Le multinazionali all’assalto del mondo

«Chiquita», la multinazionale statunitense delle banane,
è riuscita a mettere in crisi l’Unione europea. I sostenitori di un sistema
fatto a misura di multinazionali affermano:
meno vincoli statali significa più libertà e di conseguenza più benessere per tutti. Ma questo proclama neoliberista crolla davanti ai fatti:
disoccupazione crescente nei paesi industrializzati, condizioni lavorative
indegne nei paesi poveri. E tutto mentre i mercati finanziari sono drogati
dalla speculazione e il cancro del debito avvelena il mondo.

C hi comanda oggi nel mondo? La risposta è chiara: comandano le multinazionali.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionali tutte le imprese che detengono la proprietà di altre società dislocate all’estero. Per cui basta che una azienda ne possegga un’altra al di là dei confini nazionali ed è classificata come multinazionale. Le multinazionali censite nel mondo sono oltre 40 mila; forse oggi sono diventate 50 o 60 mila. Il loro numero va crescendo. La quantità di imprese che esse controllano si aggira intorno a 400 mila.
Ma, detto questo, si rischia di essere portati fuori strada, perché le multinazionali che contano davvero non arrivano a 600; qualcuno dice addirittura che non giungono a 200. Si stima che 500 multinazionali siano responsabili del 25% del prodotto lordo mondiale; quindi il potere economico si sta concentrando sempre di più nelle mani di poche strutture.
Va data anche un’altra definizione di multinazionale, legata alle dimensioni: le multinazionali sono enormi; sono così grandi che nessuna nazione contiene un numero di consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti.
Si pensi a Coca Cola, Nike, Reabock, Philips Morris, Nestlé e tante altre. Ebbene, per tutte queste imprese, i confini di casa loro sono troppo stretti. Di qui la necessità di espandersi a livello mondiale, di qui la globalizzazione.
INTERESSI COMMERCIALI E LIBERTÀ DI PROFITTO
La globalizzazione è nata perché le imprese affermatesi sono multinazionali. Noi non siamo dentro ad una globalizzazione qualsiasi, ma ad una globalizzazione che ha connotati precisi, per servire interessi precisi.
Il primo interesse è commerciale: la commercializzazione dei prodotti in ogni angolo del mondo; la libertà di collocare le merci ovunque, sia a New York che a Kathmandù, a Hong Kong come in qualsiasi altro paese.
La seconda libertà che le multinazionali rivendicano è di poter trasformare ogni risorsa naturale in merce. Che si tratti di legname tropicale, minerali, petrolio o qualsiasi altra risorsa con un ruolo fondamentale per i meccanismi vitali del pianeta, ebbene le imprese multinazionali rivendicano il diritto di trasformare le risorse in merce. Vale a dire di sfruttarle, di poterle esaurire pur di ottenere dei profitti.
La terza libertà, rivendicata dalle imprese a livello mondiale, è di usare qualsiasi tecnologia, non ultima quella che scardina i meccanismi intimi della vita. Ecco allora le biotecnologie, gli organismi geneticamente modificati, la clonazione dell’essere umano.
Per ottenere questo, le imprese hanno bisogno che gli stati si mettano d’accordo su trattati precisi che garantiscano il liberismo.
PER UN MONDO SENZA OSTACOLI
Esistono alcuni organismi importanti (come l’Organizzazione mondiale del commercio), che si muovono secondo due logiche di fondo.
In primis affermano che il commercio è al di sopra di tutto. Quindi si comincia ad affermare l’egemonia del commercio sopra ogni valore sociale e ambientale. Questa è la nuova dottrina che si sta tentando in tutti i modi di affermare all’inizio del terzo millennio.
La seconda strategia è quella di fare in modo che gli stati perdano sempre di più potere.
Le multinazionali hanno bisogno di un mondo senza ostacoli. Hanno bisogno che gli stati non solo perdano la possibilità di legiferare, in modo da sottoporre gli interessi collettivi a quelli commerciali, ma addirittura che gli stati cancellino le leggi che antepongono gli interessi sociali a quelli commerciali.
Di qui l’importanza di un meccanismo giudicante nell’Organizzazione mondiale del commercio. Esso interviene qualora gli stati membri pensino che altri stiano ledendo gli interessi di una loro multinazionale. Ci sono esempi concreti.
Recentemente l’Unione europea è stata portata in giudizio dal governo degli Stati Uniti a causa di una regolamentazione nel settore delle banane. La regolamentazione europea non ledeva gli interessi degli Stati Uniti (giacché essi non sono un esportatore di banane), bensì quelli della Chiquita, che è una multinazionale di origine statunitense.
L’Unione europea è stata trascinata in giudizio e condannata. Essa si è trovata di fronte a due scelte: o mantenere la sua regolamentazione e accettare di essere sottoposta a ritorsioni commerciali equivalenti al danno inflitto a Chiquita, oppure cancellare la regolamentazione e fae un’altra.
Ovviamente l’Unione europea ha scelto la seconda strada.
LA GLOBALIZZAZIONE PRODUTTIVA
Con la globalizzazione commerciale, si è sviluppata anche una globalizzazione produttiva: il mondo intero, cioè, si sta trasformando in un unico villaggio produttivo. Questo perché le multinazionali hanno fatto un’amara scoperta.
Esse hanno scoperto che il mondo è vasto da un punto di vista geografico e demografico (siamo oltre 6 miliardi di individui), ma il numero di persone con la possibilità di comprare, all’interno del mercato mondiale, è piccolo.
In altre parole, i consumatori che hanno soldi sufficienti, per comprare ciò che il sistema produttivo (altamente tecnologico) mette sul mercato, sono molto scarsi. Il loro numero non va oltre il 30-35% della popolazione mondiale. Insomma, il numero degli «eletti» è molto piccolo. Tutti gli altri sono stati esclusi a causa di cinque secoli di colonialismo, che hanno creato una massa di poveri enorme.
