Trentotto minuti, predica inclusa

Fra le messe africane (che si protraggono anche per due ore)e quelle italiane (che non devono superare i quaranta minuti, omilia compresa)
esiste una via di mezzo?
Ma, più che al tempo, bisogna mirare alla qualità,
specialmente da parte del sacerdote.
Per celebrare e far festa.

Di ritorno dal Kenya,
una domenica celebro la messa nella chiesa di un mio amico parroco. Al termine, il sacerdote mi invita per un caffè. «Bene, bene. Vedo che non hai dimenticato l’italiano e che sei abbastanza sbrigativo» mi dice.
È un complimento. Ma per me è più amaro del caffè in cui ho dimenticato di mettere lo zucchero.
In Italia mi mancano molto le liturgie africane, così piene di vita, dove il tempo non conta. Invece, nel nostro «stivale», prova a superare i 10 minuti di predica e vedrai subito la gente guardare l’orologio con impazienza. Già, in Italia il tempo è denaro! Anche se abbondano le chiacchiere televisive, giornalistiche, salottiere…
Durante la messa si intonano quei tre-quattro canti che tutti conoscono (o quasi), ma si cantano solo poche strofe. Alla fine ci sono gli avvisi del parroco, la benedizione… E, mentre ci si avvia in sacrestia, si controlla l’orologio: 38 minuti e mezzo. Così va bene. Guai a sgarrare!
Un’altra domenica il parroco non c’è. Dopo la comunione, mi permetto un momento, brevissimo, di silenzio. In sacrestia il chierichetto (mio nipote) mi chiede se mi sia addormentato…
Oggi si parla molto di «religioso» come elemento strutturale dell’uomo. Di fronte al disorientamento provocato dalla società dei consumi, si auspica un ritorno al sacro. È vera fede? O un semplice desiderio di tranquillità psicologica, distensione? In tale contesto le sètte mietono numerosi proseliti.
L’africano ha insito il senso sacro della celebrazione e della festa. Per lui celebrare significa festeggiare.

Prima del Concilio
ecumenico Vaticano II, in chiesa esisteva una separazione tra il sacerdote e il popolo. Si celebrava l’eucaristia in una lingua morta (il latino), con la preghiera più significativa (il canone) in silenzio, voltando le spalle alla comunità. Sui banchi si contavano molte donne con la corona del rosario in mano. Oggi, però, tutto questo è solo un ricordo dei cinquantenni.
Ma la presente messa, in Italia, è davvero quella voluta dalla riforma liturgica del Concilio? Ne dubito. E rimpiango le celebrazioni nella mia parrocchia in Kenya.
Nella pasqua Gesù Cristo ha realizzato la nostra salvezza. Celebrare e festeggiare l’eucaristia è attualizzae il mistero. Parola, rito, canto, danza, silenzio: tutto ha valore.

Quando ero bambino,
la domenica era una festa anche esteamente. Per la messa si indossavano le scarpe e i vestiti migliori, non quelli di tutti i giorni. Una volta a casa, bisognava cambiarli subito per non sciuparli. È quanto sta avvenendo oggi in Africa. La domenica è festa e la gente (soprattutto la più povera) viene in chiesa con gli abiti migliori. Non sono «firmati», ma i colori sono sgargianti.
Spesso mi chiedo come riescano i giovani e le ragazze del Kenya a conservare così bene i loro vestiti in abitazioni di fango, senza armadi, e come facciano a salvaguardarli dalle capre, che sono così di casa…
Penso pure ai gruppi neocatecumenali. Dopo numerosi incontri di formazione, ecco finalmente la domenica con la messa. I nuovi membri del gruppo sono invitati a vestirsi bene, quel giorno, per partecipare ad «un avvenimento molto importante». È celebrazione, festa.
Le comunità africane
sono giovani, piene di vita e giorniose, anche se soverchiate da enormi problemi. Amano far festa. I canti, le danze e i tamburi esprimono anche fede.
Le comunità italiane, invece, mi sembrano talora vecchie e stanche; forse hanno perso la gioia di vivere, di celebrare, di cantare.
Ricordo le animate discussioni, in Kenya, con qualche maestro di canto. Era difficile fargli capire che, alla domenica, non era sempre necessario cantare tutto il… cantabile! Qualche volta il «credo» si poteva anche «recitare». Allora il choirmaster mi «boicottava», anticipando con il canto la mia recitazione. E che sforzo far capire al coro che, di una lode di 20 strofe, se ne possono cantare anche soltanto 15! «Niente affatto! Bisogna cantarle tutte» era la risposta.
È con grande nostalgia che risento le preghiere spontanee dei fedeli da ogni angolo della chiesa: implorano aiuto, guarigione, pioggia. Drammatiche queste ultime, quando sui campi il granoturco e i fagioli ingialliscono anzi tempo per la siccità, e il cielo continua ad essere terso. Mi chiedo spesso come Dio non si commuova a tali suppliche. Forse ha problemi di udito anche Lui?

Oggi sono in Italia,
dove l’eucaristia non deve superare i 40 minuti. «La messa è finita» dice il prete. Mi sembra che qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Dio è servito. Adesso si può vivere tranquilli per un’altra settimana.
E i giovani dove sono? Se non vanno più in chiesa, è tutta e sempre colpa loro? Come possono accettare liturgie così «pallose», senza il senso della festa? Allora la discoteca diventa la loro chiesa. Forse sono proprio i nostri giovani ad apprezzare le liturgie africane, così «gasate»! Dimenticando l’orologio.
Quanto a me, spero di non abituarmi ai 38 minuti e mezzo di messa. Cercherò di spiegarlo anche al parroco, mio amico. Se mi riesce. E lui capirà?

Adamo Nostalgia




Un po’ di dinamite e tanta pace

Un autodidatta che parlava svedese, russo, francese, inglese e tedesco.
Chimico, industriale, scienziato.
E inventore della dinamite.
«La mia casa è il lavoro e il lavoro è dappertutto» diceva. Ricco ma non felice, destinò 300 miliardi
di lire al bene dell’umanità.

