Ascoltare il grido del povero – Speciale BRASILE

Il Concilio ecumenico
Vaticano II ha dato il «là» ad un coro maestoso,
a dispetto di qualche «stecca».
È partendo da questa immagine che accenniamo alla lunga e difficile «caminhada» della
chiesa brasiliana.
La voce più evangelica? Quella dei semplici.

«È questa… un’età in cui la coscienza dell’umanità interroga e scruta con ansiose e drammatiche domande il perché della povertà e il destino dei poveri: dei singoli poveri e di interi popoli poveri, che prendono consapevolezza nuova dei loro diritti… Un’età in cui la povertà di moltissimi (due terzi dell’umanità) è offesa dal confronto con la smisurata ricchezza di pochi…». Queste sono parole del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, durante la prima sessione del Concilio ecumenico Vaticano II. Correva l’anno 1962.
Diversamente da quanto si può pensare, non è un teologo del Sud del mondo a pronunciare quelle espressioni, ma un significativo rappresentante della chiesa del Nord.
E proprio da Roma, centro della cattolicità, iniziamo il percorso della storia contemporanea della chiesa in Brasile. Strano inizio per una riflessione teologica che si farà conoscere per la sua originalità e che, con la Santa Sede, avrà anche seri motivi di incomprensione, se non di aperto scontro.

l’impatto
con i problemi sociali

Il Concilio ecumenico Vaticano II è nuovo nella sostanza e nella forma. Rompe una tradizione secondo la quale, almeno dal secolo XIII, i concili sono la sede privilegiata per affrontare i problemi della decadenza e riforma della chiesa.
Fin dal messaggio di apertura, papa Giovanni XXIII esplicita gli obiettivi speciali del Concilio: apertura al mondo moderno, unione dei cristiani e attenzione ai poveri. È veramente un evento ecumenico, universale, e guadagna nuovi attori: attori, in particolare, nell’America Latina.
Il Vaticano II vuole ridiscutere la risposta ideologica e pratica che la chiesa ha dato alla modeità. Per far questo ha bisogno del contributo di tutti: delle chiese del primo mondo sviluppato, di quelle del secondo mondo (che, all’epoca, vivono l’esperienza del «silenzio imposto»), ma anche di quelle del terzo mondo, che portano al tavolo della discussione i problemi del sottosviluppo. Le questioni sociali approdano a Roma, volenti o meno, grazie ai vescovi del Sud.
L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno già preso piede nell’emisfero nord, mentre in quello sud il cambiamento avverrà più tardi, imposto da regimi populisti e autoritari. È il caso dell’America Latina.
Però anche il contesto socio-ecclesiale latino-americano (che precede il Concilio) è diverso da quello occidentale: mentre, ad esempio, in Europa il cambiamento sociale è avvenuto in modo autonomo, in America Latina si ha una convergenza significativa tra mutamento sociale e rinnovamento ecclesiale.
L’America Latina è nella necessità di cambiare. La «pressione storica» obbliga i vescovi ad occuparsi di povertà e fame, che nella tradizione non sono temi dell’«agenda teologica».
Qui incomincia e prende forza la «novità brasiliana». Una novità che non è frutto di qualche teologo illuminato, ma è un prodotto specifico della realtà locale. Se, infatti, la chiesa europea negli anni ’60 è questionata dal problema «fede-scienza» ed entra in un processo di secolarizzazione, la chiesa brasiliana si confronta con il rapporto «fede-rivoluzione». E l’obiettivo è la liberazione.
In Europa la chiesa è sfidata teologicamente dall’ateismo (prodotto tipico della società modea) e dalla proclamazione della «morte di Dio». In Brasile (e, più in generale, in America Latina) la sfida teologica è rappresentata dal sottosviluppo, causa prima della «morte dell’uomo».

Pensare, volere e agire
cattolicamente

La chiesa brasiliana si interroga sulla «morte dell’uomo». Così facendo si rinnova.
Negli anni ’50 il rinnovamento si attua attraverso il coinvolgimento dei laici. L’Azione cattolica, fondata da Pio XI nel 1922 con l’obiettivo di preparare collaboratori laici della gerarchia all’evangelizzazione del mondo, arriva in Brasile già nel 1935; ma è solo nella decade ’50 che si modifica in Azione cattolica «specializzata». Si costituiscono «rami» giovanili e, per quanto riguarda gli adulti, c’è l’Azione cattolica operaia. Ai lavoratori e agli studenti, riuniti nell’Azione cattolica, la situazione sociale, politica ed ecclesiale del Brasile appare sempre più chiara.
All’inizio c’è l’appello dei vescovi, più preoccupati della loro istituzione che della partecipazione laicale; di fronte al «disordine» della devozione popolare, rispondono con la «romanizzazione» e con un «nuovo ordine» conforme alle nuove esigenze.
La parrocchia, convocando i laici obbedienti al parroco, si propone come il centro propulsore del nuovo ordine. «Dobbiamo essere presenti nelle realtà palpitanti che il mondo suscita. Presenti per realizzare integralmente il nuovo ordine, che è lo stesso ordine perenne della cristianità, riassunto nel programma ideale di Pio XII: pensare, volere, sentire, agire cattolicamente». È quanto si legge nella «Rivista ecclesiastica brasiliana» del 1941.
Ma, alla fine degli anni ’50, i laici nei vari rami di Azione cattolica non si sentono più rappresentati da questa visione e vogliono cambiare il paese reale che gli sta davanti. Anch’essi, insieme ad alcuni teologi e pastori più sensibili, obbligano in qualche maniera l’istituzione ecclesiale a cambiare: dall’«opzione per l’ordine» (nostalgia di un regime di cristianità che non c’è più) all’ «opzione per il progresso», che la modeità sta portando anche in Brasile.
A partire dagli anni ’60, il problema «sviluppo» diventa il tema principale nelle discussioni pastorali. Tema che i latino-americani – come abbiamo accennato – porteranno sul tavolo del Concilio.

In nome del progresso

La nozione di «progresso» appare già nel 1956 nella Dichiarazione dei vescovi del nordest. D’ora in avanti sarà la categoria principale, usata dall’istituzione ecclesiale, per leggere i problemi sociali.
Alla luce anche di importanti encicliche – Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963) e Populorum progressio (1967) -, la chiesa brasiliana, proprio per le caratteristiche sociali in cui vive, rompe i legami con la tradizione rappresentata dai fazendeiros. Finalmente, anche nelle zone rurali più intee, la parrocchia acquista una fisionomia autonoma, indipendente dai «padrini». Questi, però, non si sentono affatto rappresentati dalla «nuova morale» del progresso e dell’industrializzazione che si va espandendo.
L’opzione per il progresso è, nelle intenzioni dell’istituzione ecclesiastica, l’unica capace di spezzare le vecchie relazioni di dipendenza, soprattutto nel mondo rurale. Nello spirito conciliare (con buona pace della oligarchia locale), la chiesa brasiliana intende aderire al mondo moderno che parla di uguaglianza e diritti civili. Il progresso economico appare il treno su cui salire per costruire una società di uguali.
Il progresso non è scelto per motivi economici, bensì per la portata morale che sottornintende. In tale senso, i vescovi (con in testa Helder Camara, grande profeta della chiesa brasiliana negli anni a venire) inizialmente appoggiano il golpe militare del 1964.
I militari sono venuti – parole del segretario della Conferenza episcopale – per «superare l’ostacolo del sottosviluppo e mantenere la pace sociale». L’equivoco sta nel pensare che il mondo moderno, inteso dal regime, sia lo stesso che voglia l’uguaglianza e le pari opportunità. La chiesa, che si è liberata dal liberalismo oligarchico, si allea con lo stato autoritario fino ai primi anni ’70, quando l’alleanza diventa insostenibile.
Intanto la crociata contro il sottosviluppo si fa sempre più accesa. La chiesa vede un pullulare significativo di iniziative, prese dalle singole comunità cristiane, per combattere l’analfabetismo, ma anche per promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori. Si crea l’Azione cattolica rurale, sorge il Movimento di educazione di base, aumentano in modo impressionante le radio locali, impegnate nella coscientizzazione di base. Queste ed altre iniziative si avvalgono del patrocinio della chiesa, quando non ne sono un’emanazione.
Insomma il lavoro pastorale deve portare alla «terra promessa» del progresso, perché là finalmente ci sono diritti uguali per tutti. Solo quando il progresso mostrerà la sua faccia elitista e autoritaria, le comunità ecclesiali di periferia prenderanno il coraggio di denunciae la falsità.

La chiesa all’opposizione

Siamo negli anni ’70. Comincia una pagina di storia esaltante per la chiesa brasiliana, che si «converte».
Mentre si assiste al rafforzamento della dittatura militare (visibile anche nella prigionia di qualche vescovo, la tortura di alcuni sacerdoti e molti agenti di pastorale), la chiesa non può più tacere di fronte alle ingiustizie perpetrate dal governo. Se questo non frena lo sviluppo, non si può accettare – scrivono i vescovi del Maranhão nel 1973 – «come vero sviluppo ciò che non rispetta la persona». La concentrazione di terre in poche mani, favorita dalla politica agraria degli anni ’70, costituisce la ragione principale della critica che la chiesa muove al governo.
Sono le comunità cristiane dell’Amazzonia che prendono la parola di fronte ad una realtà sempre più inaccettabile.
Nel 1971 Pedro Casaldaliga, da poco vescovo di São Felix de Araguaia (Mato Grosso), in «Una chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e la marginalizzazione sociale», scrive: «Quello che abbiamo visto ci ha reso evidente l’iniquità del latifondo capitalista come prestruttura sociale radicalmente ingiusta e ci ha confermati nella chiara scelta di ripudiarlo». Nell’Acre, nel 1973 la chiesa elabora «Il catechismo della terra» nel quale, basandosi anche sulla legislazione vigente, si foiscono istruzioni per la difesa dei contadini e mezzadri.
L’attacco contro l’ingiustizia non è solo la parola isolata di qualche vescovo di periferia, ma diventa il problema dell’intera Conferenza episcopale. Nel 1976, in «Comunicazione pastorale al popolo di Dio», denuncia che «la cattiva distribuzione della terra in Brasile risale al tempo coloniale. Ma il problema si è accentuato negli ultimi anni come risultato degli incentivi fiscali alle grandi imprese agropecuarie».
È in questo modo che l’opzione evangelica per i poveri, caratteristica dell’azione pastorale della chiesa brasiliana nel post-concilio, diventa scelta politica: la chiesa rompe con lo stato autoritario. Al modello economico introdotto dai militari mancano, secondo i vescovi, i diritti riconosciuti a tutti, in particolare ai poveri. Allora la comunità cristiana fa sua la missione di difenderli e di lottare per la giustizia.
Nel 1980 i vescovi, riuniti in assemblea ordinaria, affermano: «Assumiamo l’impegno di denunciare le situazioni apertamente ingiuste e violente… riaffermiamo l’appoggio a iniziative giuste e alle organizzazioni dei lavoratori… sosteniamo gli sforzi del contadino per un’autentica riforma agraria».
Minacciata dalla repressione militare che investe sempre di più gente di chiesa, l’istituzione ecclesiastica cerca legittimazione non più appoggiandosi allo stato, autoritario e antidemocratico, ma nei poveri, negli esclusi da un progresso che arriva solo per una piccola casta.

Un pullulare
di esperienze

Il cambiamento di «luogo sociale» provoca anche un mutamento nell’organizzazione ecclesiale. Si apre, così, un’altra stagione feconda, non priva di ambiguità e limiti, per la storia della chiesa in Brasile. Secondo i teologi, è una rinascita, un modo nuovo di essere chiesa.
Sorgono le Comunità ecclesiali di base: recano una ventata di freschezza non solo alla chiesa brasiliana, ma anche a quella universale.
Insieme ad esse, si strutturano altre iniziative note come «pastorali sociali»: la Commissione pastorale della terra (Cpt) per la riforma agraria; il Consiglio indigenista missionario (Cimi) in risposta all’annoso problema indigeno; il Movimento nero (Mo) per i discendenti degli schiavi. Si organizza la pastorale operaia, quella della gioventù e dell’ambiente popolare; prende corpo l’impegno per i pescatori, la donna emarginata, ecc.
Si tratta di organismi non confinati nelle strutture ecclesiali, ma, per il lavoro che si prefiggono e il contesto sociale in cui operano, destinati (alcuni più di altri) a recitare un ruolo rilevante nella storia recente del Brasile.
La conquista della democrazia, raggiunta formalmente nel 1986, è avvenuta anche grazie a questi organismi ecclesiali.

tre esperienze
significative

Fra le numerose esperienze, che caratterizzano la chiesa brasiliana del post-Concilio, ne presentiamo tre: il Centro studi biblici, le Comunità ecclesiali di base e la Teologia della liberazione.

Il Centro studi biblici (Cebi)
Il movimento biblico in Brasile (che fa da riferimento anche per la ricerca biblica latino-americana) si propone un nuovo modo di leggere la bibbia.
Dato il particolare contesto socio-politico che caratterizza la società brasiliana nel 1960-70, la parola di Dio viene letta secondo tre angoli: bibbia, realtà, comunità. In tale triangolo l’obiettivo non è interpretare la bibbia, ma, con la bibbia, interpretare la vita.
Questa novità metodologica reca in sé un modo diverso di usare la scienza esegetica. C’è la preoccupazione di cogliere il contesto del testo biblico: prima ancora di studiarlo, si cerca di conoscere i problemi della società in cui è nato quel testo. In tale modo appaiono con facilità le analogie con l’attualità. La bibbia feconda la vita dei suoi lettori e si evita la tentazione del fondamentalismo.
È così che, alla fine degli anni ’70, nasce il Cebi come centro ecumenico: riunisce cattolici e protestanti. Inizia le proprie attività con tre tipi di corsi biblici: di formazione (4 settimane a livello nazionale); di attualizzazione (2 settimane a livello regionale); di base (3-4 giorni a livello locale).
Il Cebi diventa un patrimonio importante dell’intera comunità cristiana, e non solo brasiliana. Lo prova il fatto che, pure in Italia, alcuni gruppi di lettura popolare della bibbia vi fanno riferimento.
Negli anni ’90 la lettura popolare della parola di Dio si rinnova, per rispondere alla sollecitazione di un approfondimento non tanto biblico, quanto delle fonti e della storia in cui vengono a trovarsi oggi i lettori della bibbia. Bisogna – dicono i teologi latino-americani – ritornare a «bere l’acqua del proprio pozzo».
È la riscoperta della dimensione mistica della «parola». Con questo, anche la dimensione ecumenica si fa più matura: leggere la bibbia a servizio della vita aiuta a relativizzare le differenze confessionali e riporta al centro il dialogo ecumenico. Il servizio alla vita (non all’istituzione) esige la conversione di tutti e crea un’unità profonda, senza per questo eliminare le diversità.

Le Comunità ecclesiali di base (Cebs)
Nascono nello spirito conciliare, allorché la Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), ancora nel 1966, ne appoggia la formazione e strutturazione come importante proposta pastorale. A partire dal 1974, i vescovi le indicano come una delle priorità. Le stesse Conferenze episcopali latino-americane, a Medellin (1968) e specialmente a Puebla (1979), ne parlano in termini di assunzione istituzionale.
La chiesa cattolica conferisce alle Comunità di base un riconoscimento ufficiale quando, specie nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), ne parla come di «una speranza per la chiesa universale».
Dal 1975 gli incontri interecclesiali delle Cebs, in Brasile, sono – al dire di alcuni teologi – dei concili di base, al punto che la stessa Conferenza episcopale afferma: «le Cebs non sono un movimento, ma una nuova forma di essere chiesa».
Oggi le Comunità ecclesiali di base non sembrano vivere più con la vivacità degli inizi, quando la loro dimensione religiosa e politica era così evidente da essere temuta e citata persino dai rapporti di geopolitica statunitensi. Tuttavia restano un’eredità ecclesiologica da annoverare tra i contributi più originali della chiesa brasiliana contemporanea.