Non dobbiamo dimenticare che un miliardo e mezzo di persone vive in povertà assoluta: sono quelle che vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri assoluti sono coloro che campano nella precarietà massima, che dormono di notte sui marciapiedi e si alzano al mattino con la loro famiglia senza sapere se mangeranno un piatto di minestra durante il giorno; non sanno se troveranno il lavoro che gli permetterà di guadagnare quel famoso dollaro al giorno. Non riescono ad offrire ai loro figli la possibilità di andare a scuola, tanto meno di comprare una medicina o di entrare in un ospedale. Non riusciranno mai a garantire a se stessi neanche l’acqua potabile.
È veramente uno scandalo enorme, che grida contro di noi e il nostro sistema economico.
Ebbene tutto questo si sta ritorcendo contro. In un mondo squilibrato, con grandi sacche di povertà, i nodi sono venuti al pettine.
PER LA DIMINUZIONE DEI COSTI
In un mercato con pochi acquirenti e tanti venditori, si scatena una concorrenza feroce tra le imprese, per strapparsi i clienti a vicenda.
Osserviamo i mercanti che vanno alla fiera del mattino. Essi pensano di essere in pochi a mettere la propria bancarella in una piazza, dove passeranno tanti clienti facoltosi; invece scoprono che le bancarelle sono molte e che la gente è tanta, ma la maggior parte è stracciona e non ha la possibilità di comprare.
Allora… con un megafono enorme si cerca di richiamare l’attenzione dei passanti. Ecco la pubblicità che incalza e assume tante forme.
Non è solo pubblicità quella in televisione o sui giornali. La pubblicità è sempre più strisciante e subdola, con numerose sponsorizzazioni: non solo sportive, ma anche sociali. Sono tantissime le società che cercano di associare al loro marchio anche entità che si contraddistinguono per la propria finalità sociale. Perfino l’Unicef si fa sponsorizzare dalle imprese!
E le imprese non fanno nulla gratuitamente. Esse non conoscono il verbo «regalare». Le imprese danno quando sanno che il ritorno è il doppio o triplo.
E, siccome sanno di essere in una società dove la sensibilità dei consumatori per alcuni problemi va crescendo, accettano volentieri di associare il loro nome a quello di enti caritatevoli. Questo perché gli farà avere un ritorno di immagine, che riuscirà ad aumentare le loro vendite.
Dopo la pubblicità, la seconda strategia per vendere è legata ai prezzi. Basta che un prodotto costi una lira di meno per attirare subito i consumatori. Poi si fanno altre valutazioni; però quella del prezzo è fondamentale.
Poiché la concorrenza è feroce, i prezzi diminuiscono: questa è una delle vie per accaparrarsi i clienti. Ma se i prezzi diminuiscono, diminuiscono pure i ricavi e i profitti. Allora bisogna trovare altre strategie che facciano sì che i guadagni rimangano stazionari o, addirittura, aumentino.
A tale scopo, le imprese si sono impegnate a diminuire «altri» costi di produzione: come al solito, ciò che ha attirato la loro attenzione è stato il mondo del lavoro. Le strategie per diminuire i costi del lavoro sono tante. Una fra tutte: la sostituzione dell’uomo con la macchina. La disoccupazione odiea è sostanzialmente tecnologica.
Si è instaurata anche un’altra strategia, soprattutto nei settori che ricorrono ancora alla manovalanza. Essa consiste nel trasferire la produzione in quelle parti del mondo dove la gente, a causa di una povertà secolare, accetta di lavorare per un tozzo di pane.
È cominciato il trasferimento della produzione in paesi come la Corea del sud, Taiwan. Poi, quando tali paesi hanno raggiunto un certo standard di vita, sono state chiuse le fabbriche là, per trasferire la produzione in Indonesia, Thailandia… E, quando anche in queste nazioni, i lavoratori reclameranno migliori condizioni di lavoro, là pure si chiuderanno le fabbriche per trasferirsi in altre parti del mondo.
Già oggi si vedono nuovi paesi di approdo, come il Vietnam e la Cina. Anche l’Africa comincia a richiamare questo tipo di produzioni. Il processo di trasferimento della produzione è continuo.
Nelle loro fabbriche di scarpe, tessili e giocattoli le condizioni di lavoro sono facilmente immaginabili: i salari sono tanto infami che non riescono neanche a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari. In Indonesia i salari delle ragazze che lavorano nelle fabbriche di scarpe coprono a mala pena il 70% del loro fabbisogno di base.
Ci sono poi orari di lavoro lunghissimi, per tentare di guadagnare qualche spicciolo in più. Le libertà sindacali sono inesistenti e, dulcis in fundo, si diffonde il lavoro minorile, che è un compenso a situazioni in cui gli adulti non guadagnano abbastanza. In alcuni casi il lavoro minorile si trasforma in schiavitù, come ad esempio nella produzione di tappeti in India o Nepal.
La globalizzazione produttiva sta portando le condizioni di lavoro sempre di più verso il basso. Lo si vede chiaramente in Asia e America centrale. Ma anche i nostri paesi sono trascinati in questo abisso.
L’ACCORDO SUGLI INVESTIMENTI
L’esigenza di produrre in ogni parte del mondo ha spinto le multinazionali ad ottenere una regolamentazione che, ancora una volta, riconoscesse loro tutti i diritti e nessun dovere: diritti di entrare in ogni paese e di uscie, quando ne sentivano il bisogno, senza alcun obbligo nei confronti della collettività o del governo; addirittura il diritto di un trattamento migliore di quello garantito alle imprese nazionali.
Questi diritti facevano parte del famigerato «accordo sugli investimenti», che per fortuna non è passato. Si è tentato il colpo in segreto a Parigi, all’interno dell’Ocse, affinché l’economia sia gestita sempre di più in maniera liberista. Dopo cinque anni, finalmente, qualcuno ha avvistato i pericoli; e, pur facendo parte della delegazione ufficiale, ha tirato fuori la notizia e l’ha data in pasto ad alcune organizzazioni non governative.
Il clamore suscitato è stato tale che il governo francese si è ritirato, facendo crollare tutta la costruzione.
Nell’accordo c’era una clausola, legata agli espropri, che diceva: le multinazionali, che investono in un paese estero, hanno il diritto di essere rimborsate ogni qual volta vengano espropriate di attività, terre o fabbriche; non solo, hanno diritto di essere risarcite anche nel caso in cui uno stato emani una legge che, in qualche modo, comprometta le possibilità dell’impresa di vendite future.
