MOZAMBICO – Chi la dura la vince

Il 30 ottobre 1925 i primi missionari
della Consolata sbarcarono
in Mozambico.
Seguirono anni caratterizzati da eroismi e conflitti
di vario genere.
Una storia da non dimenticare, anche perché la sfida raccolta (o lanciata) tanti anni fa non è finita.

L’ iniziativa di estendere al Mozambico il campo di evangelizzazione dei missionari della Consolata partì dall’allora superiore generale mons. Filippo Perlo. In una vecchia cartina geografica della colonia portoghese, conservata nell’archivio dell’istituto, si possono vedere i cerchietti da lui tracciati per indicare i posti delle missioni da erigere nella regione del Niassa, in cui nessun missionario cattolico aveva ancora messo piede.
Sondata la curia romana, mons. Perlo incaricò suo fratello Luigi, responsabile della procura di Nairobi, di negoziare tale progetto con mons. Rafael de Assunção, prelato di tutto il Mozambico. Nell’incontro avvenuto il 6 aprile 1925 a Lourenço Marques (oggi Maputo), il vescovo offrì la missione di Miruru nell’alta Zambezia.
Non era il campo adocchiato da Torino. «Prendere o lasciare» diceva mons. Rafael. Il superiore generale accettò l’offerta, in attesa del momento propizio per mandare i suoi missionari anche nel Niassa. Nel frattempo chiese a Propaganda fide il permesso d’inviare un primo drappello di missionari in Mozambico. Il cardinale Van Rossum, prefetto del dicastero missionario, non si oppose alla nuova apertura, «purché le missioni affidate da Propaganda a cotesto Istituto non ne abbiano a soffrire nella loro cura e sviluppo».
COMINCIA L’AVVENTURA
Il 30 di ottobre 1925, provenienti da Torino, sbarcano a Beira due giovani missionari, i padri Lorenzo Sperta e Paolo Borello, e il diacono Secondo Ghiglia, che così scrive nel suo diario: «È l’alba. La bella cittadina sorride all’orizzonte, indorata dalla brezza marina che l’oceano incessantemente evapora. Dopo la verifica dei passaporti, finalmente possiamo scendere. Entriamo in una chiesa per salutare il Signore e la beata Vergine Maria e ringraziarli dell’ottimo viaggio. La Consolata si degni di benedire i suoi alfieri che per primi toccano questa terra, già percorsa da stuoli eletti di apostoli, e voglia rendere fecondo il nostro apostolato».
Il 14 novembre, provenienti dal Kenya, arrivano altri cinque sperimentati missionari, che completano il gruppo della spedizione: i padri Vittorio Sandrone, Giulio Peyrani, Pietro Calandri, Giovanni Chiomio e fratel Giuseppe Benedetto.
Per la mancanza di battelli in servizio sul fiume Zambezi, i missionari devono rimanere a Beira per varie settimane, ospiti dei padri francescani. Ne approfittano per studiare la lingua portoghese, mentre padre Chiomio raccoglie informazioni su strade, tariffe, dogane… Padre Sperta, colpito da febbre reumatica, è ricoverato nell’ospedale e poi, accompagnato da padre Calandri, torna in Kenya.
Il 7 dicembre gli altri sei missionari salgono sul treno e, dopo due giorni di viaggio, raggiungono l’antica missione gesuitica di Chupanga sul fiume Zambezi. Qui dovranno ancora aspettare fino al 28 dicembre prima di imbarcarsi sul battello Zambezi: una grande casa a veranda costruita sopra una chiatta con una ruota motrice. Per la scarsità d’acqua in quel periodo dell’anno, l’imbarcazione procede adagio e con cautela. «Oggi sono le delizie dell’incaglio – scrive il diacono il 30 dicembre -. Delizie che non auguro a nessuno, per quanto vi sia da divertirsi. La ruota mulinava disperatamente; il fuochista cacciava tronchi interi nel foo della caldaia e non si faceva un pollice di strada; e si era sempre lì a guardare le stesse punte degli alberi e l’acqua azzurra fuggire indietro».
Il viaggio si rivela più scomodo del previsto, sia per la difficile navigazione, sia per il caldo torrido. Indifferente a ogni disagio, padre Chiomio prende appunti su tutto quello che guarda e sente. «Fa un caldo da salina in evaporazione – continua il diario il 2 gennaio 1926 -. Non si parla più tanto. Si è a disagio. Si suda terribilmente. Padre Chiomio, invece, l’inseparabile bussola a tracolla, la maiuscola borsa da commesso viaggiatore gonfia di scartafacci, mappe, ritagli di giornali, è instancabile. Carta geografica alla mano, chiede informazioni su strade, luoghi, distanze e scrive tutto su un taccuino, fissando indicazioni e rilievi».
PASSAGGIO DEL «MAR ROSSO»
Il 10 gennaio arrivano a Tete, capitale della Zambezia. Scendono dal battello e si avviano alla parrocchia di s. Tiago per celebrare la messa. Due giorni dopo, partono alla volta di Boroma, ultima tappa prima di raggiungere la lontana missione di Miruru.