Il personaggio

Poche personalità svedesi sono conosciute nel mondo come lui, almeno per quanto concee il nome. Il grande pubblico, forse, non conosce la sua storia in dettaglio; ma sa del premio… Nobel.
Stiamo parlando proprio di Alfred Behard Nobel, chimico, industriale e scienziato svedese, nato a Stoccolma il 21 ottobre 1833. La sua famiglia discendeva da agricoltori della Scania, una regione all’estremo sud della Svezia. Il cognome originario era Nobelius, successivamente abbreviato in Nobel.
Ultimo di tre figli, Alfred era di vivace intelligenza fin da bambino. Ma non frequentò mai regolarmente la scuola, costretto a seguire il padre prima in Russia (dove il genitore aveva alcune aziende meccaniche) e poi viaggiando in Inghilterra, Francia, America.
Autodidatta, a 20 anni era già un buon chimico e parlava correntemente svedese, francese, inglese, tedesco e russo. Amante della solitudine (sovente spariva per lunghi periodi e nessuno sapeva dove fosse), era un sognatore introspettivo.
Professionalmente Alfred crebbe all’ombra del padre fino alla sua prima e importante scoperta nel 1862, quando brevettò un detonatore a percussione, che utilizzò nella fabbrica di nitroglicerina a Heleneborg presso Stoccolma.
Era cortese, soprattutto con la baronessa Bertha von Suttner (la prima donna ad essere insignita del premio Nobel per la pace nel 1905), che così lo descrisse: «Aveva 43 anni, piuttosto basso di statura, la barba nera; i lineamenti non erano né belli né brutti; il tono della voce era malinconico e il volto triste, però illuminato da occhi azzurri che esprimevano un’infinita bontà d’animo». Con Bertha Alfred ebbe un legame tormentato: durò circa 20 anni, trascorsi spesso lontani l’uno dall’altra.
Con il passare del tempo, Alfred si incupì. Rigettò ogni ostentazione. Ebbe pochi onori pubblici, anche perché non li cercava. «So di non aver meritato la celebrità – dichiarò – e non ho alcun amore per il chiasso. In questi tempi di rumorosa e sfrontata pubblicità, solo chi ha particolari tendenze per queste cose deve permettere ai giornali di riportare le proprie dichiarazioni o di pubblicare la sua foto».
Non si fece mai ritrarre. Di lui esiste un solo quadro, eseguito dopo la morte.
Nobel, però, fu molto generoso, aiutò gli altri in maniera consistente e fu religioso a modo suo. «Circa le mie idee religiose – disse -, ammetto che escano dalle vie comunemente battute. Proprio perché questi problemi sono infinitamente superiori a noi, rifiuto di accettare le soluzioni proposte dall’intelligenza umana. Sapere che cosa dobbiamo credere mi pare impossibile come la quadratura del cerchio».
Nonostante le notevoli qualità (era colto, profondo, spirituale e ricco), Alfred Nobel non fu mai felice e non ebbe molto successo nelle relazioni umane. Per esempio, non si formò una famiglia. «La mia casa – diceva – è il lavoro, e il lavoro è dappertutto».
attività e invenzioni
A 31 anni Alfred si trovò solo a dover fronteggiare ogni difficoltà, dopo l’ennesimo fallimento economico del padre. Inoltre la fabbrica di nitroglicerina era saltata in aria, uccidendo il fratello Emil e alcuni lavoratori.
Pur nel dolore, Alfred non si scoraggiò e quasi subito organizzò una Compagnia svedese per la fabbricazione di una glicerina meno pericolosa, facendola brevettare in tutta Europa. Si trattava di un miscuglio di glicerina ed estere trinitrico, inventato nel 1847 da Ascanio Sobrero: un modesto medico piemontese che, a Torino, insegnava chimica alla Scuola di meccanica e chimica applicata alle arti. Nobel rese più stabile la nitroglicerina mescolandola con materiale neutro.
Ottenne così nel 1867 la dinamite: tale prodotto avrebbe rivoluzionato il lavoro in miniera, la costruzione di strade e gallerie. Alcuni anni dopo, realizzò la «polvere pirica Nobel», che costituì la base di partenza per altre scoperte. Cominciarono esperienze e studi che portarono lo svedese a brevettare oltre 300 invenzioni, fruttandogli una immensa fortuna. In pochi anni divenne ricchissimo.
Più armi… più pace?
Allorché Bertha von Suttner (ispiratrice del premio Nobel per la pace) tentò di convincere Alfred a partecipare a un convegno sulla pace, questi rispose: «Le mie fabbriche possono mettere fine alle guerre più rapidamente dei vostri incontri. Il giorno in cui gli eserciti si annienteranno reciprocamente in un secondo, tutte le nazioni (dobbiamo almeno sperarlo) eviteranno la guerra e smobiliteranno i loro arsenali. Più le armi saranno apocalittiche, più gli uomini eviteranno la guerra. Forse il modo per scongiurarla è di costringere tutti i paesi a punire severamente chi pone fine alla pace e dichiara guerra».
Questa dichiarazione del dicembre 1895 (un anno prima della morte) racchiude l’ideale di Nobel: non distruggere il genere umano; eliminare le ingiustizie, ereditate da epoche di oscurantismo; favorire lo sviluppo e la scienza per vincere la battaglia contro tutti i mali fisici che affliggono l’uomo.
E fu proprio per vincere questa battaglia che Alfred Nobel decise di destinare la maggior parte delle sue fortune «a un fondo i cui interessi si distribuiranno ogni anno come premio a coloro che, durante l’anno precedente, abbiano maggiormente contribuito al benessere dell’umanità…».
«Una parte del premio andrà a chi abbia fatto l’invenzione più importante o recato il più grosso contributo nella chimica; un’altra parte alla persona con la maggiore scoperta nel campo della fisiologia o della medicina; una parte ancora a chi, nella letteratura, abbia scritto l’opera ideale più notevole; una parte, infine, all’individuo che più si sia prodigato o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della frateità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti».
È la parte finale del testamento che Alfred Nobel redasse a Parigi nell’agosto 1896, qualche mese prima di trasferirsi a Sanremo, dove morì il 10 dicembre in grande solitudine.
La «Fondazione Nobel»
Dopo la morte di Alfred Nobel, venne formato un Organo che avviasse le procedure per il riconoscimento del testamento (solo 300 parole), soprattutto per l’uso migliore del patrimonio lasciato: 31 milioni di corone svedesi, pari a circa 300 miliardi di lire italiane attuali.
Poiché Nobel aveva previsto dei premi inteazionali (senza tuttavia precisare competenze e criteri di scelta), il 29 giugno 1900 (dopo quattro anni di battaglie legali tra eredi e stato) un decreto del Consiglio reale svedese approvò lo statuto della Fondazione Nobel, confermato il 10 aprile 1905 con disposizioni valide tutt’oggi.
Così iniziava l’«avventura» della Fondazione Nobel, cui sono collegate:
– l’Accademia reale svedese delle scienze (275 membri, scelti fra i più prestigiosi centri scientifici del paese): assegna il Nobel per la chimica e fisica;
– l’Assemblea del Karolinska Institutet (150 membri del massimo centro medico della Svezia e uno dei migliori del mondo): nomina i Nobel della fisiologia o medicina;
– l’Accademia di Svezia (con 24 fra i più autorevoli scrittori locali): designa il Nobel della letteratura;
– la Banca di Svezia (con 48 qualificati economisti): sceglie il vincitore del Nobel in economia istituito, a differenza degli altri, nel 1969;
– la Commissione Nobel, formata da cinque parlamentari norvegesi (poiché fino al 1905 Svezia e Norvegia costituivano un unico regno): assegna il premio per la pace.
La consegna dei cinque premi avviene a Stoccolma e a Oslo il 10 dicembre di ogni anno, anniversario della morte di Alfred Nobel. Con ogni probabilità la mondanità della cerimonia fa rivoltare nella tomba l’ideatore di un premio tanto significativo.

Eesto Bodini




Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




Ippocrate a Macate – Medici nella Sierra andina

Guido e Liborio, medici italiani,
Carlo e Sandro, sacerdoti
(anch’essi italiani), e un’umanità dolente
di contadini peruviani. La storia raccontata risale a qualche anno fa (Fujimori era ancora un illustre sconosciuto), ma è quanto mai attuale.

