anno speciale del giubileo Gesù invita tutti a tornare al Padre, che ci aspetta a braccia aperte, per trasformarci in segni viventi ed efficaci del suo amore misericordioso».
Il ritorno al Padre per il cardinale O’Connor coincideva con la salvaguardia di ogni diritto umano. «Osteggiando il Padre – aveva scritto sul Catholic News, il settimanale della diocesi di New York – tutto viene sconvolto, scatenando necessariamente una serie di fattori negativi, deleteri per la dignità, la vita e la vera realizzazione della persona umana».
Nell’articolo, tra i fattori più negativi, il cardinale aveva citato la tragedia della criminalità che avvelena il vivere civile, lo sfascio e l’infelicità delle famiglie, le ideologie massificatrici, le rivoluzioni sanguinarie, le dittature e gli estremismi di qualunque matrice, i regimi polizieschi, i genocidi e le pulizie etniche, con i relativi campi di sterminio e i foi crematori.
Poche settimane prima di morire, il cardinale John O’Connor era stato premiato della medaglia d’oro del Congresso, l’onore civile più alto della nazione, per la sua battaglia in favore della giustizia economica, le condizioni dei lavoratori e, in generale, per tutte le persone nella città, nello stato e nel paese che hanno bisogno di aiuto.
Nel ricevere la prestigiosa onorificenza, il cardinale aveva ribadito il suo impegno nel difendere, a qualunque costo, la sacralità della vita umana, dal sorgere fino al tramonto, di qualunque persona, di qualsiasi colore, razza, religione o non religione essa appartenga. «Per questa causa mi sono sempre battuto e mi batterò fino all’ultimo mio respiro», aveva detto il cardinale, ancora debole e convalescente per l’operazione al cervello.
Nella storia la medaglia d’oro del Congresso è stata aggiudicata a 250 persone, tra cui spiccano George Washington, Wright Brothers, Madre Teresa di Calcutta. A chi gli aveva ricordato che la prima onorificenza era stata consegnata ai patrioti della rivoluzione americana di Bunker Hill, il cardinale aveva risposto: «È meraviglioso! Anch’io sono stato militare». Infatti O’Connor era stato cappellano della U.S. Navy (la marina militare statunitense) durante la guerra in Vietnam e in Corea.
In quell’occasione, anche il presidente Clinton aveva inviato un messaggio, dichiarando: «Per più di 50 anni O’Connor ha servito la chiesa cattolica e la nostra nazione con costanza e impegno». Nel suo messaggio, il presidente aveva ricordato i primi giorni di operato parrocchiale di O’Connor a Filadelfia, sua città natale, il servizio come cappellano militare e i 16 anni a capo dell’arcidiocesi di New York.
«Sia quando è stato soldato in campo di battaglia sia con i malati di Aids – aveva continuato il presidente – il cardinale ha operato con spirito gentile e amorosa dedizione. Fin dall’inizio, O’Connor è stato un protettore per i poveri, un campione per i lavoratori, e fonte di ispirazione per milioni di persone».
Vari vescovi erano candidati a succedere ad O’Connor alla guida di una diocesi che è solo la terza come popolazione negli Usa (dopo Los Angeles e Chicago), ma è sicuramente la più importante sul piano della visibilità, e del peso politico. Il Vaticano ha scelto Edward Michael Egan, vescovo di Bridgeport. Stimato intellettuale, conosce e parla quattro lingue, ed è un abile amministratore.

Al Barozzi




Testimoni coraggiosi

Il 10 giugno il cardinale Angelo Sodano ha inaugurato la grande mostra multimediale missionaria.
Ai pellegrini che giungono a Roma per il Giubileo
è offerta una suggestiva panoramica sull’opera
di evangelizzazione della chiesa e uno stimolo
per continuare la missione di Cristo nel mondo d’oggi.

A llestita presso l’abbazia delle Tre Fontane, luogo del martirio di s. Paolo, l’Expo Missio 2000 racconta, in un percorso realizzato con mezzi multimediali, i fondamentali dinamismi della missione: ricerca di Dio, incontro con Cristo e missione in mezzo agli uomini. È quindi un coinvolgente itinerario di spiritualità, che sollecita il visitatore a compiere un suo personale cammino missionario e suscita in lui una domanda, oltre a fornire una risposta, sul significato della missione universale di Cristo e dei cristiani, come dono, appello e mistero. In un luogo di altissima spiritualità, qual è l’abbazia, ai visitatori è offerta una serie di suggestioni e contenuti lungo un itinerario in cui storia, geografia, antropologia, ispirazione artistica, riflessione teologica e soprattutto fatica missionaria di uomini e donne, consacrati per tutta la vita all’evangelizzazione dei popoli s’intrecciano, si spiegano e si completano a vicenda.
LA RICERCA
Expo accompagna i visitatori lungo tre passaggi fondamentali. Il primo, all’aperto, immette gradualmente nel fluire continuo della storia umana, con le sue bellezze e tragedie, slanci di carità, giustizia, solidarietà e ingiustizie. Un’umanità contrassegnata comunque da un impulso comune a tutti i popoli: la ricerca di Dio. Quest’ansia istintiva della trascendenza si manifesta nella grande varietà di religioni e fedi, riti e simboli, e nel mistero dei libri sacri su cui molte religioni si fondano.
L’idea centrale di questa prima parte dell’esposizione è che il primo missionario è Dio stesso: tutto parte da lui e dal suo amore per l’uomo, a cominciare dalla creazione, per continuare in un dialogo ininterrotto con ogni singola persona e con ogni popolo, cultura e religione, nonostante peccati, errori, tradimenti.
L’INCONTRO
Il secondo passaggio conduce a incontrare la risposta di Dio a questa ricerca, secondo la fede cristiana: Gesù di Nazaret. Il suo volto è il volto di Dio. All’interno della chiesa abbaziale, viene proposto un intenso momento di meditazione intitolato «dal volto ai volti»: una sacra evocazione dell’immagine di Cristo così com’è stata accolta, vissuta e rappresentata nelle culture del mondo. Essa consiste nella proiezione di gigantesche immagini integrate da testi, musiche, effetti di luce. Le icone sono tratte da opere d’arte cristiana di Africa, America, Asia, Europa e Oceania, ed evocano aspetti e momenti diversi della figura di Gesù: bambino, amico, maestro, giornioso, sofferente, glorioso.
Il fascino della rappresentazione è accentuato dal movimento lento e continuo delle immagini della vita di Gesù, che si dilatano sull’enorme schermo e percorrono i diversi piani della chiesa, disegnandovi un cangiante e fascinoso affresco virtuale.
All’uscita dalla basilica, i pellegrini sono invitati a entrare nella chiesa dedicata al martirio di s. Paolo per un momento di silenzio e preghiera. Questa sosta nel luogo del martirio dell’apostolo delle genti, il primo, grande testimone-missionario della fede cristiana, è un invito a riflettere su cosa comporta annunciare Cristo e il suo vangelo: il rischio sempre presente del martirio, del dover sacrificare la vita per testimoniare in prima persona l’amore ai fratelli.
LA MISSIONE
Il terzo passaggio dell’esposizione vuole essere un percorso nella storia e nelle realtà e forme attuali della missione. S’inizia con l’annuncio: in una specie di «giardino missionario» vengono presentate le tappe fondamentali di 20 secoli di evangelizzazione, insieme a una schiera di volti noti o sconosciuti di missionari, fino a quelli che operano oggi in tutto il mondo.
Entrando nel contesto attuale della missione, il visitatore è invitato a una partecipazione non solo ideale e di principio, ma gli viene offerta l’occasione di un gesto concreto di solidarietà con i poveri: egli può partecipare a comporre un gigantesco puzzle (4×20 metri), acquistando una o più tessere e contribuendo così a realizzare alcuni progetti di cooperazione internazionale in varie parti del globo.
Di fronte al grande puzzle sono allineate una serie di tende, alternate a grandi tele che, in più lingue, sintetizzano i grandi bisogni delle popolazioni con le quali i missionari condividono la loro vita: armonia, vangelo, pace, acqua, cibo, salute, scuola. Ci sono le tende degli istituti missionari, che cambieranno periodicamente. C’è la tenda della giustizia e pace, in cui il visitatore può firmare, su un rotolo di carta di tre quintali, e aderire alla campagna per la remissione del debito estero dei paesi più poveri.
Nella tenda della vocazione, attraverso l’interpretazione in chiave missionaria delle beatitudini evangeliche, i pellegrini possono scoprire il fascino della chiamata che Dio rivolge a uomini e donne di ogni continente, perché siano partecipi della missione di Cristo con tutta la loro persona e per tutta la vita.
Nella tenda del dialogo interreligioso, una mostra audiovisiva illustra l’impegnativo cammino che porta gli uomini di religioni diverse a incontrarsi nel rispetto reciproco e collaborazione, operando insieme per il bene. Un’atmosfera carica di luce e di pace invita a pregare in dialogo con altre esperienze religiose.
Al termine del percorso le tende dell’ascolto e dell’incontro: i pellegrini possono ascoltare dalla voce dei missionari le loro esperienze, per comprenderne meglio fatiche e speranze e rimanere contagiati dalla loro fede ed entusiasmo.