Che cosa significa? Se una fabbrica produce una sostanza chimica dannosa e viene promulgata una legge che la proibisce, la fabbrica può fare i conti di quanto avrebbe guadagnato nei prossimi dieci anni e spedire il conto allo stato!
Non sono cose campate per aria, perché nel Nord America, all’interno dell’accordo del Nafta (stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico), questa clausola esiste già. Il Canada è già stato portato in giudizio per un fatto del genere. Siccome intravvedeva la possibilità di essere condannato, è arrivato a patti con l’impresa che l’aveva citato in giudizio e ha pagato 13 milioni di dollari pur di chiudere il caso.
Siamo di fronte ad una situazione in cui tutto il potere è delle imprese, e le nazioni (vale a dire la gente) hanno soltanto doveri: doveri persino di risarcire le multinazionali anche del loro mancato guadagno.
IL DEBITO
Accanto alla globalizzazione produttiva e commerciale, c’è la globalizzazione finanziaria, incominciata 30 anni fa con il fenomeno del debito dei paesi poveri.
Esso nacque perché le banche inteazionali si trovavano con una grande quantità di denaro, derivante soprattutto dai guadagni degli emiri arabi con il rincaro del petrolio. Le banche non sapevano che fare dei petrodollari, perché Europa, Stati Uniti e l’intero mondo industrializzato stavano attraversando un periodo di recessione.
Le banche, non sapendo dove collocare il denaro (esse guadagnano solo se collocano i depositi che ricevono), hanno cominciato a offrire soldi a condizioni agevolate ai governanti del Sud del mondo, prospettandogli la possibilità di usarlo per i loro sogni. Purtroppo non erano sogni che miglioravano le condizioni di vita della gente; anzi, quasi sempre erano sogni volti a rafforzare il potere personale e gli eserciti dei dittatori sparsi nel mondo.
Poi una quantità di soldi è stata sprecata per realizzare «cattedrali nel deserto», progetti che non avrebbero prodotto niente, ma che servivano esclusivamente per fornire appalti alle imprese del Nord. E queste ricompensano i governanti con laute bustarelle, alimentando una paurosa corruzione.
Il debito scellerato non è stato contratto per consentire alla gente di vivere meglio, per fare investimenti produttivi e sociali, ma per rafforzare posizioni di potere.
Intanto, finita la fase dei tassi agevolati, gli interessi sui prestiti hanno incominciato a salire. Il debito è cresciuto a dismisura. I paesi, non riuscendo a pagare le rate, sono stati costretti a chiedere altri prestiti e il debito è aumentato come una valanga. Oggi siamo arrivati a circa 2.500 miliardi di dollari di debito complessivo.
Ogni anno i paesi del Sud versano alle casse del Nord qualcosa circa 290 miliardi di dollari: sono sudore della gente, sono materie prime che passano gratuitamente dal Sud verso il Nord, anno dopo anno.
Se si vuole guadagnare da un paese, basta indebitarlo. Il debito è un meccanismo scientifico, studiato a tavolino, proprio per avere un travaso di risorse dal Sud verso il Nord.
IL RICATTO DELLE ISTITUZIONI
La scelleratezza è diventata via via più immane. Le istituzioni inteazionali concedevano nuovi prestiti ai paesi indebitati, ponendo condizioni ben precise: «Noi ti diamo un ennesimo prestito, a patto che tu ristrutturi l’economia nazionale esclusivamente per ripagare il debito».
La logica che sta sotto è semplice. Cosa chiede una persona a un suo debitore? Di lavorare tanto e tirare la cinghia, in modo che egli avanzi una quantità sufficiente di risorse per restituire il debito. È questa la logica che applica il Fondo monetario internazionale.
Non c’è niente di complicato quando si parla di «aggiustamento strutturale» dell’economia per favorire il pagamento del debito. In base a questa logica, i paesi del Sud sono spronati a fare sempre di più man bassa delle loro risorse, a sfruttare maggiormente il lavoro dei loro popoli, a orientare la loro economia verso l’esportazione. Infatti solo così si procurano i dollari per restituire il debito.
Il meccanismo infeale implica, nel contempo, una drastica riduzione dei bilanci pubblici: meno fondi per il pubblico significa più soldi per ripagare il debito. Ecco, allora, che vengono tagliati i sussidi a sanità, istruzione, alimentazione: insomma tutte le spese sociali.
Sicuramente, però, i risparmi non vengono fatti sulle spese destinate agli armamenti, che (guarda caso) si comprano da noi.
Questa è la logica dell’«aggiustamento strutturale». Oggi la gente del Sud del mondo sta morendo, intrappolata nel sistema diabolico descritto.
LA SPECULAZIONE FA MALE AI LAVORATORI
Nell’ambito della globalizzazione finanziaria trova sempre di più spazio la speculazione sui cambi delle valute e sul valore dei titoli.
La finanza sta andando in questa direzione per due ragioni. In primo luogo, perché i tassi di interessi sono diminuiti considerevolmente e, di conseguenza, non c’è più stimolo a depositare il denaro in banca o acquistare titoli di stato.
L’altra ragione è che si stanno rafforzando nuove istituzioni finanziarie, ancora una volta legate alle scelte liberiste dei governi. Quanto più lo stato rinuncia al suo compito in ambito sociale, tanto più esso viene assorbito da istituzioni private che, naturalmente, hanno bisogno di guadagnare. Si tratta, in particolare, di società che gestiscono i fondi pensione e delle assicurazioni.
Poiché le istituzioni private devono mostrare ai loro clienti che sanno far fruttare i soldi, mettono in atto strategie che puntano al profitto immediato. Un miliardo e mezzo di dollari transita ogni giorno da un computer all’altro per tentare di guadagnare sulle variazioni delle valute straniere e sul valore dei titoli azionari!
Due anni fa, in Thailandia, la borsa crollò del 10-15% dall’oggi al domani, mettendo in moto un processo di recessione che provocò il licenziamento di migliaia di persone. Occorre essere più consapevoli del fatto che l’economia finanziaria si ripercuote su quella reale. Dunque, sulla vita quotidiana della gente comune.