«Affermo con giuramento, per Apollo medico ed Esculapio, per Igea e Panacea e ne siano testimoni tutti gli dei e le dee, che per quanto me lo consentiranno le forze e il mio pensiero, adempirò questo mio dovere (…) senza mai trasgredirlo (…)». Medico sempre: in ogni posto, in ogni paese, in ogni momento.
Sinceramente non avevo mai compreso il vero significato di questo giuramento che unisce i medici di tutto il mondo e di ogni tempo. Quel viaggio a Macate fu per me un momento di svolta. Medico sempre. Per Apollo, Esculapio, Igea e Panacea…
Avevamo conosciuto Carlos a Nana in uno di quei raduni dove è meglio non andare mai. Quando infatti si riunisce un gruppo di italiani all’estero, anche se delle più diverse provenienze, si passa il tempo a cantare insieme e, se si comincia sempre con «Quel mazzolin di fiori», stai sicuro che si termina con Battisti intorno ad un piatto di spaghetti e venerando un pezzo di Parmigiano che qualcuno ha ricevuto dall’immancabile madre.
In quell’occasione, Carlos, prete napoletano e rivoluzionario, poeta e suonatore di sassofono, ci aveva invitato a visitarlo nel suo paesino dell’Ancash, in quella parte del Perù che poeticamente definiva «la Cordillera Negra que mira hacia el mar (la cordigliera nera che guarda verso il mare)».
FINALMENTE IN VACANZA!
Partii assieme a Liborio, amico e collega, con il maggiolino color sabbia, un paio di borse ed una cartina del Perù. Le istruzioni erano semplici: prendere la Panamericana Norte, seguire l’Oceano Pacifico per 500 chilometri fino a Chimbote, proseguire poi fino a Santa dove padre Sandro ci avrebbe ospitato per la notte. Lasciata quindi la strada asfaltata, proseguire lungo il corso del Rio Santa fino al posto di controllo di Sciacsia; di lì, salire la valle di Macate fino al paese a 3.000 metri di altezza sotto il monte Tres Cruces.
Le ore, correndo lungo l’Oceano Pacifico, passavano rapidamente attraverso deserti rossicci, con striature verdi e, in alcuni punti, dune di sabbia che, spinte dal vento, coprivano in parte la striscia d’asfalto.
«Finalmente in vacanza» disse Liborio.
«Speriamo che Carlos non se ne approfitti» gli ribattei.
«In che senso?».
«Mi preoccupa il fatto che ci abbia raccomandato di portare lo stetoscopio e qualche medicina».
L’odore tremendo di pesce e le prime baracche ci annunciavano l’arrivo a Chimbote: «Liborio, ricordi quella poesia di Carlos. Come faceva?».
«Olìa a pescado podrido, Chimbote, aquél dìa (1)».
«Che puzza!».
«Sono le fabbriche di farina di pesce».
«Fermiamoci direttamente a Santa, sei d’accordo? Qui io certo non resisterei».
A Santa ci aspettava padre Sandro. Lo trovammo con donne e bambini del locale Club de Madres. Parassitosi, bronchiti ed un paio di casi lievi di denutrizione e poi a dormire, pronti per l’avventura sulle Ande del giorno dopo.
Cachangas con huevos fritos (2) e caffè per colazione la mattina e poi di nuovo sul maggiolino per affrontare i temibili 120 chilometri di strada sterrata. Felici della vacanza alla scoperta delle Ande, alzando nuvole di polvere correvamo immaginando di partecipare a chissà quale rally. Le montagne nude e polverose si andavano stringendo intorno alla valle del Santa, campi di mais si susseguivano a zone pietrose.
D’improvviso, un urlo di Liborio: «Attento alla scaffa!».
«Cosa dici? che è la scaffa?».
Una buca nascosta della strada mi fece capire immediatamente il significato di questa parola proveniente direttamente da Agrigento attraverso l’agitazione di Liborio. Il cerchione ammaccato e la gomma bucata ci aiutarono a riflettere sui nostri rispettivi dialetti. Poco dopo cominciammo a trovare un po’ d’acqua sulla strada: «Speriamo bene – dissi -. Dovremmo essere alla fine della stagione delle piogge».
«Porca miseria – esclamò Liborio -, guarda laggiù! La strada è inondata. Fermati, Guido!».
Mi fermai e spensi il motore. Scendemmo per capire meglio l’entità del problema.
«Saranno 50 metri di strada allagata».
«Forse anche di più – ribattei -. Che facciamo?».
Ci sedemmo sconsolati sul margine della strada, accendendo una sigaretta e guardando la campagna deserta, le montagne intorno, il cielo terso. Silenzio. Solitudine.
«È finita la vacanza».
«Tante ore di macchina per fermarci ai piedi delle Ande».
Intrepido, Liborio si alzò in piedi, si tolse scarpe, calze e pantaloni, spense la sigaretta e disse con tono deciso: «Ci penso io!».
«Bah!» commentai scettico e lo lasciai fare.
Entrò nell’acqua e cominciò a camminare su e giù commentando quello che i piedi gli comunicavano: «Qui c’è troppo fango, sul lato sinistro invece va meglio. Il fondo è ghiaioso, ma l’acqua arriva alla coscia. Se ci mettiamo al centro e poi deviamo a destra… sì, in questo modo, ce la dovremmo fare».
Nel frattempo arrivò un vecchio camion, carico di mercanzie e campesinos, che agevolmente guadò la strada allagata. Lo fermai e chiesi all’autista: «Compare, secondo lei ce la facciamo a passare?».
Questi, con la faccia di uno che si chiede «che ci staranno a fare in questo posto sperduto due gringos, uno dei quali anche in mutande?», mi rispose: «Si Dios quiere?! (Se Dio vuole)» e se ne andò.
Liborio, intanto, toò indietro, convinto di potercela fare. Me ne convinsi anch’io. Ma, per maggior sicurezza, legammo un sacchetto di plastica intorno allo spinterogeno affinché non si bagnasse.
«D’accordo Liborio, proviamoci. Però guido io» dissi.
«Va bene, ma devi seguire esattamente il percorso che ho disegnato. Io ti seguo a piedi».
Accesi il motore, mi misi in posizione e lentamente entrai in acqua. Qualche metro e sentii la macchina sempre più leggera. Le ruote cominciarono a girare a vuoto. Feci un gestaccio a Liborio, che rapidamente corse dietro la macchina e cominciò a spingere. Feci forza sull’acceleratore per cercare di afferrare il terreno e andare avanti. Incredibilmente la macchina ubbidiva alle sollecitazioni. Il fondo era divenuto pietroso e così l’auto riuscì a prendere velocità e a uscire dal guado. Mi fermai soddisfatto e scesi dal nostro prezioso maggiolino, urlando la mia gioia alla torva maschera di fango di Liborio, piantata in mezzo alla strada allagata: «Hai visto che grande autista!».
Mi rispose qualche cosa di incomprensibile in stretto dialetto siciliano e si mise a correre verso di me. Scoppiai a ridere vedendolo in quello stato. Quando mi raggiunse, mi abbracciò felice come un bambino, insozzandomi di fango. Ci sentivamo due grandi uomini, orgogliosi di aver superato le difficoltà.
«DOCUMENTI, SIGNORI!»
La strada correva incassata tra le scoscese e nude pareti dei contrafforti della Cordillera Negra, mentre il Rio Santa scendeva impetuoso e torbido. Un’ora di questo impressionante e minaccioso ambiente e, finalmente, vedemmo un gruppo di casupole e la sbarra del posto di controllo di Sciacsia.
Sporchi di polvere e fango ma soprattutto affamati, ci fermammo decisi a mangiare e proseguire subito dopo per Macate.
Un poliziotto, con un’aria annoiata più che marziale (comprensibile in un militare costeño all’ora di pranzo in un posto di blocco del profondo Perù), ci bloccò: «Documentos, señores!» disse, continuando a masticare uno stuzzicadenti.
Tirammo fuori i passaporti e, consegnandoli, chiedemmo: «Dove possiamo mangiare, señor?».
«Ah! Italianos!» esclamò con aria furba e di uomo di mondo.
«Spaghetti, Paolo Rossi, Ferrari! Come sta il papa?» e rise di gusto, mostrando gli incisivi cerchiati d’argento.
«Dove dovete andare?» aggiunse serio.
«A Macate, a visitare el padrecito Carlos. Es nuestro amigo» gli rispondemmo timidamente.
«Siete i medici di Lima allora. Vi stavamo aspettando».
«Potenza della Cia» mi suggerì all’orecchio Liborio.
«Potete mangiare al Serrano, è il miglior ristorante di Sciacsia. Per i passaporti nessun problema, ve li restituisco dopo pranzo».
«Medici, dunque – aggiunse con aria soddisfatta -. Medici amici del padrecito Carlos, bene».
Ci guardammo con aria preoccupata, sentendoci un po’ nudi senza i passaporti. Scendemmo dalla macchina e cercammo El Serrano. Il sole scottava nell’aria tersa. Ormai eravamo all’ingresso del mitico, profondo Perù.
«El Serrano» era un bugigattolo posto proprio all’altezza della sbarra, che chiudeva la strada. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolo. La stanza era illuminata dai raggi di sole che penetravano fra le sconnessioni del tetto in eternit.
«Buenos dias señora, que hay para comer? (Buon giorno signora, che c’è da mangiare?)».
«Seco de cabrito con su arroz (3)».
«Ci porti anche due Coca-Cola».
«No hay, senor, tenemos solo Inca Cola (Non ce ne sono, signore. Abbiamo soltanto Inca Cola – 4)».
Ci portò i due piatti di riso con pezzi di carne. Il sapore predominante era quello del culantro, una piantina simile al prezzemolo con un forte aroma che è impossibile descrivere e dimenticare. Per conoscere il vero Perù bisogna imparare ad amare il sapore di questa terribile erba, così come è necessario godere al mangiare un buon piatto di ceviche, apprezzare il rocoto e riuscire a commuoversi pestando i piedi al suono di un huayno. L’unica cosa che mai sono riuscito a fare è quella di sopportare il gusto del culantro. Ma la fame era tanta.
Finito il pranzo, pagammo e uscimmo alla ricerca del nostro agente della Cia, che infatti ci stava aspettando.
«Gracias -, disse Liborio -. Partiamo subito» e allungò fiducioso la mano per raccogliere i passaporti. Ma il poliziotto non lo accontentò: «Dovete seguirmi un attimo. Non preoccupatevi».
Lo seguimmo superando una fila di gente in attesa davanti alla porta del posto di polizia. Nel locale c’erano due sedie, un tavolino e una panca. E, sul muro, la foto del presidente Garcia (il predecessore di Fujimori, ndr) con il suo smagliante sorriso.
«Señores doctores – ci disse con voce ufficiale -, prima di partire dovreste visitare un paio di pazienti. Sono mesi che non viene il medico da Chimbote».
Liborio ed io tirammo un sospiro di sollievo e, osservando i passaporti nella mano del poliziotto, ci dicemmo orgogliosi di partecipare a questa meritoria azione in favore della popolazione di Sciacsia.
Soddisfatto del nostro discorso, il poliziotto fece entrare la prima persona della lunga fila in attesa all’esterno. Il «paio di pazienti» era in realtà l’intera popolazione di questo, per nostra fortuna, piccolo agglomerato di case, sorto intorno al posto di blocco. I tanti pazienti visitati a Villa El Salvador ci permettevano ormai di individuare con facilità le piccole e grandi patologie della vita di tutti i giorni.
Avevamo con noi della piperazina e del mebendazolo per le parassitosi più comuni, un po’ di antibiotici di base, aspirine e per fortuna un grosso barattolo di un complesso vitaminico nordamericano. Lo stetoscopio e lo sfigmomanometro, insieme ad aghi e fili, completavano la nostra riserva di medici in «vacanza».
Seduti fianco a fianco, con il nostro armamentario poggiato sul tavolino, i capelli bianchi di polvere, il viso di Liborio ancora sporco di fango, il sapore del culantro in bocca e il giuramento di Ippocrate in testa… imparammo in questa occasione le basi della medicina comunitaria e preventiva sotto lo sguardo vigile e felice del nostro amico poliziotto. I confetti di vitamine, dono del popolo nordamericano ai paesi del Terzo mondo, più che la nostra scienza, ci permisero poi di recuperare i passaporti e di ripartire per Macate.
Dovevamo a questo punto lasciare la valle del Santa per imboccare quella di Macate. L’avventura continuava.
IL BRACCIO DI JUAN
«Certo che le indicazioni di Carlos sono precise» mi disse Liborio messosi alla guida del portentoso maggiolino.
«Sì – risposi -, ma la distanza doveva darcela in “pazienti” più che in chilometri».
Una serie di ripidi tornanti si snodava davanti a noi. La strada si era ridotta a poco più della larghezza dell’auto, mentre la montagna continuava ad apparire pietrosa e polverosa e la polvere ad alzarsi ed a depositarsi sui nostri capelli. La valle del Santa scompariva alla nostra vista, così come ci abbandonava il frastuono del fiume e delle sue acque torbide per la stagione delle piogge ormai al termine.
La prima terrazza della ripida valle improvvisamente ci comparve davanti. Lasciato ormai come un lontano ricordo il deserto, dopo una serie di grandi cactus posti quasi a guardia della valle, con stupore incominciammo ad attraversare piantagioni di banane, boschivi di avogados e giardini di aranci.
«Questo è il Perù, queste sono le sue contraddizioni; il deserto e l’eden, la povertà e la ricchezza, la violenza e l’allegria. Non esistono le vie di mezzo. Il Tres Cruces coperto di neve davanti a noi, il deserto alle spalle, l’ambiente tropicale nel quale siamo immersi e …».
«Aspetta, un paio di chilometri ancora e usciamo dal tropico!».
Liborio continuava a guidare e a sopportare i miei tentativi di capire il mondo.
«Guarda, Macate!».
«Dove? Vedo solo montagne».
«Segui con lo sguardo la strada; c’è un’altra terrazza in alto da dove spuntano degli eucalipti».
La strada si arrampicava abbarbicata alla parete della montagna. Il burrone sotto di noi si faceva sempre più impressionante e un canale, di origine certamente incaica, trasportava l’acqua da chissà dove seguendo le anfrattuosità della parete di roccia. Anche il tropico si era fatto ricordo.
«Ci siamo, dopo quella curva».
«Campi di mais, il grano ancora verde, prati, mucche, pecore, boschi di eucalipto ed il paese».
«Sembra di essere sulle Alpi!».
Ma un campesino con il suo poncho ci riportò al nostro Perù. Era solo un’altra faccia di questo paese e di questo popolo; forse la più bella e nello stesso tempo la più disperata: la Sierra.
Era l’imbrunire in quel punto della Cordillera Negra «que mira hacia el mar». Era sera a Macate e Carlos ci aspettava in piazza. Andammo subito in canonica.
La luce del Petromax argentino sostituiva egregiamente quella elettrica non ancora arrivata in questa vallata…
«Padre Carlos, apra, presto».
I colpi alla porta parevano sfondarla.
«Padre Carlos, il toro di Juan!».
«Che cosa succede, José!» urlò Carlos aprendo la porta.
«Il toro di Juan Yupanqui lo ha incornato!».
«Andiamo».
La voce imperiosa di Carlos non ci permise di tentennare. Afferrammo la borsa ed il Petromax e lo seguimmo fino all’infermeria del paese.
«Virgencita, San Martincito, Senor de los Milagros. Toro maldito, mi brazo! (Maledetto toro, il mio braccio!)».
«Se urla non è poi così grave» ci consolò Carlos. Entrammo accompagnati da José, infermiere responsabile di tutta la vallata, e trovammo il nostro Juan Yupanqui con il braccio avvolto da stracci insanguinati. Mentre José preparava gli attrezzi del mestiere, noi cominciammo a mettere in luce la ferita, che per fortuna appariva abbastanza superficiale.
Liborio era il nostro chirurgo provetto e sua fu l’opera. L’ago ricurvo ricostruiva rapidamente sotto l’attento sguardo degli altri. Ci trovavamo, un’altra volta (e sempre senza cercarcelo), a compiere quel giuramento di Ippocrate che già tanto tempo ci aveva fatto perdere nei due giorni di viaggio.
La nostra fama nei giorni seguenti si sparse per tutta la vallata. I formaggi freschi, le uova di giornata e perfino una mezza gallina ci riempirono la tavola a testimonianza che il braccio di Juan Yupanqui migliorava e che i nostri pazienti aumentavano. In questo angolo del Perù il primo medico era a 10 ore di camion e José era l’autorità sanitaria della zona.
Per la prima volta incontrammo anche un paio di casi di uta, la lebbra delle Ande.