Beppe del Colle




Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi




MOZAMBICO – Protetti persino da una suora

P adre Filipe Couto, mozambicano e missionario della Consolata, è l’attuale rettore dell’università cattolica del Mozambico (Ucm). Sorta per volontà dell’episcopato del paese e inaugurata a Beira il 10 agosto del 1996, l’università, nonostante le non poche difficoltà, è in continua espansione, come ci rivela questa breve intervista.

Lo scorso agosto, l’università cattolica del Mozambico ha inaugurato una facoltà di scienze bio-mediche nella provincia di Sofala, a Beira. Come mai?
Volevamo iniziare una scuola superiore di medicina, anche se esiste già una facoltà nella nostra capitale (Maputo). Però la chiesa e il ministero della sanità hanno compreso la necessità di avee un’altra per formare più medici che potranno curare i malati nelle varie province e distretti.
Abbiamo pochissimi medici mozambicani e il nostro paese è molto esteso; troppi studenti non possono uscire dal centro e dal nord del paese per andare nella capitale. Inoltre, è necessario incominciare una scuola superiore di medicina con un tipo di istruzione molto più adeguato alle necessità. Il tirocinio accademico e pratico dovrà essere svolto tenendo conto dei bisogni degli ammalati dell’Africa Australe: Sudafrica, Botswana, Namibia, Zimbabwe, Malawi, Zambia, Tanzania…

Chi vi assiste nell’esecuzione del progetto?
Dalla scuola superiore di medicina dell’Università di Wittwatersrand (Johannesburg – Sudafrica) due professori (Peter Gray e Adriano G. Duse) si sono impegnati a foirci un’assistenza. Essi cornordineranno tutto il progetto: l’anno preparatorio, il ciclo pre-clinico e clinico; accompagneranno anche il lavoro che stiamo facendo per trasformare l’ospedale centrale della città di Beira in clinica di insegnamento per gli studenti di medicina.
Attraverso i due medici, avremo anche l’assistenza di due professori della Scuola di medicina dell’Università di West Virginia (Stati Uniti).
L’attuale ministro della sanità in Mozambico, Francisco Ferreira Songane, quando era direttore dell’ospedale centrale, aveva lavorato insieme a noi per organizzare il programma. Adesso, da ministro, si sente impegnato ad appoggiare l’inizio e lo sviluppo del progetto. Anche la facoltà di medicina dell’Università statale «Eduardo Mondlane» collabora con noi.

Disponete di mezzi finanziari per iniziare, sviluppare e continuare il progetto?
Abbiamo un credito da un banchiere tedesco, senatore e console onorario del Mozambico in Germania, nella Baviera, Siegfried Lingel. La sua banca (Merkur Bank) ci ha concesso un prestito. Questo ha dato la possibilità di incominciare. Alcuni istituti missionari ci hanno appoggiato: la provincia italiana dei missionari della Consolata, la direzione generale delle missionarie della Consolata, la regione italiana dei missionari comboniani, una parrocchia della diocesi di Milano (il cui parroco, don Antonio Colombo, ha una sorella missionaria della Consolata che lavora in Mozambico). Inoltre, contiamo sul sostegno di un gruppo di Casatenovo (LC), costituito dalla famiglia e amici della dottoressa Graziella Fumagalli, trucidata in Somalia (dove era volontaria della Caritas e responsabile di un ospedale).
L’Organizzazione mondiale della sanità (Who) in Mozambico ci ha dato un piccolo sussidio per pagare i consulenti che vengono da fuori.
Quanto al futuro: l’Ucm è opera di Dio. Confidiamo soprattutto nella provvidenza di Dio, della Madonna Consolata, di san Giuseppe e tutti i santi: includendo una suora benedettina tanzaniana, deceduta nel 1950 e sepolta a Songea (Tanzania), suor Beadette Mbawala; questa suora ha protetto e continua a proteggere l’Ucm, specialmente la rettoria.
In secondo luogo, contiamo sulle tasse scolastiche degli studenti. Ognuno dovrà pagare annualmente il corrispondente di 1.000 dollari americani. La Facoltà di scienze bio-mediche riuscirà ad automantenersi nella misura in cui riusciremo a sviluppare un sistema di tasse scolastiche che, pur non avendo intenzioni lucrative, esiga il pagamento delle spese ordinarie.
Stiamo cercando dei crediti per compensare quello che, per il momento, non riusciamo ad avere con le nostre forze: ci sono delle banche locali e inteazionali disposte a dare dei crediti bonifici, rimborsabili a lunga scadenza e con interessi non troppo alti. Stiamo dialogando con diverse fondazioni ed istituzioni bancarie per ottenere altri fondi.

Oggi si parla del condono del debito ai paesi in via di sviluppo e… voi di debiti volete fae ancora!
La faccenda del condono del debito è complessa. Noi non potremo iniziare le nostre attività senza ricorrere ai crediti. Abbiamo avuto esperienze positive con la Facoltà di agricoltura dell’Ucm, che già stà funzionando da due anni nella provincia del Niassa, a Cuamba.

Con quanti studenti e docenti avete iniziato?
Ci sono circa 100 studenti nell’anno preparatorio. Quanto ai docenti: ho già menzionato i professori di Wittwatersrand e West Virginia. Avremo anche due medici missionari comboniani: il medico-prete Elias Arroyo e la medico-suora Donata Pacini; entrambi hanno un’esperienza di molti anni nel campo sanitario in Mozambico. Dall’università del paese vicino (lo Zimbabwe) avremo altri docenti.
La Vso (Voluntary Service Overseas) dell’Inghilterra invia tre docenti e il Dog (Dienst Over Grenze) dell’Olanda altri due. Dal Ministero della sanità, dall’ospedale centrale di Beira e dall’università statale «Eduardo Mondlane» provengono dei mozambicani, che lavoreranno con gli esperti venuti da fuori.

Non sarebbe stato meglio incominciare, più modestamente, con una Scuola superiore di infermieri e agenti di sanità pubblica?
In Mozambico ci sono già degli istituti per la formazione di infermieri; ne abbiamo uno persino qui a Beira, nel recinto dell’ospedale centrale. Abbiamo anche istituti di sanità pubblica a Maputo e a livello provinciale, con corsi particolari.
Una nota: il nostro progetto si chiama «Facoltà di scienze bio-mediche». La denominazione significa che, in questa facoltà, l’approccio dell’istruzione ha componenti fondamentali di sanità pubblica. Durante i corsi alcuni studenti potranno cambiare e decidere di formarsi come infermieri. Comunque la facoltà di scienze bio-mediche dell’Ucm punta sulla formazione di medici.
Purtroppo in Mozambico ci sono moltissimi ammalati senza assistenza medica.

Giacomo Mazzotti




ETIOPIA – In questo paese benedetto da Dio

Non mancano
nella storia i filosofi
che cercano l’elemento primo dell’universo.
Aria, fuoco, acqua, terra?… L’articolista,
partendo da questi elementi comuni,
offre altre considerazioni.