Francesco Gesualdi




ISRAELE – Un’oasi di pace per la pace

Bruno Hussar, ingegnere ed esperto nel costruire ponti,s’accorge che in Israele i collegamenti più importantiriguardano i popoli e le religioni.
Sogna e realizza l’«oasi di pace». In silenzio.

M itròvitza, città simbolo degli ostacoli ad una pacificazione fra serbi e albanesi del Kosovo: pacificazione che pare difficile se non impossibile. Un fiume divide le due comunità in lotta. Un ponte, che dovrebbe unire le sponde, è in realtà luogo di scontro fra le due entità etniche, con le truppe del Kfor che fanno da… «terzo» fra i due litiganti.
Nella parte nord di Mitròvitza (il settore serbo) scoppia un grosso incendio, uno dei tanti. I vigili del fuoco serbi sono in seria difficoltà. I colleghi albanesi del settore sud partono per dare una mano. Passato il ponte, sono fatti oggetto di insulti e sassaiole da parte dei serbi. Nulla di strano, purtroppo! Siamo abituati a simili racconti balcanici.
IL SOGNO DI ISAIA
Dai Balcani (e capiremo presto il perché) spostiamoci in Israele.
Il Medio Oriente è un’altra zona «calda», geograficamente più lontana, ma forse più vicina a noi sul piano della cultura e dei sentimenti rispetto ai territori aldilà dell’Adriatico.
Chi in Israele percorre la superstrada Tel Aviv – Gerusalemme, là dove la pianura costiera comincia a corrugarsi per diventare montagna, incontra un’area che racchiude in pochi chilometri quadrati alcune testimonianze di un passato plurimillenario:
– il biblico Tel Gèzer, traccia dell’antichissima città cananea portata in dote dalla figlia del Faraone allo sposo Salomone, figlio di Davide;
– le colonne e l’abside della grande basilica costantiniana di Emmaus Nicopoli, distrutta nel V secolo da un’incursione samaritana;
– le rovine della fortezza di Toròn, simbolo dell’orgoglio dei crociati in Outremer;
– l’abbazia di Latrùn, teatro con il vicino fortino inglese di terribili scontri nella guerra del 1948-49 fra la haganah (1) ebraica e le agguerrite truppe transgiordane.
Oggi l’abbazia è ritornata al silenzio, alla preghiera e al lavoro di una comunità trappista che ne aveva cura anche in passato. E, proprio sui terreni dell’abbazia, in cima ad un’altura, sorge un villaggio. È costituito da una manciata di case bianche ed è simile ai kibbùtz e moshàv (2) che costellano la pianura e le colline d’intorno.
Il villaggio ricorda al visitatore che un sogno può realizzarsi e che la pace è possibile. Si chiama Nevè shalom/Wahat as-salam, ossia «oasi di pace», rispettivamente in lingua ebraica e araba. Non lontano, nel secolo VIII a. C., il profeta Isaia sognò il giorno in cui «il popolo abiterà in una dimora di pace» (Is 32, 18).
È stato pure il sogno di Bruno Hussar, nato nel 1913 in Egitto e morto in Israele tre anni orsono.
Figlio di genitori ebrei, cittadino austrungarico prima, poi italiano, francese e infine israeliano, Bruno è un ingegnere. Vissuto nell’agnosticismo fino all’adolescenza e chiamato alla fede cattolica in età ormai adulta, alla vita religiosa e al sacerdozio, lui, ebreo inconscio, riscopre la propria ebraicità quando è frate domenicano e prete in terra di Israele tra i suoi fratelli.
La volontà di riconciliazione fra nemici gli fa creare Nevè shalom/ Wahat as-salam. Oggi nel villaggio abitano e lavorano insieme, da 30 anni, famiglie di ebrei, musulmani e cristiani.
La «pace possibile» è fra ebrei ed arabi, impegnati in un conflitto sanguinoso, ancorché dalle radici recenti. È però anche, in senso generale, la pace fra uomo e uomo in tutte le situazioni di conflitto armato o ideologico, anche là dove le radici del male affondano nei secoli, come nell’Irlanda del Nord e in quella che fino a ieri si chiamava Jugoslavia.
A SCUOLA DI PACE
La comunità di Nevè shalom/ Wahat as-salam «vive in pace» nella diversità dei propri membri, che condividono giornie, dolori, feste e preoccupazioni; essa inoltre lavora per la pace con un’apposita «scuola», in funzione da anni all’interno del villaggio. È una iniziativa che promuove la conoscenza approfondita fra gli studenti (ebrei ed arabi) delle ultime classi delle superiori di Israele, incontri di insegnanti e docenti universitari locali.
Ora la scuola ha allargato la propria attività ai territori dell’Autonomia palestinese. Si contano 280 presenze agli incontri tra giovani israeliani e palestinesi, organizzati in collaborazione con centri culturali e promotori di pace; 80 incontri con gli studenti dei territori palestinesi.
Fuori dell’ambiente scolastico, nel 1999 si è tenuto anche un corso per donne arabe ed ebree, organizzato con la Scuola di servizi sociali dell’università di Tel Aviv, con ben 90 presenze. Circa 700 adulti (giornalisti, funzionari, universitari) delle due etnie hanno partecipato a corsi e seminari.
L’esperienza ed attività di Nevè shalom/Wahat as-salam si sono estese negli anni ad altre aree di conflitto: ad esempio, nell’Irlanda del Nord e in Bosnia.
Al presente la comunità è chiamata ad operare (possiamo immaginare con quali difficoltà) proprio in Kosovo, a Mitròvitza. L’invito è giunto dal sindaco, proprio in conseguenza dell’episodio dei vigili del fuoco presi a sassate. Occorre stabilire, mediante tecniche di contatto già collaudate in Israele, un dialogo fra le due etnie lacerate dal risentimento e dalla paura.
UN INGEGNERE SPECIALE
Nevè shalom/Wahat as-salam è l’ultima e più nota realizzazione di padre Bruno. Oggi la comunità è avviata ad una crescita notevole. Lo scopo è di raggiungere i 160 nuclei familiari e le candidature di ebrei ed arabi non mancano.
Di recente nubi minacciose hanno oscurato l’orizzonte del villaggio: da un lato, i monaci di Latrùn avevano ricevuto disposizioni superiori di alienare una parte dei terreni dell’abbazia, compresi quelli affittati a Nevè shalom/Wahat as-salam; dall’altro, si stava attuando il progetto di costruire nelle immediate vicinanze due grandi insediamenti ebraici, che avrebbero alterato (se non demolito) la peculiarità della comunità.
La Provvidenza, per intercessione del «fratello Bruno», sulla cui assistenza i membri della comunità non hanno dubbi, ha fatto sì che le cose andassero diversamente. L’abbazia ha donato al villaggio buona parte dei terreni che occupa e… i progetti d’insediamento sono tramontati.
Nel corso della sua vita in Israele, padre Bruno ha portato avanti, per quasi mezzo secolo, la vocazione di costruttore di ponti fra le religioni, le culture e i cuori. «Sono ingegnere – diceva – e come tale ho imparato a costruire ponti. Ora sono chiamato a lanciare ponti fra gli uomini».
Durante il Concilio ecumenico Vaticano II, aveva promosso il dialogo fra cristiani ed ebrei e l’abbattimento del muro millenario costituito dalla «teologia del disprezzo», mentre alle Nazioni Unite aveva difeso i diritti del popolo d’Israele.
Padre Bruno non ha mai tentato di convertire musulmani o ebrei. Invece, per iniziativa del frate, la comunità giudeo-cristiana in Israele, che con mille difficoltà porta avanti un’ardua convivenza fra il proprio ebraismo e la fede cristiana, conta oggi centri di ritrovo in diverse città del paese, assistenza religiosa, nonché una sua liturgia in ebraico. Sono poche centinaia di fedeli: vivono il loro credo in semiclandestinità.
Ma sono un segno dei tempi nuovi, un seme per la riappropriazione, da parte del popolo ebraico (nel rispetto della propria cultura e religione) della persona e dell’insegnamento di Gesù di Nazaret. E, forse, preludono a qualcosa di più grande, se è nei disegni di Dio.
UN INVITO NEL 2000
Nevè shalom/Wahat as-salam è tutt’altro che un idillio. Le difficoltà fra ebrei, cristiani e musulmani permangono, come pure le tensioni fra le etnie. I ragazzi ebrei sono chiamati alle armi e si sentono impegnati a rispondere alla leva, anche se con dei dubbi. I coetanei arabi, compagni di gioco, studio e lavoro, li vedono allontanarsi con preoccupazione e, da parte loro, subiscono il richiamo dell’appartenenza al loro popolo, diviso fra Israele e territori dell’Autonomia palestinese. Sono tensioni forti, che non si dissolvono da sole, ma vengono risolte giorno per giorno nell’amore reciproco e nel dialogo sincero.
Il piccolo cimitero di Nevè shalom/Wahat as-salam accoglie già due tombe: quella di padre Bruno e di Tom Kitain, 23 anni, un figlio del villaggio, morto in un incidente aereo durante il servizio militare. Per contro, sbocciano nuove vite nelle famiglie arabe ed ebraiche, a mantenere viva la fede e la speranza.
Per il duemila la comunità propone a tutti di salire all’«oasi di pace» per incontrare le «pietre viventi». Lo spirito dell’invito è provocatorio, perché «Gesù di Nazaret non appartiene a nessuno: ebreo nel senso pieno del termine, egli riunisce i cristiani e appare a più riprese nel corano. Il suo messaggio è unico: l’amore fraterno e il servizio dell’altro, la pace fra tutti gli uomini di buona volontà» (Lettera dalla Collina, 15, 1999).
È il richiamo non solo a udire il racconto delle «pietre viventi», ma anche a porsi in ascolto del proprio silenzio, cioè dumìah.
Dumìah (termine ebraico che significa silenzio) è l’unico edificio sacro del villaggio, voluto da Bruno Hussar e dai membri della comunità; è un emisfero bianco, spoglio, modesto di dimensione, punto di preghiera silenziosa e meditazione per ebrei, cristiani, musulmani e agnostici.
Nevè shalom/Wahat as-salam, anomalo kibbùtz nato come utopia e vissuto come miracolo, opera per la pace, che non è solo silenzio di armi, ma fratellanza di cuori, somma di ogni benedizione che solo la parola shalom/salam riesce a contenere: tocca le nazioni, ma parte dallo slancio di tutti, nutrito di profondo silenzio interiore. Dumìah appunto.
1) Haganah: esercito ebraico, formatosi durante il Mandato britannico, precursore dell’odiea Forza di difesa di Israele (IDF).
2) Kibbùtz e moshàv: insediamenti di gruppi israeliani a forma di cornoperativa; nel kibbùtz i beni sono in comune.