E PER AMBULATORIO IL MONDO

Che lavoro incredibile quello del medico! Forse è l’unica professione che puoi applicare in qualunque punto del mondo. La gente ha, in fondo, gli stessi bisogni a Macate o a Venezia. Se poi muore di colera, è solo un problema di ingiustizia. E se, qui in Italia, non mi è mai capitato di ricordarmi di Ippocrate è forse perché oramai abita a Macate.
Se volete conoscerlo anche voi, prendete la Panamericana Norte da Lima fino a Chimbote, infilate la valle del Santa, mangiate al Serrano di Sciacsia e poi su fino ai piedi del Tres Cruces. E, mi raccomando, non dimenticate lo stetoscopio.

HO IMPARATO A STIMARE LA GENTE

Cara redazione,
mi è arrivata una copia di Missioni Consolata e, leggendola, mi sono tornati alla mente gli anni passati a Villa El Salvador in Perù. Capire i paesi del Terzo mondo e la loro situazione economica, politica e sanitaria è estremamente complesso, ma ancora più complesso è spiegarla e trasmetterla agli altri.
I miei 5 anni di lavoro come medico in Perù (dal 1984 al 1989) e la costante relazione che tengo con quel paese non mi hanno aiutato molto a capire come poter aiutare i miei amici di laggiù ad uscire da situazioni che da qui non possiamo neanche immaginare.
Ho visto, certo, tanta sofferenza e disperazione, tanti giovani morire di tubercolosi e bambini di denutrizione, gente vendere la propria casa per curarsi, madri piangere per non riuscire ad alimentare i propri figli. Ho visto tutto questo, ma ho anche visto la speranza, la voglia di uscire da un tunnel infinito, la capacità di spendersi per gli altri. Sono stato testimone dell’infinita pazienza e capacità di tanti medici ed infermieri peruviani sottopagati e senza tanti strumenti. Ho visto le «promotoras de salud» lavorare in silenzio per aiutare le famiglie in difficoltà, «parteras» aiutare a far nascere tanti bambini, e poi tanta e tanta solidarietà. Per quanto mi riguarda, ho specialmente imparato a stimare la gente.
Non so se posso essere d’aiuto alla rivista. Provo, però, ad inviarvi un racconto che tempo fa ho scritto e che riporta fatti reali. Rileggendolo mi commuove l’entusiasmo e l’incoscienza di noi giovani medici volontari nel Perù di più di dieci anni fa. Noi in questi anni probabilmente siamo cambiati molto, più del Perù che, come sapete, è in condizioni forse ancora più critiche di quegli anni.
Le persone che nomino sono reali ed in particolare:
– Liborio Ragusa, medico, lavora attualmente a Bergamo,
– Carlo (Carlos) Iadicicco, sacerdote diocesano, è ancora in Perù,
– Sandro, sacerdote, è stato ucciso da Sendero Luminoso a Santa, vicino a Chimbote, nel 1991 se non ricordo male.
Un abbraccio.
Guido Sattin

«AMIGOS DE VILLA»

È una rivista inviata attraverso la posta elettronica. Arriva in 25 paesi. È nata come strumento di collegamento tra tutti coloro che conoscono Villa El Salvador, ma parla di tutto il Perù, soprattutto dei suoi problemi sociali e politici. Ad essa contribuiscono politici ed economisti peruviani, semplici cittadini e chiunque abbia qualcosa da comunicare sul paese andino, ancora schiacciato dalla dittatura fujimorista.
Guido Sattin, che a Villa ha lavorato 5 anni, ne è il responsabile. Chiunque desideri ricevere «Amigos de Villa» può rivolgersi a questo indirizzo di posta elettronica: gusatti@tin.it. Sono ben accetti anche contributi scritti, possibilmente già in lingua spagnola.
Pa.Mo.
Indirizzo della pagina Web:
http://helios.unive.it/~sattin/amigos.htm

Guido Sattin




MOZAMBICO – Chi la dura la vince

Il 30 ottobre 1925 i primi missionari
della Consolata sbarcarono
in Mozambico.
Seguirono anni caratterizzati da eroismi e conflitti
di vario genere.
Una storia da non dimenticare, anche perché la sfida raccolta (o lanciata) tanti anni fa non è finita.