TERRA
«Riempite la terra, soggiogatela e dominate…» (Gn 1, 28).
In questo paese «da te benedetto», hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a chiedere alla gente di soggiogare la terra!
Sono loro, credo, ad essere sottomessi all’acqua, al fuoco e al suolo che calpestano. Passano la giornata chinati, zappando, pulendo sterpaglie, preparando la semina. Sono gente che aspetta la pioggia, perché questa irrighi il suolo e faccia crescere le messi.
Aspettano a lungo. Troppe volte, perché non ha piovuto, le sementi si sono perse. Il sudore, versato per il lavoro, non è stato sufficiente a far crescere qualcosa. Tutto è stato inutile, fatica sprecata!
I soldi pagati al padrone del terreno, i semi acquistati con tanto sacrificio sono andati persi per mancanza d’acqua.
Cosa mangeranno, caro buon Dio?
È rimasto niente, la terra è riarsa. Avevano speranza di raccogliere i frutti, ma anche questa è morta per mancanza di pioggia! Hanno i piedi sporchi di polvere nera:
perché non ti fai vivo, o Cristo,
e li lavi come facesti un giorno?
Toa ancora a farlo!
Tutti i loro sforzi sono stati spesi su terra di altri, pagando per l’uso.
Aspettavano un raccolto abbondante, sufficiente per tutti… ma non rimane nulla, neanche la terra!
Essendo affittata, è pronta per altri, loro non potranno pagarla di nuovo.
Questa terra ingrata, dopo avere accettato il lavoro delle loro mani, non ha dato frutto: ha «rubato» ai poveri, ha distrutto la speranza!
Hai un bel coraggio, caro nostro buon Dio, a dire alla gente di dominare la terra!
Io vedo, invece, che la terra li mangia, inghiottisce avida i morti di fame. Li copre di polvere, li dimentica presto perché fanno paura.
Questa terra crudele, sporca, insensibile… i bambini dei morti, impudicamente li copre di polvere nera.
I piccoli, o Dio, che tu hai benedetto, proclamato intoccabili.
Come osa la terra, la terra esserti infedele? Nelle lunghe notti, per un po’ di tempo li mantiene caldi, ma quando il fuoco si spegne, li abbandona al freddo pungente e prolungato. Nella terra sporca ci sono parassiti che invadono avidi i loro corpi insonni, rendendoli pidocchiosi e indecenti.
Al mattino si svegliano con i primi rumori; accorrono curiosi se sentono estranei, visite alle quali bisogna sorridere: un sorriso triste dai volti sporchi.
In questo paese «benedetto da Dio», la terra è avara, prende e non restituisce. Produce scorpioni, ragni velenosi e viscide vipere che vi strisciano sopra.
Ma a che servono queste creature per la povera gente?
I preti benedicono campi e sementi, pretendono grazie per le loro suppliche. Implorano Iddio che venga in aiuto con pioggia abbondante e pane per tutti.
Dio non ascolta! E qui, sulla terra, si sente soltanto il silenzio.
Ma questo Dio è soltanto dalla parte dei ricchi, i quali hanno tutto e non mancano di niente?
Il Dio dei poveri è un povero dio! Rimane soltanto la terra, avara e riarsa, che accoglie i cadaveri freddi, tentando di ridare il calore
rifiutato prima, quando aveva
negato i frutti promessi, quando – crudele – aveva spento la speranza.
Dove sei, o Dio, perché taci ora?
Fuoco
È tanto utile il fuoco che purifica l’oro e trasforma i cibi rendendoli gustosi. Il fuoco lava lo sporco con mani di fiamma, con le sue lingue ardenti. Ma l’oro è dei ricchi e il fuoco pure!
Per avere il fuoco ci vuole la legna, gas o carburanti, o la forza elettrica… ma ai poveri è negato l’accesso a questi beni, ai poveri rimane lo sterco di bue.
In questo paese «benedetto da Dio», lodato dai santi dell’Antico Testamento, i poveri raccolgono lo sterco ancora fresco e, come esperti vasai, lo trasformano in zolle. Essiccato al sole, sarà pronto per l’uso; bruciando in cucina, farà bollire l’acqua e scalderà i corpi stanchi quando andranno a riposo. Si vende al mercato, si baratta per del cibo. Lavorando lo strame, si guadagna da vivere; che dico «da vivere»? Si tira solo a campare! Permette agli umili di tirare avanti per un altro giorno.
In questo paese «benedetto da Dio», ci sono le donne…
ma perché soltanto donne?
Esse raccolgono legna, caricando sulle spalle tanto quanto pesano. Curve verso il mondo che le tiene in piedi, guardano per terra, sempre questa terra! Camminano svelte, quasi senza sosta, per molti,
lunghi, infiniti chilometri.
Ruminano in mente la fiacca speranza di vendere bene, cercando di essere le prime sul posto.
Non è generoso il compratore avaro. Il poco che le donne prendono non è neanche loro. Andrà in mano a genitori avidi, al marito o ai figli affamati:
loro ne hanno bisogno.
Per lei, la madre, ci saranno soltanto le briciole. E non è che volesse acquistare un capriccio, ma soltanto migliorare il cibo.
Domani… Ci sarà un domani?
Non sarà diverso, certo!
Ho visto queste donne che portano legna, chine sotto il carico pesante dei rami. Ho sentito vergogna di essere uomo. Io passo distante, staccato dalla loro vita, sollevando polvere e aggiungendola a loro che caricano il legno pesante.
È il Cristo che carica la croce, che porta i peccati del mondo.
Io faccio parte del mondo dei ricchi, le lascio passare, la loro indigenza mi scivola via: non è il mio compito!
E sento una voce, mai sentita finora: «Dalla tua spalla ho liberato il peso… (Sal 81, 7).
Lo dicevi al tuo popolo, schiavizzato in Egitto. Ora sono altri tempi! E io passo al largo.
Anche le ragazzine… sempre donne sono! Raccolgono foglie e rametti che, generosi, lasciano
cadere gli eucalipti. Di fronte al miracolo di queste creature, dovrebbero piegarsi e offrirsi in pieno alle loro mani, così maltrattate dal lavoro che fanno.
Dovrebbero seccare e, fattisi a pezzi per loro, nascondersi dentro al loro sacco.
Mi domando se basta un sacchetto di foglie e rametti a far bollire l’acqua, con cui si prepara il tè o il caffè.
Il fuoco, Signore…
Lodato sii, per fratello fuoco…
Fratello, lo chiamava Francesco, ma in questo paese «benedetto da Dio» è un fratellastro il fuoco dei poveri!

acqua
Sorella acqua…
In questo paese «benedetto da Dio» più che una sorella è un’ossessione. L’acqua non è mai vicina, né pura, né limpida. È un bisogno che si impone per primo, l’incubo notturno di donne e bambini: «Domani, di nuovo, dovremo tornare a prenderla al fiume, sporca com’è, fra tutte le bestie; o al pozzo comune, facendo la coda per ore infinite; oppure a scavare la sabbia del letto del fiume e rubarla quando appaia agli occhi».
Nell’incubo appaiono zoccoli enormi che tutto sporcano, sollevando la melma, spargendo il letame sull’acqua da bere, l’acqua benedetta che lava le mani.
E sognano anche dispettosi ragazzi che rubano il posto, versando a terra la preziosa merce raccolta con tanto sforzo.
Si sente stanchezza nei passi pesanti, che affondano dentro la polvere nera, nella sabbia che scalda la pelle indurita dei piedi. Si vede solo una strada, scaldata dal sole, senza confini (né davanti, né ai lati).
Arriva il mattino, spariscono i sogni; ci si sveglia presto e si vede ben chiaro che era tutto un incubo. Ma, purtroppo, sogno e realtà, realtà e sogno sono così simili per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».
«Tuo padre ha bisogno»:
scatta il comando da una madre già stanca, fin dal primo mattino. Recipiente in spalle, si parte rassegnati e ci si guarda attorno, cercando qualche compagna di viaggio con cui chiacchierare.
La strada è sempre quella, nessuna diversione. Qualche macchina passa e riempie tutto di polvere. Se si urta o si cade con la tanica piena, si riprende la strada, senza fare una piega.
Benedetta la plastica che resiste a ogni colpo e, se invecchia o si buca, è possibile ancora ripararla con il fuoco. Pesa molto meno della terracotta, quasi mai si rompe e non costa tanto.
Ne parlino pure male gli ecologisti: ma loro non sanno cosa significa farsi chilometri a piedi,
tutti i giorni, con un peso d’acqua sulle spalle!
Arrivati a casa, si cerca la mamma che prepari del tè e una fetta di pane. Ma si scopre, delusi, che è andata nei campi e bisogna aspettare. Delusione e pazienza
sono gli ingredienti della vita,
di ogni giorno per tanti abitanti di questo paese «benedetto da Dio».

aria
In questo paese «benedetto da Dio» vi chiedo un po’ d’aria per fare un respiro.
Quando guardo la gente affaticata, sento mancarmi il fiato,
mi assale la vergogna per i tanti beni che non ho guadagnato con il mio sforzo, che mi sono arrivati senza merito alcuno.
Datemi un po’ d’aria, per poter capire come mai tante persone di questo paese «benedetto da Dio» stanno così male, da farmi venire, in certe occasioni, la pelle d’oca soltanto a guardarli…
Voi che avete letto fino a questo punto, datemi una mano per poter capire e fare qualcosa, pur essendo grande il desiderio di tirarli fuori da tanta miseria.
Ditemi sinceri se, di fronte a loro, così malridotti, possiamo continuare a permetterci d’invocare Dio col nome di Padre.
«Padre nostro che sei nei cieli…».
E nella terra, dove?
E nel fuoco?
E nell’acqua?
Datemi un po’ d’aria!
Datemi una mano da offrire loro,
una mano
per tirarli fuori da tanta miseria!

UNA GUERRA TUTTA PAZZA

È incomprensibile agli stessi belligeranti. Ma non si tratta di rivendicazione di confine.
Sono in gioco poteri locali, indipendenza nazionale e futuro di tutto il corno d’Africa.