Viaggiano a bordo di un camion, che corre all’impazzata. La strada è accidentata e dissestata dalle piogge. «Ci teniamo uno coll’altro per maggiore sicurezza, per non perdere l’equilibrio. L’autista, a ogni svolta o sobbalzo improvviso che mette a scompiglio i passeggeri, chiede con serietà e ironia: “Non manca nessuno?”; e rilancia la vettura a tutto gas. Grazie a Dio non vi sono stati incidenti, ma che acrobatismo!».
A un certo punto, le ruote sprofondano in una pozzanghera. Niente da fare: devono continuare il viaggio a piedi fino alla missione di Boroma, dove i missionari sono obbligati a un mese di riposo forzato per mancanza di portatori. Quando questi arrivano non sono in numero sufficiente. Si decide di frammentare la spedizione in due carovane. Il 4 di febbraio partono per Miruru i padri Sandrone e Chiomio; in seguito padre Borello e chierico Ghiglia; padre Peyrani rimane a Boroma come procuratore, insieme a fratel Benedetto.
Il percorso è lungo; la pista quasi impraticabile a causa delle piogge. «Oggi è il passaggio del mar Rosso, non però a piedi asciutti – scrive il diacono in data 21 febbraio -. La strada è tutta una pozzanghera; a tratti l’acqua arriva al ginocchio. I canneti alti e fittissimi, terribilmente aggrovigliati, c’impediscono di avanzare e ci obbligano a tenere le braccia continuamente impegnate in una ginnastica durissima ed estenuante».
Le due carovane, separate da alcuni giorni, seguono il margine sinistro del fiume Zambezi fino a Cachomba. A questo punto attraversano il fiume in barca e proseguono il viaggio lungo la riva destra. Il terreno comincia a salire leggermente con gibbosità lente e continue. Il suolo è meno sabbioso, ma la foresta sempre più fitta. Il viaggio è difficile per tutti. Chi soffre di più è il padre Sandrone, colpito da dissenteria e febbre.
TERRA PROMESSA
Il 2 marzo 1926 i missionari raggiungono la meta. Continua il racconto del diacono Ghiglia: «Miruru! Miruru! Grida con entusiasmo chi scorge per primo i fabbricati della missione. La voce si ripete come parola d’ordine lungo la colonna serpeggiante dei nostri uomini. Un soffio di corrente elettrica pare dia forza a quei corpi indolenziti dal lungo viaggio. Acceleriamo il passo al ritmo d’una nenia monotona. Ci pare di avere raggiunto una terra promessa».
Miruru fu fondata dai gesuiti nel 1892; questi vennero espulsi nel 1911 e sostituiti dai verbiti tedeschi, cacciati a loro volta nel 1915. «Con l’aiuto della Consolata – prosegue il diario – ne saremo emuli e continuatori. Voglia la Madonna benedire e confermare volontà e propositi dei suoi alfieri! Il lavoro sarà arduo, lungo e faticoso: raccogliere il gregge disperso dopo tanti anni di abbandono; continuare l’opera costruttrice che la guerra ha troncato con l’espulsione degli ultimi missionari. Forti della benedizione di Dio e della Consolata si rialzeranno le pianticelle che il soffio impuro del male ha guastato e perduto».
I missionari cominciano subito a prendere visione di Miruru e dintorni, studiare la lingua, usi e costumi della popolazione. Dopo dieci anni di abbandono, delle 15 succursali dipendenti dalla missione ne rimangono attive solo due. Tra i cristiani, circa 1.800 come risulta dai registri, la poligamia ha fatto strage; in molta gente di cristiano è rimasto solo il nome.
Per quanto riguarda le strutture, invece, la magnifica chiesa a tre navate e la casa dei padri sono in buono stato; quella delle suore è abitabile; alcuni fabbricati dell’inteato sono in rovina, altri ancora in buona salute. Nel cimitero riposano una dozzina di missionari, morti quasi tutti di malaria.
ALLA CONQUISTA DEL NIASSA
A mons. Filippo Perlo interessa il Niassa, territorio missionario ancora vergine, e non quella sperduta missione della Zambezia, per di più fondata da altri. E bisogna fare in fretta, prima che vi arrivino altre congregazioni missionarie. Ma come superare il divieto del prelato del Mozambico? Prendere tempo e mettere il vescovo di fronte al fatto compiuto!
A pochi giorni dall’arrivo dei missionari a Miruru, torna a Beira padre Calandri, insieme a padre Giuseppe Amiotti: anziché raggiungere i confratelli a Miruru, hanno l’ordine di recarsi nel Niassa; nel frattempo i superiori penseranno a ottenere dal prelato i permessi necessari.
Partiti da Beira il 22 giugno 1926, i due padri arrivano a Mandimba, ai confini con l’attuale Malawi, il 10 luglio e si mettono subito al lavoro: si prendono cura di una ventina di orfani meticci, esplorano il territorio, con l’aiuto di padre Chiomio, giunto appositamente da Miruru per scegliere i posti dove fondare le nuove missioni. L’armamentario e il fare inquisitivo dell’esploratore destano i sospetti delle autorità coloniali e il padre è consigliato di tornare subito in Italia, per non compromettere la presenza degli altri missionari in Mozambico. Tanto più che la spedizione nel Niassa rischia di sfociare in un incidente diplomatico.