L’ iniziativa di estendere al Mozambico il campo di evangelizzazione dei missionari della Consolata partì dall’allora superiore generale mons. Filippo Perlo. In una vecchia cartina geografica della colonia portoghese, conservata nell’archivio dell’istituto, si possono vedere i cerchietti da lui tracciati per indicare i posti delle missioni da erigere nella regione del Niassa, in cui nessun missionario cattolico aveva ancora messo piede.
Sondata la curia romana, mons. Perlo incaricò suo fratello Luigi, responsabile della procura di Nairobi, di negoziare tale progetto con mons. Rafael de Assunção, prelato di tutto il Mozambico. Nell’incontro avvenuto il 6 aprile 1925 a Lourenço Marques (oggi Maputo), il vescovo offrì la missione di Miruru nell’alta Zambezia.
Non era il campo adocchiato da Torino. «Prendere o lasciare» diceva mons. Rafael. Il superiore generale accettò l’offerta, in attesa del momento propizio per mandare i suoi missionari anche nel Niassa. Nel frattempo chiese a Propaganda fide il permesso d’inviare un primo drappello di missionari in Mozambico. Il cardinale Van Rossum, prefetto del dicastero missionario, non si oppose alla nuova apertura, «purché le missioni affidate da Propaganda a cotesto Istituto non ne abbiano a soffrire nella loro cura e sviluppo».
COMINCIA L’AVVENTURA
Il 30 di ottobre 1925, provenienti da Torino, sbarcano a Beira due giovani missionari, i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello, e il diacono Secondo Ghiglia, che così scrive nel suo diario: «È l’alba. La bella cittadina sorride all’orizzonte, indorata dalla brezza marina che l’oceano incessantemente evapora. Dopo la verifica dei passaporti, finalmente possiamo scendere. Entriamo in una chiesa per salutare il Signore e la beata Vergine Maria e ringraziarli dell’ottimo viaggio. La Consolata si degni di benedire i suoi alfieri che per primi toccano questa terra, già percorsa da stuoli eletti di apostoli, e voglia rendere fecondo il nostro apostolato».
Il 14 novembre, provenienti dal Kenya, arrivano altri cinque sperimentati missionari, che completano il gruppo della spedizione: i padri Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto.
Per la mancanza di battelli in servizio sul fiume Zambezi, i missionari devono rimanere a Beira per varie settimane, ospiti dei padri francescani. Ne approfittano per studiare la lingua portoghese, mentre padre Chiomio raccoglie informazioni su strade, tariffe, dogane… Padre Sperta, colpito da febbre reumatica, è ricoverato nell’ospedale e poi, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya.
Il 7 dicembre gli altri sei missionari salgono sul treno e, dopo due giorni di viaggio, raggiungono l’antica missione gesuitica di Chupanga sul fiume Zambezi. Qui dovranno ancora aspettare fino al 28 dicembre prima di imbarcarsi sul battello Zambezi: una grande casa a veranda costruita sopra una chiatta con una ruota motrice. Per la scarsità d’acqua in quel periodo dell’anno, l’imbarcazione procede adagio e con cautela. «Oggi sono le delizie dell’incaglio – scrive il diacono il 30 dicembre -. Delizie che non auguro a nessuno, per quanto vi sia da divertirsi. La ruota mulinava disperatamente; il fuochista cacciava tronchi interi nel foo della caldaia e non si faceva un pollice di strada; e si era sempre lì a guardare le stesse punte degli alberi e l’acqua azzurra fuggire indietro».
Il viaggio si rivela più scomodo del previsto, sia per la difficile navigazione, sia per il caldo torrido. Indifferente a ogni disagio, padre Chiomio prende appunti su tutto quello che guarda e sente. «Fa un caldo da salina in evaporazione – continua il diario il 2 gennaio 1926 -. Non si parla più tanto. Si è a disagio. Si suda terribilmente. Padre Chiomio, invece, l’inseparabile bussola a tracolla, la maiuscola borsa da commesso viaggiatore gonfia di scartafacci, mappe, ritagli di giornali, è instancabile. Carta geografica alla mano, chiede informazioni su strade, luoghi, distanze e scrive tutto su un taccuino, fissando indicazioni e rilievi».
PASSAGGIO DEL «MAR ROSSO»
Il 10 gennaio arrivano a Tete, capitale della Zambezia. Scendono dal battello e si avviano alla parrocchia di s. Tiago per celebrare la messa. Due giorni dopo, partono alla volta di Boroma, ultima tappa prima di raggiungere la lontana missione di Miruru.
Viaggiano a bordo di un camion, che corre all’impazzata. La strada è accidentata e dissestata dalle piogge. «Ci teniamo uno coll’altro per maggiore sicurezza, per non perdere l’equilibrio. L’autista, a ogni svolta o sobbalzo improvviso che mette a scompiglio i passeggeri, chiede con serietà e ironia: “Non manca nessuno?”; e rilancia la vettura a tutto gas. Grazie a Dio non vi sono stati incidenti, ma che acrobatismo!».
A un certo punto, le ruote sprofondano in una pozzanghera. Niente da fare: devono continuare il viaggio a piedi fino alla missione di Boroma, dove i missionari sono obbligati a un mese di riposo forzato per mancanza di portatori. Quando questi arrivano non sono in numero sufficiente. Si decide di frammentare la spedizione in due carovane. Il 4 di febbraio partono per Miruru i padri Sandrone e Chiomio; in seguito padre Borello e chierico Ghiglia; padre Peyrani rimane a Boroma come procuratore, insieme a fratel Benedetto.
Il percorso è lungo; la pista quasi impraticabile a causa delle piogge. «Oggi è il passaggio del mar Rosso, non però a piedi asciutti – scrive il diacono in data 21 febbraio -. La strada è tutta una pozzanghera; a tratti l’acqua arriva al ginocchio. I canneti alti e fittissimi, terribilmente aggrovigliati, c’impediscono di avanzare e ci obbligano a tenere le braccia continuamente impegnate in una ginnastica durissima ed estenuante».
Le due carovane, separate da alcuni giorni, seguono il margine sinistro del fiume Zambezi fino a Cachomba. A questo punto attraversano il fiume in barca e proseguono il viaggio lungo la riva destra. Il terreno comincia a salire leggermente con gibbosità lente e continue. Il suolo è meno sabbioso, ma la foresta sempre più fitta. Il viaggio è difficile per tutti. Chi soffre di più è il padre Sandrone, colpito da dissenteria e febbre.
TERRA PROMESSA
Il 2 marzo 1926 i missionari raggiungono la meta. Continua il racconto del diacono Ghiglia: «Miruru! Miruru! Grida con entusiasmo chi scorge per primo i fabbricati della missione. La voce si ripete come parola d’ordine lungo la colonna serpeggiante dei nostri uomini. Un soffio di corrente elettrica pare dia forza a quei corpi indolenziti dal lungo viaggio. Acceleriamo il passo al ritmo d’una nenia monotona. Ci pare di avere raggiunto una terra promessa».
Miruru fu fondata dai gesuiti nel 1892; questi vennero espulsi nel 1911 e sostituiti dai verbiti tedeschi, cacciati a loro volta nel 1915. «Con l’aiuto della Consolata – prosegue il diario – ne saremo emuli e continuatori. Voglia la Madonna benedire e confermare volontà e propositi dei suoi alfieri! Il lavoro sarà arduo, lungo e faticoso: raccogliere il gregge disperso dopo tanti anni di abbandono; continuare l’opera costruttrice che la guerra ha troncato con l’espulsione degli ultimi missionari. Forti della benedizione di Dio e della Consolata si rialzeranno le pianticelle che il soffio impuro del male ha guastato e perduto».
I missionari cominciano subito a prendere visione di Miruru e dintorni, studiare la lingua, usi e costumi della popolazione. Dopo dieci anni di abbandono, delle 15 succursali dipendenti dalla missione ne rimangono attive solo due. Tra i cristiani, circa 1.800 come risulta dai registri, la poligamia ha fatto strage; in molta gente di cristiano è rimasto solo il nome.
Per quanto riguarda le strutture, invece, la magnifica chiesa a tre navate e la casa dei padri sono in buono stato; quella delle suore è abitabile; alcuni fabbricati dell’inteato sono in rovina, altri ancora in buona salute. Nel cimitero riposano una dozzina di missionari, morti quasi tutti di malaria.
ALLA CONQUISTA DEL NIASSA
A mons. Filippo Perlo interessa il Niassa, territorio missionario ancora vergine, e non quella sperduta missione della Zambezia, per di più fondata da altri. E bisogna fare in fretta, prima che vi arrivino altre congregazioni missionarie. Ma come superare il divieto del prelato del Mozambico? Prendere tempo e mettere il vescovo di fronte al fatto compiuto!
A pochi giorni dall’arrivo dei missionari a Miruru, torna a Beira padre Calandri, insieme a padre Giuseppe Amiotti: anziché raggiungere i confratelli a Miruru, hanno l’ordine di recarsi nel Niassa; nel frattempo i superiori penseranno a ottenere dal prelato i permessi necessari.
Partiti da Beira il 22 giugno 1926, i due padri arrivano a Mandimba, ai confini con l’attuale Malawi, il 10 luglio e si mettono subito al lavoro: si prendono cura di una ventina di orfani meticci, esplorano il territorio, con l’aiuto di padre Chiomio, giunto appositamente da Miruru per scegliere i posti dove fondare le nuove missioni. L’armamentario e il fare inquisitivo dell’esploratore destano i sospetti delle autorità coloniali e il padre è consigliato di tornare subito in Italia, per non compromettere la presenza degli altri missionari in Mozambico. Tanto più che la spedizione nel Niassa rischia di sfociare in un incidente diplomatico.
Mons. Rafael si trova tra l’incudine e il martello: a Roma si dice che il Mozambico è una macchia nera nella storia delle missioni, arretrate di 300 anni; in Portogallo il vescovo è oggetto di furibonde campagne anticlericali e il governo vede gli stranieri, missionari compresi, come avanguardie di potenze europee che vogliono mettere le mani sulle sue colonie. Gli italiani, soprattutto, sono sospettati di lavorare per Mussolini.
Mons. Rafael si sente costretto a disapprovare la presenza dei missionari italiani nel Niassa. Anzi, il 27 marzo 1927, arriva a Mandimba un suo decreto che ordina ai due padri di lasciare il paese entro due mesi, dopo i quali scatterà automaticamente la sospensione da ogni attività religiosa.
Tra l’incudine e il martello ora ci sono i padri Calandri e Amiotti: il vescovo comanda di uscire e scaglia interdetti; Torino ordina di restare, in attesa di aggiustare la frittata. Per sei mesi i due missionari coltivano tabacco per occupare il tempo e ogni settimana passano il confine per confessarsi a vicenda nel Malawi
DA UNA TEMPESTA ALL’ALTRA
Il 1° maggio 1928 un fattorino porta dal Malawi un telegramma con cui si comunica la revoca della sospensione. Padre Calandri raduna gli orfanelli e organizza una carovana per trasferire baracca e burattini a Massangulo, 60 km da Mandimba. Vi giungono il 20 maggio, data ufficiale della nascita della prima missione del Niassa. In pochi mesi vengono costruiti i fabbricati essenziali; alla fine dell’anno arrivano le prime suore della Consolata e altro personale dall’Italia e da Miruru. Iniziano le scuole e le visite ai villaggi.
Tutto procede con coraggio ed entusiasmo, quando una tremenda tempesta squassa l’Istituto dei missionari della Consolata da capo a piedi: l’8 maggio 1928 mons. Pasetto inizia la visita apostolica, chiudendo alcuni campi di evangelizzazione (Somalia e India) appena avviati. Si teme che anche l’apertura nel Niassa, visto il modo un po’ spericolato in cui è avvenuta, possa subire la stessa sorte.
Infatti, nel giugno 1930, padre Calandri è chiamato urgentemente a Beira da mons. Hinsley, vicario apostolico dell’Africa Orientale. Questi gli ordina di sospendere ogni lavoro, perché Massangulo sarà chiusa. Il missionario scoppia in un pianto dirotto; quando si riprende, racconta ciò che è stato fatto nella missione, i lavori in corso e i progetti ancora in mente. «Se è così, è un’altra cosa – dice il monsignore -. Lei, padre Calandri, continui con la costruzione del collegio iniziato e io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
Ad essere chiusa è invece la stazione di Miruru (1930); alcuni dei missionari passano al Niassa. Massangulo si rafforza, con l’avvio dei corsi di arti e mestieri; ma è proibito aprire nuove missioni nella regione. Solo quando mons. Rafael sarà sostituito da mons. De Gouveia, come prelato apostolico del Mozambico, sarà possibile dar vita a Mepanhira (1938), Maua (1939), Mitucué (1940).
L’espansione missionaria segna il passo durante la seconda guerra mondiale, per l’impossibilità d’inviare altro personale. Finito il conflitto, l’evangelizzazione riprende con nuovo vigore dentro e fuori del Niassa. Nel 1946, infatti, il card. De Gouveia, vescovo di Lourenço Marques (Maputo), vuole i missionari della Consolata anche nella regione di Inhambane e alla periferia della capitale.
LA SFIDA CONTINUA
Dopo 75 anni di presenza in Mozambico si può fare un bilancio. La scelta, fatta fin dagli inizi, di concentrare gli sforzi nella scuola e formazione dei laici, ha formato comunità cristiane resistenti alle bufere che si sono scatenate per quasi 30 anni sulla popolazione del paese: guerra per l’indipendenza, persecuzione marxista e nazionalizzazione delle strutture, guerra civile, catastrofi naturali. Molte comunità, portate a maturazione, sono state affidate al clero locale. Buona parte dei leaders che guidano oggi le sorti del paese sono usciti dalle scuole cattoliche. La chiesa mozambicana chiede ai missionari della Consolata nuove presenze qualificate, come la guida di seminari diocesani e formazione del clero locale.
Tali attestati di stima, guadagnati con tanti anni di tenacia ed eroici sacrifici, sono motivo di orgoglio; ma il loro numero (53 missionari di varie nazionalità, presenti in 5 diocesi) è del tutto insufficiente per fronteggiare le sfide sociali e religiose in cui si dibattono ancora le popolazioni loro affidate. Prima di assumere nuove responsabilità, essi vogliono fare un serio cammino di discernimento. Tanto più che i posti segnati da mons. Perlo sulla vecchia mappa, nell’estremo nord del Niassa, attendono ancora il primo annuncio del vangelo. La sfida lanciata 75 anni fa è sempre aperta.