La Teologia della liberazione (Tdl)
È doveroso ricordare la riflessione teologica che ha permesso e matura le esperienze citate. Ci riferiamo alla Teologia della liberazione. È un fenomeno che va al di là della chiesa brasiliana, ma che in essa trova una delle protagoniste della sua ideazione e realizzazione.
Anche la Teologia della liberazione non nasce per caso, ma è frutto di un processo storico. Si possono distinguere tre fasi: la preparazione (1962-68), la formulazione (1968-’75), la sistematizzazione (dal 1976).
La Tdl nasce da «un’indignazione etica di fronte alla povertà e all’emarginazione delle masse»: così il teologo Leonardo Boff. Però fin dall’inizio, essa non si pensa come la teologia politica europea, bensì come un nuovo modo di fare teologia. Il suo problema non è un «oggetto specifico» (fosse anche la povertà), ma un «orizzonte» significativo per il pensiero teologico. Da una teologia, quale funzione critica dell’azione pastorale, si vuole passare ad una teologia quale riflessione critica della realtà sociale.
Il concetto di liberazione serve, meglio di altri, ad indicare il fine del pensare e dell’agire ecclesiale. Vegliando sulla teologia per non farla divenire una semplice branchia delle scienze sociali, la Tdl rinnova la riflessione cristologica ed ecclesiologica.
Presentando la figura di Gesù, soprattutto come liberatore, la cristologia evidenzia il primato dell’essere antropologico, utopico, critico e sociale… Spostando l’interpretazione della chiesa, non più ad intra ma ad extra, l’ecclesiologia che ne deriva si preoccupa dello sviluppo, della giustizia, ecc. Un’ecclesiologia che si confronta con la propria efficacia storica, o meno, e che misura i propri risultati in rapporto al cambiamento della società.
Il che è anche discutibile.

E c’è dell’altro…

La chiesa brasiliana del dopo-Vaticano II è un dono alla chiesa universale; un dono reso più ricco dagli incontri dell’episcopato latino-americano a Medellin (1968), Puebla (1979) e Santo Domingo (1992).
Ma non è tutto. Se siamo disposti a guardare extra muros ecclesiali, incontreremo altre novità.
C’è un complesso mondo religioso (sciamanismo amazzonico, teologia e ritualità afro, religiosità popolare), che ha ancora molto da dire e offrire alla vita religiosa di tutti. Si tratta di una ricchezza che, spesso, non appare nei documenti ufficiali; eppure è parte significativa della vita spirituale e materiale di tanti brasiliani.
Un campo di ricerca ancora aperto è quello che investe la religiosità popolare: qui si balbetta appena qualche ipotesi. Non si può fare un resoconto della vita cristiana e, più in generale, religiosa del Brasile senza, almeno, ricordare il patrimonio dell’esperienza popolare.
Se esiste una teologia erudita, razionale ed ufficiale, c’è pure un pensiero teologico popolare con un’altra razionalità. Ci riferiamo al complesso mondo religioso dell’uomo e della donna brasiliani. Vi si incontra un pensiero sincretico, che non ubbidisce al «principio di identità» (proprio del filosofare occidentale), ma al «principio di partecipazione». Non esclude il «tuo», perché diverso dal «mio», ma lo incorpora, proprio perché differente.
Questa è una logica non ancora del tutto esplicitata dagli studi accademici: la logica della vita, dell’emotività, del simbolo, della simultaneità; si contrappone alla logica della ragione, della forma, della linearità. La stessa Teologia della liberazione, almeno nella sua versione ufficiale, si muove su una logica distante da quella popolare, pur volendo e avendo in mente il popolo.

Lo Spirito soffia dove vuole: anche là dove le illuminazioni teologiche non arrivano, l’organizzazione ecclesiastica è precaria e le conferenze non si fanno.
Alla comunità universale dei credenti, quella brasiliana offre qualcosa di autenticamente evangelico. Se ascoltata (ma non inquadrata), controllata e anche illuminata, la fede dei semplici è un grande contributo per costruire un’alternativa. O soltanto per continuare il cammino verso il Regno.

Marco dal Corso




La croce, con tantissimi poveri cristi – Speciale BRASILE

Dall’alto del Corcovado

Inaugurata nel 1931 come segno
della lotta contro il comunismo,
la mastodontica statua del Redentore,
dall’alto della collina del Corcovado,
domina Rio de Janeiro e l’intero Brasile.
Un simbolo, ma non solo.

Una cosa è certa: la chiesa del Brasile non può passare inosservata, con 119 milioni di abitanti che si dichiarano cattolici.
«La storia del Brasile mostra una chiesa identificata con la vita del popolo. Essa è stata presente in maniera decisiva in ogni momento, ma soprattutto nella vita quotidiana, umile e oscura»: hanno scritto i vescovi del Brasile nel 1972, in occasione del 150° anniversario dell’indipendenza.
Non è sempre stato così. E tutto è cominciato 500 anni fa.

Lenti e non facili inizi

22 aprile 1500. Una spedizione portoghese, guidata da Pedro Alvares Cabral, sbarca sulle coste di un paese sconosciuto, battezzato «Vera Cruz». Ma la terra ha già i suoi «proprietari»: 5-6 milioni di indios.
Pochi giorni dopo, padre Henrique da Coimbra, francescano, celebra la prima messa e pianta la croce (per ricordare il gesto, il 27 marzo 1999 Giovanni Paolo II benedisse una riproduzione della croce, che percorse l’intero Brasile).
Insieme alla colonizzazione, inizia così l’evangelizzazione, che assume caratteristiche particolari. La più evidente è un «ritardo brasiliano» (sia nell’organizzazione ecclesiastica, sia nell’annuncio missionario), poiché per tutta la prima metà del 1500 il Brasile è una «colonia di riserva» del Portogallo. Non esiste né un chiaro progetto di dominazione, né una sistematica azione dei missionari. Il cristianesimo penetra lentamente attraverso vari cicli.
Il 1551 è importante: il papa nomina il re Giovanni III e i suoi successori «grandi maestri dell’ordine di Cristo», conferendo loro la responsabilità di propagare la fede, nominare i vescovi, raccogliere fondi per la chiesa, sorvegliare i tribunali ecclesiastici. Il 25 febbraio, con la bolla Super specula, Giulio III erige la prima diocesi, São Salvador de Bahia, con il vescovo Pedro Sardinha.
Questi non è all’altezza della situazione e finisce divorato dagli indios nel 1556. Ha avuto pure gravi contrasti con i gesuiti. Costoro hanno metodi missionari un po’ tolleranti; il vescovo, convinto dell’assoluta negatività dei culti locali (nonché della superiorità portoghese), li obbliga a modificare il loro stile.
Cresce intanto lo scontro tra indigeni e coloni, sempre più avidi di terre e di lavoratori per le piantagioni. Gli indios fuggono verso l’interno, aiutati dai gesuiti che, per proteggerli, creano speciali aldeias (villaggi).
Il villaggio è una «repubblica indigena»: ottiene un’autonomia quasi assoluta e giunge ad avere anche oltre 10 mila persone. Separati dai centri portoghesi, i villaggi degli indios mirano a far rispettare la loro libertà, mutae il nomadismo, evitare la presenza «scandalosa» dei colonizzatori, promuovere lo sviluppo globale.
I missionari trovano non poche difficoltà nell’evangelizzare gli indigeni, radicati anche nel cannibalismo. Simpatico è l’incontro tra un gesuita e una vecchia india, prossima a morire. Dopo averla battezzata, il padre le chiede se desidera qualcosa. «Se ti portassi dello zucchero o saporiti frutti di mare, li mangeresti?» le chiese. «Ah! – risponde la convertita – Il mio stomaco rifiuta ogni cibo. C’è solo una cosa che potrei toccare: se avessi la mano di un tenero bimbo tupuya, potrei piluccarne le piccole ossa; ma non c’è nessuno che vada ad uccidee per me!»…
Per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, arrivano anche schiavi importati dall’Africa. Si calcola che, dal 1500 al 1852 (anno in cui finì la tratta), siano stati introdotti in Brasile 3 milioni e mezzo di schiavi. Proprio nelle piantagioni si diffonde il primo cristianesimo.
Il problema degli schiavi non attira la giusta attenzione evangelizzatrice e liberatrice. I gesuiti tentano, ove possibile, di risparmiare le sofferenze agli indios, ma non ai neri, che sono abbandonati a se stessi.
In ogni piantagione c’è una cappella: ma, anziché simbolo di riscatto, diventa segno obbrobrioso dell’ordine imposto dal padrone. È lui che si sceglie il cappellano, cui spetta celebrare i sacramenti e sedare i conflitti. L’unico controllo è la visita sporadica di qualche missionario. In tale occasione cappellano e proprietario ricevono l’ospite con onore, perché si convinca che la fede viene praticata e… tolga subito il disturbo.
gesuiti all’assalto
Nel 1576 la diocesi di São Salvador viene divisa, dando origine alla prelatura di Rio de Janeiro. Solo nel 1745 (quasi due secoli dopo) sorgeranno altre due diocesi: Mariana e São Paulo. Nel 1822, anno dell’indipendenza, il Brasile conta appena un’arcidiocesi, sei diocesi e due prelature, per 4 milioni di abitanti.
Ciò è una conseguenza del «patronato», diritto che la Santa Sede ha concesso al Portogallo nel 1493, grazie al quale lo stato è responsabile dell’evangelizzazione nei territori non europei conquistati. Attraverso la Mesa de Consciencia e Ordens (organismo creato nel 1532), si decide la creazione di parrocchie e diocesi, l’installazione di ordini religiosi, la fondazione di conventi. Alla Santa Sede rimane solo la conferma delle nomine episcopali.
L’azione pastorale ha i suoi protagonisti negli ordini religiosi, sostituiti dal clero secolare alla fine del xviii secolo: primi i francescani, seguiti da gesuiti (1549), benedettini (1582), carmelitani (1584) e cappuccini (1612). La maggioranza è portoghese, ma non mancano spagnoli, francesi e italiani.
Sono specialmente i gesuiti a porre le fondamenta delle grandi città, aprire scuole, costruire chiese, ponti, strade e… versare il proprio sangue, come i fratelli Pierre Correa e Jean de Souza, primi martiri brasiliani.
Tre figli di Sant’Ignazio rimangono memorabili nella storia del Brasile: Manoel de Nobrega (capo-spedizione del primo gruppo arrivato nel paese), José de Anchieta e Antonio de Vieira.
In Brasile il 9 giugno è la giornata nazionale dell’educazione ed è questa la data di morte di Anchieta (1597), definito «il primo umanista dell’America e il primo americano dell’umanità». Più discusso è Vieira (1608-1697), in cui si mescolano abilità politica (fu ambasciatore in vari paesi), passione in difesa degli indios (per cui fu rispedito in patria), visioni profetiche troppo in favore del re Giovanni iv e gaffe di fronte alla schiavitù nera.
La lotta antischiavista dura 200 anni. I gesuiti si scontrano con fazendeiros e cercatori di schiavi; sono sostenuti anche dalla corte portoghese, che però è distante; per cui le sentenze, boicottate dalle autorità locali, non sempre raggiungono lo scopo. Nel 1640 la lettura pubblica della bolla di papa Urbano (che vieta il traffico di schiavi indios) provoca tumulti a Rio de Janeiro, Santos e São Paulo. I gesuiti vengono espulsi da São Paulo.
È l’anticipo della cacciata dall’intero Brasile nel 1759: 428 gesuiti lasceranno parrocchie e collegi, causando un tonfo alla chiesa. Ristagna la vita religiosa, gli indios si vedono privati dei loro apostoli, riprende vigore lo schiavismo. Oltre alle autorità civili, anche il clero secolare e gli altri ordini non sopportano tanto i gesuiti, perché sono molto ricchi, hanno troppi privilegi e possono appellarsi a Roma e Lisbona.
Uno storico afferma che «senza i gesuiti, la storia coloniale non sarebbe nient’altro che una catena di atrocità senza nome» (Joaquim Nabuco). Ma c’è chi li accusa di aver ridotto gli indios «a regime di collegio, tenuto da preti… in cui andavano distrutti ogni spirito vitale, freschezza e spontaneità» (Gilberto Freyre).
Facendo un bilancio, la «prima evangelizzazione» è contrassegnata da ombre e luci. Dopo 250 anni di pastorale, non esiste alcun prete indigeno e il cristianesimo non è assimilato dalla popolazione. Si è invece diffusa una fede devozionale. Meticci e neri elaborano propri sincretismi religiosi, accogliendo elementi del messaggio evangelico, interpretando a loro modo i contenuti ricevuti e trovandovi conforto e speranza. La gente semplice si identifica con il Crocifisso e, guardando «all’uomo dei dolori», trova inesauribili risorse per resistere a violenze e umiliazioni.

una chiesa «impacciata»
Nel 1822 i grandi proprietari inducono Pedro i, principe ereditario del Portogallo, a proclamarsi imperatore del Brasile indipendente. Lisbona lo accetta. La Santa Sede riconosce al nuovo imperatore il diritto di «patronato».
Al sovrano si chiede persino il permesso di ordinare i preti. E dom Pedro comanda: «Giudicando che non si deve, senza necessità, aumentare il numero dei ministri della chiesa e rubare all’impero braccia che lo possano difendere contro i nemici, ordina che non si ammetta per ora alcuna persona agli ordini sacri, senza licenza previa dello stesso augustissimo signore».
È un fatto assai negativo. In Brasile nel 1872 si conta solo un migliaio di preti, concentrati specialmente nelle città della costa; all’interno, un sacerdote dirige anche 20 e più parrocchie, sparse per migliaia e migliaia di chilometri quadrati!
Sotto il regno di Pedro ii, la chiesa ha delle scaramucce con il governo. Una parte del clero si oppone alla monarchia. È il caso di Diego Feijao: partecipa alla rivoluzione liberale del 1824, viene arrestato e deportato. La rivoluzione produce anche il primo sacerdote martire repubblicano: fra’ Joaquim Caneca. Né si può dimenticare l’influenza della massoneria nella «questione religiosa». L’epilogo è il processo, la condanna e la prigionia dei vescovi di Olinda e Pará, rei di aver difeso i diritti e la libertà della chiesa.
Con Pedro II inizia la «seconda evangelizzazione» del Brasile. I vescovi, insoddisfatti della situazione, riformano le comunità secondo uno stile tradizionalista: origine divina di ogni potere, alleanza fra trono e altare, primato dello spirituale sul sociale, lotta contro le forze sataniche (come la massoneria).
Per attuare il progetto, ci si appoggia a congregazioni straniere: ai lazzaristi si affida la formazione dei preti; ruoli importanti hanno anche cappuccini e gesuiti (rientrati nel 1846, dopo l’espulsione). Nel 1860 i francescani evangelizzano gli indios del Rio delle Amazzoni, mentre i cappuccini operano tra le tribù della costa orientale.
Spazio anche per le suore: le figlie della carità, le francescane olandesi, le suore di San Giuseppe…
Gli agenti ecclesiali dedicano attenzione particolare ai fedeli di provenienza europea (poveri immigrati che sostituiscono, nel lavoro, gli schiavi), per proteggerli dai sincretismi religiosi. Così il «nuovo cristianesimo» trova il suo habitat nelle aree di recente immigrazione: le regioni meridionali, le cittadine sorte grazie allo sviluppo economico.
Emerge una fede abbastanza disincarnata: nessun impegno sociale, ma sopportazione e buon esempio; molta devozione personale e accettazione rassegnata del proprio stato quale strumento per la salvezza dell’anima.
ripensamenti…