Mons. Rafael si trova tra l’incudine e il martello: a Roma si dice che il Mozambico è una macchia nera nella storia delle missioni, arretrate di 300 anni; in Portogallo il vescovo è oggetto di furibonde campagne anticlericali e il governo vede gli stranieri, missionari compresi, come avanguardie di potenze europee che vogliono mettere le mani sulle sue colonie. Gli italiani, soprattutto, sono sospettati di lavorare per Mussolini.
Mons. Rafael si sente costretto a disapprovare la presenza dei missionari italiani nel Niassa. Anzi, il 27 marzo 1927, arriva a Mandimba un suo decreto che ordina ai due padri di lasciare il paese entro due mesi, dopo i quali scatterà automaticamente la sospensione da ogni attività religiosa.
Tra l’incudine e il martello ora ci sono i padri Calandri e Amiotti: il vescovo comanda di uscire e scaglia interdetti; Torino ordina di restare, in attesa di aggiustare la frittata. Per sei mesi i due missionari coltivano tabacco per occupare il tempo e ogni settimana passano il confine per confessarsi a vicenda nel Malawi
DA UNA TEMPESTA ALL’ALTRA
Il 1° maggio 1928 un fattorino porta dal Malawi un telegramma con cui si comunica la revoca della sospensione. Padre Calandri raduna gli orfanelli e organizza una carovana per trasferire baracca e burattini a Massangulo, 60 km da Mandimba. Vi giungono il 20 maggio, data ufficiale della nascita della prima missione del Niassa. In pochi mesi vengono costruiti i fabbricati essenziali; alla fine dell’anno arrivano le prime suore della Consolata e altro personale dall’Italia e da Miruru. Iniziano le scuole e le visite ai villaggi.
Tutto procede con coraggio ed entusiasmo, quando una tremenda tempesta squassa l’Istituto dei missionari della Consolata da capo a piedi: l’8 maggio 1928 mons. Pasetto inizia la visita apostolica, chiudendo alcuni campi di evangelizzazione (Somalia e India) appena avviati. Si teme che anche l’apertura nel Niassa, visto il modo un po’ spericolato in cui è avvenuta, possa subire la stessa sorte.
Infatti, nel giugno 1930, padre Calandri è chiamato urgentemente a Beira da mons. Hinsley, vicario apostolico dell’Africa Orientale. Questi gli ordina di sospendere ogni lavoro, perché Massangulo sarà chiusa. Il missionario scoppia in un pianto dirotto; quando si riprende, racconta ciò che è stato fatto nella missione, i lavori in corso e i progetti ancora in mente. «Se è così, è un’altra cosa – dice il monsignore -. Lei, padre Calandri, continui con la costruzione del collegio iniziato e io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
Ad essere chiusa è invece la stazione di Miruru (1930); alcuni dei missionari passano al Niassa. Massangulo si rafforza, con l’avvio dei corsi di arti e mestieri; ma è proibito aprire nuove missioni nella regione. Solo quando mons. Rafael sarà sostituito da mons. De Gouveia, come prelato apostolico del Mozambico, sarà possibile dar vita a Mepanhira (1938), Maua (1939), Mitucué (1940).
L’espansione missionaria segna il passo durante la seconda guerra mondiale, per l’impossibilità d’inviare altro personale. Finito il conflitto, l’evangelizzazione riprende con nuovo vigore dentro e fuori del Niassa. Nel 1946, infatti, il card. De Gouveia, vescovo di Lourenço Marques (Maputo), vuole i missionari della Consolata anche nella regione di Inhambane e alla periferia della capitale.
LA SFIDA CONTINUA
Dopo 75 anni di presenza in Mozambico si può fare un bilancio. La scelta, fatta fin dagli inizi, di concentrare gli sforzi nella scuola e formazione dei laici, ha formato comunità cristiane resistenti alle bufere che si sono scatenate per quasi 30 anni sulla popolazione del paese: guerra per l’indipendenza, persecuzione marxista e nazionalizzazione delle strutture, guerra civile, catastrofi naturali. Molte comunità, portate a maturazione, sono state affidate al clero locale. Buona parte dei leaders che guidano oggi le sorti del paese sono usciti dalle scuole cattoliche. La chiesa mozambicana chiede ai missionari della Consolata nuove presenze qualificate, come la guida di seminari diocesani e formazione del clero locale.
Tali attestati di stima, guadagnati con tanti anni di tenacia ed eroici sacrifici, sono motivo di orgoglio; ma il loro numero (53 missionari di varie nazionalità, presenti in 5 diocesi) è del tutto insufficiente per fronteggiare le sfide sociali e religiose in cui si dibattono ancora le popolazioni loro affidate. Prima di assumere nuove responsabilità, essi vogliono fare un serio cammino di discernimento. Tanto più che i posti segnati da mons. Perlo sulla vecchia mappa, nell’estremo nord del Niassa, attendono ancora il primo annuncio del vangelo. La sfida lanciata 75 anni fa è sempre aperta.

Diamantino Antunes