Diamantino Antunes




Incontro con Luciano Violante

Globalizzare i diritti…
la frontiera
degli onesti

Signor presidente, lei ha recentemente affermato (citando Norberto Bobbio) che «i diritti umani sono la religione civile del nostro tempo». Il fenomeno della globalizzazione dovrebbe favorire tale «religione». È veramente così?

Sinora la globalizzazione ha riguardato la finanza, l’economia e la comunicazione. Non ha riguardato ancora i diritti umani fondamentali. Anzi, sono aumentate le diseguaglianze tra gli uomini, tra le nazioni e tra i continenti. Dobbiamo impegnarci per la globalizzazione dei diritti; questa è la frontiera degli uomini onesti.
È importante che i vertici inteazionali comincino a porre il problema della globalizzazione responsabile: lo ha fatto l’Unione Europea durante il semestre di presidenza portoghese e l’hanno fatto ad Okinawa (Giappone) i capi di stato e governo del «G 8», il gruppo delle otto nazioni più industrializzate.

Le democrazie occidentali spesso si ritengono i paladini dei diritti umani… e lo dimostrano intervenendo anche manu militari in Kosovo o Timor Est. È questo il modo migliore per garantire la pace?

Con la guerra non si garantisce la pace. Ma in entrambi i casi, da lei citati, l’intervento militare si è reso necessario per impedire che continuasse la persecuzione di popolazioni povere e incolpevoli. Bisogna sempre più sviluppare, partendo dalle zone a rischio presenti nel mondo, operazioni di peace building e peace keeping, che servano appunto a costruire e mantenere la pace e a prevenire la guerra.
L’Italia in questo è all’avanguardia; tanto che, a Torino, è già operativa una scuola di peace keeping delle Nazioni Unite.

La povertà è una grave minaccia dei diritti umani: essa attenta al primo dei diritti, quello alla vita. La miseria, non raramente, coesiste con la ricchezza: le baraccopoli dell’America Latina (e non solo) insegnano. Questo è solo un paradosso?

Non è solo un paradosso. È una vergogna, frutto della diseguaglianza tra gli uomini. Ma intendo rispondere con precisione.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del prodotto interno lordo mondiale di dieci volte (da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari), assistiamo (anche per effetto della globalizzazione) ad un preoccupante allargamento della forbice economica, già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l’ultimo Rapporto sul programma di sviluppo delle Nazioni Unite, sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l’anno, mentre 55 paesi (soprattutto nell’Africa sub-sahariana, ma anche nell’Europa dell’est e nella Comunità degli stati indipendenti – Csi), si sono ulteriormente impoveriti. La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi è dovuto alle malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nei paesi meno sviluppati.
Come vede, la povertà non è una questione sociale. La povertà è una questione politica, che va affrontata come tale.
In coincidenza anche con il Giubileo dei cristiani, oggi si discute molto sulla cancellazione del debito estero dei paesi poveri. L’Italia ha deciso di cancellare 6 mila miliardi di lire. Come giudicare tale scelta?

L’Italia ha già approvato la legge sulla cancellazione del debito dei paesi poveri. In questo siamo più avanti di altri. Ma non basta. Bisogna lavorare per portare istruzione, sanità e sviluppo nei paesi poveri.

Circa la cancellazione del debito, qualcuno ha affermato che siamo di fronte alla «mano destra che dona, seguita però dalla sinistra che toglie». È questa solo una battuta maliziosa?

Non è questa l’intenzione italiana; né è questa una nostra abitudine.
Quest’anno il Brasile celebra i 500 anni della sua nascita. Ma è una celebrazione contestata dagli indios, dai discendenti degli schiavi neri e da vasti settori popolari impoveriti… mentre l’Amazzonia, polmone del mondo, è inquinata. Eppure il Brasile è l’ottava potenza del mondo!
Coniugare sviluppo economico e valori umani è un’impresa particolarmente difficile; ma, a mio avviso, è una delle ragioni fondamentali per le quali è necessario impegnarsi nell’attività politica.

In Brasile (ma anche in Colombia, Perù, Messico…), da circa 40 anni risuona il ritornello «i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Allora «c’è del marcio», e non solo nella «Danimarca di Amleto». Quale marcio?

Il marcio dell’ingiustizia sociale. La distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992. Ecco la «forbice» di cui parlavo.
Aggiungo che circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze da parte degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti, ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario. Ogni anno muoiono nel mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa di malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di giovani al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
Contro questo «marcio» bisogna combattere con la massima determinazione.

Signor presidente, so che lei ha incontrato alcuni missionari. Chi è per lei il missionario oggi?

Un uomo che lotta contro l’ingiustizia sociale, con gli strumenti della fede, della pace e del rigore morale.

Il dramma dell’africa è la sua ricchezza

L o squilibrio tra i paesi meno sviluppati e le nostre nazioni si traduce, oltre che in disperazione umana, in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste, difficilmente controllabili. È necessario che i nostri paesi rafforzino il loro impegno, a livello nazionale e internazionale, per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita e il diritto allo sviluppo…

I governi delle nazioni industrializzate compiano un passo ulteriore nella strategia di promozione dello sviluppo dei paesi poveri, che vada oltre la cancellazione del debito estero. Il diritto allo sviluppo dei paesi poveri deve costituire per quelli ricchi un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi paesi.
Un forte richiamo a questo dovere degli stati ci viene oggi rivolto con particolare urgenza dai missionari, da quegli uomini e donne quotidianamente impegnati sul terreno, spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei più deboli. Anche alla luce delle loro importanti segnalazioni, ritengo che i governi dei paesi ricchi debbano agire in due direzioni principali:
– abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione; questi paesi non avranno, infatti, un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati, come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
– contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie occidentali verso i paesi poveri, dell’Africa in particolare, che sta creando nuove e pericolose forme di sfruttamento e dipendenza.
Faccio due esempi.
1/ Il Nord del mondo sarebbe oggi debitore verso i paesi poveri, donatori di materia prima, di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati, relativi a sementi per coltivazioni agricole. Alcune sementi, geneticamente modificate, non riproducibili e imposte sul mercato da varie industrie, minacciano seriamente ogni strategia di sicurezza alimentare di un paese povero, impedendo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana. Siamo così arrivati al paradosso che il dramma del continente africano non è tanto la sua povertà, quanto la sua enorme ricchezza!
2/ La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria d’acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi (tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti) dividersi il 60% delle risorse idriche del pianeta. Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30% in Egitto, del 40% in Nigeria e del 50% in Kenya.
L’allarme tuttavia non riguarda solo queste nazioni, ma l’intero pianeta…

L a ricorrenza del Giubileo rappresenta un grande evento spirituale per la comunità cristiana nel mondo. La portata di tale evento non può, tuttavia, essere circoscritta alla sola comunità dei credenti.
Il suo profondo significato etico, tradizionalmente ispirato (oltre che a valori religiosi) anche a quelli sociali di equità, uguaglianza e pace, fa sì che il Giubileo rappresenti anche per la comunità laica e per quella politica, in particolare, un’occasione importante di riflessione sui problemi relativi alla giustizia sociale e alla tutela dei diritti dell’uomo.
Il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli stati e le persone che, in ragione dell’esercizio di pubblici poteri, si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti. È ormai possibile fare in modo che, accanto ai diritti universali degli uomini, corrispondano anche i doveri universali degli stati.
Credo che l’Italia debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l’adozione di una Carta dei doveri universali degli stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.
Luciano Violante
(dall’intervento all’inaugurazione
dell’«Expo missio 2000», Roma 9 giugno)

Francesco Beardi




CONGO – A scuola con una bottiglia d’olio

Non è più giovanissimo quando raggiunge
il malconcio Zaire di Mobutu.
Parla il francese così così, mentre ignora del tutto lo swahili. Ma il missionario
della Consolata è un marchigiano tenace.
Sul campo viene addirittura promosso vicevescovo,nonché cornordinatore di tutte le scuole
della diocesi di Wamba. E incomincia il «bello»
in un «bruttissimo» paese, che si dibatte fra due guerre: quella di Kabila nel 1996e quella contro il nuovo presidente subito dopo. Tuttora in corso,
dopo 2 milioni di morti.