I nutile domandarsi chi ha torto e chi ha ragione. L’Eritrea appare come l’aggressore; ma la verità non è così semplice. Il problema comincia negli anni ’80, quando l’Eritrean people’s liberation front (Eplf) e il Tigrayan people’s liberation front (Tplf) combattono per liberare le rispettive province dalla dittatura di Menghistu. Sono entrambi socialisti; ma l’Eplf pende verso l’Unione Sovietica, il Tplf verso l’Albania.
Nel 1985 la tensione tra i due gruppi guerriglieri è diventata tanto incandescente che gli eritrei impediscono i rifoimenti dei viveri ai soldati tigrini in Sudan.
Nel 1988, quando si accorgono che, con i loro dispetti, rischiano di perdere la guerra, le due parti s’incontrano a Khartoum e appianano le loro divergenze. I tigrini suggeriscono di fissare i confini delle due regioni, ereditati dall’occupazione coloniale italiana. Ma gli eritrei dicono che prima bisogna finire la guerra, poi si vedrà.
Nel 1991 Menghistu è sconfitto. Il Tplf conquista Addis Abeba e il presidente Meles Zenawi comincia a disegnare la nuova Etiopia, che prevede autonomie etniche e regionali. L’Eplf entra in Asmara e il leader Issayas Afeworki si affretta a prendere le distanze dall’Etiopia: stacca i contatti telefonici col resto del mondo, perché vuole un prefisso internazionale differente da quello per l’Etiopia. Poi rimanda a casa i cittadini etiopici, impiegati nell’amministrazione: in due anni ne sono espulsi 150, comprese le mogli eritree e figli.
Nel 1993 l’Eritrea opta per l’indipendenza e l’Etiopia ne rispetta la scelta, sanzionata dal referendum popolare.

N el 1997 l’Eritrea sostituisce il birr, moneta etiopica in circolazione in entrambi i paesi, con la nuova valuta nazionale, il nafka. L’Etiopia rifiuta la parità tra birr e nafka ed esige pagamenti in dollari Usa. L’Eritrea alza le tasse di transito e dogana. L’Etiopia lascia il porto di Assab per quello di Djibuti. Il commercio va a rotoli; i prezzi alle stelle; i dispetti reciproci non si contano più.
Lo stesso anno l’amministrazione etiopica in Tigray pubblica nuove mappe della regione, includendo tre aree controverse della piana di Badme; comincia a piantare cippi di confine, espellere gli eritrei dai villaggi tigrini e distruggere le loro abitazioni.
Nel maggio 1998 quattro militari eritrei, accorsi a ispezionare le frontiere e dirimere le controversie, vengono uccisi dai miliziani tigrini. I carri armati eritrei invadono la regione di Badme, poi tutte le aree contestate. Un fronte che si estenderà per quasi 1.000 km. L’Etiopia risponde con cannonate e bombardamenti aerei, facendo vittime tra i civili. La diplomazia internazionale si mette in moto; ma ottiene solo un fragile cessate il fuoco. La stagione delle piogge blocca cannoni e carri armati. Ma comincia la guerra di propaganda. Intanto l’Etiopia comincia a cacciare dal paese i cittadini eritrei; alla fine del 1999 gli espulsi saranno 62 mila.

A lla fine di febbraio 1999 l’Etiopia riconquista Badme e, più a sud, Tsorona. Addis Abeba parla di «vittoria totale», ma a che prezzo! In un mese di combattimenti, dietro le trincee eritree rimangono insepolti circa 20 soldati etiopici e 100 carri armati distrutti.
Stati Uniti, Onu, Organizzazione per l’unità africana (Oua), vari paesi europei e africani intensificano le missioni diplomatiche per presentare piani di pace, chiedere la sospensione delle ostilità, far sedere Issayas e Meles attorno al tavolo delle trattative. I due contendenti non si vogliono vedere neppure in fotografia. Se uno accetta i piani proposti, l’altro trova i cavilli per rifiutarli e viceversa. E le scaramucce continuano lungo la frontiera centrale; varie incursioni di aerei etiopici bombardano le città di Massaua, Assab, Shambuko.

I l 2000 si apre con segni di speranza. L’onorevole Rino Serri, delegato dell’Unione europea nella ricerca di una soluzione politica del conflitto, riesce a riavviare le trattative, che si svolgono ad Addis Abeba (23 febbraio – 3 marzo). Il governo eritreo si convince a firmare incondizionatamente il piano di pace proposto dall’Oua.
Ma l’Etiopia, nonostante che milioni di persone nel sud del paese stiano morendo di fame a causa dell’ennesima siccità, continua la sua guerra, decisa a risolvere militarmente la partita. Il 13 maggio, vigilia delle elezioni politiche, l’esercito etiopico sferra un decisivo attacco su tutto il fronte, distruggendo villaggi, regioni e città. Gli eritrei si attestano sull’altipiano più interno per difendere la capitale. Addis Abeba afferma che non ha intenzione di conquistare l’Eritrea e che è pronta a riprendere i negoziati; ma vuole «trattare mentre combatte e combattere mentre tratta».

I l 18 giugno, ad Algeri, dopo due settimane di trattative indirette (cioè comunicando solo attraverso i mediatori) i ministri degli esteri di Eritrea ed Etiopia si sono trovati per la prima volta faccia a faccia e, davanti alle telecamere, hanno firmato il cessate il fuoco e si sono stretti la mano. Una forza di pace dell’Onu dovrebbe dispiegarsi lungo i confini, per una fascia di 25 km in territorio eritreo. Ma non è ancora la pace.
Intanto entrambi i paesi si leccano le ferite. Nessuno dei due rilascia cifre attendibili sul costo di questa guerra stupida. Si calcola che abbia fatto circa 100 mila morti e un milione di sfollati. Tutti e due gli stati hanno dato fondo alle proprie risorse per comperare armi e munizioni, bloccando il processo di sviluppo e scoraggiando gli investitori più affezionati. Mentre Addis Abeba spende 2 miliardi di lire al giorno nella guerra, paesi occidentali e organizzazioni umanitarie fanno fatica a chiedere cibo e medicine per salvare milioni di persone che muoiono nel sud dell’Etiopia.

A quando la pace? Sarà un processo complicato. Non sono in gioco i confini maltracciati dalle mappe coloniali, ma la sovranità nazionale, l’egemonia politico-militare regionale e il futuro dei due paesi. L’Eritrea vuole affermare la sua indipendenza a 360 gradi; Addis Abeba continua a sognare la «grande Etiopia», con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare.
Benedetto Bellesi

Dalvador Del Molino




Una merce strategica

Nell’era della globalizzazione è mutato il rapporto tra informazione e realtà.
Il giornalista rischia di divenire strumento di propaganda per progetti altrui.
Il lettore-spettatore rischia di farsi travolgere, perché «la verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare». Si tratta di comunicazione o informazione?
Come difendersi dai censori post-modei che agiscono secondo l’assioma
«molta informazione, nessuna informazione»?

La formula «villaggio globale» rese celebre Macluhan. Ebbene, quel villaggio può oggi dirsi sostanzialmente realizzato. Almeno per quanto concee l’economia, la finanza, le problematiche ambientali ed ecologiche, l’informazione. Ma, oltre a creare il villaggio globale, l’informazione nel mercato planetario è diventata una merce strategica: chi la controlla (e ne controlla il processo di produzione e distribuzione) controlla il mondo. Anzi, costruisce il mondo.
Nietzsche sosteneva che «i fatti non esistono: esistono solo interpretazioni». Lo stesso può ormai dirsi del mondo, della realtà, sostituiti dalla realtà virtuale costruita dall’informazione.
In un recente saggio Jean Baudrillard sostiene che la cosa in sé – il mondo, la realtà – è stata cancellata dal fenomeno, cioè dall’apparenza (in greco fenomeno significa appunto ciò che appare). Il mondo della tecnica della comunicazione (tivù, computer, telematica, realtà virtuale) non ha ridotto l’uomo a cosa, a ingranaggio del Grande Apparato (vedere Heidegger, Jonas, ecc.), quanto piuttosto ha eliminato le cose sostituendole con le loro simulazioni.
Il Grande Fratello, secondo Baudrillard, è così l’immagine e tutto si riduce a immateriale, scambiabile. E se tutto è informazione, niente informa più davvero.
Scrive Baudrillard: «All’apice delle performances tecnologiche rimane l’impressione irresistibile che qualcosa ci sfugga. Non perché l’avremmo perso (il reale?), ma per il fatto che non siamo più in grado di vederlo: non siamo più noi a prevalere sul mondo, ma è il mondo a prevalere su di noi. Non siamo più noi a pensare l’oggetto, è l’oggetto che ci pensa. Vivevamo sotto il segno dell’oggetto perduto, ormai è l’oggetto che ci perde».