Nel 1889 cade la monarchia e viene proclamata la «Repubblica degli Stati Uniti del Brasile».
La nuova costituzione garantisce alla chiesa libertà e diritto di proprietà. Tuttavia, per la legge della «separazione», è vietato l’insegnamento della religione nelle scuole, è riconosciuto solo il matrimonio civile e vengono secolarizzati i monasteri. I vescovi protestano. Però alcuni si rendono conto che la «separazione» è una «liberazione» dalla protezione-oppressione dello stato.
Nel 1922 il cattolicesimo ritorna religione di stato. Precedentemente, nel 1916, Sebastião Leme, vescovo di Rio de Janeiro, aveva scritto che il Brasile è «la maggiore nazione cattolica del mondo, un paese essenzialmente cattolico». Però la religione è mal compresa. Occorre pertanto evangelizzare ogni ambiente e «cattolicizzare» le diverse realtà.
Nascono diverse opere: l’università cattolica; il Centro dom Vital come strumento di cristianizzazione dell’intelligentia brasiliana; A Ordem, la rivista del pensiero cattolico; l’Azione cattolica; le pasque collettive; la Lega elettorale cattolica; la lotta per una legislazione contro il divorzio e la stipulazione di relazioni diplomatiche con la Russia…
Alle prese con la crisi economica, il presidente-dittatore Vargas cerca l’appoggio dei vescovi. Questi fanno eleggere laici fidati nell’assemblea costituente, intervenendo nella stesura del codice civile e penale. Lo stato concede privilegi alla chiesa, ottenendo in compenso il silenzio di fronte al regime autoritario.
Ma, dagli anni ’40, la chiesa ripensa se stessa partendo dalla promozione umana, pur non osando dichiarare che è il sistema da ribaltare: però incomincia a denunciare le disumane condizioni dei contadini, appoggia le aperture riformiste, ma si oppone alle leghe contadine di ispirazione marxista.
Si discute di riforma agraria. Il 10 settembre 1950 il vescovo Inocêncio Engelke pubblica una lettera pastorale di vasta eco: «Con noi, senza di noi o contro di noi si farà la riforma agraria».
I vescovi sentono il bisogno di progettare insieme: tanto che già nel 1952 nasce la Conferenza episcopale dei vescovi brasiliani (Cnbb), più di dieci anni prima del Concilio! Anche la pratica pastorale incomincia a mutare attraverso sperimentazioni innovatrici.
Nel 1948 il movimento di Natal (nordest) avvia una pastorale fondata su équipes di laici volontari, per combattere la miseria della popolazione e con precisi obiettivi: formazione religiosa dei fedeli, alfabetizzazione degli adulti, trasformazione delle strutture socio-economiche. Significativa è l’esperienza di catechesi di Barra di Piaui (affidata a laici) e di Nizia Floresta, dove si affida a suore la responsabilità di alcune comunità.
Dal 1959 ci si interessa ai sindacati rurali e nel 1960 il Fronte nazionale del lavoro inaugura un nuovo sindacato, ispirato da cristiani nel contesto operaio urbano. Nel 1961 nasce il Meb (Movimento di educazione di base) per l’alfabetizzazione e la formazione delle masse contadine: ottiene uno straordinario successo grazie all’uso della pedagogia liberatrice di Paulo Freire.

La miccia è ormai innescata. Siamo alla vigilia del Concilio ecumenico Vaticano II. È l’evento che avrebbe dato il via ad una rivoluzione nella chiesa del Brasile, con la nascita della comunità di base, la teologia della liberazione, la scelta preferenziale per i poveri.
E questa è tutta una storia nuova.

Giacomo Mazzotti




Brasilia, provincia di Washington Speciale – BRASILE

Se si guarda alle statistiche, il Brasile si colloca tra i primi
10 paesi più industrializzati del mondo. Ma la realtà quotidiana parla di disoccupazione, sottoccupazione, povertà diffusa, violenza crescente. Il presidente Cardoso e il ministro delle finanze
Pedro Malan sono di casa nella sede del «Fondo monetario
internazionale» (Fmi), a Washington. I più critici
(tra cui i vescovi) parlano di ricolonizzazione e sottomissione
del Brasile. Difficile non pensare male quando si vede
il «Banco central» affidato a Arminio Fraga Neto, ex consigliere
di George Soros, ovvero il finanziere statunitense universalmente noto per essere il più grande speculatore del mondo.

Atanagildo de Deus lavora in una fabbrica di San Paolo che produce parti per l’industria automobilistica. Da anni egli vive nella paura di perdere il posto di lavoro, come accaduto a migliaia di altri operai. Nel distretto denominato «Grande San Paolo», il maggior polo industriale ed economico del paese, l’indice ufficiale di disoccupazione è del 18,3%, con 1,6 milioni di lavoratori per la strada.
Nelle settimane successive al crollo del real (13 gennaio 1999), alcune società inteazionali, tra cui Ford, General Motors e Volkswagen, hanno annunciato riduzioni d’attività e licenziamenti. Nel 1999 la Fiat (25.000 dipendenti e il 33,3% della produzione nazionale di automobili) ha prodotto mezzo milione di auto in meno rispetto al 1998.
Tuttavia, la riduzione dei livelli occupazionali nell’industria (e nel terziario) era iniziata ben prima dell’ultima crisi. Le ragioni stanno nelle spinte dirompenti della globalizzazione neoliberista e nel progresso tecnologico.
Elizabeth, moglie di Atanagildo, era impiegata alla Petrobras, la compagnia statale del petrolio. Pur non essendo stata ancora privatizzata, la società ha ridotto il numero dei dipendenti da 68 mila a 41 mila. Anche lei ha perso il posto.
Dopo aver accompagnato i due figli a scuola, Elizabeth si è messa in fila sul marciapiede antistante la filiale della banca Abn-Amro. Deve rinegoziare il prestito (in dollari), sottoscritto un paio di anni fa per l’acquisto dell’automobile.
Mentre attende di entrare, Elizabeth sfoglia il Folha de S.Paulo, il principale quotidiano del paese che non è tenero col presidente. Accanto a lei passano lustrascarpe e venditori di ogni genere d’articolo.
Più di 35 milioni di brasiliani lavorano nella cosiddetta «economia informale». Questa comprende una miriade di attività lavorative non ufficiali (o sommerse): servizi domestici, manodopera edile saltuaria, raccolta di rifiuti (latta, carta, ecc.) nei bidoni della spazzatura, vendita ambulante per le strade o sugli autobus. In ogni caso, si tratta di occupazioni assolutamente precarie.
Ecco perché, nonostante tutto, Atanagildo e Elizabeth sono fortunati rispetto alla maggioranza dei brasiliani. Portano ancora a casa uno stipendio, che consente di sopravvivere e pagare il mutuo dell’auto. Non si possono più permettere di visitare gli amici a Salvador Bahia, ma i loro due figli possono frequentare la scuola.

CARDOSO,
UN PRESIDENTE MODELLO?

Feando Henrique Cardoso è passato dalla relativa popolarità del primo mandato presidenziale (quello della stabilizzazione monetaria) all’enorme impopolarità del secondo (caratterizzato dalla recessione). Sia nel primo che nel secondo periodo il presidente brasiliano si è dato un comune denominatore: il rispetto incondizionato delle ricette neoliberiste e, dunque, l’azione benefica del mercato, la libera circolazione dei capitali finanziari, le privatizzazioni.
Oggi il Brasile si presenta con un’unica, enorme frattura sociale. Da una parte, le élites storiche e quelle nuove, divenute ancora più ricche con le privatizzazioni e la speculazione finanziaria. Dall’altra, la grande massa dei brasiliani poveri e impoveriti (quelli provenienti dalla ex classe media). Al riguardo le statistiche non sono univoche, ma tutte indicano i poveri ben oltre la soglia del 50% della popolazione.
A conti fatti, cosa ha fatto il tanto osannato Cardoso? Ha lavorato con grande diligenza ed abnegazione per applicare alla lettera i dettami neoliberali del Fondo monetario internazionale. Ha deregolamentato l’economia, smantellato buona parte dello stato sociale, disarticolato l’industria nazionale, privatizzato quasi tutte le imprese dello stato, aperto indiscriminatamente l’economia brasiliana al mercato mondiale. Tutto ciò ha fatto salire al 20% il tasso di disoccupazione effettivo.
Per cercare di capire come si è arrivati a questa situazione, vale forse la pena di ripercorrere gli eventi economici e politici che hanno caratterizzato gli ultimi anni.

IL DOMINIO
DELL’ECONOMIA MONETARIA

È l’estate del 1994 quando il ministro delle finanze Feando Henrique Cardoso sale alla ribalta per il varo di un’audace politica monetaria. Il suo «piano real» (dal nome della nuova moneta brasiliana alla quale viene attribuita la parità con il dollaro) è un programma neoliberale, il cui obiettivo è la lotta all’inflazione (che raggiunge il 900% annuo) e la stabilizzazione della moneta. Il piano ha successo sull’inflazione e consente a Cardoso di guadagnarsi la presidenza, ma affossa il paese reale e le classi popolari.
Una delle misure intraprese è infatti l’incremento dei tassi d’interesse, per richiamare i capitali stranieri. Ma ciò comporta conseguenze negative per le imprese brasiliane, impossibilitate a contrarre prestiti e di conseguenza costrette a licenziare personale o a vendere l’attività. Nel contempo, sul mercato interno si affermano i beni importati che scalzano quelli prodotti internamente e fanno lievitare il deficit della bilancia commerciale.
A ciò va aggiunto un altro effetto perverso: l’aumento dei tassi produce automaticamente un aumento del debito pubblico interno.
Nel 1997 Cardoso ottiene le modifiche alla costituzione che gli permettono di essere rieletto. Poi, dà inizio alla sua seconda campagna presidenziale con il consistente sostegno finanziario di banche, imprese e altri grandi organismi verso cui il suo governo si è mostrato tanto generoso. Per non parlare del plateale appoggio dei mezzi di comunicazione. Nonostante queste premesse, il 4 ottobre 1998 Cardoso viene rieletto con un deludente 52% dei suffragi.
Poche settimane dopo la rielezione, esce un comunicato della Conferenza dei vescovi, secondo il quale sarebbe necessario «opporre resistenza alle esigenze imposte al Brasile da organizzazioni inteazionali, più preoccupate della salute delle Borse che della salute del popolo».
Il 13 novembre 1999 queste stesse organizzazioni (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) accordano al Brasile un maxi-prestito di 41 miliardi di dollari.
Gli eventi si susseguono e la realtà supera di gran lunga le previsioni più negative. Il 13 gennaio il real perde il 40% del proprio valore. Il Brasile precipita nella recessione. E nelle avide mani del capitale straniero.
All’inizio di febbraio viene defenestrato il governatore della Banca centrale, Francisco Lopes, nominato da appena due settimane. A presiedere l’istituto di emissione brasiliano viene posto Arminio Fraga Neto, ex consigliere di George Soros (!), il finanziere statunitense considerato il più grande speculatore del mondo.

PRIVATIZZAZIONI E RICOLONIZZAZIONE

La ricolonizzazione del Brasile avviene attraverso i capitali esteri attirati nel paese. Inizialmente, sono richiamati dai tassi d’interesse molto elevati; si tratta, dunque, di capitali volatili e speculativi. In seguito, arrivano per acquistare le attività produttive. Tra il 1994 e il 1997, ben 595 grandi imprese passano da mani brasiliane a mani inteazionali.
Poi, all’inizio del 1999, la svalutazione del real completa l’opera, richiamando il capitale straniero che arriva in Brasile per rilevare a prezzi stracciati le imprese in difficoltà o in fallimento.
Inoltre, la svalutazione del real fa crollare il valore contabile delle attività pubbliche, accelerandone la privatizzazione a condizioni particolarmente vantaggiose per gli investitori esteri o una ristrettissima élite di capitalisti brasiliani. In ogni caso, compagnie statali, costruite con lo sforzo collettivo di tutta la società brasiliana, sono svendute a tutto vantaggio dei profitti privati. Così, tanto per citare qualche nome, vengono privatizzate la rete Telebras, la società elettrica di Rio, le autostrade, la telefonia mobile (è arrivata anche l’italiana Tim), le officine ferroviarie, la compagnia mineraria «Vale do Rio Doce» (la più grande del mondo nel comparto del ferro).
«Continuando su questa strada – ci ha detto lo scorso anno Lula, leader del “Partito dei lavoratori” -, ci troveremo a non avere più patrimonio pubblico».
I brasiliani fanno sentire la loro protesta. Ma né la marcia dei centomila (agosto 1999) né la manifestazione del «grido degli esclusi» (settembre 1999) intaccano la sicumera del presidente-sociologo. «Io non ho in testa il calendario delle manifestazioni – commenta Cardoso -. Ogni anno è la stessa cosa: marce, proteste e non so che altro. Questi pensano di scaldare la società e di portarla alla rivoluzione. Sono soltanto degli anacronisti sobillati dall’opposizione di sinistra». Con sarcasmo e disprezzo l’entourage del presidente conia anche un neologismo per etichettare gli avversari: neo-bobos, i «nuovi scemi».
In perfetto accordo con il governo è Paulo Coelho: «La nostra economia funzionava appoggiandosi soltanto sul 25 per cento dei 164 milioni di brasiliani. Da allora, i responsabili politici ed economici fanno di tutto affinché i miei concittadini entrino in quel processo di espansione dei consumi che contribuisce a rendere grande e prospera una nazione. L’emergenza di una classe media farà del nostro paese un Eldorado all’altezza d’Europa e Stati Uniti. Ce ne stiamo occupando e ci riusciremo». L’ottimismo di Coelho è eccessivo e un po’ sospetto. Forse lo scrittore di Rio è troppo abituato ai temi esoterici e fantastici (sviluppati nei suoi libri) per analizzare la realtà.
Come invece fa la teologa Ivone Gebara, che lavora vicino a Recife: «Il Brasile – afferma – è allo stesso tempo primo, terzo e quarto mondo. Abbiamo tutte le condizioni della tecnologia più avanzata e, al tempo stesso, gente affamata, analfabeta e un sistema sanitario e di educazione pubblica tra i peggiori del pianeta. C’è chi chiama il Brasile “Belgindia”, perché ha un primo mondo come il Belgio e il terzo o il quarto mondo come certe zone dell’India».

CATTIVI CONSIGLIERI

La chiesa brasiliana è durissima verso la politica economica del governo Cardoso. «Le misure economiche – si legge in un documento della Conferenza dei vescovi -, per quanto annunciate dal presidente della Repubblica, sono di fatto emanate, sempre più, in consonanza con il Fondo monetario internazionale e con il segretario del Tesoro nordamericano».
Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso, ad una domanda sulla situazione del Brasile ha risposto: «Evidentemente il Brasile va male. E va male, fondamentalmente, perché segue alla lettera gli ordini del Fmi e del neoliberismo».
Ecco perché, nonostante tutto, Atanagildo, Elizabeth e i loro due figli sono dei brasiliani fortunati.