passando davanti
all’ex carcere

– Padre Angelo, quando ci possiamo incontrare?
– Domani mattina in ufficio, alle otto.
È l’alba, mentre raggiungiamo a piedi l’episcopio di Wamba (nella repubblica democratica del Congo), dove padre Angelo Baruffi è vicario generale della diocesi. Passiamo di fronte alle ex prigioni in mattoni rossicci. Il primo sole investe i muri rendendoli quasi sanguigni.
All’ingresso di quel carcere, il 26 novembre 1964, fu massacrato dai simba di Mulele il vescovo belga Joseph Wittebols: il corpo, buttato in un torrente, non fu più ritrovato. Il giorno dopo furono trucidati altri sette missionari, anch’essi «perduti» per sempre. I simba non risparmiarono neppure i cattolici locali, fra cui suor Anwarite. Beatificata nel 1985, è patrona delle diocesi di Wamba e Isiro.
Nel 1964 il Congo era indipendente da soli quattro anni, però già si tingeva di sangue. Nel luglio del 1960, sotto il presidente Kasavubu e il capo di stato maggiore Mobutu, la nazione conobbe la secessione del Katanga, guidata da Ciombé, e il 18 gennaio 1961 l’assassinio del premier Lumumba. Poi sia la secessione del Katanga sia la ribellione dei simba (fra i quali militava Kabila, attuale presidente) fallirono.
Nel trentennio 1966-96 il paese fu ostaggio di Mobutu, che nel 1971 gli cambiò anche il nome: da Congo a Zaire. Ritoò ad essere Congo nel 1997, allorché le truppe di Kabila, sostenute da Rwanda, Burundi e Uganda, cacciarono il dittatore.
I guai però non erano finiti, perché nell’agosto del 1998 il Congo si rituffò nel sangue: l’esercito di Kabila, con Zimbabwe, Angola e Namibia a fianco, contro gli alleati di ieri: Uganda, Rwanda, Burundi e gruppi di ribelli congolesi. Poi gli ugandesi e i rwandesi hanno incominciato persino a prendersi a cannonate fra loro: a Kisangani, per esempio, al fine di depredare il ricco paese senza spartire il bottino con nessuno. È quanto fanno anche gli alleati di Kabila.
È sempre stato così in Congo, fin dal 1885, quando il paese divenne proprietà personale di re Leopoldo del Belgio.
un funzionario in uno stato colabrodo
«Non ti spaventare del disordine!» esclama padre Angelo allorché, un po’ guardinghi, varchiamo la porta del suo ufficio.
Sul pavimento in cemento giacciono zappe, scope, barattoli di colore, scatoloni di medicine, un set di strumenti meccanici, una motosega a diesel, un trapano elettrico. Un ufficio anomalo per un vicevescovo.
Ma Angelo Baruffi è un missionario che non rifiuta di rimboccarsi le maniche. Tuttavia, in ufficio, indossa la camicia di prete… e un berretto quadrangolare, intessuto di fibre multicolori e infiocchettato di piume. È il tradizionale copricapo dei wabudu, l’etnia della zona, dove ufficialmente si parla swahili e francese.
La nostra attenzione cade su un mucchio di cartelle. Ne prendiamo in mano una. «Quella cartella – afferma il missionario – contiene l’ultimo programma scolastico governativo. Che fatica ad averlo!».
– E che te ne fai?
– Beh… io sono un funzionario dello stato in tema di istruzione.
– Ma se lo stato è un colabrodo!
– Però non mancano i bambini che vogliono andare a scuola…
In Congo esistono «tre scuole», ma con gli stessi programmi, riconosciute dallo stato e da esso sovvenzionate (oggi solo sulla carta!):
– «scuole ufficiali», gestite direttamente dal governo;
– «scuole private», in mano a singoli individui;
– «scuole convenzionate», affidate ad enti religiosi.
«Io sono cornordinatore delle scuole cattoliche primarie e secondarie della diocesi di Wamba – dichiara padre Baruffi -. Questo servizio mi è stato sollecitato dal vescovo nel 1991: un servizio che non ho certamente chiesto io, straniero, giunto in Congo a 43 anni suonati con una modesta conoscenza del francese, mentre dello swahili ero completamente digiuno. Ma, quale missionario della Consolata che deve avere a cuore i problemi del popolo, potevo forse rifiutare l’invito del vescovo?».
– Qual è stato il tuo primo impatto con il problema-scuola?
– Preoccupante, come minimo. Nel 1991, su 138 mila possibili allievi, quelli che frequentavano la scuola erano 22 mila, di cui solo 9 mila ragazze.
DI FRONTE ALLO SCIOPERO
Se nel 1991 la situazione scolastica era preoccupante, il peggio però doveva ancora venire. Fu nel 1992-93 che si toccò quasi il fondo, allorché lo stato non pagava più gli insegnanti. I genitori, pur di mandare i figli a scuola, si tassarono per rimunerare i maestri con 19 mila lire al mese. Una miseria. Ma per i wabudu era un salasso, mentre il corrotto Mobutu spendeva e spandeva.
Nel giugno del 1993, dopo aver terminato l’anno scolastico con difficoltà, gli insegnanti dichiararono sciopero contro il governo che non pagava i salari. Vescovo, sacerdoti e capifamiglia erano solidali.
Passarono luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre… E lo stato era sempre assente.
«Io – commenta padre Angelo – non visitavo più le scuole in qualità di cornordinatore, perché non c’era alcunché da cornordinare. Un giorno, per strada, alcuni ragazzini mi hanno chiesto: “Padre, quando ci riporti a scuola?”. La stessa domanda mi è stata posta da altri bambini. Sono entrato in crisi. Ma che fare?».
Già, che cosa poteva fare un missionario… straniero?
«Ho chiesto al vescovo – riprende padre Angelo – di scrivere una lettera per natale da leggersi in tutte le comunità. Così è stato. Nella lettera raccontavo una storia, parafrasando il profeta Ezechiele (16, 6-14): è nato un bambino, ma viene gettato in strada, perché rifiutato; però qualcuno lo raccoglie, lo nutre e diventa bello… “Allora, fratelli, che facciamo dei nostri figli? Li lasciamo marcire sulla strada? Essi sono l’unica ricchezza rimastaci in questo stato ladro. Aiutarli significa salvare la speranza. Se volete, io riapro le scuole, ma con voi”».
Da gennaio 1994 i ragazzi sono ritornati in classe.
In loco si produce olio di palma: viene anche commercializzato. Serve pure a pagare gli insegnanti: circa mezzo litro al mese per allievo.
ANCHE I PIGMEI A SCUOLA
Nella diocesi di Wamba prevalgono i wabudu, ma si contano pure circa 30 mila bambuti (pigmei). Si tratta di popoli molto diversi, a prescindere dall’altezza (i pigmei sono più bassi: gli uomini raggiungono mediamente 145 centimetri e le donne 132). Ma la vera diversità è culturale: i wabudu sono bantu, a differenza dei pigmei che non sono classificabili. I bambuti sono molto più antichi delle etnie bantu. Ne parla il greco Omero nell’Iliade e, soprattutto, il faraone d’Egitto Neferkara (nel 2500 a. C. circa).
Le differenze sono vistose anche nella vita socioeconomica. I wabudu, agricoltori, lavorano specialmente nella stagione delle piogge; i pigmei, cacciatori e raccoglitori nella foresta, operano in quella asciutta.
L’insegnamento scolastico, per i pigmei, deve tenere conto della loro diversità. È assurdo programmare la scuola durante il tempo della caccia, cioè del lavoro.
Nel 1994 padre Angelo Baruffi ottenne dal governo centrale un trattamento scolastico speciale per i pigmei: speciale per programma e calendario delle lezioni. Fu un’impresa ardua, come racconta il missionario: «Quando ho accennato ai pigmei, i responsabili dell’istruzione pubblica mi hanno riso in faccia, segno di non curanza e razzismo».
Oggi a Wamba, su un totale di 7.500 ragazzi pigmei da alfabetizzare, 3.000 frequentano la scuola, di cui 1.300 ragazze. Sono distribuiti in 114 classi con 122 insegnanti.
Vi sono scuole con soli pigmei e altre miste. Ma i wabudu devono essere in minoranza, perché c’è sempre il rischio che il più forte (bantu) schiacci il più debole (bambuti).
L’accettazione dei pigmei, senza livellamenti culturali, è fondamentale, ma non facile. Al riguardo, la chiesa ha parecchio da dire. E, soprattutto, da testimoniare.
nel cuore della guerra
Nel 1991 gli studenti della diocesi di Wamba erano 22 mila. Al presente sono 44 mila. Un raddoppio miracoloso: perché, se nove anni fa lo stato era un misero «focherello», oggi è «cenere». Nel 2000 «Congo» è sinonimo di anarchia e guerra, che coinvolge eserciti di varie nazioni dal 1996. Senza dimenticare che a Wamba le «scuole convenzionate» con lo stato sono 85, ma padre Baruffi ne cornordina 247.
– Padre Angelo, i ragazzi come vanno a scuola in un clima di guerra?
– Con paura. Ma ci vanno, e l’anno inizia e termina regolarmente.
– Come cornordini l’insegnamento?
– Come posso. Al sopraggiungere di bande armate, tutti scappano in foresta. Ma, se le scuole sono aperte, si va anche al lavoro, si produce… La scuola è più che una speranza.
– Paghi i maestri sempre con una bottiglia di olio di palma?
– Anche con denaro. Però non supero le 10 mila lire mensili.
– Com’è la situazione altrove?
– Dipende. Nel Kivu, dove la gente sta meglio, gli insegnanti ricevono anche 70 mila lire al mese. Da noi ciò è impossibile.
– Comunque tu garantisci almeno 10 mila lire al mese.
– Non sempre. Dove troverei i soldi per 1.500 maestri?
– Vi sono allora insegnanti che prestano servizio gratis!
– Certamente.
Non è di poco conto in un paese stremato. Dietro il volontariato degli insegnanti, c’è sempre lo stimolo di padre Angelo: «Se non lo fate voi, nessun altro lo fa. I ragazzi, cui consentite di studiare, sono i vostri figli, i vostri fratelli!…». La diocesi, però, fornisce libri, quadei e tutto il materiale didattico, grazie alla solidarietà della chiesa italiana.
Non mancano le rotture fra i genitori degli studenti e i professori: sempre per ragioni economiche. In tali frangenti il missionario ricuce gli strappi. È un mediatore autorevole perché, pur essendo un funzionario dello stato ad alto livello, non percepisce una lira. Inoltre tutti sanno che «il padre» non si risparmia, rischiando anche la vita.
N el 1996, quando Kabila iniziò la conquista del Congo e i soldati di Mobutu battevano in ritirata saccheggiando le parrocchie, i missionari furono costretti ad andarsene. Lasciarono il campo anche i vescovi di Wamba, Dungu-Doruma, Isiro e di altre diocesi. Padre Angelo no. Ricercato dai soldati, si dava alla macchia. Ma era là. Con la gente, i «suoi» ragazzi.