I MECCANISMI DI MASCHERAMENTO
Un saggio di Paolo Rumiz (Maschere per un massacro, Editori Riuniti 1996) e la rilettura che ne ha offerto Roberto Cavalieri in chiave africana (Balcani d’Africa, Edizioni Gruppo Abele 1997) testimoniano il mutato rapporto tra informazione e realtà nel tempo della globalizzazione e del delitto perfetto.
Il caso della guerra nell’ex-Jugoslavia è lì a confermare il tutto. Un immenso imbroglio costruito dal male (che, come scrive Rumiz, «è sempre più razionale, più guardingo, addirittura più coerente del bene») non ha accecato solo le sue vittime ma anche i testimoni più estei. Testimoni caduti nella trappola dell’effetto cloroformio della televisione, che ha portato schiere di giornalisti a rincorrere barbari stereotipi «astutamente coniati dagli stessi belligeranti».
La stessa logica si è ripetuta in Burundi, in Rwanda e nell’ex Zaire, come dimostra l’ultimo lavoro di Roberto Cavalieri.
Secondo Rumiz, i media si sono ridotti quasi sempre a svolgere non il ruolo di «informatori» quanto piuttosto quello di «comunicatori» al soldo dei belligeranti e delle loro logiche. Ma, se muta la relazione tra «fatti-eventi» ed informazione, deve cambiare anche il mestiere del giornalista chiamato a non farsi irretire, a non divenire megafono o strumento inconsapevole di propaganda per progetti altrui. Ma come è possibile tutto ciò? La risposta più convincente la fornisce Claudio Magris: «Trascrivere l’invisibilità del mondo e i suoi giganteschi meccanismi di mascheramento ed illusionismo».
E il lettore? Anche lui è sfidato: l’informazione deve essere trattata con enorme attenzione.
Ancora Magris: «Per difenderci occorre commuoverci davanti alle vittime tragicamente reali senza lasciarci trascinare da quelle emozioni, progettate da qualcuno a tavolino per farci travolgere dalla loro onda. Occorrono insieme pietà e freddezza e anzitutto l’umile fatica di andare a conoscere le cose, di studiare la realtà. La verità è semplice, ma esige un minimo di riflessione elementare».
TROPPE NOTIZIE, NESSUNA NOTIZIA
Quali dovrebbero essere le doti del lettore post-moderno? Pietà e freddezza, l’umile fatica di andare a conoscere le cose, la fatica dello studio, la capacità di trascrivere l’invisibilità del mondo e i giganteschi meccanismi di mascheramento e illusionismo.
Ciò che manca oggi non sono le notizie (comunicazioni e/o informazioni), ma il loro «smascheramento», la loro ricostruzione in quadri interpretativi critici.
«Molta informazione, nessuna informazione»: è un assioma fondamentale della sociologia della comunicazione. L’imperativo principe di ogni buon «censore» post-moderno, che si traduce nel non nascondere mai alcuna notizia (ma nel foirla in un cocktail di verità e falsità), oltre che ad annacquarla con miriadi di altre notizie.
In altre parole, assistiamo oggi ad un eccesso di informazione cui corrisponde un deficit di interpretazione: a fronte della presenza massiccia di informazione (anche in tempo reale), assistiamo ad una assenza di griglie interpretative capaci di connettere i dati informativi (che sempre più non solo parlano della realtà ma la costruiscono). I dati foiscono visioni del mondo capaci di collegarsi a concrete azioni di mutamento della realtà.
Si può anche asserire che oggi ci troviamo di fronte ad un tragico scollamento tra realtà e gruppi «eco/solidal/pacifisti»: questi utilizzano slogan, pianificano campagne, progettano interventi, in modo spesso vecchio, incapace di incidere sulla realtà, perché la realtà è cambiata e loro non se ne sono accorti. Costoro, come scrive il filosofo Galimberti, «conducono una lotta non contro la mancanza di senso di chi è costretto a vivere in quell’universo di mezzi senza scopo, che è tipica dell’età della tecnica, ma contro il sentimento di chi avverte tale mancanza di senso. Costoro sono colpevoli di non inventarselo, quasi che il problema del nostro tempo non sia il vuoto di senso, ma il sentimento che lo avverte».
Come dire, autoreferenziali. E per di più in ritardo di qualche decennio, se non secolo.
L’INFORMAZIONE NELLE CRISI INTERNAZIONALI
Le cose non cambiano se proviamo a mutare angolo visuale. Prendiamo il caso, sempre più frequente, di emergenze umanitarie (Somalia, Bosnia, Rwanda, Zaire, Albania).
Queste crisi «esistono-per-noi» solo perché passano attraverso il tubo catodico della tivù (che detta i tempi e gli argomenti dei quotidiani del giorno dopo).
È il caso, terribile, del Rwanda nell’estate 1994. Tutto iniziò il 6 aprile, ma il circo dell’informazione si mise in moto più tardi, tra il 4 ed il 20 luglio. Prima si ebbe un «genocidio senza immagini» (la definizione è di Le Monde Diplomatique). Poi ci fu la ressa, facilitata dal fatto che ai giornalisti si offriva in un solo luogo e in un solo punto il massimo concentrato possibile di stereotipi sull’Africa e sugli africani.
La tivù «costruì» il caso Rwanda. Mosse le cancellerie, costrinse i politici a far finta di far qualcosa. Questi, non sapendo bene cosa fare (o sapendolo benissimo? propendo per questa seconda ipotesi), delegarono il tutto alle agenzie umanitarie (medici senza frontiere, croce rossa, agenzie inteazionali, ong di ogni genere e natura) provvedendo a rifoirle di alcuni denari.
Queste agenzie, esperte di emergenze umanitarie, da un lato furono soddisfatte del loro nuovo ruolo, dall’altro ben presto si accorsero di dover supplire l’assenza della politica senza avee i mezzi (riducendosi a mettere cerotti su persone comunque destinate a morire). Infine, riflettendo sulla prima parola della propria autodefinizione (emergenze), esse presero atto della necessità di tener desta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, pena il prosciugarsi dei fondi destinati dai politici mondiali all’emergenza. Da qui la necessità di premere l’acceleratore sul settore comunicazione (non informazione).
Le più importanti organizzazioni umanitarie si sono così dotate di schiere di registi, cameramen, giornalisti, esperti in comunicazione (oltre che bandiere, stendardi, stemmi e quant’altro possa aiutare il riconoscimento durante una trasmissione). Ed è giusto che sia così: la loro possibilità di continuare l’opera umanitaria dipende non tanto dalle capacità di medici, infermieri, logisti e volontari vari, quanto piuttosto dalla capacità dei propri comunicatori di tener desta l’attenzione su un dramma internazionale. Se tale tensione (anche emotiva) viene meno, il dramma-per-noi (non il dramma-in-sé, ovviamente) viene meno.
E gli agenti dell’umanitario tolgono le tende correndo in fretta e furia verso altri drammi, altri dolori, altre morti (drammi anch’essi resi rilevanti-per-noi dalla tivù).
L’ALIBI PER LE NOSTRE COSCIENZE
Tuttavia è necessario andare ancora più a fondo. Se è vero che l’umanitario ha sostituito la cooperazione internazionale allo sviluppo (obiettivo ormai dato per perso dalle cancellerie di tutto il mondo), non è altrettanto vero che l’umanitario ha sostituito la politica.
È vero piuttosto che la politica usa l’umanitario a proprio scopo.
La politica spesso si riduce a pura finzione dietro cui si nasconde, almeno a livello internazionale, la potente mano dell’economia. La quale ha già dato, per dirla con l’Unicef, «il prezzo alla vita degli zairesi», secondo lo slogan «Nello Zaire la vita vale zero. Dagli tu un prezzo». Conta lo Zaire utile (e sono diamanti, oro, uranio, ecc.): tutto il resto – sono uomini, donne, bambini – non ha valore. Vale zero.
Ma, se è così, l’umanitario serve solo a fornire un alibi alle nostre coscienze. E l’informazione è utile perché, dopo aver attirato l’attenzione e costretto all’intervento, diffonde l’alibi tranquillizzando tutti. Permette ad ognuno di addormentarsi in pace la sera: ognuno ha fatto qualcosa nei confronti del dramma «X»: chi ha comunicato, chi ha pianto e firmato appelli, chi ha spedito cartoline, chi ha scritto articoli, chi ha mosso il politico che ha mosso l’umanitario, chi ha sganciato offerte, chi le ha utilizzate sul campo, chi ha diffuso immagini del «sereno che torna», chi ha ricevuto gli aiuti, chi ha trafficato in armi, chi ha aperto nuove piste per la droga o la prostituzione o lo sfruttamento delle miniere, chi ha scritto risoluzioni e persino chi ha organizzato spedizioni militari di peace-keeping o ponti aerei…
Insomma tutta l’umanità si trova accomunata da una generale sensazione di buonismo che nasconde e non sa rivelare la realtà dei fatti.
E la realtà è questa: è avvenuto il passaggio di proprietà di un territorio o di una società (sia esso lo Zaire utile o l’Albania utile) da una mano all’altra, da una economia all’altra (spesso entrambe sporche, sostanzialmente mafiose).
QUALE MALE, QUALE BENE
Come definire tutto ciò? Connivenza o stupidità. O imbecillità: «Il cosiddetto bene è ingenuo e cieco fino all’imbecillità». Forse ha ragione Rumiz: il male non acceca solo le vittime ma anche i testimoni estei. E poi, il male è più razionale, più guardingo, più coerente del bene.
Scrive Baudrillard: «Tutte le forme di discriminazione maschilista, razzistica, etnica o culturale derivano dalla stessa disaffezione profonda e da un lutto collettivo, quello di un’alterità defunta su uno sfondo di indifferenza generale… La stessa indifferenza può portare a comportamenti esattamente opposti. Il razzismo cerca disperatamente l’altro sotto forma di male da combattere. L’aiuto umanitario lo cerca altrettanto disperatamente sotto forma di vittime da soccorrere. L’idealizzazione entra in gioco nel bene o nel male. Il capro espiatorio non è più colui su cui ci si accanisce, è colui sul quale si piange. Ma si tratta comunque di un capro espiatorio. Ed è sempre lo stesso».

