Questione di democrazia, non di…
Caro direttore, un breve commento sull’articolo di Missioni Consolata, settembre 2000, circa la guerra Eritrea-Etiopia. L’autore, padre Benedetto Bellesi, scrive: «Addis Abeba continua a sognare la “grande Etiopia”, con l’Eritrea legata in qualche modo al proprio destino e uno sbocco al mare».
Occupando Baduma nel maggio del 1998, l’Eritrea pensava di avere un problema con il solo Tigrai, ed è logico che ritenesse di risolvere questo problema con una vittoria. Se il Tigrai fosse rimasto isolato nell’incidente di Baduma, forse l’Eritrea avrebbe allungato le mani anche sull’intero Tigrai, realizzando così il sogno della «grande Eritrea». Con l’introduzione della moneta nakfa, l’Eritrea si era trovata privata dell’unica sua fonte di reddito, derivante dai proventi dei porti, e il Tigrai poteva costituire una soluzione ai suoi problemi economici.
Ma gli etiopici si sono preoccupati di un’altra cosa: se il Tigrai fosse rimasto isolato nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia stessa si sarebbe disciolta, i suoi stati avrebbero cominciato a litigare per questioni confinarie e di transito, mentre si sarebbero trovati in balìa dell’Eritrea per le importazioni. Con o senza il Tigrai, l’Eritrea si sarebbe imposta come stato egemone della regione.
Non ritengo che Addis Abeba sogni la «grande Etiopia» con l’inclusione dell’Eritrea. Penso il contrario, e cioè che non voglia più gli eritrei entro i propri confini. Nella disputa con l’Eritrea, l’Etiopia è rimasta unita e ha dimostrato di essere già una Grande Etiopia. Né ritengo abbia aspirazioni sui porti, che avrebbe potuto facilmente occupare nel giugno scorso. È un grande popolo di 60 milioni di abitanti, non ricchi, che ha bisogno di sopravvivere, e non può permettere di essere strozzato da un piccolo popolo che possiede i porti.
Grazie delle osservazioni. In ogni caso, riteniamo che nessuno straniero sia in grado di sapere quali siano state le vere ragioni che hanno spinto i due paesi africani al conflitto armato. Soprattutto, nessuno è innocente in questa pazza guerra, tuttora in corso, nonostante il «cessate il fuoco» firmato ad Algeri nel giugno scorso.
Più che una «grande Etiopia» o una «grande Eritrea», si esigono una «nuova» Etiopia ed Eritrea, imboccando la strada della democrazia e non delle armi.
E la «semi-indifferenza» della comunità internazionale (specialmente delle nazioni che contano) non aiuta i due paesi.
Alberto Vascon