«SUONATE QUELLA CAMPANA PER DIO!»

In Congo gli eserciti si stanno combattendo da quattro anni. Quattro anni (destinati ad aumentare, purtroppo), che non potrò mai scordare. L’anno che, finora, mi ha maggiormente «segnato» è stato il 1997, durante il quale ho trascorso mesi interminabili da fuggiasco. A parte le distruzioni, il sangue, la morte.
Restando sul «campo di battaglia», ho capito che cosa significhi vivere da solo con la gente. All’inizio, quando si sentiva la mia auto, tutti scappavano, perché pensavano che fossero arrivati i soldati per razziare; poi, riconoscendo il mio braccio bianco dal finestrino o il mio vecchio cappello kibudu, gridavano di contentezza.
In Congo, prima dell’attuale conflitto bellico, ho giornito della spontanea vivacità della gente: le sonore risate degli uomini, i trilli acuti delle donne, i giochi dei bambini, i canti e balli al ritmo di tamburi o al battito di mani… Ma, con la guerra, impera il silenzio anche in pieno giorno. Un silenzio che impressiona quanto il crepitio delle pallottole.
Allora nel 1997, passando di villaggio in villaggio, se c’era una campana o un cerchione d’auto (appeso ad un albero) che funge da gong, quasi gridavo: «Suonate quella campana, perdio! Battete quel gong! Rompete il silenzio!…». Il silenzio in guerra è allucinante. L’ho vissuto anche con padre Edward Olali, missionario della Consolata kenyano: io «silenzioso» da una parte e lui da un’altra.
In tale contesto ho toccato con mano quanto il prete sia un punto di riferimento per la popolazione. In guerra le differenze svaniscono, anche quelle tra bianco e nero. Tutti diventano uguali, perché tutti hanno paura allo stesso modo. Però se il prete è «là», la gente (non solo cattolica) appare più tranquilla. È per questo che, come responsabile della diocesi di Wamba, in assenza del vescovo, raccomandavo a tutti i sacerdoti di celebrare la messa, di suonare ogni giorno le campane. Al mattino, se si udiva il loro suono, si andava in chiesa, e chi vedeva le persone uscire di casa ritrovava la voglia di lavorare.
Anche i sacerdoti, in tempo di guerra, hanno bisogno di un riferimento. Io mi trovavo in un’area che comprende cinque diocesi, senza un vescovo. Erano rimasti solo i preti africani; ma erano «pecore senza pastore». Tutti giovani, ed io con i capelli bianchi. Sono diventato il loro «pastore». Ecco perché non ho voluto lasciare il Congo.
Sono passato di missione in missione (anche per fuggire dai soldati che mi cercavano) e vi trascorrevo 15-20 giorni. Dalle parrocchie poi, grazie alla radiofonia, tenevo i contatti con tutti. Mai, come in quei momenti, mi sono sentito missionario della «Consolata», pur essendo un fuscello in balia dell’uragano. Sono stato anche un incosciente, rischiando grosso. Ma ne è valsa la pena.
Oggi sono ancora vicario generale, oltre che cornordinatore delle scuole. Avverto la mia scomoda posizione di straniero, mentre infuria una guerra voluta soprattutto da… stranieri (rwandesi, angolani, ecc.) con armi… straniere: francesi, statunitensi, ecc.
Credo nel servizio. Agli altri il giudizio sul mio operato.

p. Angelo Baruffi

Francesco Beardi




Questione di democrazia, non di…

Caro direttore, un breve commento sull’articolo di Missioni Consolata, settembre 2000, circa la guerra Eritrea-Etiopia. L’autore, padre Benedetto Bellesi, scrive: «Addis Abeba continua a sognare la “grande Etiopia”, con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare».
Occupando Baduma nel maggio del 1998, l’Eritrea pensava di avere un problema con il solo Tigrai, ed è logico che ritenesse di risolvere questo problema con una vittoria. Se il Tigrai fosse rimasto isolato nell’incidente di Baduma, forse l’Eritrea avrebbe allungato le mani anche sull’intero Tigrai, realizzando così il sogno della «grande Eritrea». Con l’introduzione della moneta nakfa, l’Eritrea si era trovata privata dell’unica sua fonte di reddito, derivante dai proventi dei porti, e il Tigrai poteva costituire una soluzione ai suoi problemi economici.
Ma gli etiopici si sono preoccupati di un’altra cosa: se il Tigrai fosse rimasto isolato nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia stessa si sarebbe disciolta, i suoi stati avrebbero cominciato a litigare per questioni confinarie e di transito, mentre si sarebbero trovati in balìa dell’Eritrea per le importazioni. Con o senza il Tigrai, l’Eritrea si sarebbe imposta come stato egemone della regione.
Non ritengo che Addis Abeba sogni la «grande Etiopia» con l’inclusione dell’Eritrea. Penso il contrario, e cioè che non voglia più gli eritrei entro i propri confini. Nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia è rimasta unita e ha dimostrato di essere già una Grande Etiopia. Né ritengo abbia aspirazioni sui porti, che avrebbe potuto facilmente occupare nel giugno scorso. È un grande popolo di 60 milioni di abitanti, non ricchi, che ha bisogno di sopravvivere, e non può permettere di essere strozzato da un piccolo popolo che possiede i porti.

Grazie delle osservazioni. In ogni caso, riteniamo che nessuno straniero sia in grado di sapere quali siano state le vere ragioni che hanno spinto i due paesi africani al conflitto armato. Soprattutto, nessuno è innocente in questa pazza guerra, tuttora in corso, nonostante il «cessate il fuoco» firmato ad Algeri nel giugno scorso.
Più che una «grande Etiopia» o una «grande Eritrea», si esigono una «nuova» Etiopia ed Eritrea, imboccando la strada della democrazia e non delle armi.
E la «semi-indifferenza» della comunità internazionale (specialmente delle nazioni che contano) non aiuta i due paesi.

Alberto Vascon




Il cuore in Kenya

Caro direttore,
il tuo intervento a Radio Maria è stato meraviglioso. Grazie per averci regalato un’«ora missionaria». Io avrei voluto dire tante cose; ma, pensando ai nostri amici in difficoltà, un nodo alla gola me lo ha impedito.
Sono appena ritornato dal Kenya e, con me, ho portato l’angoscia di tanta gente affamata a causa della siccità. In 15 giorni ho visitato alcune missioni per offrire ai padri la mia amicizia e quel poco che, con l’aiuto di benefattori, ho portato. Quante richieste! Specialmente per il cibo e qualche pompa per irrigare. Anche da fratel Argese l’acqua scarseggia, ma lui con il suo grande ingegno la va a cercare ovunque.

Nino è un caro amico. Forse i lettori ne conoscono la passione missionaria insieme alla moglie Mariangela e al figlio Giorgio, morto giovanissimo. Missioni Consolata, giugno 1986, ne aveva parlato… Il cuore di Nino batte soprattutto per il Kenya, dove vivono alcuni suoi figli adottivi. Un Kenya, dove due milioni di persone rischiano la fine, data la siccità. E la fame alimenta pure il brigantaggio.
«Noi – scrive dal Kenya padre Attilio Ravasi – tiriamo avanti come possiamo. Ora in città si razionano acqua e luce. L’economia, già in difficoltà, sta subendo un colpo mortale. Gioi fa ho rischiato grosso. Accompagnavo in auto Piera, una laica missionaria da tanti anni in Kenya, all’ospedale di Sololo, e siamo stati braccati per strada da alcuni banditi: hanno sparato, obbligandoci a fermare; ci hanno fatto sdraiare per terra e spogliato di tutto. Io avevo poco, ma Piera ci ha rimesso parecchi soldi e il computer portatile, appena giunto dall’Italia. Però ci hanno lasciato la cosa più bella e importante: la vita. Ma anche tanta tanta paura…».

Nino Maurel




Non condannare

Spettabile redazione,
sono un vecchio abbonato, che conosce e stima molti missionari della Consolata per il loro lavoro silenzioso a favore dei poveri nel mondo.
Su Missioni Consolata di maggio ho letto con interesse il dossier di Paolo Moiola sul Perù, ma non nascondo la mia perplessità alla lettura del profilo di monsignor Cipriani.
L’autore del dossier, per mettere in risalto il suo dissenso con il pensiero dell’arcivescovo di Lima, sottolinea la sua appartenenza all’Opus Dei come un peccato originale, una colpa grave per un sacerdote cattolico.
La rivista missionaria della famiglia esiga dai redattori il rispetto del cristiano «non giudicare».

«Giudicare» è antievangelico quando si tramuta in «condannare»… Nel dossier citato non si presenta solo l’arcivescovo Cipriani, ma anche monsignor Bambaren, presidente della Conferenza episcopale peruviana: due prelati della chiesa cattolica con idee differenti, che si «giudicano» a vicenda. «Non giudicare» non esclude la diversità di opinioni.

Ferruccio Gandolini