Aluisi Tosolini




La gamba moderata è troppo corta

In politica è meglio essere «moderati» o «coraggiosi»? Il cattolicesimo sociale
coincide con il «berlusconismo»? Da Lilliput, dal profeta Geremia e dal cardinal
Martini possono venire insegnamenti importanti. La realtà è difficile, complessa,
travolgente, ma va affrontata. È come l’atteggiamento di Davide con Golia:
Davide osò sfidare Golia, non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale
e scontato e invece… L’alternativa può essere trovata: ricerca contro pensiero unico, cooperazione contro competitività, sobrietà contro spreco…

Che cosa significa «osare il futuro»? Qual è la traduzione di un verbo così ambizioso? Quali possibili strategie oggi possiamo utilizzare per raggiungere lo scopo? Ci sono tre strategie, a cui occorre richiamarsi: la strategia lillipuziana, la strategia di Geremia (dal libro del profeta omonimo) e la strategia portata avanti dal cardinal Martini.
Noi abbiamo bisogno di «un fare alternativo» e di «un pensare alternativo», perché l’approccio integrale è sempre teorico e pratico insieme. Che serve una persona che non capisce quello che sta facendo? Allora ci vuole un nuovo pensiero. E per un nuovo pensiero c’è bisogno di svellere e distruggere per edificare e piantare. Perché, se tu non attraversi il momento della «pax destruens», tu non crei niente.
DECOLONIZZARE E DELEGITTIMARE
Il professor Latouche parla sempre di «decolonizzare l’immaginario».
Che vuol dire? Significa questo: noi che vogliamo cambiare il mondo, che diamo vita alla «scuola per l’alternativa», noi siamo colonizzati nel nostro sistema cognitivo, nel nostro cervello. Il nostro modo di ragionare, che crediamo spontaneo, in realtà non ci appartiene. È quello che l’opinione dominante, la narrazione economica dominante (oggi neo-liberista) ci fa pensare. Poiché occorre fare i conti con questo pensiero, dobbiamo svellere e distruggere, se vogliamo edificare e piantare.
Non possiamo correre subito a creare il nuovo. Perché, se prima non ci liberiamo del vecchio, il nuovo non sarà altro che un prolungamento del presente. Questo significa «decolonizzare l’immaginario».
Si prendano i libri di Riccardo Petrella. Qual è il ritornello continuamente ripetuto? «Delegittimare». Delegittimare la narrazione economica dominante, perché se non si mostrano i suoi principi antropologici (inaccettabili e pseudo-scientifici!), allora quelle affermazioni e quelle dottrine avranno la meglio nell’opinione pubblica.
Noi dobbiamo fare questo lavoro critico di pensiero. Dobbiamo tornare a pensare. L’azione è fondamentale, ma se non la si accompagna con una produzione originaria e critica di pensiero, non si va molto lontano. Prima o poi si viene risucchiati. Noi non dobbiamo avere paura di realizzare forme di «violenza ermeneutica», cioè dobbiamo dire: «Su questo non ci stiamo e vi combattiamo fino in fondo. Certo vi rispettiamo, perché siamo non violenti. Ma noi stiamo cercando con il nostro impegno di costruire una società che è diversa da quella che volete voi, e ve lo diciamo in faccia. Ce la mettiamo tutta per svelare la carica di ideologie che intravvediamo nelle cose che voi affermate».
Però, neanche questo basta più.
IL CARDINAL MARTINI E IL «BERLUSCONISMO»
Molti di noi fanno riferimento al cristianesimo, al vangelo, alla dottrina sociale della chiesa, al cattolicesimo sociale. Qui occorre introdurre la «strategia ambrosiana».
Con tale termine io intendo la pastorale sociale che il cardinale Martini, nei suoi discorsi di S. Ambrogio agli inizi di dicembre di ogni anno, ormai ha maturato.
Basta con il moderatismo dei cattolici in politica, basta con l’accidia politica e l’ignavia dei conservatori. Questo è un passaggio importante: noi abbiamo persone che fanno banca etica, commercio solidale, adozioni a distanza, frequentano ambienti missionari ecc. e poi magari non riescono a distinguere il cattolicesimo sociale dal «berlusconismo».
Qui il problema è: io non ti dico chi devi votare, fai quello che ti pare; però ti metto in guardia su cosa c’è dietro una possibilità e dietro un’altra. E ti spiego perché il cardinal Martini dice basta al moderatismo dei cattolici.
Chi sono i cattolici nell’uno o nell’altro schieramento politico? «La gamba moderata della politica» viene risposto. «Io la gamba moderata?» dovrebbe domandarsi un cattolico che fa riferimento al magistero sociale, che vuole vivere il giubileo.
Oggi il magistero sociale della chiesa (soprattutto quello della Sollicitudo rei socialis e della Centesimus annus) e i discorsi del papa sono il serbatornio di un discorso alternativo, sono una cisterna di acqua sorgiva. Solo che se non ci sono cristiani e cattolici che in politica si comportano coerentemente con questi principi…
In politica bisogna essere coraggiosi, perché, come dice il cardinal Martini, il pensiero sociale della chiesa è portatore di iniziative e proposte d’avanguardia per la società di oggi. E comunque il vangelo nella storia ha sempre una eccedenza di senso e noi non possiamo sterilizzarlo facendoci considerare dei moderati. Se noi accetteremo il discorso del moderatismo, allora saremo neutralizzati, non daremo più fastidio a nessuno. A tutto ciò occorre ribellarsi.
È un discorso politico, ma la politica serve. Altrimenti il cambiamento è solo un cambiamento simbolico.
«OSARE IL FUTURO»
Il verbo «osare» ha almeno tre significati.
Nella liturgia si usa una bella espressione: «Osiamo dire: Padre nostro…». Il primo significato di «osare» è questo che la liturgia ci regala. Significa prendersi una libertà, essere impertinenti: «non siamo degni, ma osiamo dire». È una impertinenza esigente.
Il secondo significato di «osare il futuro» è operare una forzatura, affrettare il parto della storia, anticipare. La storia porta in grembo qualcosa, prima o poi lo darà alla luce. Osare il futuro significa: facciamo presto. Questa cosa nuova (che deve nascere) nasca ora. C’è un atteggiamento messianico in chi osa il futuro: egli vuole che quanto appare come salvifico anticipi i tempi, spingendo per una accelerazione della storia.
Un terzo significato è accettare la sfida. Osare il futuro vuol dire: la realtà è difficile, complessa, sembra che voglia anche travolgerci, ma noi accettiamo la prova. È l’atteggiamento di Davide con Golia: Davide osò sfidare Golia. Non c’erano i presupposti, l’esito sembrava fatale e scontato, e invece…
Quindi, «osare il futuro» significa buttarsi, rischiare, sperimentare cose nuove. Significa contemporaneamente resistere, reagire, misurarsi con le nuove sfide che ci interpellano.
Un ultimo significato di osare il futuro è quello di sfondare il presente. Cioè aprire dei varchi, innovare, essere generativi. Mentre prima l’innovazione veniva da fuori, adesso siamo noi a produrla. Pertanto creare alternative, essere capaci di futuro, essere portatori di idee, valori, modelli di sviluppo, di «altro» insomma (purché sostenibile, compatibile, dolce).
LA STRATEGIA LILLIPUZIANA
Non basta, ovviamente, questo pensare in grande. Innanzitutto è importante fare. Ecco perché una delle prime strategie d’azione è la «strategia lillipuziana».
In Italia chi ci ha informati su questa strategia sono stati Alex Zanotelli e Francesco Gesualdi. Entrambi fanno riferimento a un testo di due studiosi americani, Jeremy Brecher e Tim Costello (Contro il capitale globale, Feltrinelli 1996).
Partendo appunto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, i due economisti ci fanno capire che ciascuno di noi può diventare protagonista di un cambiamento, perché non è vero che non abbiamo più poteri.
Noi avremo ancora dei piccoli poteri, se sapremo metterli insieme, riusciremo a resistere alla minaccia del «Gulliver globale», che in questo momento sta appiattendo, sta schiacciando tutto e tutti.
La globalizzazione, la new economy ci hanno portato internet. Di chi è internet? Chi può usare internet? È uno strumento ambiguo. Ci possono andare i pedofili, come pure i cittadini o i «lillipuziani». L’ambiguità di internet è l’ambiguità del «Gulliver globale».