LA SAMBA DEI NUMERI

prodotto interno lordo: 1.550.000 miliardi di lire, contro i 2.100.000 miliardi dell’Italia (1998)

disoccupazione (ufficiale e reale): 7,7% secondo l’«Istituto brasiliano di geografia e statistica»; i sindacati parlano, invece, di un tasso di disoccupazione attorno al 20%

lavoratori informali: 35 milioni di brasiliani
poveri: 78 milioni di brasiliani vivono in condizioni di povertà (con entrate inferiori a 72 dollari al mese); altri 43 milioni vivono in condizioni di povertà estrema (con entrate inferiori a 35 dollari mensili)

meninos de rua: 7 milioni (ma altri parlano di 10 milioni)

tasso di omicidi: 25 per 100.000, contro il 4 dell’Italia e il 75 della martoriata Colombia

debito esterno: 229 miliardi di dollari nel 1998, contro i 179 del 1996, secondo i dati della Banca centrale

imprese vendute: tra il 1994 e il 1997, 595 grandi imprese sono state trasferite da mani brasiliane a mani straniere

DAL PIANO REAL AD AVANZA BRASIL

luglio 1994: arriva il «piano real»
Il ministro delle finanze Feando Henrique Cardoso vara il cosiddetto «piano real» per fermare l’inflazione. Questo obiettivo viene raggiunto a scapito di altri parametri economici: tassi d’interesse, disoccupazione, deficit pubblico, dipendenza dall’estero.

ottobre 1994: Cardoso presidente
Sull’onda del «piano real», Feando Henrique Cardoso viene eletto presidente del Brasile, sconfiggendo Luis Inacio da Silva detto Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt).

4 ottobre 1998:
Cardoso viene rieletto
Il presidente Cardoso, sostenuto da tutti i principali mezzi di comunicazione, viene rieletto per altri 4 anni. Lula viene sconfitto per la 3 volta consecutiva.

13 novembre 1998:
gli «aiuti» del Fmi
Il «Fondo monetario internazionale» (Fmi) annuncia un aiuto al Brasile per 41,5 miliardi di dollari. L’annuncio contribuisce ad accelerare la fuga di capitali.

13 gennaio 1999: il crollo
Sotto i colpi della speculazione internazionale crolla la borsa di San Paolo. In una settimana il real perde più del 40% del suo valore.

febbraio 1999: la Banca centrale
Il presidente della Banca centrale, Francisco Lopes, in carica da meno di un mese, viene sostituito da Arminio Fraga Neto, ex consigliere di George Soros, il finanziere statunitense considerato il più grande speculatore del mondo.

agosto-settembre 1999:
le proteste
Il 26 agosto arrivano a Brasilia circa 100 mila manifestanti per protestare contro la politica economica di Cardoso. Il 7 settembre, anniversario dell’indipendenza, il movimento «Il grido degli esclusi» riunisce migliaia di persone a Aparecida, 130 chilometri da San Paolo, per protestare contro «la degradazione sociale ed economica».

31 agosto 1999: «Avança Brasil»
Cardoso (caricatura a lato) vara un ambizioso programma triennale chiamato «Avanza Brasile». Secondo il governo con esso verranno creati 8,5 milioni di nuovi posti di lavoro con 165 miliardi di dollari di investimenti in 358 progetti. Il programma è diviso in sezioni dedicate ai lavoratori, ai giovani, agli imprenditori.
(si veda: www.abrasil.gov.br.).

2-7 settembre 2000:
referendum sul debito
La Conferenza episcopale, i partiti dell’opposizione e molti movimenti sociali promuovono un referendum popolare sul debito estero del Brasile e sui rapporti con l’Fmi. Il governo si dissocia dall’iniziativa, mentre il ministro Pedro Malan la definisce «una idiozia».

Paolo Moiola




Amazzonia, un crimine infinito – Speciale BRASILE

Cinque milioni di chilometri quadrati,
il più grande serbatornio genetico del mondo emerso, la più importante riserva di acqua dolce e foreste tropicali della terra.
Da decenni la deforestazione e la distruzione della biodiversità dell’Amazzonia
proseguono senza pietà e senza veri
ostacoli. I colpevoli sono facilmente
individuabili. Ma niente e nessuno
sembra riuscire (o volere) fermarli.

È molto difficile, se non impossibile, per chi arriva in Amazzonia farsi subito un’idea chiara delle dinamiche che la caratterizzano e dell’insieme di culture ed etnie che la compongono.
Ancora più difficile è rendersi conto come e da che parte comincino lo sfruttamento e la distruzione dei suoi ecosistemi. E perché, ancora oggi, non si riesca ad arrestare un processo così vergognoso ed assurdo e che, per di più, sta accadendo sotto gli occhi di tutto il mondo.

AVVENTURIERI
E MULTINAZIONALI

La foresta brucia, è saccheggiata, viene abbattuta, sfruttata, ridotta a pascolo perché in uno spazio di 5 milioni di chilometri quadrati può accadere di tutto ed è difficile controllarlo.
La foresta se ne va per un insieme di problemi molto complessi, interdipendenti tra loro, risultato di secoli di storia sbagliata che ne ha fatto una terra di conquista.
L’Amazzonia è un immenso spazio ereditato dalla natura, su cui si muovono i popoli della foresta (vissuti per millenni in equilibrio con l’ambiente) e nuovi contingenti di popolazione extra-amazzonica, spinti dalle classi dominanti, alla ricerca di facili quanto improbabili fortune. Sull’Amazzonia si sono posati gli occhi di tutti: dagli avventurieri alle multinazionali (minerarie o del legame), dalle grandi e piccole imprese ai derelitti (coloni senza terra, cercatori d’oro, tagliaboschi). Tutti con una concezione di sviluppo occidental-capitalistica, poco adatta alla natura del luogo.
In Amazzonia si trova di tutto. Ci si può perdere tra igarapes e foreste, ma ci si può sentire sempre al centro del mondo, un mondo che procede troppo rapidamente rispetto ai suoi ritmi. Vi sono metropoli come Belém e Manaus, in cui la cultura tradizionale si difende a stento tra i centri commerciali ed un traffico sempre più caotico. Ci sono piccoli villaggi che si formano, crescono e scompaiono intorno ad attività produttive più o meno precarie. Si sviluppano centri turistici e di ricerca a livello internazionale; le comunicazioni e la viabilità per terra e per acqua aumentano sempre più.
La ricchezza di questa terra (costituita da giacimenti minerari, petrolio, oro, legname) viene saccheggiata trascurando totalmente le caratteristiche ambientali e delle popolazioni originarie, siano queste indios o caboclos. In base a progetti governativi e tecnocratici, l’Amazzonia è stata svenduta alla Banca mondiale, ai grandi latifondisti, alle compagnie per l’estrazione di legname. L’Amazzonia è stata svenduta al mondo come se lì non vi esistessero individui, come se non ci fosse storia, come se non ci fosse diversità topografica ed ecologica. Per questo, quando si parla dell’Amazzonia, bisogna parlarne con una visione olistica. Bisogna considerae il passato, le genti, la biodiversità fatta di una miriade di ecosistemi la cui natura è ancora in gran parte sconosciuta.
L’Amazzonia è un serbatornio genetico tanto ricco da essere ancora del tutto scoperto. La sua diversità biologica conta circa 80.000 specie differenti di vegetali e 30 milioni di specie animali (in gran maggioranza insetti). Nel Rio Amazonas e nei suoi affluenti vivono più di 2.000 specie di pesci. L’Amazzonia ha il 34% del legno tropicale e il 20% di tutta l’acqua dolce del pianeta.
Purtroppo, migliaia di specie animali e vegetali stanno scomparendo ancor prima di essere studiate. La deforestazione ha raggiunto le dimensioni della Francia, il 13% dell’estensione totale dell’Amazzonia.
Le acque, gli animali e la foresta sono tra loro interdipendenti e la rottura di un equilibrio comporta la rottura di molti altri.

DALL’EPOPEA DEL CAUCCIÙ
A QUELLA DEL LEGNAME

La complessità dei fenomeni sociali ed economici, responsabili della distruzione dell’Amazzonia, si intreccia con le fasi della sua occupazione durante circa 5 secoli. A cominciare dai portoghesi che tentarono di riprodurre un’economia coloniale fondata sulla manodopera indigena ed africana. Ben presto essi si accorsero della scarsa produttività del suolo e del basso ricavato di monocolture di zucchero e tabacco e s’impose un’economia basata sull’estrazione dei prodotti locali.
Nel secolo scorso, con l’epopea del caucciù, il Brasile divenne il primo produttore mondiale di gomma e Manaus una città di 50.000 abitanti con canoni di vita paragonabili a quelli delle capitali europee. Le acque del Rio delle Amazzoni vennero inteazionalizzate e gli insediamenti umani nel bacino aumentarono. Se le prime radici erano amerindie e portoghesi, durante il ciclo della gomma (alla fine dell’800) si riversarono in Amazzonia enormi quantità di uomini provenienti dai sertões (le aree secche del centro del Brasile) sovrapponendosi alle popolazioni indie ed europee.
Tra gli anni 1964-1984 il governo adottò una politica di prestiti agevolati per stimolare l’occupazione di vaste aree dell’Amazzonia, a quell’epoca considerata terra improduttiva. Centinaia di famiglie si stabilirono nel sud del Pará, in Rondonia, in Acre e cominciarono la distruzione sistematica della foresta. Per legge, la foresta doveva essere mantenuta al 50% per ogni appezzamento e quindi si crearono mosaici di foresta, le cui aree deforestate erano adibite al pascolo o all’agricoltura. Ma, dopo tre o quattro anni, i pascoli diventavano inutilizzabili per l’infertilità del suolo e altri lotti venivano sbancati.
In questa fase vennero costruite le prime transamazzoniche. Per esempio, quando venne edificata Brasilia, per collegare la capitale con Belém alle foci del Rio delle Amazzoni, si aprì una strada di 2.280 chilometri. Questa attraversava estensioni con formazioni aperte, vari tipi di vegetazione ed entrava nella foresta tagliandola direttamente fino al cuore della regione Bragantina, nel nord dello stato del Pará.
I nuovi canali di comunicazione facilitarono l’insediamento di migliaia di coloni provenienti dalle aree povere di tutto il Brasile e l’aumento della popolazione fu vertiginoso. L’afflusso di coloni e la successiva interferenza con l’ambiente furono particolarmente aggressivi.
Per esempio, la colonizzazione dello stato di Rondonia, nel sud-ovest dell’Amazzonia, è considerata una delle più rapide distruzioni condotte su di un’area tropicale di tutti i tempi. Se fino al 1960 la popolazione umana era scarsa e l’economia locale si fondava sull’estrazione della gomma e della castanha (conosciuta come noce brasiliana) dopo l’apertura della BR-364 Marechal Rondon (Cuiabá-Porto Velho) si creò un flusso migratorio che portò nello stato migliaia di persone oriunde di tutto il paese. Sotto il cornordinamento del governo dello stato, dell’INCRA (Instituto Nacional de Colonização e de Reforma Agrária) e del progetto «Polonoroeste», finanziato dalla Banca mondiale, in Rondonia furono attirate migliaia di persone attratte dal suo potenziale economico inesplorato.
Molti di questi immigrati erano contadini del sud che arrivarono con l’intenzione di ottenere una rendita dalla vendita di prodotti agricoli, ma subito scoprirono che la speculazione sulle terre era più lucrosa e cominciarono a venderle per un valore più alto di quanto avrebbero guadagnato in anni di lavoro. Molte terre vennero acquistate da latifondisti e madereiras. Nel 1973 in Rondonia vi erano appena 32 segherie e nel decennio successivo l’attività di estrazione di legname ebbe un incremento dell’800%.
La deforestazione in Rondonia è aumentata negli ultimi decenni in forma esplosiva, a ritmi più veloci della popolazione. In altre parole, aumenta non solo la deforestazione ma anche l’indice di deforestazione.

LE STRADE,
CAVALLO DI TROIA

L’apertura di nuove strade porta ad una rapido degrado del territorio: appena completata l’opera, inizia la deforestazione a ritmo accelerato. Nel giro di 2-4 anni, si creano spazi spianati di 10-40 km, disseminati di tronchi bruciati, su entrambi i lati e per tutta la lunghezza della strada. Dopo la costruzione, la deforestazione si espande a lisca di pesce in relazione al tasso di migrazione e si entra in una specie di circolo vizioso: tante e migliori strade attraggono nuovi emigranti, mentre d’altro lato l’aumento della popolazione giustifica la costruzione di nuove e migliori strade.
Il procedere della distruzione in seguito a processi migratori, favoriti da incentivi fiscali governativi, si può osservare anche in altre località. Per esempio, a Paragominas nel sud del Pará.
Qui gli incentivi statali vennero inizialmente stanziati per l’allevamento. Quando i proventi di quest’attività diminuirono in seguito ad una crisi monetaria, i latifondisti cominciarono lo sfruttamento del legname. Il principale prerequisito divenne allora l’apertura di strade, tanto regionali quanto locali, per permettere la rimozione dei tronchi e il loro trasporto verso le segherie. Paragominas si trasformò nel principale polo del Brasile per l’estrazione del legname.
Giunti a Paragominas, il panorama è oggi avvilente: della foresta rimangono solo pochi frammenti, mentre segherie contornano la città e cumuli di segatura ed altri scarti del legno bruciano dovunque e in continuazione. Dalle sue foreste venivano estratti 2 milioni di metri cubi di legname per anno, sufficienti per riempire 67.000 camion. A Paragominas ogni impresa ha sfruttato in media 242 ettari per anno, cioè l’equivalente a 500 campi di calcio. Questo sfruttamento si rivela ancora più inefficiente sapendo che, per ogni metro cubo estratto, altri due sono distrutti.
L’istituto Imazon di Belém (Pará) calcola che, per ogni ettaro di foresta trasformato in pascolo, si ottiene un guadagno di appena 25 dollari. Con l’estrazione di legname si ottengono valori maggiori: 170 dollari annuali per ettaro. Il problema è che, una volta deforestato, quell’ettaro darà di nuovo denaro solo dopo 70 anni. E infatti negli ultimi anni le riserve di legname di Paragominas si sono esaurite e così la maggior parte delle segherie si sta trasferendo ad Itacoatiara, a 296 km da Manaus in piena foresta, dove una concessione governativa permette di sfruttare per 50 anni un’area pari alle dimensioni di Israele.

CERCATORI D’ORO,
TAGLIALEGNA, COLONI

Altre ondate migratorie verso l’Amazzonia vennero favorite dal sogno di nuovo Eldorado. Dagli anni ’80 in poi con la scoperta dei giacimenti della Serra Poerina, nel territorio degli yanomami, e della Serra Pelada nel sud del Pará, si assiste ad un vertiginoso aumento dell’attività di estrazione dell’oro. Vantaggi fiscali sono offerti alle grandi compagnie, soprattutto multinazionali, e viene incoraggiata l’unione tra piccoli e grandi imprenditori. E così l’Amazzonia viene invasa da imprenditori, padroni di garimpos, intermediari, contrabbandieri, arrivisti arricchiti e politici opportunisti. Nella retroguardia un esercito di 600 mila disperati, alcuni colpiti da fame e disoccupazione, altri cacciati da aree povere e attratti dall’illusione di un facile guadagno. In realtà, soltanto alcune centinaia di individui faranno fortuna.
La distruzione che i cercatori d’oro stanno compiendo potrà essere compensata solo con 200 anni di rimboschimenti. Quest’attività inquina i fiumi con il mercurio e, di conseguenza, acque, foresta, pesci, uomini. Per ogni kg d’oro prodotto si libera nell’ambiente 1,4 kg di mercurio. Spesso le tribù indigene, nelle vicinanze delle miniere d’oro, instaurano rapporti commerciali con i cercatori d’oro, con conseguenze sociali negative.
E dopo i cercatori d’oro, dopo i taglialegna ed i coloni, sono arrivati in Amazzonia gli agenti di sviluppo: grandi industrie estrattive, centrali idroelettriche, mega progetti come il Gran Carajas, nel sud del Pará.
Un’area vastissima, pari a Francia e Italia, che ha visto la creazione di enormi infrastrutture. Vi sono 28 industrie sidero-metallurgiche costruite attorno ad un giacimento di ferro a cielo aperto; l’energia viene prodotta dalla idroelettrica di Tucurui, per la cui costruzione sono stati trasferiti circa 25.000 persone dalle aree che dovevano essere allagate. Il progetto si è avvalso di nuove strade intee di collegamento, in vari punti dello stato, e della costruzione della ferrovia Carajas, lunga 860 km. Ha visto la nascita di nuove città, aeroporti e distretti industriali.
Il progetto ha richiamato grandi contingenti di popolazione provenienti dalle aree povere circostanti, dalle terre espropriate per la costruzione di Tucurui, garimpeiros provenienti dalla riduzione di attività estrattive di Serra Pelada. Insomma, si trattava sempre di una manodopera poco qualificata, che viveva d’espedienti e poteva essere sottopagata.