Guido Angela




MOZAMBICO – E il mare si è ripreso il sale

Quasi un milione le persone colpite da inondazioni. Piogge torrenziali e dighe aperte nei paesi confinanti le cause del disastro. Ingenti i danni materiali.
Incalcolabile il numero delle vittime. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria.
E c’è il colera. Travolta anche la missione
di Mambone, dove opera padre Marchiol,
la persona più ricercata dai giornalisti italiani durante l’alluvione. Ora che i giornalisti
se ne sono andati, con i senza-tetto
sono rimasti i missionari e volontari.

Un parto sull’albero

Maputo, capitale del Mozambico. La stagione delle piogge arriva puntuale. Ma, quest’anno, si capisce subito che sta succedendo qualcosa di speciale.
Le prime voci arrivano dal Sudafrica. Enormi pianure si stanno allagando; l’acqua sembra decisa a travolgere tutto con una forza inaudita. Di più: i meternorologi preannunciano l’arrivo di un ciclone; e il ciclone arriva.
In Europa nessuno sa ancora che cosa si stia abbattendo sul Mozambico. Da Maputo arrivano i primi messaggi di allarme: sono telefonate, notizie confuse. Si sa che nella capitale quasi tutto è allagato, l’elettricità è andata in tilt per giorni, il traffico è paralizzato e la popolazione cerca di cavarsela come può. Però nessuno si rende ben conto di quello che sta accadendo.
Un pomeriggio incomincia a soffiare un vento impetuoso: le case in muratura sembrano non resistere, i vetri tremano e qualcuno si rompe, si sente il rumore delle piante che vengono sradicate e tutti cominciano ad avere paura. Il vento tremendo del ciclone dura un’intera notte, con pioggia battente. Poi il vento si placa, ma la pioggia non molla neppure per un momento.
Nella capitale si incomincia a vivere con l’acqua ovunque, cercando di fare un primo bilancio dei danni. Ed è solo a questo punto che si inizia a pensare a quello che deve essere accaduto fuori di Maputo, nelle campagne e pianure del paese attraversate dai grandi fiumi Incomati, Limpopo, Save.
È davvero un disastro. I tre grandi corsi d’acqua sono usciti dagli argini e hanno invaso le terre per chilometri. Acqua e fango non hanno risparmiato nulla: hanno travolto capanne, interi villaggi. Mandrie di bestiame e, soprattutto, tantissime persone non ce l’hanno fatta a fuggire. Il ciclone ha sorpreso molti nel sonno e l’acqua si è rovesciata violenta senza lasciare alcun scampo. Ora tutti sanno che si è consumata una tragedia.
Il governo decide di chiedere aiuto alla comunità internazionale. Il primo a rispondere è il vicino Sudafrica: con sette elicotteri i soldati sudafricani sorvolano le zone dell’inondazione e si rendono conto in fretta che li attende un lavoro immenso.
Le pianure attraversate dall’Incomati, dal Limpopo e dal Save non ci sono più. Sotto gli occhi dei militari si estendono enormi paludi: galleggiano avanzi di capanne, carcasse di animali, oggetti di ogni tipo e persino mine, residuo della recente guerra civile.
Su qualche altura, non raggiunta dall’acqua, sono radunati gruppi di persone che chiamano e chiedono aiuto. Alcuni cercano scampo su un tetto, altri tra le fronde di un albero.
Ed è proprio su un albero, in attesa di soccorsi, che nasce una bimba: si chiama Rosita Pedro, è figlia di Sofia, una donna di 23 anni. Rosita, la bimba nata tra le foglie e i rami di una grande pianta, è destinata a diventare un simbolo di speranza nel dramma che la circonda.
«Arrivano i nostri…»
Dalla notte della grande paura sono ormai passate due settimane. Solo adesso il resto del mondo decide di ascoltare il grido di aiuto del Mozambico. Sono trascorsi 15 giorni, durante i quali i più deboli non sono sopravvissuti e molti hanno perso tutto, forse anche la speranza.
Tra mille esitazioni e tentennamenti, alla fine la comunità internazionale decide di scendere in campo per dare una mano alla gente del Mozambico. Però in loco, accanto alla popolazione, erano già all’opera i missionari e pochissime organizzazioni umanitarie, per combattere contro la forza del ciclone.
Dunque, la grande macchina degli aiuti si mette in moto. Arrivano 700 uomini dagli Stati Uniti, elicotteri delle Forze speciali britanniche, aerei cargo e soldati tedeschi, velivoli portoghesi e spagnoli. Ci sono tutti, compresi gli italiani. Gli addetti del Programma mondiale per l’alimentazione, la Croce Rossa e i Medici senza frontiere c’erano già. Ora anche i missionari, che vivono nelle regioni del disastro, si sentono un po’ meno soli.
Gli elicotteri dei soccorsi compiono tui massacranti; volano 10-12 ore al giorno in una disperata lotta contro il tempo, cercando di recuperare le ore e i giorni perduti in precedenza. Per molti piloti e i loro assistenti è il primo impatto con l’Africa. Per qualcuno è uno shock.
Le operazioni sono tutte per mettere in salvo la popolazione. Poi, poco per volta, incomincia la distribuzione di cibo fra i senza casa, raccolti in campi allestiti un po’ ovunque. La gente nel frattempo si raduna sulle terre più alte, quelle meno inondate, e lì le organizzazioni umanitarie attendono alla distribuzione di aiuti.
L’EMERGENZA A MAMBONE
Il ciclone arriva a Mambone violento, senza preavviso, come nel resto del Mozambico. Dopo una notte passata ad ascoltare la furia del vento che sembra voler spazzare via ogni cosa, padre Amadio Marchiol, fratel Pietro Bertoni e le suore pallottine credono che sia tutto finito, che sia tornata la calma. Invece il peggio deve ancora venire.
La mattina seguente, la pioggia continua ad aumentare. Ad un certo punto l’acqua comincia ad invadere tutto: non è più solo pioggia; sono le acque del fiume Save che, rotti gli argini, invadono l’intera pianura.
Sotto la pioggia battente giungono alla missione decine di persone, poi centinaia. Tutti raccontano la stessa storia: l’acqua ha travolto le loro case, i loro animali, le loro cose, tutto. Sono scappati verso le terre più alte, sono arrivati alla missione in cerca di un rifugio, un riparo.
Nel giro di poche ore Mambone si trasforma in un campo di accoglienza. La chiesa diventa dormitorio, dove i missionari della Consolata e le suore pallottine fanno riposare le donne, i vecchi e bambini. Ma non c’è cibo a sufficienza per tutti e, fuori, continua maledettamente a piovere.
Padre Marchiol usa il suo telefono satellitare per lanciare grida di aiuto. Chiama l’Italia, chiama i confratelli a Maputo. Ora le persone da sfamare sono migliaia. Non c’è tempo da perdere. Sopraggiungono a dare una mano preziosa tre missionarie della Consolata: Josenilde, Jane, Salome.
In attesa di aiuti alimentari, le scorte di cibo vengono razionate: un pugno di riso per famiglia, qualche biscotto per i bambini. Le ore passano lente, interminabili. Smettesse almeno di piovere! Trascorrono giorni interi. Finalmente la prima schiarita!
Quando spunta il sole, giungono anche gli elicotteri che trasportano riso, pappe per i neonati e medicinali. È l’indispensabile per superare l’emergenza.
Intanto la gente che ha lasciato i villaggi è sempre alla missione, con padre Marchiol e gli altri missionari, e racconta. Ognuno manifesta la sua immensa paura; qualcuno si interroga sul destino di quelli che ha perso di vista. Altri invece sono travolti dalla tragedia.
C’è una madre che si è vista strappare dalla corrente limacciosa i suoi tre figli. Continua a fissare il vuoto. Nulla è in grado di consolarla. I missionari l’avvicinano, tentano di parlarle; lei sembra non udire, come se la sua mente fosse rimasta altrove.
Ma né padre Amadio, né fratel Pietro, né le missionarie possono fermarsi. Il lavoro da fare è moltissimo. Tanta la gente da aiutare. Ora bisogna ricominciare da zero.
Il ciclone ha cancellato il frutto di anni di lavoro, distruggendo la salina che i missionari avevano costruito e che dava lavoro a una cinquantina di persone. Nei capannoni giacevano 2 mila tonnellate di sale… ora ritornate in mare. E con il sale se n’è andata anche la possibilità di aiutare chi veramente ha bisogno. Per i missionari e la popolazione il sale era diventato la principale fonte di reddito.
Due mesi dopo
Dopo circa due mesi dalla grande alluvione, la strada per raggiungere Mambone è stata riaperta. Ora gli aiuti possono arrivare regolarmente via terra. In quasi tutto il Mozambico sono stati ripristinati i collegamenti principali e la «ricostruzione» è faticosamente cominciata.
Una sola è la vera grande paura dei mozambicani e di chi lavora con loro: finire nel dimenticatornio, scomparire dalle pagine dei giornali. Se questo accadesse, allora il ciclone avrebbe vinto davvero.