I LIVELLI DELL’AZIONE
La strategia lillipuziana va articolata in almeno tre livelli: personale, associativo e politico-istituzionale.
Partiamo dal concetto di «economia leggera». Che c’è dentro all’economia leggera? Ci sono comportamenti economici alternativi. Se io voglio, già oggi ho a disposizione tante scelte alternative: dipende da me. Io come cittadino che risparmia, consuma, viaggia, produce rifiuti, dispone di tempo libero, ho a disposizione delle alternative.
Ma questo è soltanto il primo livello della strategia lillipuziana. Guai se tutto finisse qui, guai se noi curassimo unicamente la diffusione orizzontale dei comportamenti alternativi! Guai ad accontentarsi di 300 botteghe nel mondo. Perché, se avee 300, a livello di risultati effettivi finali, è come avee 100, che cosa è cambiato? Bisogna dare efficacia al potere dirompente che hanno questi comportamenti.
Ognuno di noi, se ci crede fino in fondo, deve passare dal primo livello della strategia lillipuziana (il livello della cittadinanza attiva personale) al secondo livello (il livello della cittadinanza attiva associativa). È la democrazia associativa, nella quale ci sono gruppi, parrocchie, movimenti, comunità, soggetti collettivi. Lì noi possiamo compiere gesti molto più forti, molto più efficaci di quelli che possiamo fare da soli o con la famiglia.
Facciamo qualche esempio. Il movimento dei focolari ha dato vita a esperienze di economia di comunione: è partito da un concetto spirituale (la comunione trinitaria) per fare delle proposte alle piccole aziende, diffuse in tutto il mondo, di questo movimento.
Che cosa accade in una azienda che pratica l’economia di comunione? Che l’utile viene tripartito: un terzo viene utilizzato nell’azienda, un terzo per fare formazione, un terzo viene donato. Donato gratuitamente ad altri, perché si crede nella dinamica del dono.
Scelte spirituali tradotte in comportamenti economici: così sono nate la Banca etica, il marchio Transfer, la Global March, l’associazione Chiama l’Africa, la campagna Sdebitarsi o quella della riduzione del debito estero della Cei e così via. Quando le associazioni si mettono insieme danno vita a realtà molto più incisive di quelle che si possono fare singolarmente.
C’è, infine, il terzo livello della strategia lillipuziana. Dobbiamo raggiungerlo, perché senza di esso i cambiamenti precedenti non saranno strutturali e politici, ma solamente simbolici.
Se il cittadino lillipuziano ha fatto tanto per contrastare la Nike (che produce le sue scarpe attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile), egli deve fare tutto questo non per lavarsi la coscienza e sentirsi più buono, ma per modificare leggi e costumi.
Questo passaggio richiede il coinvolgimento di altri soggetti: un sindacato internazionale, un organismo internazionale, forze politiche. Altrimenti il cittadino lillipuziano non può farcela. Soltanto così si arriva alle clausole sociali, alla Tobin Tax, al superamento dei paradisi fiscali o a qualche altro cambiamento sostanziale.
Noi dobbiamo curare tutti e tre i livelli della strategia lillipuziana: dobbiamo agire con i nostri comportamenti personali e famigliari; dobbiamo portare la strategia lillipuziana nelle associazioni, parrocchie, collettivi, nel sociale dove operiamo (diffusione orizzontale); dobbiamo poi puntare all’impatto politico verticale.
Per questo dobbiamo tornare ad agire con tutta la società civile e con i suoi organismi. Ai sindacati, per esempio, dobbiamo far capire che hanno commesso tanti errori, ma che essi sono una risorsa preziosa per la democrazia e per questi cambiamenti. Perché, finché percepiremo i sindacati come nostri primi nemici, non faremo tanta strada.
Bisogna cambiare gli attuali meccanismi istituzionali, cristallizzati nelle loro concezioni sociali e politiche. Occorre mandare a casa i sostenitori di Bretton Wood. Bisogna dar vita ad una nuova generazione di istituzioni che oggi non esistono. In sostanza, è una agenda di lavoro per tutto il ventunesimo secolo e, quindi, ci vorrà del tempo. Anche per questo occorre far crescere la sensibilità politica rispetto a queste problematiche. Lo sottolineo per coloro che credono di poter fare le rivoluzioni senza i livelli intermedi del cambiamento. E, alla fine, queste persone rimangono astratte o troppo pretenziose.
STILI DI VITA, SOBRIETÀ, LETIZIA
Nella strategia lillipuziana, ci siamo dentro noi, con i nostri stili di vita. Con questo termine mi riferisco a qualcosa di molto profondo, perché uno stile di vita non s’improvvisa. Lo stile di vita è il risultato di una opzione fondamentale, che si rende visibile nella quotidianità; lo stile di vita di una persona è ciò che la caratterizza in modo permanente e profondo. Lo stile di vita quando è vero, quando è coerente, rende visibile la nostra etica.
Come altri fanno scelte improntate al profitto, alla dinamica del mercato, alla competitività, così il cittadino lillipuziano fa scelte improntate al bene comune e alla cultura della sobrietà. Questa è la nuova virtù sociale alla quale formarci, che è l’antica virtù cardinale della temperanza. Ma che è la temperanza? È scomparsa dal vocabolario.
Oggi la sobrietà può tornare. Essa deve essere, come oggi si dice, una sobrietà felice; non deve essere una cosa sofferente. Perché il barbone non è l’esempio di un uomo sobrio? Perché gli mancano troppe cose per essere un uomo sobrio.
Gli manca, in primis, la scelta; quasi sempre una persona non sceglie di fare il barbone. Al barbone manca la letizia. Se lui avesse fatto una scelta personale, trasmetterebbe la letizia. Ma al barbone mancherebbe ancora qualcosa. Che cosa? Il buon gusto, l’eleganza della semplicità, l’estetica della sobrietà. Una persona sobria non deve essere trasandata, arruffata, dimessa. L’obiettivo da perseguire è diverso. La sobrietà deve essere caratterizzata bene dalla leggerezza della vita, che sa fare a meno di zavorre, sprechi, cose ridondanti, inutili. Liberiamoci da tutto ciò: cerchiamo l’essenzialità.
La sobrietà deve anche essere un modo di giudicare e guardare il mondo con lo sguardo dei poveri. Perché è da essi che possiamo imparare qualcosa che ha a che fare con questa virtù. Insomma, secondo me è importante la dimensione francescana della sobrietà.
La sobrietà non deve essere equivocata con la casistica di quante cose dobbiamo avere o non avere: numero di paia di scarpe, televisore, motorino, milioni da spendere per le vacanze, e così via. È importante la qualità della sobrietà che uno vive e ciò è suggerito dalla coscienza del cittadino lillipuziano.
La sobrietà deve anche liberarsi dalla deriva pauperistica: non è la rinuncia a quello che riteniamo essenziale per uno stile di vita dignitoso. Possiamo avere delle cose, basta condividerle con altri, perché chi non ha abbia di più. La sobrietà è un vivere meglio, consumando meglio.
Detto questo, passiamo alla seconda strategia, quella che è centrata sul pensare alternativo. Abbiamo bisogno di un pensiero alternativo nel tempo del pensiero unico. Noi abbiamo bisogno di un altro logos, rispetto al logos trionfante in questo momento nella società. Perché noi dobbiamo svellerare, distruggere per edificare, piantare mentalità nuove.
Che vuol dire un pensare alternativo? È un «pensare alla Geremia». Significa introdurre antidoti cognitivi all’interno dell’organismo sociale e dell’opinione pubblica in cui viviamo. Antidoti cognitivi. Ossia là, dove vediamo pensatori, esperienze, opere, che risultano essere veramente alternative, noi dobbiamo dare informazione e fare formazione. Personalmente non mi stanco mai di fare riferimento alla cultura del dono e della gratuità, portata avanti da un gruppo di economisti a livello internazionale riuniti nel Maus, «movimento degli antiutilitaristi nelle scienze sociali».