I GRANDI LATIFONDI:
TRA CAPITALI E CORRUZIONE

Le concessioni di terre pubbliche, la politica di incentivi fiscali e gli stimoli all’impadronimento illegittimo, adottati in Amazzonia nel passato, hanno finito col creare una struttura fondiaria caratterizzata dai grandi latifondi. Questa tendenza alla concentrazione ed all’uso indebito della terra si è accompagnata ad un aumento generalizzato dei conflitti sociali, dovuti all’usurpazione delle terre indigene e dei piccoli contadini.
Le aziende agricole hanno sempre dimostrato una grande avidità. Gli agricoltori hanno sfruttato la terra senza rispettare la legge che vietava l’uso del 50% di foresta, nonché la deforestazione lungo le rive dei fiumi. Non vi è mai stato un efficiente controllo per accertare che gli investimenti fossero applicati in maniera corretta.
L’attività delle imprese per lo sfruttamento delle risorse forestali è dedicata in parte a corrompere le forze di polizia forestale (allo scopo di ottenere falsi permessi) e a frodare le leggi forestali che impongono la riforestazione di parte delle aree disboscate. L’IBAMA (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos), con la concessione di permessi di deforestazione senza troppi problemi, è uno dei principali accusati. Gli organismi di controllo sono in numero insufficiente, mancano di obiettivi e dispongono di attrezzature e fondi sempre più scarsi. Basti pensare che vi sono solo 82 centri con poco personale per controllare 5 milioni di chilometri quadrati.
Il continuo saccheggio dell’Amazzonia è riconducibile ad un’errata filosofia, che mira a uno sviluppo basato su una «omogeneizzazione civilizzatrice», che tende ad azzerare le diversità, siano queste biologiche o culturali.

CHE FARE DELL’AMAZZONIA?

Uno dei motivi della devastazione è che il Brasile non ha ancora deciso cosa vuol fare dell’Amazzonia. Nell’ultimo mezzo secolo tutti i piani per la regione sono falliti.
Il governo di Feando Henrique Cardoso affermava, già qualche tempo fa, che doveva essere varato un piano che prevedesse un programma nazionale di educazione ambientale, una migliore distribuzione degli organi di protezione ambientale e lo stabilirsi di certi percorsi di sviluppo regionali che tengano in conto l’ecosistema.
Nel 1998 è stato approvato un progetto, in cooperazione con la Banca mondiale ed il WWF, secondo cui il 10% delle foreste potranno essere protette a partire dall’anno 2000. Ma per il momento la deforestazione continua ad un ritmo allarmante e sembra che gli errori del passato non siano serviti.
Basta percorrere circa i 400 chilometri della Rodovia transamazzonica tra Humaita e Apui, nel sud dello stato di Amazonas. Lì, con 25 anni di ritardo rispetto a quanto pianificato dal regime militare nel 1970, c’è l’occupazione più recente della frontiera agricola del paese. Tutti i giorni quattro o cinque famiglie di coloni arrivano dal Paraná e Rio Grande do Sul per aprire nuove aree di lavoro nella foresta.
Ogni famiglia guadagna un appezzamento di 60 ettari dall’INCRA e la prima cosa da fare è appiccare il fuoco o tagliare la foresta. I coloni non ci pensano due volte a bruciare ettari ed ettari di foresta, dato che la terra è l’unico loro mezzo di sostentamento.
Alla fine degli anni ’80, il Brasile era indicato come uno dei paesi con il maggior numero di incendi forestali del mondo. In ragione di questo, il governo brasiliano subì una campagna di pressione molto forte da parte dei paesi stranieri e fu obbligato a proteggere la foresta con nuovi provvedimenti. All’inizio i risultati furono incoraggianti. Fino al 1994 il ritmo degli incendi era diminuito della metà, mentre la deforestazione si era ridotta al 40%. Ma nel 1995 i dati erano di nuovo allarmanti: le riprese satellitari erano chiare; migliaia di punti luminosi indicavano che la maggior foresta tropicale del pianeta era in fiamme.
In aprile, il ministro Josè Saey Filho ha rilasciato un’intervista per annunciare i dati sulla deforestazione in Amazzonia nel 1999 e ha presentato come una vittoria il fatto che i 16.926 chilometri quadrati dell’area abbattuta, significano una riduzione del 2,6% sul totale abbattuto nel 1998. A vederla così sembra una notizia positiva, ma in realtà non lo è, se si osserva che il tasso di deforestazione si è stabilizzato ad un valore molto alto.
L’anno scorso il ministero dell’ambiente ha proibito nuove deforestazioni, limitato le autorizzazioni per il trasporto dei prodotti forestali e si è fatto aiutare dall’esercito per punire le irregolarità. I dati per alcuni sono promettenti se si pensa che la legge sui crimini ambientali, recentemente approvata, permette l’applicazione di multe fino a 50 milioni di reais (equivalenti all’incirca a 500 milioni di lire) agli infrattori.
Ma, come osservano le associazioni ambientaliste, maggiori controlli e multe alte sono di poca portata di fronte all’immensità del problema complessivo, considerando anche gli interessi dei piccoli coltivatori portati a devastare nuove aree semplicemente perché le terre abbandonate perdono la fertilità dopo due o tre anni. Sarebbe invece utile se il governo varasse una reale riforma agraria e finanziasse uno sfruttamento sostenibile della foresta, favorendo nuove tecniche agricole per l’utilizzo delle aree già deforestate.
In Amazzonia, dei quasi 600.000 chilometri quadrati deforestati, ben 180.000 sono già abbandonati e oggi risultano inutilizzati.
E così il crimine continua.

Dati generali (*)
estensione: 5 milioni
di chilometri quadrati
su 9 stati, il 60%
del territorio brasiliano
abitanti: 19 milioni
indios: 170.000 divisi in 210 etnie differenti, esclusi quelli che vivono nei centri urbani (circa 120.000)

La diversità biologica
specie vegetali:
circa 80.000
specie animali: 30 milioni
specie di pesci:
almeno 2.000

I delitti
deforestazione: 600 mila chilometri quadrati
(più dell’estensione della Francia) in meno di 30 anni; oggi il ritmo della deforestazione è di circa 16.000 chilometri quadrati all’anno
inquinamento: ogni anno circa 30.000 garimpeiros rilasciano nelle acque amazzoniche più
di 2 tonnellate di mercurio

I miserevoli profitti
della deforestazione (**)
– ogni ettaro di foresta
trasformato in pascolo:
25 dollari annuali
(per solo 2 o 3 anni)
– ogni ettaro di foresta distrutto per il legname: 170 dollari (una tantum)

(*) si veda Veja, «Amazônia. Um tesouro ameaçado»,
24 dicembre 1997
(**) dati dell’istituto Imazon
di Belém, ParáL’AMAZZONIA E IL SUO OMICIDIO

Cecilia Veracini




Il problema della terra 2 (secondo loro)

A vevo appena terminato di celebrare la messa, nella città di Goiania, proprio nel cuore del Brasile; mi restava solo il tempo contato per prendere la corriera verso S. Paolo. Mi stavo ancora togliendo i paramenti liturgici, quando una signora, dall’aria borghese, mi avvicinò. «Dom Pedro, ho bisogno di parlare con lei!». Le spiegai la mia fretta; tentai anche di combinare un incontro successivo pensando si trattasse di un problema di coscienza.
La signora sbottò: «Sono dell’UDR e ci sono molti altri dentro questa chiesa che sono dell’UDR. Basterebbe che lei parlasse di terra e la chiesa si svuoterebbe…».
«Io credo – le risposi, tentando di mostrarmi paziente e persino sorridente – che lei non dovrebbe essere dell’UDR. E poi, per non parlare di terra, dovremmo svuotare la Bibbia intera. Dalla prima all’ultima pagina la Bibbia non parla che della terra!».
La UDR è una prepotente organizzazione di latifondisti, nemica della Riforma Agraria e di tutti coloro che la propugnano – lavoratori della terra, sindacalisti, una certa Chiesa impegnata con il Popolo. Ha preso la sigla dalla UDR francese, un raggruppamento della destra, ma ha trasformato la R finale da «repubblicana» a «ruralista», un aggettivo cui non attribuisce un valore propriamente bucolico. Oggi in Brasile costituisce l’organismo reazionario più potente e pericoloso.
dom Pedro Casaldaliga
in «Liberazione nella terra degli afflitti» (Emi, 1988)

E rede delle capitanerie, il latifondo massacrò indios, importò schiavi, espulse posseiros e impose, su 600 milioni di ettari, il privilegio della proprietà di pochi sul diritto alla vita di immense moltitudini.
Dio, tuttavia, non dette nessun diritto, non firmò nessun contratto al latifondo. Creò la terra per tutti. Da questa coscienza nacque l’indignazione e, da essa, la reazione.
Scacciati dalla terra, gli agricoltori si rifiutarono di ingrossare il cinturone di favelas che circondava le città. Si riunirono in accampamenti, promossero occupazioni, costituirono insediamenti. Il diavolo vide crescere le sue possibilità. Divenne capataz, corruppe giudici, evase imposte, elesse deputati, strappò sovvenzioni, armò pistoleros, inviò polizie contro i senza-terra, i senza-tetto, i senza-libertà.
Frei Betto

I l colonnello Horàcio era stato esaltato come uno dei fazendeiros più prosperi dell’intera regione, come un uomo dabbene che non solo aveva fatto costruire la cappella di Ferradas, ma aveva già messo mano a fare erigere la chiesa di Tabocas, e come un cittadino ossequente alle leggi.
Come si poteva muovere a un uomo simile l’accusa di un nefando delitto? Tutti sapevano benissimo, invece, ch’egli lo aveva commesso. Era stato per via di un contratto di cacao. Il negro Altino con suo cognato Orlando ed un compare chiamato Zacarias avevano piantato a cacao un terreno di Horàcio, dopo aver stipulato un regolare contratto. (…) Un bel giorno Altino si fece coraggio e andò a parlargliene: «Vossignoria mi perdoni, signor colonnello, ma noialtri vorremmo sapere quando si firma l’atto notarile del terreno».
Horàcio, in sulle prime, se l’ebbe a male: quella era una prova di mancanza di fiducia. Ma dopo le scuse di Altino spiegò d’aver già dato gli ordini affinché il suo legale, l’avvocato Rui, si occupasse della cosa. Pazientassero un altro po’, di lì a poco, li avrebbe fatti chiamare per andare a Ilhéus a concludere l’affare. Passò altro tempo, dalle zolle cominciarono a spuntare le pianticelle di cacao, semplici sterpi ancora, che fra non molto, però, sarebbero diventati alberi. Altino, Orlando e Zacarias li guardavano con amore. Era cacao di loro proprietà, piantato con le loro mani, nella loro terra che avevano dissodato. Crescevano e non avrebbero tardato a produrre frutti gialli come l’oro, danaro contante. Dell’atto notarile non si ricordavano nemmeno più. Soltanto il negro Altino, a volte, ci pensava. Da un pezzo conosceva il colonnello Horàcio, e ne diffidava. Ciò nonostante rimase anche lui esterrefatto il giorno in cui seppero che la fazenda Colibrì era stata venduta al colonnello Ramiro, e che la loro piantagione era compresa nel contratto. Decisero di parlarne al colonnello Horàcio. Orlando rimase a prender cura della piantagione, vi si recarono gli altri due, ma il colonello quel giorno era andato a Tabocas. Ritornarono il giorno dopo, e il colonnello era a Ferradas. Allora Orlando decise che a trovare il colonnello ci sarebbe andato lui. Per lui quel pezzo di terra era tutto al mondo, non se lo sarebbe lasciato portar via. Alla fazenda gli dissero che il padrone era andato a Ilhéus. Egli fe’ cenno di sì col capo, ma senza por tempo in mezzo infilò l’uscio della casa padronale e trovò il colonnello che mangiava in sala da pranzo. Horàcio lo guardò e, con la sua vocetta secca, disse:
«Vuol far colazione con me, Orlando? Senza complimenti…».
«Signor no, grazie».
«Che cosa fai da queste parti. C’è qualche novità?».
«Una gran brutta novità, sissignore. Il colonnello Ramiro è capitato nella piantagione, dice che la piantagione è sua, che l’ha comperata da Lei, colonnello».
«Se lo dice il colonnello Ramiro, dev’esser vero. Non è uno che racconta frottole…».
Orlando rimase a guardare il colonnello che aveva ripreso a mangiare. Ne guardava le grosse mani callose, il volto chiuso. Alla fine parlò.
«Vossignoria glie’ha venduta?».
«Questo è affar mio…».
«Ma non si ricorda che quel tratto di foresta lo ha venduto a noi? Per il danaro del contratto del cacao?».
«Avete l’atto notarile, voialtri?» e Horàcio riprese a mangiare.
Orlando fece girare fra le mani l’ampio cappello di paglia. Aveva piena coscienza della sventura che colpiva lui e i suoi compagni. Sapeva anche che, per le vie legali, non avrebbero potuto lottare col colonnello. Capiva che ormai essi non possedevano più terra, né piantagione, né niente. (…)
Quella medesima sera giunse d’improvviso coi suoi uomini alla piantagione contestata. Circondò la capanna, dicono che uccidesse egli stesso i tre uomini e che dopo, cavato di tasca il coltello da sbucciare la frutta, tagliasse la lingua a Orlando, poi le orecchie, il naso e, alla fine, strappatigli i calzoni, lo castrasse facendo quindi ritorno alla fazenda coi suoi uomini. Quando uno di questi fu arrestato per ubriachezza dalla polizia e lo denunciò, egli scoppiò in una risata. Fu assolto.
I suoi jaguncos dicevano che egli era un uomo in gamba e che mettevano conto di lavorare per un padrone come lui. Non avrebbero mai permesso che nessuno di loro andasse a finire in gattabuia e una volta s’era perfino scomodato a uscir di casa apposta per trae uno fuori dalla prigione di Ferradas. E dopo averlo rimesso in libertà aveva stracciato gli atti del processo sotto il naso del cancelliere del tribunale.
Jorge Amado
in «Terre del finimondo» (Bompiani, 1942)

aa.vv.