(*) Monica Maggioni, giornalista Rai – Tg 1 , ha visitato il Mozambico durante l’alluvione.

C’E’ PURE CHI PESCA NEL TORBIDO

I l 23 febbraio scorso, mentre l’aereo si stava preparando ad atterrare, dai finestrini vedevo intere zone allagate. Era difficile distinguere dove finiva la terraferma e dove incominciava il mare: solo il tetto delle abitazioni e le fronde degli alberi (che sembravano cespugli) mi lasciavano intuire che ero alla periferia di Maputo.
Quello che ho visto dall’aereo era solo una piccola parte della tragedia che ha sconvolto il Mozambico nel febbraio-marzo scorso. Piogge torrenziali e, soprattutto, lo straripamento di fiumi hanno determinato allagamenti di interi villaggi.
Ma le responsabilità del disastro non sono solo atmosferiche; bisogna chiamare in causa anche il Sudafrica e lo Zimbabwe, paesi confinanti, che hanno aperto le dighe dei loro fiumi, le cui acque si sono riversate in massa in Mozambico.
Inoltre sul paese, già colpito dall’inondazione (la più grande negli ultimi 50 anni), si è abbattuto anche il ciclone «Eline», proveniente dall’Oceano Indiano. Così distruzioni si sono aggiunte a distruzioni.

L a principale strada asfaltata «AN 1», che collega Maputo al nord del paese, era allagata e interrotta in più parti. Il Mozambico, geograficamente lungo e stretto, era tagliato in due. I collegamenti si potevano effettuare solo per via aerea.
La cittadina di Xaixai, alla foce del fiume Limpopo, è stata una delle più colpite; nel centro abitato l’acqua in un’ora è salita di 1 metro e, in poco tempo, ha raggiunto il primo piano degli edifici. La cattedrale e la casa del vescovo sono state le prime ad essere allagate.
La gente non ha fatto in tempo a salvare le proprie cose. Già possono dirsi fortunati coloro che sono riusciti a salire sugli alberi e trovare rifugio dalla furia impietosa delle acque limacciose. Tante, purtroppo, le vittime. Sarà difficile conoscere il numero esatto di coloro che hanno perso la vita. Molti resteranno per sempre sepolti nel fango.
Drammatica è anche la situazione nei villaggi lungo il fiume Limpopo.

L’uragano ha travolto anche Mambone, dove lavora padre Amadio Marchiol, missionario della Consolata. È un pioniere. È in Mozambico da 47 anni; neppure il sanguinoso conflitto fra Renamo e Frelimo lo aveva indotto a lasciare il paese. In questo momento di emergenza ha preso in mano la situazione e, con fratel Pietro Bertoni e tre missionarie pallottine, sta prestando i primi aiuti alle popolazioni di Mambone e delle zone limitrofe.
Ogni giorno occorre provvedere ai rifugiati che approdano alla missione in numero crescente. Mentre scrivo sono oltre 7 mila.
Nei dintorni di Mambone un numero imprecisato di persone ha trovato rifugio su alcune isole: si tratta di collinette non raggiunte dall’acqua. Anche qui la gente attende soccorso; finora è sopravvissuta con il poco granoturco che è riuscita a salvare.
La gente, divisa in piccoli gruppi, cucina su bidoni tagliati a metà e trasformati così in pentole capienti. I missionari hanno disinfettato l’acqua con pastiglie di amuchina, scongiurando per ora il pericolo di epidemie.
Da Maputo, intanto, padre Manuel Tavares è in contatto giornaliero con i missionari di Mambone e cerca di inviare aiuti in collaborazione con i confratelli di Beira, la comunità di sant’Egidio e la Caritas.
Da Beira si sta organizzando il trasporto di generi di prima necessità e di medicinali. Ma si incappa nell’apparato burocratico, che è sempre senz’anima e, in questa situazione di emergenza, appare addirittura spietato. Ed è triste… La nave, che sarebbe già dovuta partire da giorni, è ancora ferma nel porto di Beira, e non se ne conosce il motivo.

L’emergenza provocata dall’inondazione non termina solo con il salvataggio di persone e l’invio di aiuti. Infatti non si possono ignorare i danni provocati dalla piena: raccolti agricoli perduti, edifici distrutti o danneggiati, strade interrotte e, soprattutto, uno stato di precarietà per la salute delle persone. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria e lo spettro del colera è alle porte.
A Maputo come a Beira, è difficile reperire fagioli; pare che siano scomparsi dal mercato. Qualcuno sospetta (non a torto) che giacciano in qualche magazzino, in attesa che il loro prezzo salga.
È l’altra faccia della medaglia. Anche nelle tragedie c’è sempre qualcuno che cerca di trarre profitto, pescando nel torbido.
Che dire poi dei sacchi di riso, esposti fuori di un negozio indiano alla periferia di Maputo, con la scritta a caratteri cubitali «dono del popolo italiano al Mozambico»?
Di fronte a questo fatto curioso, qualcuno ha chiesto delle spiegazioni. Ecco la risposta: «È tutto legale. La gente non può vivere solo di riso, ma ha bisogno di una dieta equilibrata e differenziata. Allora è giusto che si sottragga un po’ di riso alla distribuzione».
Una barzelletta, un insulto, un furto?
Caterina Fassio, missionaria laica di Vercelli

Monica Maggioni




Chi farà un passo indietro?