I loro studi sul dono sono fondamentali in tempi di idolatria del mercato. Sono antidoti che tu lanci, che tu semini, perché le persone (che sentono parlare solo di certe logiche e dinamiche) abbiano la possibilità di sapere che non c’è solo mercato.
Occorre parlare di cooperazione come antidoto alla competitività: è questo che fa Riccardo Petrella. Se si va a svelare quale immagine di uomo e di società c’è sotto la competitività, cosa si scopre?
Dietro il concetto di competitività c’è un pensiero che suona così: homo homini lupus; ed anche mors tua, vita mea. È l’antropologia dello sbranamento, perché cresce e si fa strada quello che ruba fette di mercato all’altro. Ma un mondo con questi fondamenti non ha futuro. Quindi, dobbiamo temperare la competitività con il principio di cooperazione, condivisione, sussidiarietà, solidarietà, responsabilità.
DAL PENSIERO UNICO AL PENSIERO PLURALE
La responsabilità è anche avere l’etica del limite. Mi autolimito, non perché qualcuno me lo impone, ma perché ho capito che autolimitarmi significa aiutare l’altro a crescere.
Ci sono dei pensatori che aiutano ad avere questi pensieri. Ad esempio, Simon Veil che dice: quando Dio ha creato il mondo ha decreato se stesso, si è fatto piccolo, si è limitato, perché il mondo fosse, perché noi fossimo. Non è vero che il limite equivale sempre al fallimento o all’impotenza. Nel limite c’è una capacità generativa: fa crescere la nostra società.
E ancora va ricordato il principio di responsabilità e il «pensiero plurale». Se noi vogliamo combattere il pensiero unico, abbiamo bisogno di declinare tante parole, tante categorie di pensiero al plurale, per rompere il processo di omologazione e uniformità.
Oggi chi aiuta a pensare al plurale? Demoren, ad esempio, e tutti i morenisti. Demoren dice: basta con l’universo, occorre il pluriverso, perché c’è una pluralità dentro l’universo. Non «uni» ma «pluri» perché siamo dentro le culture delle differenze e lo scontro delle civiltà. Un pluriverso, appunto.
Questi sono titoli cognitivi, che serviranno quando, un domani, al cittadino lillipuziano si proporrà l’universo come la cosa più grande, quella che abbraccia tutto. In quell’occasione, egli potrà tirare fuori il proprio antidoto che suggerisce un concetto diverso: attento, dice, che forse l’universo non è un universo. Noi abbiamo bisogno di prendere alcuni concetti e di rivederli al plurale; l’«epistemologia della complessità», dicono quelli che parlano difficile.
Abbiamo bisogno di riscoprire un nuovo modo di pensare, altrimenti rimaniamo tutti prigionieri delle opinioni dominanti. Soprattutto, dobbiamo riscoprire alcune parole: la communitas, per esempio, è irrinunciabile. Ma con quale significato? Nella parola c’è il cum dell’insieme e il munus, ha un duplice significato: munus come compito, ufficio, responsabilità, mansione e munus come dono. Pertanto, far parte di una comunità, avere il senso di appartenenza ad una comunità, dovrebbe comportare due cose: chi ne fa parte ha un compito da svolgere ed è dentro una ragnatela di reciprocità, di scambi, di doni. Allora è bello appartenere ad una comunità! Ma chi sente l’appartenenza comunitaria in questi termini?
Oggi altre parole importanti vanno reinterpretate. Il libro La cittadinanza multiculturale (Il Mulino, Bologna 1999) ha introdotto il concetto di cittadinanza multiculturale. Come facciamo, ci si chiede nel volume, ad usare ancora i vecchi criteri per definire una persona cittadino, in un mondo con 184 stati nazionali, 5 mila gruppi etnici e 600 gruppi linguistici? Per non parlare della altissima mobilità umana: gente che si sposta da un paese all’altro tutti i giorni. In questo mondo stiamo lavorando con un concetto anacronistico di cittadinanza, ancora basato sullo jus soli e lo jus sanguinis. Che possono servire nella mutata realtà di oggi?
Abbiamo bisogno di una nuova civiltà giuridica, altrimenti ci troveremo con 200 mila bambini nati in Italia, figli di coppie miste o multietniche, ma che non sono cittadini italiani, perché bisogna aspettare 8-10 anni prima di diventarlo. Intanto vanno nelle scuole italiane, ma non hanno la qualifica di cittadini. È colpa loro? No, siamo noi che dobbiamo rinnovare le nostre istituzioni, le nostre culture.
CATTOLICI, SUPERATE IL MODERATISMO
Strategia lillipuziana, strategia di Geremia; svellere e distruggere per edificare e piantare; delegittimare, decolonizzare; inventare, creare un nuovo pensiero. Ma per la realtà cattolica, c’è un altro lavoro da fare: occorre ripensare la via dell’impegno politico nel nostro tempo per arrivare al superamento del moderatismo.
I cattolici non possono più accettare di essere la gamba moderata o neutrale o super partes rispetto agli schieramenti. Bisogna fare riferimento ad un tesoro: è il tesoro della tradizione del cattolicesimo sociale, che è intriso di solidarietà. Non ci sono dubbi: un cristiano che s’impegni, in politica non sta da tutte le parti. Sta soprattutto dalla parte che lavora per aumentare solidarietà, sussidiarietà, responsabilità, giustizia, equità, nella nostra società.
Dobbiamo osare il futuro, perché c’è una eccedenza di senso del vangelo nella storia. Noi dobbiamo lasciarla trasparire questa eccedenza di senso, che è la porta più scomoda e più profetica che abbiamo a disposizione.
Guardiamo a ciò che sta accadendo in questo anno santo. La società non ce la fa a recepire le proposte del giubileo: lasciate riposare la terra, le macchine della produzione, i lavoratori. Pensiamo al debito, alla campagna sul debito o al solenne mea culpa del papa. Questa società non ce la fa proprio a capire. Ci sono dei valori veramente profetici che sono propri del pensiero sociale cristiano.
Noi, cristiani, dobbiamo capire che per molto tempo siamo rimasti dentro la «trappola dell’illuminismo». Che cos’è? È credere quello che ci lasciano credere. Cioè: la ragione pensa, la fede crede. Bella fregatura! Perché, se la ragione pensa e pensa all’organizzazione della società e della politica e se la fede crede, crede soltanto, al credente rimane unicamente il privato. Se prevale il bisogno di intimizzare la fede, cioè se la fede non è più capace di rendersi visibile, di incidere, allora siamo spacciati. Diventiamo dei moderati e gli altri neanche se ne accorgono che esistiamo.
I cattolici potevano essere anche moderati fino a quando erano una maggioranza nella società naturale intercristiana e avevano un partito politico di maggioranza relativa. Ma, se sei in minoranza nella società e nella politica, dire pure che sei un moderato è proprio un autogol. Per cui o i cattolici si svestono di questo involucro che li sterilizza, oppure politicamente sono destinati a divenire irrilevanti e insignificanti.
L’IMMAGINE E LA MISERIA DELLE PAROLE
Questo è il tentativo che stiamo facendo: conciliare etica ed economia, non in astratto, ma concretamente. Il mercato fa schifo? Le banche anche? Il consumo è ingiusto? Proviamo allora un altro mercato, un’altra banca, un altro consumo. Ma come fare nella società dell’immagine e dello spettacolo?
L’immagine può essere un problema, perché viviamo in una società iconizzata e in una politica mediatizzata. Si pensi allo spot di Emma Bonino, confezionato da Oliviero Toscani. Sono 4 minuti in cui la Bonino non dice una parola. Solo mimica facciale, smorfie, apertura e chiusura delle palpebre degli occhi e così via. Ma non dice niente. È efficacissimo in questa società dell’immagine e dello spettacolo.
È facile rendersi conto della miseria delle parole nella nostra società. Da tempo noi viviamo nella società della chiacchiera, di un blob continuo. Le parole si sono logorate; le parole per avere un significato hanno bisogno di essere ri-autenticate dalla forza del gesto.
Se vogliamo che le cose che pensiamo raggiungano le persone, dobbiamo saper usare il linguaggio (nuovo e pericoloso) delle immagini e della pubblicità, senza per altro trascurare la possibilità di sperimentare linguaggi alternativi.

Antonio Nanni