Il problema della terra – Speciale BRASILE

In Brasile la terra rappresenta un problema esplosivo. Da una parte, poche famiglie possiedono quasi la metà delle terre coltivabili. Dall’altra, 20 milioni di persone ne sono prive. Il «Movimento dei sem-terra» (Mst), nato per difendere i diritti di questi diseredati, organizza e dirige le occupazioni delle «fazendas» incolte. Le autorità e la polizia sono sempre schierate a fianco dei grandi proprietari e delle loro milizie mercenarie dal grilletto facile. La chiesa, attraverso la combattiva «Commissione pastorale della terra», sta con i senza-terra. Tutti sanno che l’applicazione della riforma agraria porterebbe a immediati risultati, ma…

Non piange Claudimara. È abituata ad essere presa a calci dalla vita. I tre figli ora dormono, apparentemente tranquilli dopo una giornata d’inferno iniziata all’alba.
Suo marito, Aparecido da Silva, faceva il facchino a Curitiba. Poi, spinto dalla speranza di cambiare vita, si è unito al locale gruppo dei sem-terra. Qualche mese fa, assieme ad altre 140 famiglie, Aparecido ha occupato una fazenda incolta. Mesi trascorsi nel timore di un attacco da parte della polizia o dei pistoleros assoldati dai latifondisti. Così, infatti, è stato.
Sono arrivati prima dell’alba, con grida e spari per aria, seminando il terrore per l’accampamento ancora avvolto nel sonno. Erano tanti, poliziotti e sgherri incappucciati. Con le bombe lacrimogene hanno fatto uscire le persone dalle baracche. Poi hanno costretto gli uomini seminudi a sdraiarsi con la faccia a terra. Donne e bambini sono stati fatti sedere sotto il sole.
La baracca degli attrezzi da lavoro (sementi, zappe, picconi, falci) è stata bruciata. Le tende sono state buttate giù.
«Interrogavano gli uomini a forza di calci nella pancia – ricorda Claudimara -. Poi hanno caricato mio marito e una decina di altri sui fuoristrada e li hanno portati via. Non ho idea dove siano finiti».
Le famiglie cacciate con la forza dalla fazenda occupata hanno trovato ospitalità in un insediamento legalizzato. Finché non viene emanato un «decreto di esproprio», ogni accampamento dei sem-terra può essere attaccato.
Claudimara osserva con occhi preoccupati i tre figli. Poi aggiunge: «Speriamo che non abbiano distrutto le nostre cose. Non abbiamo i soldi per comprare nuovi materassi, pentole e piatti».
POLIZIA E «PISTOLEROS»

Storie come quelle di Aparecido e Claudimara sono all’ordine del giorno in quasi tutti gli stati brasiliani, ma soprattutto in Pará, Maranhão, Alagoas, Peambuco, Bahia, Paraná, São Paulo (Pontal do Paranapanema).
Cardoso e l’oligarchia economica brasiliana temono i successi del «Movimento dei sem-terra». Davanti alla sua espansione reagiscono in due modi: accentuando la repressione poliziesca e cercando di caricare di connotazioni politiche il movimento, accusato di voler rovesciare lo stato.
Come non bastasse la polizia ufficiale, contro i senza-terra si accanisce anche la polizia dei fazendeiros. Questi, spalleggiati dalle loro organizzazioni – l’«Associazione nazionale dei produttori rurali» e soprattutto l’«Unione democratica rurale» (Udr) – assoldano infatti milizie private: mercenari incappucciati e dal grilletto facile.
«Il Paraná – si legge in un documento della locale Commissione pastorale della terra – è trasformato in un “laboratorio” del trattamento che il governo vuole riservare ai lavoratori e alle lavoratrici che lottano per la terra in Brasile.
La polizia e le forze armate, buona parte del potere giudiziario e i fazendeiros e i deputati ruralisti si sono uniti tutti per realizzare una strategia di repressione.
La maggioranza delle espulsioni sono state realizzate con ordinanza del giudice, a conferma di un aumento della cosiddetta “violenza legittimata”. Nella maggioranza dei casi il potere giudiziario agisce in accordo con gli interessi dei latifondisti: il senza-terra è un criminale, occupare la terra è illegale e pericoloso.
In ogni caso, l’impunità è la regola per i crimini perpetrati dai fazendeiros e dalla polizia, mentre la giustizia è rapidissima nell’incriminare e arrestare i lavoratori».
In realtà, l’azione dei sem-terra ha una solida base giuridica. Questa è data dalla legge del 1993 che applica gli articoli della Costituzione del 1988. Quest’ultima contempla l’espropriazione per interesse sociale. Purtroppo, l’applicazione della legge è talmente lenta che, senza le invasioni dei sem-terra, ben poca terra sarebbe stata redistribuita.
Per non dire delle speculazioni dei latifondisti che, con la compiacenza dei giudici, esigono indennizzi superiori al valore di mercato per le loro terre incolte.

DOVE STA LO SCANDALO?

Dai tempi della conquista spagnola e portoghese, il carattere fondamentale della struttura agraria latinoamericana è la concentrazione di grandi estensioni di terre, il latifondo, nelle mani di una ristretta minoranza, mentre la grande maggioranza della popolazione non ha terra o possiede minifondi insufficienti per sopravvivere.
Il Brasile possiede 6 volte più terra coltivabile della Cina. Questa però riesce a nutrire quasi un miliardo e mezzo di persone, mentre il paese latinoamericano, con soltanto un decimo della popolazione cinese, ha oltre 40 milioni di affamati.
Questo paradosso trova una duplice spiegazione. In Brasile, la terra si concentra nelle mani di un pugno di latifondisti (nel 1997 meno dell’1% dei proprietari deteneva il 43% delle terre coltivabili). A questa ingiusta distribuzione si aggiunge un altro dato scandaloso: migliaia di fazendas sono classificate come grandi latifondi improduttivi che occupano il 18% del territorio brasiliano (153 milioni di ettari). Con questi dati il Brasile detiene il primato mondiale della diseguaglianza nella proprietà della terra.
La piena applicazione della riforma agraria significherebbe risolvere molti problemi. «La riforma agraria – afferma la Commissione pastorale della terra nel Manifesto per la terra e la vita (1996) – è la soluzione sociale per il Brasile.
È il mezzo più semplice ed economico per combattere la fame e la miseria, aumentando l’offerta di lavoro e di alimenti ed elevando il potere di acquisto delle popolazioni più povere. Arresta l’esodo rurale e decongestiona i grandi agglomerati urbani. Diminuisce i fattori che generano emarginazione, criminalità e insicurezza nelle città. Migliora le condizioni di salute, educazione, abitazione e previdenza sociale nelle campagne. Rafforza le piccole e medie città e dinamizza tutta la società. La riforma agraria è la soluzione politica. Aprire ai senza-terra l’accesso alla proprietà e all’uso della terra è un imperativo della democrazia».
Inoltre, l’insediamento delle famiglie senza-terra su terreni da coltivare frenerebbe l’espansione della frontiera agricola a danno della foresta e comporterebbe anche l’abbandono del lavoro sottopagato e la possibilità per i bambini di frequentare una scuola.
«Le occupazioni di terra – ha detto mons. Tomás Balduino, presidente della Commissione pastorale della terra – sono state il modo di realizzare la riforma agraria del paese. Penso che neppure il 5% degli insediamenti è stato fatto per mezzo di qualche iniziativa che non sia quella dell’occupazione di terra. Mi piacerebbe che in Brasile ci fosse la riforma agraria senza bisogno di occupazioni. Ma, poiché il governo non realizza la riforma agraria, non possiamo scandalizzarci di queste».
Cardoso continua a favorire i grandi possidenti terrieri, come dimostra il progetto denominato «Banca della terra». Questo vede impegnati governo brasiliano e Banca mondiale nella realizzazione di una riforma agraria di mercato. Il progetto permette ai fazendeiros che vogliono vendere la terra di ricevere un pagamento immediato da parte della Banca mondiale e ai senza terra che vogliono acquistarla di ottenere un credito dalla Banca. In questo modo, si cede il potere decisionale ai latifondisti e si pone fine all’esproprio delle terre improduttive dietro indennizzo ai proprietari, come prevede la Costituzione.
L’obiettivo strategico del progetto, ha spiegato João Pedro Stedile, uno dei più noti leader dei sem terra, è quello di «distruggere l’Mst, perché non si ammette il diritto dei poveri ad organizzarsi. Si può tollerare che si lamentino, ma che si organizzino no, perché l’organizzazione è pericolosa». Della stessa opinione mons. Balduino. «È il tentativo – ha detto il prelato – di svuotare la lotta dei senza terra e di dividerli: il contadino lascia il gruppo ed entra nel mercato, con effetti per lui disastrosi».

MST, UNA SPERANZA
PER 20 MILIONI

Quanti sono i senza-terra brasiliani? I conteggi non sono facili. Le stime parlano di 4 milioni di famiglie.
Poiché ogni famiglia è composta in media di 4/5 persone (ogni donna dà alla luce almeno due figli), questo significa che 16/20 milioni di brasiliani possono essere definiti «sem-terra».
Ma la categoria cresce. L’agricoltura commerciale, orientata quasi esclusivamente all’esportazione (caffè, canna da zucchero, carne bovina), favorisce la concentrazione delle terre e, di conseguenza, l’espulsione di piccoli proprietari, affittuari e mezzadri. Molti vanno ad ingrossare le fila dei sem-terra, altri tentano la sorte migrando verso le città.
L’esodo rurale è un problema grave. Trent’anni fa il 75% dei brasiliani viveva nelle campagne, oggi l’80% vive nelle aree urbane. Le periferie si gonfiano giorno dopo giorno, divenendo sempre più invivibili. «La popolazione povera – scrive Ivo Poletto in Liberazione nella terra degli afflitti -, espropriata ed espulsa dalle campagne, emigra verso le città in cerca di casa, lavoro, salute, scuola. In cerca, cioè, di tutto ciò che non trova all’interno del paese. Ma quando arriva in città non trova né casa né lavoro. Alla fine, si avventura ad occupare qualche terreno incolto – le cosiddette invasioni urbane – su cui costruirsi la propria baracca, generalmente in località assai distanti dal centro e dall’eventuale posto di lavoro».
In 15 anni di esistenza il Movimento dei senza-terra ha saputo diventare la principale organizzazione popolare del Brasile. I risultati che ha ottenuto sono considerevoli: 250 mila famiglie (cioè circa un milione di persone) sono state sistemate in 1.600 insediamenti in 24 stati del paese. Ma il movimento non si limita ad organizzare le invasioni delle terre incolte. «Non è sufficiente – spiega un dirigente nazionale del Mst – occupare la terra e avere il coraggio di affrontare la polizia, è necessaria molta organizzazione per riuscire a raggiungere l’obiettivo».
Per questo il movimento ha dato vita a decine di cornoperative di produttori, che stanno ottenendo importanti risultati. Ma negli insediamenti è permesso anche il lavoro individuale, mantenendo in comune solo l’utilizzo di alcune macchine e usufruendo dei servizi predisposti (assistenza sanitaria, trasporti, scuola).
Nei 1.600 insediamenti dei semterra l’educazione è considerata una priorità. Gli obiettivi sono ambiziosi: eliminare l’analfabetismo, favorire la scolarizzazione dei bambini, diffondere la cultura alternativa. Nelle 1.000 scuole dei sem-terra sono iscritti oltre 100 mila bambini, mentre 17 mila giovani e adulti seguono i corsi di alfabetizzazione. Il progetto educativo dei sem-terra ha ottenuto un tale successo che è stato premiato dall’Unesco.

LA TERRA,
PATRIMONIO FAMILIARE?

«Se il latifondo – si chiede il settimanale Veja (peraltro sempre critico verso i sem-terra) – è un cattivo affare, perché ci sono tante terre improduttive nel paese? La risposta, che potrebbe applicarsi a molti altri problemi brasiliani, è che il Brasile utilizza male le proprie risorse, tra cui la terra. L’agricoltura brasiliana è una delle più inefficienti al mondo, mentre il paese possiede alcune tra le più belle distese di terre coltivabili del pianeta. Inoltre, in molte regioni, la terra viene ancora tutelata in quanto patrimonio familiare. Anche se rappresenta un cattivo investimento, è un bene che si può trasmettere ai propri eredi, che ha il valore più tangibile, che è meno soggetto all’inflazione e all’instabilità provocata dai piani economici».
Peccato che questi privilegi, santificati dall’ideologia capitalista e dall’infallibile dio-mercato, vengano preservati a scapito di milioni di persone. Anche se, a ben guardare, quella dei sem-terra non va considerata una battaglia ideologica. Più semplicemente, essi lottano perché al diritto di proprietà sia anteposto il diritto alla vita.

Paolo Moiola




La barba di Valeriano

A vederli così paffuti e rubicondi a nessuno salterebbe in mente di pensare che questi bambini siano portatori del virus dell’Aids. E hanno tutti energie da vendere. Bruno, per esempio, si divincola come un’anguilla, mentre padre Valeriano tenta di allacciargli le scarpe; poi gli tira la barba, lo abbraccia, lo bacia e torna a dimenarsi. Giuliano, sdraiato a terra, è intento a colorare fantastici disegni, come il più normale dei bambini della sua età. Francisco, alto quanto un soldo di cacio, scorrazza come un forsennato su una motociclettina di plastica, si ferma per far salire la sua amichetta Teresa e riprende a pedalare.

ANGELI… RIFIUTATI
Ma dietro quelle facce da melograno si nascondono storie di rifiuto e abbandono. Bruno, 5 anni, è stato colpito da meningite in tenera età. Morta la madre, fu usato dal padre per chiedere l’elemosina sulle strade. L’assistente sociale lo tolse al genitore e lo portò a casa Siloé. Dopo qualche giorno arrivò il papà con un’altra figlia, anch’essa affetta dal virus dell’Aids; l’affidò al missionario e scomparve senza lasciare tracce.
Manuel, l’ultimo arrivato, è anche il più piccolo della nidiata: ha appena otto mesi. Quando la zia lo portò a casa Siloé era così denutrito che i medici lo avevano dato per spacciato. A poco a poco ha ripreso forza e cresce come il più normale dei bambini. Un’altra zia ha avviato le pratiche per l’adozione.
Thomson è il più grandicello; ha 12 anni. Non sa chi sia suo padre. La madre, prostituta, lo abbandonò a casa con la nonna e sparì dalla circolazione. Quando fu scoperto che era sieropositivo, la nonna lo affidò a padre Valeriano. «Parlava sempre della mamma – racconta padre Paitoni -. Siamo riusciti a rintracciarla e farlo incontrare con lei. Non ti dico la vergogna che il ragazzo provò nel vedere sua madre in quelle condizioni. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro per aiutarlo ad accettare la mamma così com’è. E ci siamo riusciti. Ogni tanto va a casa e assiste la mamma, gravemente malata di tubercolosi; a volte la rimette in riga, quando non vuole prendere le medicine o cerca di affogare i dispiaceri nell’alcornol».
Il caso più triste è quello di William. Orfano di entrambi i genitori, viveva con una zia che, dovendo andare a lavorare, lo lasciava chiuso in casa, nella favela. Quando fu portato a Siloé, aveva le orecchie rosicchiate dai topi e il corpo pieno di croste, non si reggeva in piedi e non aveva la forza neppure per piangere. Si riprese in poco tempo e cominciò a fare i primi passi. La notte di natale del 1996 fece da Gesù Bambino nel presepio. Poi un’infezione lo colpì alla bocca, quindi l’esofago e l’intestino: in due giorni se ne è andato. «Arrivederci, William! – esclama commosso padre Valeriano -. Un giorno riprenderai a tirarmi la barba per l’eternità».