«I paesi ricchi diventano sempre più ricchi e i paesi poveri sempre più poveri…». Questa affermazione del papa Paolo VI, pronunciata molti anni fa (e purtroppo sempre attuale), è stata illustrata con efficacia dalla Fiat attraverso un’immagine fotografica a colori per la campagna pubblicitaria della vettura Palio.
Lo slogan: «La nostra strada è il mondo». La foto: la foresta amazzonica brasiliana ripresa dall’alto: una massa compatta di alberi verdi attraversata da una strada sterrata (la transamazzonica) e, naturalmente in primo piano, la Fiat Palio.
Propongo alcune riflessioni. Questa immagine dell’Amazzonia, tagliata in due dalla strada, è simile alla foto di copertina del libro La tragedia degli indios di padre Bruno Marcon. È un libro denuncia del missionario della Consolata sul genocidio degli indios. Una serie puntigliosa di dati su omicidi e ogni tipo di violenze impunite a danno degli indios e della loro terra, l’Amazzonia appunto.
La strada (oltre le piste d’atterraggio abusive) è il mezzo per portare in quella regione (legalmente i proprietari sono gli indios che l’hanno conservata intatta per millenni) la «civiltà» dei bianchi, cioè i cercatori d’oro e tutti i vari trafficanti… La strada, presentata a noi come gioia e libertà di guida, è per gli indios motivo di pianto.
L’accostamento forzato dell’auto con quella strada sterrata in Amazzonia mi ha colpito e fatto riflettere molto sul contrasto tra i paesi poveri del Sud e i paesi ricchi del Nord. Tra Brasile e Italia.
Come uomo e cristiano mi pongo una domanda: che fare perché i paesi ricchi non diventino sempre più ricchi sulla pelle dei paesi sempre più poveri?
La campagna pubblicitaria dell’auto può essere per tanti una forte provocazione.

In Brasile le utilitarie della Fiat non sono state ritenute idonee alle strade sterrate. Di qui il lancio pubblicitario della Palio, resistente «persino» alla terra rossa e alle intemperie dell’Amazzonia!
Ma che sarebbe del «polmone del mondo» se si meccanizzasse come l’Italia? E se le bici di 1 miliardo e 250 milioni di cinesi fossero in breve tempo sostituite da auto, il collasso ecologico sarebbe immediato. A rimetterci, allora, non saranno solo gli indios, ma anche il ragusano e l’aostano, già affetti da inquinamento.
Per non parlare di problemi morali.
È urgente trovare una fonte di energia pulita, ma altresì compiere un passo indietro nella corsa verso il presunto progresso. Chi alzerà per primo il piede? Chi preme l’acceleratore sulla fuoriserie o chi cavalca l’asino?

Edgardo Fusi




Disastri che interpellano

Cari missionari,
il vostro giornale porta il mondo tra le pareti domestiche. Nel numero di gennaio mi ha colpito moltissimo il servizio sulla città russa di Severodvinsk. Sono stata recentemente in Bielorussia (per conoscere la famiglia del bambino che ogni luglio ospitiamo in casa): quindi sento in modo assai coinvolgente i problemi dell’ex Urss.
Il viaggio mi ha fatto toccare i problemi del popolo e soprattutto dei bambini, che sono quelli più bisognosi di attenzioni: essi saranno gli uomini di domani che goveeranno questo vasto paese, oggi alle prese con freddo, fame e corruzione.
È urgente promuovere la consapevolezza dei disastri umani e ambientali, per smuovere le coscienze intorpidite dal troppo benessere. Altrimenti non sarebbe possibile dirci cristiani.

La lettera si riferisce ad un articolo di E. Knight, nostro collaboratore, che descrive la vita di bambini sordomuti, idrocefali, dementi… vittime della «maledizione nucleare».

C. R.




Forte imbarazzo

Spettabile redazione,
sono un dottore in economia e commercio. Vi chiedo di essere inserito nella vostra «mailing list» per ricevere gratuitamente la rivista Missioni Consolata, fondata nel 1899.
Ho avuto modo di conoscere la vostra pubblicazione leggendone una copia nel santuario della Consolata di Torino, che mi è stata offerta da un responsabile locale. Ho constatato che è molto interessante: per le tematiche trattate, per la loro impostazione e per le ottime illustrazioni fotografiche.
Gradirei continuare a leggere anche i prossimi numeri, perché sono particolarmente interessato ad essere aggiornato sui problemi che saranno affrontati.
Lettera firmata
Isola del Liri (FR)

Cari missionari,
ho riscontrato il lieve aumento della quota di abbonamento alla rivista Missioni Consolata, successivamente al mio versamento sul conto corrente postale. Pertanto allego lire 5.000 in francobolli ad integrazione della quota.
Scusandomi, ringrazio e auguro alla redazione della rivista un santo anno giubilare. Noi, monache romite, stimiamo molto il vostro lavoro e vi ricordiamo nella preghiera.

Siamo in imbarazzo. Non sappiamo se apprezzare di più l’ardimento del dottore in economia e commercio o lo scrupolo delle monache romite.

Lettera Firmata e madre Maria Emanuela




Scouts straordinari

Cari missionari,
noi scouts da oltre un anno ci stiamo occupando dello sfruttamento nel mondo del lavoro e della risposta onesta che il commercio equo e solidale cerca di dare. Abbiamo analizzato il problema con il docente universitario Dinucci, autore di vari libri su questo argomento.
Stiamo costruendo un «sito internet» in cui far confluire informazioni da fonti primarie. Intendiamo interagire anche con i missionari che possono garantire attendibilità e rapidità d’informazione.
Lo scopo è di far conoscere al maggior numero possibile di persone lo sfruttamento e i meccanismi che lo producono, con la complicità della nostra ignoranza. Ci riferiamo al modo in cui producono profitto le multinazionali. Il «sito internet» può essere un mezzo per creare una coscienza critica del consumo.
Pensiamo di portare il problema all’attenzione dell’intera Comunità degli scouts (circa 200 mila persone), e non solo attraverso le nostre pagine internet (altrimenti sterili).
In passato abbiamo tentato di contattare missionari muniti di una connessione ad internet, ma non ci siamo riusciti…

Un «sito internet», per far conoscere lo sfruttamento nel mondo: ecco un aspetto positivo della globalizzazione. Auguri, ragazzi! Su questo numero troverete anche un articolo sulle multinazionali di Francesco Gesualdi, vostro corregionale.

Il clan “fuoco” Lucca 3




Signor direttore, è giusto che…?

