Fra le messe africane (che si protraggono anche per due ore)e quelle italiane (che non devono superare i quaranta minuti, omilia compresa)
esiste una via di mezzo?
Ma, più che al tempo, bisogna mirare alla qualità,
specialmente da parte del sacerdote.
Per celebrare e far festa.
Di ritorno dal Kenya,
una domenica celebro la messa nella chiesa di un mio amico parroco. Al termine, il sacerdote mi invita per un caffè. «Bene, bene. Vedo che non hai dimenticato l’italiano e che sei abbastanza sbrigativo» mi dice.
È un complimento. Ma per me è più amaro del caffè in cui ho dimenticato di mettere lo zucchero.
In Italia mi mancano molto le liturgie africane, così piene di vita, dove il tempo non conta. Invece, nel nostro «stivale», prova a superare i 10 minuti di predica e vedrai subito la gente guardare l’orologio con impazienza. Già, in Italia il tempo è denaro! Anche se abbondano le chiacchiere televisive, giornalistiche, salottiere…
Durante la messa si intonano quei tre-quattro canti che tutti conoscono (o quasi), ma si cantano solo poche strofe. Alla fine ci sono gli avvisi del parroco, la benedizione… E, mentre ci si avvia in sacrestia, si controlla l’orologio: 38 minuti e mezzo. Così va bene. Guai a sgarrare!
Un’altra domenica il parroco non c’è. Dopo la comunione, mi permetto un momento, brevissimo, di silenzio. In sacrestia il chierichetto (mio nipote) mi chiede se mi sia addormentato…
Oggi si parla molto di «religioso» come elemento strutturale dell’uomo. Di fronte al disorientamento provocato dalla società dei consumi, si auspica un ritorno al sacro. È vera fede? O un semplice desiderio di tranquillità psicologica, distensione? In tale contesto le sètte mietono numerosi proseliti.
L’africano ha insito il senso sacro della celebrazione e della festa. Per lui celebrare significa festeggiare.
Prima del Concilio
ecumenico Vaticano II, in chiesa esisteva una separazione tra il sacerdote e il popolo. Si celebrava l’eucaristia in una lingua morta (il latino), con la preghiera più significativa (il canone) in silenzio, voltando le spalle alla comunità. Sui banchi si contavano molte donne con la corona del rosario in mano. Oggi, però, tutto questo è solo un ricordo dei cinquantenni.
Ma la presente messa, in Italia, è davvero quella voluta dalla riforma liturgica del Concilio? Ne dubito. E rimpiango le celebrazioni nella mia parrocchia in Kenya.
Nella pasqua Gesù Cristo ha realizzato la nostra salvezza. Celebrare e festeggiare l’eucaristia è attualizzae il mistero. Parola, rito, canto, danza, silenzio: tutto ha valore.
Quando ero bambino,
la domenica era una festa anche esteamente. Per la messa si indossavano le scarpe e i vestiti migliori, non quelli di tutti i giorni. Una volta a casa, bisognava cambiarli subito per non sciuparli. È quanto sta avvenendo oggi in Africa. La domenica è festa e la gente (soprattutto la più povera) viene in chiesa con gli abiti migliori. Non sono «firmati», ma i colori sono sgargianti.
Spesso mi chiedo come riescano i giovani e le ragazze del Kenya a conservare così bene i loro vestiti in abitazioni di fango, senza armadi, e come facciano a salvaguardarli dalle capre, che sono così di casa…
Penso pure ai gruppi neocatecumenali. Dopo numerosi incontri di formazione, ecco finalmente la domenica con la messa. I nuovi membri del gruppo sono invitati a vestirsi bene, quel giorno, per partecipare ad «un avvenimento molto importante». È celebrazione, festa.
Le comunità africane
sono giovani, piene di vita e giorniose, anche se soverchiate da enormi problemi. Amano far festa. I canti, le danze e i tamburi esprimono anche fede.
Le comunità italiane, invece, mi sembrano talora vecchie e stanche; forse hanno perso la gioia di vivere, di celebrare, di cantare.
Ricordo le animate discussioni, in Kenya, con qualche maestro di canto. Era difficile fargli capire che, alla domenica, non era sempre necessario cantare tutto il… cantabile! Qualche volta il «credo» si poteva anche «recitare». Allora il choirmaster mi «boicottava», anticipando con il canto la mia recitazione. E che sforzo far capire al coro che, di una lode di 20 strofe, se ne possono cantare anche soltanto 15! «Niente affatto! Bisogna cantarle tutte» era la risposta.
È con grande nostalgia che risento le preghiere spontanee dei fedeli da ogni angolo della chiesa: implorano aiuto, guarigione, pioggia. Drammatiche queste ultime, quando sui campi il granoturco e i fagioli ingialliscono anzi tempo per la siccità, e il cielo continua ad essere terso. Mi chiedo spesso come Dio non si commuova a tali suppliche. Forse ha problemi di udito anche Lui?
Oggi sono in Italia,
dove l’eucaristia non deve superare i 40 minuti. «La messa è finita» dice il prete. Mi sembra che qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Dio è servito. Adesso si può vivere tranquilli per un’altra settimana.
E i giovani dove sono? Se non vanno più in chiesa, è tutta e sempre colpa loro? Come possono accettare liturgie così «pallose», senza il senso della festa? Allora la discoteca diventa la loro chiesa. Forse sono proprio i nostri giovani ad apprezzare le liturgie africane, così «gasate»! Dimenticando l’orologio.
Quanto a me, spero di non abituarmi ai 38 minuti e mezzo di messa. Cercherò di spiegarlo anche al parroco, mio amico. Se mi riesce. E lui capirà?
Adamo Nostalgia