AMORE E MEDICINE
Casa Siloé è stata inaugurata nel 1995 e lar Suzanne nel 1998. Ma non sono una clinica, un ospedale o un asilo, precisa padre Paitoni: «Vogliamo ricreare il più possibile il clima di famiglia». Con questo spirito vi lavorano 10 persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai bambini, e 120 volontari che, a tuo, svolgono varie mansioni: alcuni aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali; altri s’incaricano di portare i bambini a scuola o all’ospedale; un gruppo li intrattiene nel doposcuola; un altro li fa giocare.
Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno. «Fino a qualche anno fa – spiega padre Valeriano – i medici davano a questi bambini un massimo di 15 anni di vita. Grazie alle più recenti scoperte mediche, durata e qualità della vita sono molto migliorate. Per questo li vedi tutti felici e grassottelli. Anzi, se curati in tempo, al di sotto dei due anni, alcuni di essi hanno la speranza di ritornare “negativi”».
È quanto è capitato a sei bambini curati a Siloé: hanno sconfitto il virus dell’Aids e sono stati reinseriti nelle proprie famiglie o parentele.
Sette bambini sono stati adottati da famiglie della parrocchia e continuano i trattamenti a casa. «È questo soprattutto lo scopo del nostro lavoro – continua padre Valeriano -: reinserire queste creature nella società, un miracolo ben più grande di quello operato dalla medicina».
La maggior parte dei bambini che approdano a Suzanne e Siloé vengono direttamente dall’ospedale. Il primo lavoro di padre Paitoni è rintracciare le famiglie e dei parenti, per convincerli a mantenere i contatti con i figli, evitando loro il trauma di sentirsi rifiutati. Non è facile vincere le loro paure e pregiudizi.
Undici bambini frequentano le scuole elementari presso il collegio delle missionarie della Consolata; altri nove vanno gioalmente in un asilo municipale. «I primi tempi sono stati duri: i genitori degli altri alunni avevano minacciato di ritirare i loro figli dalla scuola, per paura che venissero contagiati. Ora tutto si è appianato. Anzi, perfino le collette domenicali e i contributi della decima si sono moltiplicate» continua padre Valeriano sorridendo.

SPIRITO MISSIONARIO
A parte alcune adozioni a distanza e qualche offerta proveniente dall’Italia, le due case sono sostenute dalla parrocchia Nostra Signora di Fatima. «Arrivai qui – continua il padre – mentre la chiesa brasiliana preparava il V Congresso missionario dell’America Latina (Comla 5). Per tradurre in pratica le sollecitazioni del Congresso, suggerii che la parrocchia rispondesse concretamente a una delle situazioni più “missionarie” del paese: aprire una casa per i bambini sieropositivi. L’idea fu accolta con entusiasmo dal consiglio pastorale, anche se qualcuno era titubante, temendo che la gente non sarebbe più venuta in chiesa o non avrebbe più mandato i figli al catechismo. Superate le prime difficoltà, abbiamo preparato la casa a tempo di record: otto mesi. Ora ne abbiamo due, con una trentina di bambini. È stata una iniziativa che ha rinnovato l’entusiasmo missionario della comunità, e continua ad animare tutte le attività parrocchiali, compresa quella del pagamento della “decima”, raddoppiato senza fare la minima pressione».
E gli aiuti continuano ad arrivare sotto varie forme: denaro, vestiti, cibo, giocattoli… e tempo: la fitta schiera di volontari è la testimonianza più valida della crescita dello spirito missionario nella parrocchia. Inoltre, sette famiglie della parrocchia hanno adottato altrettanti bambini sieropositivi e se ne prendono cura con immenso amore.
«Ho sempre amato i bambini – racconta Sandra Carvahlo -. Con l’apertura della casa Siloé ho avuto voglia di dedicare qualche ora a queste creature come volontaria. Poi anche mio marito e i miei figli hanno cominciato a collaborare, senza immaginare ciò che Dio ci stava preparando. Dopo i primi giorni dell’inaugurazione del lar Suzanne ci siamo affezionati a Lucas e lui a noi. Non siamo più riusciti a separarcene e abbiamo deciso di adottarlo. Oggi è la ragione della nostra vita e la felicità della famiglia».
Padre Valeriano insiste nello spiegare che la sua è un’esperienza prettamente missionaria. Non tanto per convincere me. «L’Aids non è solo una malattia – continua il padre -, ma una situazione sociale che, in una grande città come San Paolo, non possiamo ignorare. Come la difesa dei diritti dell’uomo, la promozione umana e della donna, anche i malati di Aids devono diventare oggetto della nostra attenzione missionaria. È da dieci anni che batto questo chiodo. Ed è entrato finalmente».
ACCANTO AI «POVERI CRISTI»
Una decina di anni fa, quando fu nominato amministratore provinciale, padre Paitoni pose come condizione che gli fosse permesso di soddisfare il suo carisma missionario in qualche attività di sua scelta. E fondò il lar Betania, una casa di accoglienza per adulti colpiti dal virus dell’Aids. Oggi questa sua iniziativa è stata sposata totalmente dai missionari della Consolata come attività specifica dell’istituto, che ne ha assunto tutte le responsabilità legali e finanziarie.
Situato nel territorio della parrocchia di Nostra Signora da Penha, il lar Betania può accogliere una dozzina di persone. Una casa semplice, inserita nel tessuto urbano della periferia della città, ma che si distingue dalle altre abitazioni per il colore dei fiori che adoano l’entrata e le finestre.
«È una goccia nell’oceano dei colpiti da Aids; ma tutte e tre le case costituiscono un’esperienza-pilota – spiega padre Valeriano, senza il minimo accento di orgoglio -. Quando qualcuno vuole aprire una struttura del genere, l’amministrazione locale lo manda prima da noi, per vedere come siamo organizzati».
Semplicità delle strutture e numero limitato delle persone ospitate hanno uno scopo preciso: ricreare l’ambiente di famiglia, sia per gli adulti che per i bambini. Un bisogno fondamentale, soprattutto per gli adulti che, rifiutati da amici e familiari, possono incontrare finalmente altre persone che li accolgono, vogliono loro bene e stanno loro accanto nei momenti più difficili.
Anche il nome ha un significato simbolico. Betania era il villaggio dove Gesù si ritirava volentieri, accolto in casa dagli amici Lazzaro, Marta e Maria. Il luogo in cui Gesù pianse per la morte dell’amico e lo risuscitò. «Per questi “poveri cristi”, portatori del virus dell’Aids o già malati terminali, delusi dalla vita e dalla società, vogliamo ricreare lo stesso clima descritto nel vangelo: l’amicizia di Lazzaro, l’amorosa attenzione di Maria e il solerte servizio di Marta».
Nel lar Betania non avvengono risurrezioni. Eppure continuano i miracoli della vita: frateità e solidarietà, appoggio morale, psicologico e religioso aiutano questi sfortunati a riscoprire la propria dignità e valore, a riconciliarsi con se stessi, ad accogliere la speranza nella risurrezione.
«Ricordo sempre con particolare emozione uno dei primi adulti arrivati a lar Betania – racconta padre Valeriano -. Era un ragazzo di 22 anni. I medici lo avevano dimesso dall’ospedale, perché spirasse nella propria abitazione. Quando l’ambulanza arrivò a casa del giovane, i vicini dissero che mamma e fratelli non abitavano più là: se n’erano andati perché non lo volevano più vedere. Le assistenti sociali telefonarono a varie istituzioni, finché fu accolto nella nostra casa.
Quella notte ero di tuo. Dopo avergli fatto il bagno e messo a letto, mi fermai a chiacchierare con lui. Gli domandai se gli fosse piaciuto il tè. Il giovane mi fissò per alcuni istanti, poi rispose: “Sì, il tè è molto buono; ma è più bello avere te vicino, seduto sul mio letto”. Spirò serenamente il giorno dopo».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il boomerang della miseria – Speciale BRASILE

Sono circa 7 milioni e sono tristemente famosi.
Si danno all’alcornol, alla droga, al furto,alla prostituzione. Dunque cattivi. O meglio «colonizzati».
Da chi, come, perché?

Come è sorto il problema

In Brasile, durante l’epoca coloniale, la nascita di un «figlio illegittimo» era un fatto abbastanza comune. Aveva origine da relazioni tra uomini portoghesi e donne indigene o nere.
I «bambini illegittimi», anche se non erano riconosciuti dal genitore, non si trasformavano in un problema sociale, perché l’organizzazione rurale del tempo li accoglieva nelle grandi fazendas. Pur non ricevendo protezioni speciali, essi instauravano ugualmente dei vincoli con i loro protettori, ottenendo così i mezzi di sostentamento e riparo.
Tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, con l’avvento dei cercatori d’oro, l’organizzazione urbana acquistò forza e il problema degli «illegittimi» iniziò ad assumere un’altra connotazione. Nel 1693 il re del Portogallo e del Brasile, Pietro ii (1648-1706), ricordò al governo di Rio de Janeiro che, se gli istituti religiosi di carità non avessero più aiutato i bambini, si sarebbe dovuto imporre una tassa con tale finalità. Ma non si fece nulla.
All’inizio del secolo XVIII il problema (non risolto dagli enti pubblici) incominciò ad essere affrontato da laici cattolici benestanti. In quell’epoca proliferava anche l’abbandono di bambini sulle strade: li chiamavano expostos (esposti). Erano i primi «meninos de rua» (bambini di strada). Nel 1738 ottennero una casa a Rio de Janeiro.
Dal 1726 la situazione degli expostos diventava sempre più grave con bambini e bambine abbandonati in riva al mare (trascinati poi via dalle onde) o lungo strade deserte, dove morivano di fame.
L’abbandono degli expostos era dovuto a mancanza di risorse economiche da parte di genitori poveri e a motivi sociali, come nel caso di «ragazze-madri» appartenenti alle élites. Tali ragazze, perseguitate dalla rigida morale del tempo, risolvevano la questione della «vergogna pubblica» o con il suicidio o con l’abbandono dei figli.
Nel secolo XIX il compito particolare di proteggere e aiutare i bambini di strada passava progressivamente agli ordini religiosi. E questo per quattro ragioni:
1. l’accresciuta presenza di missionari europei, dedicati all’educazione dei poveri;
2. il modello di chiesa marcatamente clericale, che non valorizzava il laico;
3. il crescente disinteresse dei laici, più preoccupati del lavoro scientifico;
4. la crisi della classe signorile, dovuta al progressivo scomparire della schiavitù.
La storia che trascinava i bambini sulla strada era connessa alla pressione economica e sociale dell’epoca coloniale. Nella loro indigenza, furono discriminati anche con il nome di exposto, ingênuo e oggi, più genericamente, menor (minore).
i caratteri «della» strada

Il menor è un adolescente o giovane povero, abbandonato, emarginato: è presente in ogni angolo del Brasile. Fanno parte di tale categoria soprattutto ragazzi neri, indios e ragazzi della foresta, prostitute baby e ragazze-madri.
Generalmente si distinguono due categorie di minori: quelli «in» strada (menor na rua) e quelli «di» strada (menor de rua).
Il menor na rua trascorre la maggior parte del suo tempo girovagando, vendendo svariati oggetti ai semafori, facendo baratti; però conserva ancora vincoli familiari, ossia sa «dove» ritornare a casa, anche se non lo fa tutti i giorni. Il menor de rua, invece, vive sempre in strada, facendone la sua casa. Ha perso ogni rapporto con la famiglia e si organizza in gruppi, scegliendo determinati luoghi pubblici come punti di ritrovo. Si dedica a baratti e a piccoli furti.
Pertanto si intuisce che, dietro alla differenza tra «na rua» e «de rua», nel secondo caso esiste un maggiore degrado nel processo sociale.
Più specificatamente i «meninos de rua» presentano le seguenti caratteristiche:
– come posto di «lavoro», scelgono luoghi di grande movimento, perché dove maggiore è il flusso di persone, maggiore è la possibilità di guadagnare con baratti e furti;
– dormono poco e in orari diversi;
– non pensano al futuro né prossimo né remoto, come se per loro il futuro non dovesse arrivare mai; vivono alla giornata;
– si organizzano in gruppi e camminano in bande;
– gli elementi estranei al gruppo rappresentano una minaccia: quindi usano codici di riconoscimento per proteggersi;
– sviluppano un linguaggio tipico, molte volte incomprensibile al primo contatto;
– sanno di essere ritenuti dei potenziali delinquenti;
– lasciano la famiglia perché obbligati dalla miseria e violenza che vi hanno subìto;
– provengono da famiglie povere o miserabili, spesso immigrate dalla campagna verso i centri cittadini;
– pur essendo abbandonati a se stessi, possono legarsi a qualche istituzione;
– molti non sanno il proprio nome: hanno solo nomignoli o soprannomi e disconoscono o dimenticano la loro origine;
– presentano un deficit intellettivo o motorio; molti sono analfabeti o con una bassa scolarizzazione;
– non danno valore alle proprietà altrui, perché non hanno sviluppato il senso di proprietà personale;
– indossano anche più vestiti, sovrapponendoli, perché non hanno un luogo dove riporre le loro cose;
– hanno difficoltà a coinvolgersi affettivamente per paura di essere abbandonati; sono emotivamente instabili;
– rappresentano un esempio di «selezione della specie», perché solo i più forti sopravvivono e, anche così, con una salute precaria;
– moltissimi sono tossicodipendenti da colla.

Qualcosa in più
sul disagio

Le abitazioni
dei meninos de rua sono molto scadenti, non solo materialmente, ma anche per la qualità della vita. Si può dedurre che tali ragazzi abbiano poche ragioni di affezionarsi alla loro casa. Pertanto sono più esposti alle «cattive» influenze della strada, ai «cattivi» divertimenti e ai «cattivi» compagni.
I frequenti spostamenti
di residenza portano ad instabilità e ad un relativo anonimato, ostacolando la solidarietà e responsabilità verso i vicini di casa. Questo facilita i comportamenti antisociali e anche delinquenziali. Da alcune indagini risulta, per esempio, che un delinquente su tre ha cambiato casa 11 volte o più, contro 1 su 10 degli altri.
I ragazzi di strada conoscono ambienti molto insoliti: rifugi nottui di fortuna, orfanotrofi o istituti analoghi. Tali esperienze esigono frequenti adattamenti a nuove situazioni, nuovi compagni, nuove attività.
Amano molto l’avventura
e preferiscono tutto ciò che è emozionante, non solo nella vita concreta, ma anche nella loro immaginazione e sentono il bisogno di sfogarsi.
Oltre i 9 decimi dei ragazzi di strada (contro meno di un quarto degli altri) ha l’abitudine di salire su camion o mezzi di trasporto in corsa; il 90% (contro il 23%) incomincia a fumare da piccolo; il 29% (contro lo 0,4%) inizia a bere alcornol eccessivamente dai 13 ai 15 anni ed anche prima; il 67% (contro il 10%) ha l’abitudine di infilarsi nei cinema senza biglietto; il 62% (contro il 4%) si abbandona ad atti di vandalismo. In tutte queste attività «emozionanti», praticate nelle zone urbane e disagiate del Brasile, i ragazzi di strada, come gruppo, superano largamente i ragazzi «per bene».
Ancora: il 95% dei meninos de rua (contro i tre quinti degli altri) sosta agli angoli delle strade; il 46% (contro il 27%) gioca su aree fabbricabili, sui lungomare e nei parcheggi ferroviari. Molti sono vittime di gravi incidenti, in gran parte avvenuti per strada: investiti da automezzi, motociclette o cadendo da veicoli in corsa o da tetti, finestre, staccionate, ponti.
Frateizzano con i coetanei
della loro stessa condizione, e quasi la metà è attirata da giovani più grandi di loro. La tendenza fra i ragazzi di strada delinquenti a cercarsi compagni più vecchi può essere associata al desiderio di un sostituto all’«io ideale», da ammirare ed emulare. Però i genitori dei ragazzi delinquenti sono meno benvoluti dai figli e meno accetti, come modelli, rispetto ai padri dei non delinquenti.
Circa i compagni, i ragazzi delinquenti preferiscono le bande, mentre i non delinquenti le evitano quasi del tutto, preferendo pochi amici intimi. Inoltre i primi mostrano una spiccata antipatia per i lavori organizzati o sorvegliati.
Sotto il profilo socio-morale, il 19% dei ragazzi di strada (contro il 2% degli altri) ha esperienze eterosessuali; il 21% (contro l’1%) pratica vari giochi sessuali e il 29% (contro il 3%) si masturba molto.
Infine i meninos de rua sono ritenuti potenziali delinquenti.
Il bambino o la bambina di strada, che «lavori» o no, può essere arrestato in ogni istante, perché considerato delinquente in fieri; quando non se ne trova la famiglia, viene portato al centro di selezione e smistamento dei vari minori.
I meninos sono spesso sottoposti a procedimenti giudiziari arbitrari, a prescindere dal reato commesso. Il tempo per decidere la loro sorte viene sovente molto dilazionato; ciò è funzionale ad una società che, in questo modo, si libera temporaneamente di soggetti scomodi; i tempi lunghi sono dovuti pure all’esigenza di trovare una soluzione realizzabile.
Nello specifico, il comportamento delinquenziale tipico del menino de rua è il furto, mentre quello della menina è la prostituzione.