Signor direttore,
ci ha colpito la lettera di Guido Guidotti, pubblicata su Missioni Consolata di gennaio, circa la chiesa di Modena. Siamo perplessi della durezza con cui il signor Guidotti (non nuovo a certi interventi) aggredisce la nostra comunità, accusandola di non avere gestito bene l’8 per mille a favore dei poveri nel terzo mondo. Vorrebbe che si desse un miliardo.
Anche Giuda ha detto qualcosa di simile. «Perché tanto spreco di olio profumato? Si poteva venderlo per oltre 300 monete d’argento e poi darle ai poveri!» (Mc 14, 5).
Se è vero che l’albero si riconosce dai frutti, ci pare che la chiesa modenese qualche buon frutto lo abbia dato e continui a darlo nel terzo mondo. Sono centinaia i sacerdoti, i religiosi, le suore e i laici che hanno dato la vita e continuano a darla nelle terre di missione, per la promozione umana e cristiana dei poveri. I loro sacrifici, le rinunce e la passione missionaria non valgono?
I nostri missionari sono in Asia, Africa, America, Australia: dalla dottoressa Luisa Guidotti Mistrali (di cui è stata introdotta la causa di beatificazione) a padre Giuseppe Ricchetti (missionario della Consolata e nostro amico carissimo), sepolto in Kenya; da padre Ettore Turrini (in Amazzonia da 50 anni) ai sacerdoti che la diocesi sostiene in Brasile; dal villaggio di Ghirlandina (Centrafrica) alle favelas nelle periferie sudamericane; dai bimbi sordomuti di São Paulo alle bambine di rua delle metropoli, ai lebbrosi dell’Africa, ai profughi del Kosovo… C’è forse una sola «qualità» di poveri di cui la diocesi modenese non si faccia carico?
Quanti sono i giovani che offrono mesi e anni della loro vita con i missionari? Quanto denaro le parrocchie, i gruppi e le singole persone destinano per interventi a sostegno dei missionari?
Signor direttore, le sembra proprio vero che le nostre «belle chiese» affondino nel sangue dei poveri?
Sappiamo che la povertà non è eliminabile. «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12, 8); ma sappiamo pure che saremo giudicati sulla misura con cui ce li siamo presi a cuore (cfr. Mt 25, 40).
A proposito dell’omilia domenicale: una predica non è mai uguale all’altra, come la lettura di una pagina di vangelo non è mai «uguale» alla precedente o successiva.
«Lasciarsi sedurre da Gesù» può avere vari significati. Sta a noi cogliere quello che più si adatta al bisogno di conversione che abbiamo in quel momento.

In Alberto e compagni ci sembra di cogliere un garbato rimprovero per aver pubblicato la lettera del signor Guidotti. Noi pubblichiamo tutte le reazioni dei lettori (anche quelle anonime), perché crediamo nel confronto. La verità si raggiunge con l’apporto di tutti, nessuno escluso.

Alberto, Davide etc.




Letterine o letterone?

Spettabile redazione,
sono molto vicina ai missionari della Consolata, soprattutto perché padre Lino Gallina è figlio di un mio cugino (e non solo per questo): infatti Lino dal 1948 al 1952 è stato mio aiutante in negozio. Per me e mio marito era un figlio. Veniva a Onigo il lunedì e ritornava a casa sua, a San Caerano, il sabato… Poi Lino si è fatto missionario.
Forse questa può sembrare una letterina inutile. Ma io sono orgogliosa di padre Lino.
Rosalia Gallina Gobbato
Onigo (TV)

Cari amici,
complimenti a tutta la redazione e ai collaboratori di Missioni Consolata, mensile che apprezzo tantissimo.
Siete riusciti a prepararmi al terzo millennio affrontando argomenti complessi, ma scritti in modo semplice ed esauriente. Soprattutto avete calato il giubileo nella vita di tutti i giorni. Grazie.

Certe letterine per noi sono «letterone», non tanto per l’apprezzamento nei nostri confronti, ma per la passione missionaria che esprimono.

Rosalia Gallina e Emma




Il bacio della vergogna

Domenica, 19 marzo, nella chiesa di Sporminore (Trento). Celebra la messa padre Giacinto Franzoi. All’omilia il missionario della Consolata, nativo del paese, esordisce con il classico «cari fratelli». Le sue labbra abbozzano un sorriso: atteggiamento un po’ insolito sul volto tacituo di Giacinto. Però questa è la messa del «grazie», dell’«arrivederci», prima di ripartire per la Colombia.
Dopo il «cari fratelli», il sorriso scompare. «Ritoo in Colombia amareggiato – continua il missionario -. Ovviamente non ne siete voi la causa, né il mio ginocchio o il braccio… che fanno le bizze. Parto con l’amaro in bocca, perché d’ora in poi… i cioccolatini non mi piaceranno più!».
Padre Franzoi parla proprio di «gianduiotti», di «baci». Non saranno più come prima, a base di cacao. Lo ha decretato il Parlamento europeo, su proposta di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca.

Il 15 marzo la maggioranza del Parlamento europeo, dando il via ad un cioccolato diverso, ha anteposto gli interessi delle multinazionali a quelli dei paesi del sud del mondo, dei consumatori, degli ambientalisti. È passata la direttiva che, nella fabbricazione del cioccolato, consente l’impiego fino al 5% di grassi vegetali (olio di palma, cocco, karitè, mango, ecc.) in sostituzione del burro di cacao.
La decisione comporterà gravi conseguenze per i paesi che, sull’esportazione del cacao, fondano le loro economie: in particolare la Costa d’Avorio, primo produttore al mondo con circa 700 mila tonnellate all’anno, senza scordare Nigeria, Ghana, Camerun, ecc.
A Strasburgo è stato addirittura approvato l’uso di «sostanze geneticamente modificate» (OGM*). Dulcis in fundo (è il caso di dirlo trattandosi di cioccolato), le informazioni sui grassi vegetali e su quelli geneticamente modificati non appariranno in modo chiaro sull’etichetta del prodotto. I consumatori dovranno andare a leggersi la lista degli ingredienti: questa, oltre ad essere di difficile comprensione, è visibile solo con una lente d’ingrandimento.
«Ai miei contadini di Remolino – commenta padre Giacinto – spesso hanno rinfacciato la coltivazione di coca, che in 24 ore diventa cocaina. Si è loro detto: “Perché, invece di coca, non coltivate cacao?”. Alcuni l’hanno fatto, sia pure con difficoltà, giacché il cacao rende solo dopo tre anni: e, nel frattempo, bisogna vivere. Ma ora chi comprerà il loro cacao?».
In chiesa tutti fissano il compaesano. C’è chi annuisce. Altri, del problema sollevato, ricordano solo la protesta degli artigiani cioccolatai.
«Durante questa vacanza in Italia, in ospedale, ho sentito dire che i paesi poveri devono produrre di più, per esportare di più. I campesinos di Remolino potevano puntare su qualche tonnellata di cacao. E adesso?
In ambulatorio, mentre mi massaggiavano la gamba e il braccio, ho sentito parlare anche di condono del debito estero dei paesi poveri.
Cari fratelli, che dire se quello che ti danno con la destra te lo ritirano con la sinistra?».
Francesco Beardi

(*) Lo scorso 12 aprile il Parlamento europeo ha respinto quasi tutti gli emendamenti contro gli OGM…

Francesco Beardi