la responsabilità
dell’ambiente

L’equivalenza «ragazzo di stradadelinquente» è un luogo comune in molti brasiliani. Tuttavia il menino de rua delinquente sembra essere, soprattutto, la risposta-adattamento alle condizioni ambientali già negative in cui i soggetti vengono a trovarsi. Per cui il candidato a «ragazzo di strada» non è un delinquente, ma facilmente lo diventa.
L’ambiente è fondamentale per lo sviluppo della persona, specie nei primi anni di vita. Ciò ricordato, è la «miseria» la maggiore responsabile delle condotte devianti dei minori. È una miseria non solo economica, ma anche intellettuale ed affettiva, frutto dell’incapacità di gestire e comprendere le proprie dimensioni emotive. Una miseria che pare tramandarsi di padre in figlio.
I genitori in un ambiente squallido, aggravato da inferiorità culturale e intellettuale, malattie fisiche e/o mentali, non offrono ai figli garanzia, sapere, criteri morali, ideali religiosi e serenità d’animo, indispensabili per una sana educazione, specialmente nelle zone urbane dove imperversano la lotta per l’esistenza e l’avidità.
Bowlby individua tutto ciò come «il corrispondente psicologico della delinquenza sociale» e chiama «psicopatia da mancanza di affetto» la quasi totale incapacità di instaurare vincoli affettivi, unita all’impossibilità di aver fiducia nel futuro e nell’altro. Inoltre pesa un senso di colpa riguardante il passato.
Due autori, Kempe R. e Kempe C., hanno analizzato in modo specifico le conseguenze delle privazioni e degli abusi sull’infanzia: i ragazzi antisociali e i giovani violenti di oggi rivelano di essere stati, ieri, vittime di maltrattamenti, trascuratezze e negazioni.
Questo non significa che la maggior parte dei bambini, vittime di violenze, ipso facto si scontrerà con la legge; ma dimostra che quanti la infrangono hanno spesso alle spalle una storia triste e, più di altri, sono indotti alla criminalità. Nella loro situazione il passo è breve.
Secondo molti studiosi, alla base delle condotte criminali esiste un’identità precaria e non integrata, che cerca di compensare le esperienze di vuoto e le privazioni con comportamenti devianti; ciò sfocerebbe nella costituzione di un falso «io»… La delinquenza, quale trasgressione della norma, fornirebbe al ragazzo di strada una nuova e fittizia identità.
Nella favela e negli altri mondi del disagio e dell’abbandono non si entra per caso, bensì sospinti da una condizione precisa, dura e brutale, frutto di uno squilibrio socioeconomico e della propria coscienza.
Più chiaramente: l’abbandono di bambini si verifica perché la sete di potere di alcuni individui, egoisti, immaturi e insicuri della presenza divina, non accetta la regola fondamentale «ama il tuo prossimo come te stesso». Tale insegnamento, considerato seriamente, potrebbe facilitare le persone di potere a superare la loro mentalità di «colonizzatori», per iniziare a trattare le persone con rispetto.

il «sonno» dei colonialisti e Dei colonizzati

In Brasile (e non solo in questo paese) imperversano nuovi colonialisti. Costoro, anche se vivono sulla «loro» terra, si comportano in modo insano; proprio come quel viaggiatore nell’oceano in burrasca che, mentre la nave affonda, diceva ad un altro: «La nave non è mica mia. Allora che affondi!».
I nuovi colonialisti «dormono» nella loro coscienza.
Anche i meninos de rua hanno una coscienza precaria: non riescono a risvegliarsi dal «sonno di colonizzati», come gli indios o i neri di un tempo. Un menino «addormentato» concilia pure, senza saperlo, «il sonno del padrone-colonizzatore». L’accomunamento nel sonno di colonizzatori e colonizzati è fonte di tragedie.
Oggigiorno, se non ci sveglia, il binomio colonizzato-colonizzatore sussisterà anche nei nuovi pianeti. L’impegno contro la fame nel mondo potrebbe, ad esempio, svegliare con benefici comuni.
«Però tu sei cieco nella tua paura di scoprire che non esisti isolato. Le maschere dei tuoi ruoli sociali, il tuo teatro, la tua musica, il tuo cinema, i tuoi libri, la tua tivù, i tuoi confini, la tua famiglia, la tua società, i tuoi amici, il tuo cane, le tue chiacchiere, i tuoi soldi, le tue sigarette, la tua scienza, i tuoi vestiti, la tua moda, i tuoi palazzi, i tuoi giochi, i tuoi sport, la tua macchina, le tue conquiste, i tuoi aerei, il tuo giardino zoologico… e tu finisci per distruggere il dono che Dio ti ha fatto…» (Voz Pierre Weil).
E il menor grida: «Giriamo per le piazze e guardiamo in ogni angolo, finendo ogni speranza e sentendo fame, molta fame di cibo, acqua, letto, ciucciotto… medicinali contro i pidocchi, calore, abbracci, affetto. Fame di silenzio, fame di vita…».

Clovis R. Anversa




Scusate se diamo fastidio

Gli immigrati, arrivati da poco nelle città dell’America Latina, di solito abitano con qualche amico o parente fino a che si abituano alle nuove condizioni di vita e trovano qualche modo per guadagnarsi da vivere. A causa dello spazio ridotto, tuttavia, presto divengono ansiosi di trovare un posto tutto per loro. La scelta è limitata: affittare una minuscola stanza in un’abitazione sovraffollata nel centro-città, oppure unirsi al numero crescente di abusivi nelle baraccopoli.
A Rio de Janeiro la prima favela è sorta nel 1920. Oggi vi abita più di un terzo degli abitanti della città…
Le case delle baraccopoli vengono costruite da chi vi risiede e sono quasi sempre illegali, sia perché gli abusivi non possiedono la terra, sia perché non hanno il permesso edilizio. Molti insediamenti iniziano con «l’invasione della terra»: un gruppo di poveri cittadini, che spesso ne comprende alcuni immigrati da poco, invade un pezzo di terra di notte e costruisce frettolosamente delle baracche temporanee. Se riescono a opporsi ai tentativi iniziali delle autorità o dei padroni di farli sloggiare, le case temporanee hanno qualche possibilità di diventare permanenti.
Man mano che il tempo passa e aumentano le prospettive dell’insediamento, i residenti iniziano un lungo processo per migliorare le case. I miglioramenti occupano molto del loro tempo libero e denaro. Quelle che prima erano baracche di cartone e plastica vengono rifatte con assi e lamiere. Col passare degli anni, iniziano ad apparire case in mattone, qualcuno addirittura aggiunge un secondo piano. Alla fine assomigliano a quelle degli altri quartieri, ed entrano a far parte dell’economia cittadina, visto che un numero crescente di case viene venduto o affittato dai loro primi abitanti.

A ll’inizio gli insediamenti abusivi devono affrontare problemi enormi. Spesso il terreno che hanno occupato era libero proprio perché non edificabile. A Rio de Janeiro i poveri si insediano sui lati delle colline, che rischiano di franare ogni volta che piove…
Di solito i problemi più urgenti sono l’acqua e la rete fognaria. A São Paulo più di un terzo delle case nella città, soprattutto nelle baraccopoli di periferia, non ha installazioni fognarie o pozzi neri. La gente utilizza buche all’aperto o latrine senz’acqua, che spesso contaminano i pozzi superficiali, unica fonte d’acqua.
La chiave per migliorare la qualità della vita è l’organizzazione, e gli insediamenti abusivi hanno prodotto alcune delle organizzazioni più valide dell’America Latina. L’elenco delle richieste è lungo: strade, acqua potabile, fogne, elettricità, scuole, raccolta dei rifiuti, ospedali e mezzi di trasporto. Altro tema scottante è la loro illegalità dato che, non avendo alcun titolo di proprietà sulla terra, gli abitanti non si possono sentire sicuri in casa propria. Una volta che l’insediamento è costituito, può crescere rapidamente.
Le autorità possono rispondere all’invasione della terra con violenti tentativi di evacuazione, ma col tempo molti riconoscono che l’insediamento illegale e il costruirsi da soli la casa sono l’unica soluzione alla scarsità di abitazioni…
Una seria riforma del suolo urbano è l’unica alternativa alla coesistenza tutt’altro che facile delle autorità con gli abusivi. Ci sono molti punti in comune tra la crisi rurale della terra e quella delle città. Come per la riforma agraria, una riforma del suolo urbano, se vuole avere successo, richiede molto più di una mera distribuzione di terra. Gli abusivi hanno anche bisogno di poter accedere al credito, che permette loro di acquistare i materiali da costruzione, di infrastrutture, come strade ed elettricità, e di consulenza tecnica per l’edilizia. Proprio come in campagna, i grandi latifondisti urbani si oppongono a ogni tentativo che metta in pericolo il loro potere, e generalmente tali sforzi hanno successo.

I visitatori dell’America Latina possono vedere ben poco della vita nelle baraccopoli, dato che gli hotel dei turisti e gli amici o i contatti si trovano di solito nelle zone più benestanti, in quartieri eleganti o nei modei centri cittadini. Il livello di criminalità nelle baraccopoli, sebbene spesso gonfiato, è un altro valido motivo che allontana l’idea di visitare i quartieri più poveri. Nei quartieri del ceto medio le famiglie conducono una vita abbastanza confortevole, aiutate da personale di servizio e dalla possibilità di utilizzare gli elettrodomestici.
Rispetto alla popolazione complessiva, il ceto medio in America Latina è molto più ridotto che in Europa o negli Stati Uniti, e un abisso lo divide dalle masse povere dei quartieri più squallidi…
Lungo la strada principale nel nord di Recife, in Brasile, la processione di baracche di cartone e legno viene nascosta alla vista degli automobilisti. Un tabellone municipale lungo centinaia di metri si scusa per «il disagio causato dalle case provvisorie». Il cartellone può nascondere le case alla vista, ma non il caldo fetore del canale che attraversa l’accampamento. I bambini denutriti nuotano nelle acque inquinate. In certi punti, le sponde del canale sono costituite interamente da rifiuti…

Duncan Green
(testo liberamente tratto da «America Latina oggi»)

Duncan Green




L’immondezzaio di Elena

Strada Manaus-Itacoatiara, chilometro 10. Fino a qualche tempo fa c’era soltanto un immondezzaio. La puzza, acuita dal calore, era percepibile a chilometri di distanza. Gli urubú (avvoltorni) volteggiavano sulla discarica, attratti dalle sostanze organiche in decomposizione. Il personale tecnico del vicino aeroporto era preoccupato, perché i rapaci (che volano altissimi) erano risucchiati dalle turbine delle aeronavi causando danni irreparabili e persino tragici incidenti.
Attoo alla discarica, enorme, si stabilirono alcuni individui: sopravvivevano raccogliendo bottiglie, pezzi di metallo, mobili vecchi, carta stagnola. Quando le autorità locali si resero conto della situazione, circa 2 mila famiglie, provenienti dall’interno dell’Amazzonia, si erano già insediate presso il grande letamaio. Era sorto un paese, battezzato Nuovo Israele.

Tutto è improvvisato.
Non ci sono strade, fognature, acqua, elettricità. La miseria, tipica dell’interno dell’Amazzonia, si è riprodotta anche qui, ma con una differenza: prima era possibile procurarsi pesce, farina di manioca e acqua non inquinata; ora si muore di fame, se nessuno della famiglia trova lavoro. Poiché la maggioranza sa solo pescare e piantare manioca, si possono comprendere i problemi dei… profughi.
«Perché non siete rimasti nell’interno?» domando. «Perché si è lontani da tutto. Non ci sono né medici né medicine. Per non parlare della scuola!».
«Ma, invece di affrontare questa terribile situazione a Manaus, non sarebbe stato meglio restare nei luoghi di origine?». «No. Qui almeno c’è la speranza che le cose migliorino. Là neppure questo. Qui la gente può darci una mano, mentre nell’interno eravamo isolati e soli. Dal luogo dove abitavo io, ci volevano tre giorni di viaggio, in canoa, per giungere al primo centro abitato e trovare qualcosa!».

A Nuovo Israele
le case sono simili più a pollai che ad abitazioni umane: si aggrappano al terreno scosceso come muli testardi. Su pochi pali e alcune assi poggia la casa, ricoperta da foglie di palma e sacchi di plastica o, per i ricchi, da lastre zincate. È necessario avere almeno un bugigattolo, altrimenti si viene cacciati. In seguito si può diventare proprietari di quel palmo di terra.
Vicino alla casa, una fossa per i servizi igienici. Sul fondo del terreno collinoso e ricco di acqua, a causa delle abbondanti piogge, si scavano altri buchi (cacimbas): sono il bagno, la lavanderia per i vestiti e la fonte d’acqua per uso domestico.
È uno spettacolo deprimente vedere donne, bambini e anziani arrampicarsi sui sentirneri, verso le proprie case, carichi di recipienti d’acqua, sbuffando al cocente sole. Ci ho provato anch’io, con una tanica d’acqua in spalla: arrivato in cima, le gambe non mi reggevano più. Loro quei sentirneri li fanno decine di volte a stomaco vuoto!

In questa città da incubo
rivolgo ad un tale l’ingenua domanda se, una volta a casa, avrebbe filtrato o fatto bollire l’acqua. La risposta mi colpisce come una sberla in faccia: «Il povero filtra l’acqua in pancia!». Avrei voluto scomparire all’istante, tanta è stata la vergogna nell’avere offeso, sia pure involontariamente, la sensibilità di un povero.
Avvicinatomi ad una casupola, vi trovo quattro bambini. Una bambina di sette anni si prende cura degli altri tre, più piccoli, mentre i genitori sono a cercare un po’ di cibo. Il giorno prima si erano accontentati di chibé (farina di manioca, rammollita in acqua calda e sale); oggi non hanno neppure una goccia d’acqua da bere.
Eppure questa gente è ancora capace di sorridere. Forse per inerzia. O per fede.

C’è anche una missionaria.
Nera come il carbone, i capelli crespi e brizzolati, suor Elena è chiamata da tutti «angelo nero». Originaria dell’isola di Barbados (Antille), la religiosa vive come la gente occupandosi dei più miseri e abbandonati. Se qualche povero ha bisogno di legalizzare la proprietà o di una visita medica, è sempre lei che si fa in quattro.
Ha costruito una cappella di legno che serve da scuola, centro di assistenza sociale e luogo di culto alla domenica. Nelle rivendicazioni sociali lei è sempre in testa. Per questo è stata arrestata varie volte e anche bastonata dalla polizia. Ma Elena non si ferma, sorretta soprattutto da Colui che ha detto: «Beati i perseguitati per amore della giustizia».
A Nuovo Israele incontro anche un giovanotto. Dice di essere cattolico, però non praticante; prega, ma vive lontano dalla chiesa, perché – dichiara – troppo distante dai poveri. E prosegue: «A Nuovo Israele e in situazioni simili la chiesa deve scendere dal piedestallo e fare molto di più per chi vive nella miseria».
Penso a suor Elena.
p. Paulo Gomes

Paulo Gomes